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Pubbl. Ven, 2 Ott 2015

L´alto costo dei bassi prezzi. Cap. 2: and the Raven, never flitting, still is sitting

Saverio Setti
Dirigente della P.A.Ministero della Difesa


Analisi macroeconomica critica della crisi. Profili storici, prospettive di crescita, aspetti finanziari e commenti europeisti.


And the Raven, never flitting, still is sitting[1] Conviene, a questo punto, tentare una seppur agile spiegazione della attuale crisi finanziaria, comparandola con un modello generale, anche al fine di comprendere come effettivamente si possa sviluppare nella attuale realtà una teorizzazione di crisi. Il modello interpretativo generale delle crisi finanziarie, a parere di chi scrive, più aderente a quanto sta succedendo è quello proposto da Minsky nel 1972[2]. In questo paradigma all’origine della crisi vi è un avvenimento esogeno al sistema economico, che dà luogo ad un boom economico finanziato dall’espansione del credito generante un aumento di base monetaria. Le banche sono propense ad elargire finanziamenti, le imprese ad indebitarsi e gli operatori a far assumere posizioni più rischiose ai loro portafogli. Ne consegue un aumento degli investimenti e un boom borsistico, alimentato anche dalla speculazione sul prezzo dei titoli. Questa situazione innesca sui mercati un forte overtrading: considerati gli ottimi risultati raggiunti dalle posizioni si ingenera una esagerata operatività, con massicci acquisti e vendite finché alcuni operatori non iniziano a capitalizzare, vendendo. A questo punto, timorosi di una caduta dei prezzi, tutti gli altri potrebbero iniziare a vendere per capitalizzare a loro volta il massimo risultato ottenibile. La corsa alle precipitose liquidazioni porta il panico che, a sua volta, spinge ad ulteriori liquidazioni anche in perdita e quindi alla crisi generalizzata. La crisi si manifesta con l’incapacità delle imprese di restituire i prestiti. Ciò genera un aumento del grado di avversione al rischio degli operatori, il fallimento delle stesse banche e il crollo degli indici di borsa. In linea generale questo modello è applicabile alla crisi attuale, quanto meno a quanto avvenuto negli Stati Uniti. Là, infatti, la concessione di prestiti, in particolar modo subprime, ha alimentato i prezzi del mercato immobiliare ed il boom borsistico prima dello scoppio della crisi[3], cui si è aggiunta la speculazione. Le famiglie subprime non si sono, in definitiva, dimostrate in grado di onorare i loro debiti. L’insolvenza dei mutuatari ha causato gravi problemi di liquidità alle banche, spingendone alcune al fallimento, con effetti estremamente dannosi sugli indici di borsa. Certo, la crisi non ha portato alla caduta dell’intero sistema finanziario perché sia la Fed che la BCE hanno immesso liquidità a bassissimo costo. Anche se questa mossa non ha evitato il credit crunch, poiché ovviamente le banche hanno preferito usare la liquidità presa all’1% per comprare titoli di debito pubblico con rating elevato e buone possibilità di realizzo, l’offerta di denaro è stata effettivamente (come teorizza Minsky) determinata in modo endogeno dalle banche, mentre i governi hanno potuto fare poco o nulla per evitare la stretta creditizia.

And the Raven, never flitting, still is sitting[1]

