La questione dei detenuti nelle carceri italiane: quando lo Stato non incorre nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti
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Cristina Milano
Partendo da un esame meticoloso delle decisioni di maggior rilievo della Corte di Strasburgo in materia di sovraffollamento carcerario negli istituti penitenziari italiani e di valutazione dell´incidenza delle stesse all´interno dell´ordinamento nazionale, il presente elaborato mira ad analizzare la sentenza n. 6551/2021 della Suprema Corte Cassazione. In particolare, con tale decisione le Sezioni Unite Penali si sono pronunciate sui criteri di calcolo dello spazio minimo disponibile per ogni detenuto, nonché sulla rilevanza dei c.d. fattori compensativi, affinché lo Stato possa superare la violazione dell’articolo 3 della C.E.D.U.
Sommario: 1. Premessa; 2. L'articolo 3 della C.E.D.U.: sovraffollamento carcerario e trattamenti inumani e degradanti; 3. Il ruolo fondamentale della giurisprudenza C.E.D.U nel contesto penitenziario italiano; 3.1. Sentenza Soulejmanovic v. Italy (2009); 3.2. La "sentenza pilota": Torreggiani and others v. Italy (2013); 3.3. L'intervento del legislatore italiano post Torreggiani: articoli 35-bis e 35-ter, Legge sull'ordinamento penitenziario; 3.4. Murśić v. Croatia (2016); 4. Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, sentenza n. 6551/2021; 4.1. Ritenuto in fatto; 4.2. Considerato in diritto; 5. Osservazioni conclusive.
1. Premessa
Con la sentenza n. 6551/2021 le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione hanno affermato che, nel valutare lo spazio minimo di tre metri quadrati da garantire ad ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, disposto dall´articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo[1](d'ora in avanti, C.E.D.U.), si deve tener conto «della superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello»[2].
Attraverso siffatta decisione depositata il 19 febbraio 2021, la Cassazione si pronuncia con riguardo all'annosa questione concernente la situazione delle carceri italiane e, in particolar modo, il sovraffollamento degli istituti penitenziari nel Bel Paese.
Nello specifico, il giudice di legittimità enuncia principi molto interessanti volti ad affrontare diversi punti spinosi legati non solo al calcolo dello spazio minimo di tre metri quadri che deve essere necessariamente riservato ad ogni detenuto, ma anche ai cosiddetti "fattori compensativi" (ad esempio, la durata della detenzione, la possibilità di usare i servizi igienici privatamente, la tutela delle esigenze sanitarie di base), i quali costituiscono uno strumento utile per superare la presunzione di violazione dell’art. 3 della C.E.D.U., nell'ipotesi in cui lo spazio a disposizione del detenuto sia inferiore a tre metri quadrati, ma esclusivamente nel caso in essi ricorrano congiuntamente[3].
Al fine di poter comprendere al meglio la portata della pronuncia in esame, a parere di chi scrive, non si può prescindere dal delineare il quadro europeo di riferimento, ripetutamente richiamato dagli Ermellini nell'ambito dell'attuale questione: in particolare, il presente elaborato mira ad esaminare il ruolo giocato dall'art. 3 della C.E.D.U. in relazione alla valutazione delle ripercussioni del sovraffollamento carcerario sulle condizioni detentive nelle prigioni italiani, tali da contrastare con il divieto di trattamenti inumani e degradanti sancito dall'art. 3 della C.E.D.U.[4].
Inoltre, si ritiene opportuno analizzare le sentenze della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (d'ora in avanti, Corte EDU o Corte di Strasburgo) più rilevanti in materia, al fine di stabilire l'influenza reale che tali pronunce hanno esercitato negli ultimi anni all'interno dell'ordinamento italiano non solo da un punto di vista squisitamente giurisprudenziale ma anche a livello normativo.
D'altronde, il dialogo costruttivo e vivace instaurato tra i giudici nazionali e la Corte di Strasburgo appare indispensabile al fine di assicurare una piena ed effettiva protezione dei diritti fondamentali dei detenuti e di tutelarli da ogni sorta di abuso.
2. L'articolo 3 della C.E.D.U.: sovraffollamento carcerario e trattamenti inumani e degradanti
L'articolo 3 della C.E.D.U. che stabilisce il divieto di tortura o di trattamenti inumani e degradanti, come dichiarato dalla Corte di Strasburgo nella sentenza Saadi contro Italia del 2008[5], fa parte del nucleo essenziale dei diritti della Convenzione, i quali tassativamente non possono né essere sospesi, né essere in alcun modo derogati[6].
Di conseguenza, nella visione del giudice europeo, il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti costituisce indiscutibilmente uno dei valori fondamentali delle società democratiche che, a differenza di altri diritti fondamentali previsti dalla Convenzione e dai Protocolli aggiuntivi, non ammette nessun tipo di eccezione; non è nemmeno accettabile la previsione di una sua eventuale deroga ai sensi dell’art. 15 C.E.D.U., anche nell'ipotesi di un'emergenza pubblica che possa attentare alla vita dello Stato[7].
A ben vedere, quindi, tale orientamento giurisprudenziale «ha segnato una tappa fondamentale verso il riconoscimento di uno "zoccolo duro" di diritti fondamentali che non tollera, in alcun modo, restrizioni e non è bilanciabile con nessun altro valore»[8].
Con riferimento alla situazione del sovraffollamento carcerario nell'ottica del sistema del Consiglio d'Europa, è interessante sottolineare che, secondo il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e delle Pene o Trattamenti Inumani e Degradanti (CPT)[9], l'organo a cui è stato attribuito il compito di prevenire i casi di tortura o di trattamenti inumani e degradanti sui territori degli Stati che hanno ratificato la Convenzione Europea sulla Tortura del 1987[10], il trattamento carcerario può qualificarsi come inumano e degradante nel caso in cui non vengano rispettati gli standard di detenzione così come individuati dal CPT stesso; a tal riguardo, siffatti parametri sono indicati all'interno del documento noto come “Spazio vitale per i detenuti negli stabilimenti carcerari: gli standard del CPT”, risalente al dicembre 2015[11].
Attraverso siffatti standard, il Comitato ha stabilito alcune misure di riferimento minime, al di sotto delle quali si ritiene che uno Stato possa incorrere nel divieto di cui all'art. 3 della Convenzione; nello specifico, gli istituti penitenziari nazionali devono essere in grado di mettere a disposizione di ciascun detenuto non meno di 6 metri quadri nel caso di celle singole e non meno di 4 metri quadri nell'ipotesi di celle a occupazione multipla, nonché almeno 2 metri tra le pareti e 2,5 metri di altezza del soffitto[12].
Nondimeno, bisogna tener conto che gli standard preposti dal CPT non incarnano dei paramenti esclusivi e assoluti, in quanto il Comitato stesso si propone di valutare il fenomeno del sovraffollamento carcerario unitamente a tutti gli altri fattori al pari rilevanti per esaminare le reali condizioni di detenzione all'interno degli stabilimenti penitenziari[13].
Tuttavia, come sapientemente sottolineato dall’avv. Walter De Agostino, è indubbio che il sovraffollamento carcerario influenzi in maniera negativa l'intero complesso delle attività penitenziarie, abbassando considerevolmente il tenore di vita tra le mura dell'istituto penitenziario, tale da risultare essa stessa inumana e degradante nella sua essenza[14].
Tutto questo, a parer di chi scrive, rischierebbe di tradursi altresì in un notevole impedimento alla totale e concreta realizzazione di uno dei tasselli fondamentali dell'ordinamento italiano, sancito dall'articolo 27 della Costituzione, con riguardo al principio secondo cui la finalità della pena deve necessariamente rivolgersi alla rieducazione del detenuto, favorendone il reinserimento nella società.