Conviene, a questo punto, tentare una seppur agile spiegazione della attuale crisi finanziaria, comparandola con un modello generale, anche al fine di comprendere come effettivamente si possa sviluppare nella attuale realtà una teorizzazione di crisi. Il modello interpretativo generale delle crisi finanziarie, a parere di chi scrive, più aderente a quanto sta succedendo è quello proposto da Minsky nel 1972[2]. In questo paradigma all’origine della crisi vi è un avvenimento esogeno al sistema economico, che dà luogo ad un boom economico finanziato dall’espansione del credito generante un aumento di base monetaria. Le banche sono propense ad elargire finanziamenti, le imprese ad indebitarsi e gli operatori a far assumere posizioni più rischiose ai loro portafogli. Ne consegue un aumento degli investimenti e un boom borsistico, alimentato anche dalla speculazione sul prezzo dei titoli. Questa situazione innesca sui mercati un forte overtrading: considerati gli ottimi risultati raggiunti dalle posizioni si ingenera una esagerata operatività, con massicci acquisti e vendite finché alcuni operatori non iniziano a capitalizzare, vendendo. A questo punto, timorosi di una caduta dei prezzi, tutti gli altri potrebbero iniziare a vendere per capitalizzare a loro volta il massimo risultato ottenibile. La corsa alle precipitose liquidazioni porta il panico che, a sua volta, spinge ad ulteriori liquidazioni anche in perdita e quindi alla crisi generalizzata. La crisi si manifesta con l’incapacità delle imprese di restituire i prestiti. Ciò genera un aumento del grado di avversione al rischio degli operatori, il fallimento delle stesse banche e il crollo degli indici di borsa. In linea generale questo modello è applicabile alla crisi attuale, quanto meno a quanto avvenuto negli Stati Uniti. Là, infatti, la concessione di prestiti, in particolar modo subprime, ha alimentato i prezzi del mercato immobiliare ed il boom borsistico prima dello scoppio della crisi[3], cui si è aggiunta la speculazione. Le famiglie subprime non si sono, in definitiva, dimostrate in grado di onorare i loro debiti. L’insolvenza dei mutuatari ha causato gravi problemi di liquidità alle banche, spingendone alcune al fallimento, con effetti estremamente dannosi sugli indici di borsa. Certo, la crisi non ha portato alla caduta dell’intero sistema finanziario perché sia la Fed che la BCE hanno immesso liquidità a bassissimo costo. Anche se questa mossa non ha evitato il credit crunch, poiché ovviamente le banche hanno preferito usare la liquidità presa all’1% per comprare titoli di debito pubblico con rating elevato e buone possibilità di realizzo, l’offerta di denaro è stata effettivamente (come teorizza Minsky) determinata in modo endogeno dalle banche, mentre i governi hanno potuto fare poco o nulla per evitare la stretta creditizia.

La realtà di questa crisi ha contraddetto Minsky solo nell’ipotesi per la quale avrebbero dovuto essere le imprese ad essere la causa principale della spirale recessiva. Nel nostro caso, invece, il ruolo centrale è stato condiviso tra l’insolvenza delle famiglie e la cartolarizzazione dei titoli tossici emessi dalle banche.

A questo modello vanno affiancate tre ulteriori considerazioni, che, nella loro eterogeneità e sintesi, possono aiutare a comprendere l’attuale situazione critica, soprattutto in chiave europea.

Primo, il forte legame tra crisi di oggi e di ieri, posto che le bolle finanziarie fanno parte della fisiologia di un’economia di libero mercato e non possono efficacemente essere contrastate dalla politica economica. Lo sviluppo è abbastanza lineare secondo il modello di Kindleberger[4]:

  • Si presenta sul mercato una nuova forma di investimento;
  • Questo nuovo investimento suscita grande aspettativa di guadagno;
  • Investitori e aziende fanno un massiccio uso del leverage al fine di massimizzare i profitti;
  • La liquidità sistemica diminuisce, dunque:
  1. Salgono i tassi;
  2. Scendono le probabilità di onorare i debiti;
  • Le vendite diventano l’unica via per riottenere liquidità;
  • I prezzi scendono vertiginosamente;
  • Tre sono le possibili vie d’uscita:
  1. Intervento del prestatore di ultima istanza;
  2. Collasso del mercato;
  3. Discesa delle quotazioni sotto il fair value.

Anche in questo modello è possibile riscontrare, considerando i mutui subprime come la nuova forma d’investimento, l’eco della crisi finanziaria attuale.