3. Il ruolo fondamentale della giurisprudenza C.E.D.U nel contesto penitenziario italiano
Orbene, come precedentemente accennato, in diverse occasioni la giurisprudenza di Strasburgo ha avuto l'opportunità di affrontare in maniera illuminante e critica il problema dell'incidenza del sovraffollamento nelle carceri italiane sulla qualità di vita dei detenuti, concentrandosi sulle ipotesi in cui tale condizione possa verosimilmente integrare un trattamento inumano e degradante in violazione del più volte menzionato art. 3 della C.E.D.U.
Conseguentemente, prima di trattare in maniera più approfondita quanto di recente stabilito dalla Cassazione nella citata sentenza n. 6551/2021, risulta opportuno analizzare le decisioni della Corte di Strasburgo che maggiormente rilevano nell'ambito della presente trattazione, limitandosi a sottolineare gli aspetti sostanziali e le evoluzioni necessarie alla comprensione della reale portata della pronunzia oggetto dell'attuale discussione.
3.1. Sentenza Soulejmanovic v. Italy (2009)
La sentenza Soulejmanovic c. Italia del 2009[15] costituisce la prima, vera occasione per la Corte EDU di pronunciarsi e sottoporre altresì all'attenzione della comunità internazionale il problema non di poco rilievo concernente il sovraffollamento all'interno degli istituti penitenziari italiani.
Si trattava del caso di un cittadino bosniaco, Sulejmanovic, detenuto nel carcere romano di Rebibbia, il quale lamentava di aver dovuto condividere durante la sua detenzione una cella con altre cinque persone, a ciascuna delle quali era riservata una superficie di circa 2,70 metri quadrati; successivamente, il ricorrente dichiarava di aver diviso una cella con altri quattro detenuti, disponendo, di conseguenza, ciascun detenuto, in media, di una superficie di 3,40 metri quadrati.
Pertanto, Sulejmanovic decideva di rivolgersi alla Corte di Strasburgo ai sensi dell'art. 34 della C.E.D.U.[16], denunciando che le condizioni nelle quali stava scontando la sua pena nel carcere di Rebibbia costituivano una violazione indiscutibile dell’art. 3 della Convenzione.
Come già anticipato nel corso della presente trattazione, attraverso la pronuncia in esame, la Corte chiarisce che l’art. 3 della Convenzione incarna una disposizione dichiarativa di uno dei valori fondamentali di una società democratica, obbligando lo Stato ad accertarsi che le condizioni in cui versano i detenuti siano compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della pena non provochino nel detenuto disagio o che non lo costringano a sostenere una prova d’intensità maggiore rispetto al livello di sofferenza che già deriva senza alcun'ombra di dubbio dall'esperienza di privazione della libertà personale vissuta nell'istituto penitenziario.
In aggiunta, tenendo in considerazione le esigenze pratiche della detenzione, per il giudice europeo è necessario che le autorità statali garantiscano l'adeguata e piena tutela della salute e del benessere dell'individuo detenuto[17].
Allo scopo di operare siffatte valutazioni, la Corte rimanda al parametro di riferimento definito dal CPT all'epoca[18], il quale ha stabilito che la misura di 7 metri quadrati per persona rappresenta «la surface minimum souhaitable pour une cellule de détention», per poi precisare l'impossibilità di determinare in maniera numerica e precisa lo spazio vitale personale che deve essere garantito ad ogni detenuto affinché lo Stato non violi l'art. 3 della C.E.D.U.
Di fatto, a detta della Corte di Strasburgo, tale valutazione squisitamente quantitativa dipende altresì dall'analisi di ulteriori fattori, come ad esempio la condizione psico-fisica dell'individuo o la durata effettiva della pena privativa della libertà personale[19].
Nondimeno, nel caso di specie, la Corte EDU, applicando analogicamente determinati principi già in precedenza enunciati[20], afferma che a causa di una situazione di sovraffollamento carcerario l'evidente assenza di uno spazio vitale sufficiente comporta, da sola, un'indiscutibile violazione dell’art. 3 della Convenzione a danno del detenuto[21].
Alla luce delle osservazioni appena avanzate, i giudici europei hanno sostenuto che la circostanza dichiarata dal ricorrente di essere stato obbligato ad espiare la sua pena vivendo all'interno di una cella di soli 2,70 metri quadrati, ossia di una superficie nettamente inferiore allo standard minimo prescritto dal CPT, costituiva trattamento inumano e degradante ai sensi dell’articolo 3 C.E.D.U., prescindendo, di conseguenza, dalla valutazione di ulteriori fattori, sia di natura positiva che negativa[22].
Interessante sottolineare che, invece, con riferimento al periodo di detenzione durante il quale al detenuto era stato concesso uno spazio vitale personale di 3,40 metri quadrati, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che il trattamento riservato al signor Soulejmanovic non potesse integrare la violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti, in quanto «le traitement dont l'intéressé a fait l'objet n’a pas atteint le niveau minimum de gravité requis pour tomber sous le coup de l’article 3 de la Convention[23]».
Infine, la Corte ha condannato lo Stato italiano per violazione dell’art 3 C.E.D.U., invitandolo a adottare le riforme strutturali del sistema penitenziario più adatte a porre rimedio alla critica situazione in esame, processo portato, però, concretamente a compimento soltanto nel 2013, in seguito alla pronuncia Torreggiani ed altri c. Italia, di cui si avrà anche modo di discutere nel corso della presente trattazione.
Invero, siffatta decisione ha rivestito una rilevanza epocale nel dibattito concernente le conseguenze gravi che il sovraffollamento carcerario può avere sulla salute psico-fisica e sul pieno rispetto dei dritti fondamentale del detenuto, già estremamente provato dalla dura esperienza dell'espiazione della pena e dalla lotta homo homini lupus, a volte impari, che caratterizza la situazione esistente in numerosi istituti penitenziari; di conseguenza, si tratta senza dubbio di una pronuncia che pone in luce i fattori e gli elementi inaccettabili per la giurisprudenza di Strasburgo, tali da comportare violazione del dettato fondamentale dell'art. 3[24].
In aggiunta, sulla base della concurring opinion del giudice Sajó, nell'ipotesi in esame, non è stata tanto l'assenza reale di spazio nella cella a comportare di per sé l'attuazione di un trattamento inumano e degradante, quanto la mancata adozione da parte dell'Italia di misure compensative supplementari dirette ad attenuare le condizioni estremamente dure da tollerare, causate dalla grave situazione di sovraffollamento carcerario[25].
In questa sede, occorre infine far menzione della dissenting opinion del giudice Zagrebelsky (al cui orientamento si è poi allineato anche il giudice Joĉienė), secondo cui, nel caso oggetto della presente discussione, le condizioni detentive poste da Soulejmanovic all'attenzione della Corte non avevano in realtà raggiunto quel "minimo di gravità" necessario per lamentare una violazione concreta dell'art. 3.
Di fatto, la valutazione di tale minimum è particolarmente relativa e può dipendere da differenti cause, come, ad esempio, la durata del periodo di detenzione, l'effetto di quest'ultima sulle condizioni fisiche e mentali del detenuto, tenendo conto altresì dell'età dell’”apparente vittima" [N.d.A.][26].
3.2. La "sentenza pilota": Torreggiani and others v. Italy (2013)
L'8 gennaio 2013 la Corte di Strasburgo, con una decisione storica, si è pronunciata nel caso Torreggiani and others v. Italy[27] sulla situazione del sovraffollamento carcerario nell'ordinamento italiano, la quale ha avuto riflessi di particolare crucialità nel quadro giuridico-penale, non solo a livello nazionale ed europeo, ma altresì in ambito internazionale.