Secondo, l’intervento pubblico in aiuto delle istituzioni finanziarie.

S’è appena detto che una delle possibili vie d’uscita è l’intervento del prestatore di ultima istanza. Nella maggior parte de casi si tratta della Banca Centrale di quel Paese, la BCE nel nostro caso[5], avente l’obiettivo di prevenire il tracollo di un sistema economico-finanziario. In sostanza il suo ruolo è immettere liquidità in un sistema in crisi. In quest’ultimo caso il vero problema è discernere se ci si trova innanzi ad una situazione di crisi puntuale o sistematica. Dato che l’ultima «grande crisi» è senza dubbio di sistema, questo pone lo Stato[6] di fronte a due possibilità: lasciar crollare un sistema nel nome del giusto principio che chi ha male amministrato deve pagarne le conseguenze oppure salvare qualsiasi banca in difficoltà in nome della necessità di mantenere vivo il sistema. Una prima risposta al problema del prestatore di ultima istanza giunse dal governatore della Banca d’Inghilterra, Water Bagehot[7]. La banca centrale nazionale deve fornire tutta la liquidità necessaria:

  • A banche temporaneamente illiquide ma non insolventi;
  • A tassi penalizzanti e sulla base di valide attività date in garanzia.

Ora, è ovvio che queste condizioni servano a limitare il moral hazard[8], ma è altrettanto storicamente ovvio  che nella pratica la seconda condizione è stata quasi sempre disattesa, ma quest’ultima è questione d’opportunità politica. Ciò che in questa sede assume rilevanza è la difficoltà di distinguere l’illiquidità dall’insolvenza. Volendo attenersi al dato formale una banca può diventare illiquida (si veda documento allegato) quando manca di denaro liquido. Esemplificando, la banca inizialmente si trova in una posizione finanziariamente sana. Anche se alcuni clienti diventano insolventi il margine di capitale azionario e sufficiente a proteggere i depositi. Per un dato motivo, quale una crisi finanziaria importante ad esempio, i clienti iniziano a ritirare il contante in massa (bank run). Considerato il sistema di riserva frazionaria, in breve la banca termina la limitata quantità di denaro disponibile in cassa. Se i prelievi continuano, essa dovrà attingere alle riserve sul conto della BCN. L'effetto di questi continui prelievi di contanti o bonifici elettronici dalla banca verso l’esterno è quello di ridurre contemporaneamente le attività liquide della banca e le sue passività (sotto forma di depositi dei clienti). Se i prelievi esauriscono la riserva, la banca venderà le obbligazioni e le azioni e altri strumenti finanziari per raccogliere denaro necessario a soddisfare i ritiri. A questo punto, è bene precisare, la banca è ancora solvibile, benché illiquida. Se essa non riesce ad ottenere prestiti da altri istituti di credito o dalla BCN, dovendo ripianare le riserve di liquidità presso la stessa Banca Centrale overnight, dovrà cedere le sue attività non liquide. È però chiaro che gli acquirenti considereranno la rischiosità delle attività di un soggetto illiquido, dunque l’unico modo che la banca in crisi avrà per recuperare contante sarà di offrire significativi sconti, persino al di sotto del fair value. A questo punto si è iniziato ad erodere il capitale reale della banca. Le perdite della banca sono ingenti, il capitale si azzera e il valore delle passività supera le attività. A questo punto la banca è tecnicamente insolvente.

  Ovviamente queste sono considerazioni dottrinali e molto semplificate, posto che nella realtà di un sistema finanziario è estremamente complesso distinguere tra banca insolvente e banca illiquida.

Non si può, quindi, stabilire una regola generale poiché il risk assesment non solo comporta una corretta valutazione dei dati disponibili (in un sistema d asimmetria informativa), ma anche una stima della futura evoluzione. Una massiccia operatività allo scoperto, ad esempio, potrebbe essere un contributo essenziale al corretto funzionamento del mercato, perché ingenera cicli di liquidità o incanalarsi verso l’one way market[9].