Orbene, risulta doveroso precisare che la sentenza in esame costituisce una "sentenza pilota", in quanto risultato di un procedimento decisorio (previsto all'art. 61 del Regolamento della Corte[28]) che consente alla Corte EDU l'accertamento di una o più violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione, unitamente al "sottostante problema strutturale e sistemico", ossia la presenza nell'ordinamento nazionale di una legislazione o di procedura amministrativa/giudiziaria colpevole di determinare un'inosservanza sistematica e continuativa della C.E.D.U.
È chiaro che lo scopo principale della previsione di siffatta procedura consiste nell'indirizzare lo Stato responsabile verso l'adozione di misure pienamente in grado di rimuovere il menzionato "problema", denunciato dalla stessa Corte di Strasburgo, ed evitare, di conseguenza, ulteriori, inaccettabili violazioni[29].
Nel caso di specie, la pronuncia in esame riguardava ben sette ricorsi presentati dinanzi ai giudici europei ai sensi dell'art. 34 della Convenzione, tutti aventi ad oggetto le intollerabili condizioni di detenzione lamentate dai detenuti negli istituti penitenziari di Busto Arsizio e di Piacenza.
In particolare, i sette ricorrenti lamentavano la sussistenza di gravi problemi nella distribuzione di acqua calda e la messa a disposizione di celle di dimensioni inferiori a quelle ritenute desiderabili (in particolare, non meno di 3 metri quadrati), alla luce dei soprammenzionati parametri del CPT e avendo altresì riguardo della precedente pronuncia relativa alla vicenda Soulejmanovic.
In sua difesa, il Governo italiano ha affermato non solo che le condizioni di detenzione all'interno degli istituti citati fossero conformi agli standard internazionalmente previsti, ma ha altresì anche sottolineato come, nel caso concreto, non fosse stato rispettato il criterio del previo esaurimento dei ricorsi interni, requisito indispensabile per presentare ricorsi individuali dinanzi alla Corte EDU[30].
In particolare, le autorità italiane hanno sostenuto che, sulla base delle disposizioni allora esistenti all'interno della legge sull'ordinamento penitenziario (d'ora in avanti, L. ord. pen.)[31], i detenuti avevano la possibilità di rivolgersi al magistrato di sorveglianza per denunciare le loro doglianze.
Nel caso in esame, tale reclamo era stato presentato solo da uno dei sette ricorrenti, le cui pretese non sarebbero state di conseguenza ammissibili dinanzi al giudice di Strasburgo, a causa dell'insussistenza della condizione del previo esaurimento dei ricorsi interni poc'anzi indicata[32].
Tuttavia, la Corte ha rigettato tale eccezione, stabilendo che, a causa di un palese ed evidente malfunzionamento nei meccanismi giurisdizionali disposti dalla legge italiana, il procedimento innanzi ai magistrati di sorveglianza non avrebbe potuto presentare quel carattere di rimedio effettivo, capace di offrire una tutela non semplicemente indiretta, bensì espressamente adeguata a garantire la piena attuazione del divieto sancito dall’art. 3 della Convenzione[33].
Sulla base delle osservazioni della giurisprudenza europea, infatti, le azioni di natura esclusivamente risarcitoria - di fatto unico rimedio all’epoca consentito dall’ordinamento italiano - non possono essere configurate sufficienti a soddisfare il pregiudizio subito dai detenuti all'interno degli istituti carcerari in quanto tale sistema di tutela dei diritti non ha un effetto “preventivo” nel senso che non può impedire la continuazione della condotta illecita o offrire alle vittime un netto miglioramento delle condizioni di vita durante la permanenza detentiva[34].