S’è detto che il contesto di globalizzazione finanziaria ha aumentato i rischi. Perché si consideri pure il caso di una mega-banca che sia in effetti insolvente. È chiaro che essa sarebbe troppo grande nel contesto della sua economia per essere lasciata fallire.

Quand’è che è possibile definirla too big to fail? Una volta ricevuta quella “qualifica” cosa la trattiene dal moral hazard?

Padoa Schioppa tenta di dare una soluzione: «la regola è questa: la struttura economica e finanziaria va tenuta in vita, le singole imprese (siano esse finanziarie o industriali) vanno lasciate cadere»[10]. Non è, però, possibile fermarsi qui, perché ora il problema diviene quello di distinguere dove finisca il singolo ed inizi il generale. Anche in questo caso, comunque, le scelte vanno compiute di volta in volta, considerando il caso concreto.

Per alcuni lasciar cadere la Lehman sarebbe stato un errore. Si crede che si sarebbe evitato il crollo del 45% dello S&P, la crescita della disoccupazione al 9,7% ed il deficit a 1.590 miliardi di dollari.

Il salvataggio della Lehman non avrebbe certo evitato la crisi. Ben presto la notizia del suo fallimento avrebbe iniziato a far sentire i suoi effetti e c’è ragione di credere che i mercati potessero suppore che i salvataggi non sarebbero durati in eterno. Anche perché il problema si era già posto nel febbraio 2008 con il salvataggio di Bear Stearns. È ovvio che i continui e sempre più ingenti soccorsi non sarebbero potuti continuare[11]. In più per salvare Lehman, Paulson avrebbe dovuto liberare 700 miliardi senza alcuna garanzia. E quand’anche l’avesse fatto

"[…] alla prossima crisi il governo non sarà più in grado d'intervenire. Le grandi banche sanno che il governo le salverà e sono già ora più grandi, più globali, più integrate e più "sistemiche" che mai. Stanno realizzando profitti enormi col trading, profitti che un giorno potrebbero trasformarsi in perdite. Se l'intermediazione finanziaria e l'attività bancaria sono importanti per il sistema, non possono coniugarsi a un'attività di compravendita titoli in proprio. Ma i progetti di riforma del settore finanziario non accennano neppure a rompere questo matrimonio, accontentandosi invece di provare a regolamentare i colossi".

La storia del «è tutta colpa della Lehman» genera un pericoloso compiacimento.[12]

Nel contesto europeo, inoltre, una banca con un elevato flottante, ma con grande frammentarietà nei depositi potrebbe essere lasciata fallire, poiché i correntisti sarebbero tutelati fino a centomila euro[13] e la caduta del valore azionario rientrerebbe nel rischio insito nell’investimento. Certo, una caduta di questo tipo avrebbe effetti molto pesanti sui valori delle altre banche e sul mercato azionario in generale, che però sarebbe ben disposto a riprendersi dinnanzi alla convinzione di una sicura e stabile mano governativa e di certe e meritocratiche regole di mercato.

Ma la realtà europea ha scelto la prudenza e la clemenza, salvando tutto il salvabile[14].

Terzo tema fondamentale è la chiave di lettura europea della crisi, o meglio un modello teorico applicabile alla situazione europea flagellata dalla crisi. È bene premettere che importanti sono i limiti della politica monetaria, di per sé è asimmetrica, dato che è molto meno efficace come stimolo alla ripresa del sistema economico di quanto lo sia come freno ad una sua espansione. In sostanza una manovra monetaria restrittiva non solo non è in grado di portare risultati positivi a lungo termine senza comportare un rilevante sacrificio per la collettività[15], ma può capitare che una politica restrittiva operi sulle grandezze reali e ma sul livello dei prezzi quando è espansiva. Tenuto conto di ciò, va anche considerato che la politica monetaria nell’area euro non è in grado di adattarsi alle esigenze del singolo Paese, perché è essenzialmente unica a livello territoriale e settoriale. Certo, i criteri di convergenza avrebbero dovuto consentire la creazione di un’area valutaria ottimale, ma non è stato così. Perché, è recente storia, alcuni Paesi UE hanno tenuto comportamenti economicamente e finanziariamente eccessivamente liberi, di fatto derogando sia al parametro della stabilità dei prezzi[16] Già nel 2002 Saccomanni scriveva:

"[…] il potenziale di analisi dell’informazione e d’investigazione economica a disposizione del mercato e tale che l’incoerenza e l’incostanza vengono prima o poi smascherate. La reazione del mercato di fronte a queste tardive scoperte è di solito brutale[17]".

Difficile non riconoscere in questa considerazione il recente e travagliato percorso dell’economia greca.

Chi scrive è dell’idea che questo mancato rispetto dei criteri di convergenza, unito alla crisi ingeneratasi negli Stati Uniti nel 2008, abbia portato ad una differenziazione nei sistemi economici interni ai vari Stati europei tale da ingenerare uno stato di shock asimmetrico[18].

Mundell teorizzò che non è un’area valutaria ottimale quella in cui possa realizzarsi uno shock asimmetrico, ovvero una condizione per la quale un certo paese è svantaggiato rispetto ad un altro. Si supponga che l’Italia sia specializzata nella produzione di un bene A e la Germania di un altro bene B. Si supponga poi che la domanda del bene B inizi a crescere e quella del bene A a decrescere, ad esempio per dumping o per un credit crunch. In questo caso un deprezzamento della lira ed un apprezzamento del marco tedesco potrebbero bastare a stabilizzare la domanda di entrambi i beni. Il problema è che non è possibile una variazione di questo tipo, perché entrambi i Paesi adottano l’euro e la politica monetaria è essenzialmente unica. Dunque in Germania si produrrebbe un boom espansivo, probabilmente accompagnato da inflazione, ed in Italia si verificherebbe una caduta dell’occupazione. L’unico modo per migliorare la situazione sarebbe una migrazione di forza lavoro dall’Italia verso la Germania e che un ingente flusso di capitale si muovesse in senso inverso. Situazione quest’ultima che non pare essersi realizzata nella realtà.

L’Ue certamente ha l’impostazione teorica dell’area valutaria ottimale, perché i suoi Trattati garantiscono una accentuata mobilità dei fattori produttivi. Tuttavia non solo il nostro Paese non è riuscito ad divenire collettore di investimenti esteri diretti, diversamente da altri PIIGS e benché la mobilità dei capitali sia quella più agevole, ma c’è anche da sottolineare che la mobilità del lavoro è certamente più limitata.

Se, quindi, nella situazione suesposta una svalutazione avrebbe dato, almeno in teoria, un temporaneo sostegno ai fattori produttivi ed ai livelli occupazionali, con l’unione monetaria questa possibilità viene a mancare. Scrivono, dunque Cozzi e Zamagni che «la disoccupazione[19] non di ridurrà stabilmente se non calano i salari reali»[20]. Questa sia ulteriore conferma di come questa crisi abbia reso almeno parte dell’Europa importatrice di povertà ed esportatrice di ricchezza.

Ovviamente chi scrive non è certo dell’opinione che l’euro vada abbandonato. Anzi, bene ha fatto Draghi a dire che «farà di tutto per salvare l’euro»[21], ma certo, traducendo Krugman:

Vorrei suggerire che l’euro potrebbe essere reso praticabile se i leader europei convenissero quanto segue:

  1. Sostegno delle banche in tutta Europa. Ciò comporterebbe sia una sorta di assicurazione dei depositi “federalizzati” e la volontà di fare salvataggi “tipo TARP” a livello europeo – cioè, se, per esempio, una banca spagnola è in difficoltà in un modo che minaccia la stabilità sistemica, ci dovrebbe essere una iniezione di capitale in cambio di partecipazioni da parte di tutti i governi europei, piuttosto che un prestito al governo spagnolo al fine di fornire l’apporto di capitale. Il punto è che il salvataggio delle banche deve essere separato dalla questione della solvibilità dello Stato;
  2. La BCE come un prestatore di ultima istanza agli Stati, come lo sono già le banche centrali nazionali. Sì, ci saranno denunce di moral hazard, che dovranno essere affrontate in qualche modo. Ma ora è dolorosamente ovvio che eliminando la possibilità di fornire di liquidità da parte della banca centrale rende solo il sistema troppo vulnerabile al panico che si auto-avvera;
  3. Infine, un livello di inflazione più elevato. Perché? Come ho mostrato nella tabella 3, l’esperienza euro suggerisce fortemente che la rigidità verso il basso dei salari nominali è un grosso problema. Questo significa che la “svalutazione interna” tramite deflazione è estremamente difficile, e probabilmente destinata a fallire politicamente, se non economicamente. Ma significa anche che l’onere dell’aggiustamento potrebbe essere sostanzialmente minore se il complessivo tasso di inflazione della zona euro è superiore, in modo che la Spagna e altri paesi periferici potrebbero ripristinare la competitività semplicemente in ritardo sull’inflazione nei paesi centrali.[22]

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Centotreesimo verso di The Raven di E. A. Poe, New York Evening Mirror, 29 gennaio 1845.

[2] Cfr. F. Saccomanni, Tigri globali, domatori nazionali, Bologna, il Mulino, 2002, pp. 128 – 130. Un saggio davvero molto buono è anche D. B. Silipo, Minsky e la crisi finanziaria, working paper 09-2009, Università della Calabria, disponibile su http://www.ecostat.unical.it/repec/workingpapers/wp09_2009.pdf.

[3] Fonte interessante, per quanto eterodossa, può essere il documentario Capitalism: a love story di M. Moore.

[4] G. Degasperi, La dinamica delle crisi finanziarie: i modelli di Minsky e Kindleberger, Tech report nr.5, Agosto 1999, Alea-Centro di ricerca sui rischi finanziari. Disponibile su http://eprints.biblio.unitn.it/300/1/Degasperi99a.pdf.

[5] Cfr. W. Riolfi, La Bce è già restatore di ultima istanza, ne Il Sole 24 ore del 30 novembre 2011, disponibile su http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2011-11-29/prestatore-ultima-istanza-221746.shtml?uuid=AaXpksPE.

[6] Per quanto chi scrive si renda conto che, di fronte a questi problemi, il concetto stesso di Stato è ormai evanescente.

[7] In Lombard street, Londra, 1873; testo integrale disponibile su: http://www.gutenberg.org/ebooks/4359.

[8] L’azzardo morale è quell’atteggiamento che potrebbe assumere un operatore idoneo a ricevere assistenza di liquidità d’emergenza. Essendo ragionevolmente certo di ricevere comunque liquidità tenderà a esporsi maggiormente a rischi, facendo affidamento sull’intervento di emergenza. 

[9] Cfr. F. Saccomanni, op. cit., pp. 32 – 39.

[10] T. P. Schioppa, op. cit., p. 25.

[11] Si ricordino il fallimento della Continental Illinois nel 1984, la crisi della S&L nell’88, il default del Long-term Capital Management e, nei tempi più recenti, il 7 settembre 2008, il governo aveva rilevato Fannie Mae e Freddie Mac, il 16 settembre il governo ha salvato l'Aig, prestandole 85 miliardi di dollari. Il 25 settembre la Washington Mutual, la sesta banca più importante del Paese, veniva confiscata dalla Federal Deposit Insurance Corporation. Il 29 settembre, la Wachovia, la settima banca più importante del Paese, veniva venduta per evitare di fare la stessa fine.