In definitiva, alla luce di siffatte considerazioni, la Corte, dopo aver verificato che le condizioni detentive delineate dai ricorrenti «have subjected those concerned to a test that was so intense as to exceed the inevitable level of suffering that is inherent in detention»[35], ha accertato la violazione da parte dello Stato italiano dell'art. 3 della C.E.D.U., pertanto, a parer della Corte, uno spazio vitale concesso ai detenuti inferiore ai 3 metri quadrati è sufficiente ad integrare per se un trattamento inumano e degradante.
Per di più, i giudici hanno rilevato che la violazione del diritto dei reclamanti di espiare la propria pena in condizioni adeguate è in via prioritaria dovuto alla presenza di un «structural and systemic problem» legato ad un malfunzionamento della "macchina giuridica" [N.d.A.] operante nell'ordinamento penitenziario italiano, che potrebbe pericolosamente continuare a ledere la dignità e i diritti di altri individui, siano essi detenuti o internati.
Di conseguenza, i giudici di Strasburgo hanno condannato l'Italia per violazione dell'art. 3 della C.E.D.U., e, attraverso l'applicazione del procedimento della pilot judgment, hanno intimato alle autorità nazionali di provvedere, entro un anno dalla data in cui tale sentenza sarà divenuta definitiva, ad adottare tutte le misure ritenute necessarie, di carattere preventivo e compensativo, allo scopo di offrire alle vittime una reale e concreta e, soprattutto, equa riparazione delle sofferenze patite[36]. Il Governo inadempiente è stato dunque chiamato al suo dovere di membro effettivo della comunità internazionale, incaricato di porre rimedio alla violazione più volte accertata.
3.3. L'intervento del legislatore italiano post Torreggiani: articoli 35-bis e 35-ter, Legge sull'ordinamento penitenziario
Conseguentemente, al fine di conformare l'ordinamento interno alla decisione sinora analizzata, il legislatore italiano ha provveduto, modificando L. ord. pen., attraverso due differenti interventi normativi, dapprima introducendo, con il d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito in l. 21 febbraio 2014, n. 10, l’art. 35-bis, e, successivamente, con il d.l. 26 giugno 2014, n. 92, convertito in l. 11 agosto 2014, n. 117, inserendo l'articolo 35-ter, quest’ultimo particolarmente rilevante per l'analisi della pronuncia della Cassazione n. 6551/2021 citata in premessa.
Le due novelle norme prevedono oggi tipologie di rimedi preventivi risarcitori a favore dei detenuti o degli internati vittime di una violazione dell'art. 3 della C.E.D.U., a causa della sottoposizione ad un trattamento inumano e degradante.
Procedendo con ordine, il d.l. 146/2013 ha modificato l'art. 69, co. 6 della L. ord. pen., attribuendo al magistrato di sorveglianza il compito di provvedere sui reclami dei detenuti e degli internanti esperiti ex art. 35-bis, riguardanti «l'inosservanza da parte dell'amministrazione di disposizioni previste dalla presente legge e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o all'internato un attuale e grave pregiudizio all'esercizio dei diritti».[37]
Orbene, il reclamo di tipo giurisdizionale di cui l'articolo 35-bis consente al detenuto di presentare istanze volte a lamentare le inadeguate condizioni di permanenza carceraria causate dall'inefficienza dell'Amministrazione Penitenziaria; grazie alla disposizione sorta in seguito alla giurisprudenza Torreggiani, il magistrato di sorveglianza, nel caso in cui non ritenga la domanda manifestatamente inammissibile, convoca un'udienza in camera di consiglio, dopo aver previamente avvisato l'Amministrazione Penitenziaria, la quale ha la facoltà di comparire ovvero di trasmettere richieste e osservazioni scritte.
Nell'ipotesi di reclamo ex art. 69, comma 6, lettera b) appena descritto, il giudice, in seguito alla constatazione della sussistenza di un attuale e sostanziale pregiudizio per il ricorrente, ha la facoltà di ordinare all'Amministrazione in esame di porre rimedio entro un termine fissato dallo stesso.
Inoltre, è espressamente prevista la possibilità per l’interessato di chiedere al giudice di sorveglianza l'ottemperanza del provvedimento non più soggetto ad impugnazione, in caso di mancata esecuzione da parte dell'amministrazione responsabile dell'inosservanza lamentata; nell'ipotesi di accoglimento della richiesta, il magistrato ordina l'ottemperanza, allo scopo di dare piena ed effettiva esecuzione al provvedimento e dichiara nulli gli eventuali atti compiuti in violazione o elusione del provvedimento inatteso.
Si tratterebbe, di conseguenza, di un'opportunità importante per il detenuto o per l'internato, il quale, a causa del sovraffollamento carcerario o di condizioni detentive all'interno dell'istituto penitenziario che possano integrare gli estremi di un trattamento inumano e degradante, potrebbe ottenere il soddisfacimento di un diritto ritenuto violato dall'amministrazione statale.
Tuttavia, non sono state risparmiate critiche nei confronti di siffatta disposizione, poiché, sebbene "sulla carta" rappresenti certo un ricorso materialmente accessibile, nella realtà dei fatti non si erigerebbe a rimedio effettivo, in quanto non adatto a garantire un'immediata e rapida cessazione degli illeciti giurisdizionalmente riscontrati (visto anche il lungo periodo di tempo necessario all'espletamento di tutti i passaggi richiesti per la procedura in questione) ed un'equa riparazione dei danni subiti dai detenuti o dagli internati[38].
Alla luce di tali aspetti criticità, nel 2014 il legislatore ha deciso di introdurre nell'ambito della disciplina penitenziaria anche l'art. 35-ter, il quale espressamente regola due modelli risarcitori esperibili da ogni singolo individuo allorquando il pregiudizio di cui all'articolo 69, comma 6, lett. b) consiste in condizioni di detenzione tali da violare l'art. 3 della C.E.D.U., così come interpretato dalla Corte di Strasburgo.
Ebbene, il riferimento del legislatore italiano alla sentenza pilota poc'anzi analizzata è chiaro e vivido, e contribuisce a fornire una prova tangibile del ruolo fondamentale che la coscienza giuridica europea ha assunto e continuerà ad assumere con riguardo alla questione dei detenuti e degli internati nelle carceri italiane. Non a caso, le Sezioni Unite Penali nella sentenza n. 6651/2021 affermano che in base all'art. 35-ter, l'interpretazione dell'art. 3 della C.E.D.U. fornita dalla Corte europea si trasforma in parte integrante di siffatta disposizione che il giudice nazionale è chiamato ad applicare[39].
In particolare, l’art. 35-ter stabilisce che, se le condizioni pregiudizievoli alla salvaguardia dei diritti dell'istante si sono protratte per un periodo di tempo non inferiore ai quindici giorni, il magistrato di sorveglianza ha la facoltà di stabilire, a titolo risarcitorio, una detrazione della pena detentiva ancora da espiare corrispondente alla durata di un giorno per ogni dieci di detenzione, durante i quali il ricorrente ha dovuto tollerare il trattamento inumano e degradante.
Se invece, il periodo di permanenza del detenuto o dell'internato all'interno dell'istituto penitenziario non permette la possibilità di siffatta riduzione, o ancora, nel caso in cui il periodo detentivo trascorso in condizioni non corrispondenti al dettato di cui l'art. 3 della C.E.D.U sia inferiore a quindici giorni, il giudice «liquida altresì al richiedente, in relazione al residuo periodo e a titolo di risarcimento del danno, una somma di denaro pari a euro 8,00 per ciascuna giornata nella quale questi ha subito il pregiudizio»[40].
Sebbene la Corte di Cassazione nella recente pronuncia citata in premessa abbia configurato l'art. 35-ter norma completa ed efficace a tutelare pienamente il detenuto che abbia subito una violazione dei suoi diritti e della sua dignità a causa di condizioni detentive proibitive (in riferimento ad esempio, alla mancanza di spazio vitale sufficiente all'interno della cella, come si avrà modo di precisare in maniera più ampia nel corso della seguente trattazione)[41], va sottolineato come, con riguardo a siffatta disposizione, in dottrina siano sorti notevoli problemi interpretativi.