[12] L. Zingales e J. H. Cochrane, Stop alla retorica su Lehman, ne Il Sole 24 Ore del 18 settembre 2009.

[13] Cfr. l’articolo di B. Romano Ecofin: accordo sulle regole in caso di fallimento delle banche, ne Il Sole 24 Ore del 27 giugno 2013. Riguardo alla garanzia il Fondo Interbancario di Tutela riconosce al singolo intestatario correntista fino ad un massimo di 103.291 euro (fonte: D.L. 4 dic. 1996, n. 659).

[14] Gli aiuti effettivamente erogati dai governi alle banche dei rispettivi sistemi nazionali furono 1.240 miliardi di euro (10,5% del Pil Ue), per la maggior parte elargiti in forma di garanzie (757 miliardi), la restante parte attraverso ricapitalizzazioni (303 miliardi), gestione di titoli (104 miliardi) e linee di credito (77 miliardi). I tre maggiori mercati bancari europei beneficiati dagli aiuti furono quelli Germania, Francia e Gran Bretagna. In totale è stato calcolato che il costo dei salvataggi bancari nel mondo produsse un aumento del debito consolidato dei paesi del G7 (dove era compresa anche l'Italia) di 18.000 miliardi di dollari, fino a un livello di indebitamento mai toccato di 140.000 miliardi. Dell'ammontare totale dei 18.000 miliardi, 5.000 miliardi furono il prodotto dell'azione delle banche centrali del G7. Fonte: A. Cerretelli, La Ue delle banche pigliatutto, ne Il Sole 24 Ore del 22 ottobre 2011, disponibile su http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2011-10-22/banche-pigliatutto-081326.shtml?uuid=Aatwj2EE&p=2.

[15] Tanto che l’andamento normale in questi casi è descritto dalla c.d. Curva a J.

[16] Nel decennio 2001-2011 la Grecia ha presentato un’inflazione di -2,854% (fonte Global Rates: http://it.global-rates.com/statistiche-economiche/inflazione/indice-dei-prezzi-al-consumo/cpi/grecia.aspx). Il disavanzo italiano del 2010 è stato del 4,6% (con limite del 3%), mentre il rapporto tra debito e Pil è stato del 127% (con limite di 60%). Situazioni simili hanno registrato Irlanda, 117%, Spagna, 86%, Portogallo, 124%, Cipro, 87%, Olanda, Malta e Austria, 71%, Grecia, 156%, Belgio, 100%, eccetera. Fonte: Eurostat cit. Il Sole 24 Ore, http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2013-12-03/il-debito-pubblico-e-peccato-originale-italia-dati-dicono-che-cresce-meno-tutti-paesi-euro-mentre-pil--110537.shtml?grafici.

[17] Op. cit., p. 43.

[18] Concetto introdotto da Mundell nel 1961 con la teoria delle Aree Valutarie Ottimali. Con particolare riferimento alla situazione europea è molto interessante l’articolo di P. Krugman, Revenge of the Optimum Cyrrency Area, ne The New York Times del 24 giugno 2012, disponibile su http://krugman.blogs.nytimes.com/2012/06/24/revenge-of-the-optimum-currency-area/?_r=0.

[19] Alla data odierna 12,7% in Italia (41,6% quella giovanile), con media europea al 12,1%: peggiori Grecia e Spagna al 27% e migliore la Germania al 5,2%. Fonte: M. Morici, Disoccupazione: la classifica in Europa, in Panorama.it del 08 gennaio 2014, disponibile su http://economia.panorama.it/lavoro/disoccupati-italia-maglia-nera-europa.

[20] Op. cit., p. 433.

[21] R. Napoletano, Draghi: siamo pronti a fare tutto il necessario per salvare l’Euro, ne Il Sole 24 Ore del 26 luglio 2012, disponibile su http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-07-26/draghi-messaggio-chiaro-pronti-121634.shtml?uuid=AbDU57DG.

[22] Articolo citato, traduzione di chi scrive.