Tuttavia, in questa sede occorre richiamare soprattutto la questione relativa all’entità della misura del risarcimento del danno, a parer di chi scrive, eccessivamente esigua.
A tale riguardo non va sottaciuto che nella fattispecie il legislatore ha dovuto individuare una forma di risarcimento di un danno certamente di natura non patrimoniale, concernente l'individuo, la persona in quanto tale, la sua dignità e il suo senso naturale di umanità; seguendo tale impostazione, sembrerebbe che la somma risarcitoria stabilita allo scopo di riparare un danno "umano" ed esistenziale non sia realisticamente sufficiente a compensare in maniera esaustiva e soddisfacente le sofferenze patite a causa di trattamenti inumani e degradanti[42].
3.4. Murśić v. Croatia (2016)
Sebbene non riguardi in linea diretta l'ordinamento italiano, una vicenda che risulta opportuno analizzare brevemente concerne la decisione della Grande Camera di Strasburgo sul caso Murśić v. Croatia, in quanto è stata marcatamente presa in considerazione dalle Sezioni Unite Penali nella sentenza oggetto della presente discussione[43].
Il 20 ottobre 2016 la Grande Camera ha ribaltato in parte la sentenza adottata dalla Camera[44] il 12 marzo 2015, condannando la Croazia per violazione dell'art. 3 della Convenzione, in relazione alla detenzione del signor Murśić, il quale, nel carcere di Bjelovar, aveva espiato la sua pena per 27 giorni consecutivi in una cella di soli 2,62 metri quadrati, dimensioni nettamente al di sotto della soglia ritenuta auspicabile dal CPT e dalla Corte EDU, come si evince dalla giurisprudenza precedentemente analizzata.
Tuttavia, l'elemento di particolare novità è rappresentato dalla conferma da parte della Grand Chamber della decisione del 2015, nella quale la Camera non ha ritenuto sussistente una violazione dell'art. 3 in riferimento alla permanenza del ricorrente uno spazio inferiore ai 3 metri quadrati per periodi non consecutivi di minore durata, qualora siano presenti altresì i c.d. “fattori compensativi” o "allevianti"[45], quali la libertà di movimento, piuttosto che lo svolgimento di attività all'esterno della cella o delle complessive condizioni di detenzione[46].
Orbene, nel caso di specie, il ricorrente denunciava il sovraffollamento carcerario nel soprammenzionato istituto di detenzione croato, dove per un periodo di circa tre anni aveva scontato parte della sua pena.
Invero, come già accennato il signor Murśić, nel corso di tale periodo, aveva condiviso una cella multipla con altri detenuti, avendo per sé a disposizione uno spazio inferiore ai 3 metri quadri per un periodo consecutivo di 27 giorni, mentre, per ulteriori periodi non consecutivi, aveva vissuto in uno compreso tra i 3 e i 4 metri quadrati.
La Grande Camera, pronunciandosi sulla questione lamentata dal ricorrente, ha indicato dei principi cruciali, che consentono allo Stato di superare la violazione dell'art. 3 della C.E.D.U.
Innanzitutto, i giudici europei hanno rilevato che quando lo spazio personale messo a disposizione del detenuto sia inferiore ai 3 metri quadri all'interno di una cella multipla o, ancora, quando l'individuo non possa godere di uno spazio sufficiente a consentirgli il libero movimento, tale situazione è da considerarsi talmente grave che «a strong presumption of a violation of Article 3 arises»[47].
Tuttavia, la Corte precisa che nel caso in cui lo spazio per ogni detenuto all'interno di una cella multipla corrisponda ad un valore compreso fra i 3 e i 4 metri quadri, lo Stato viola l'art. 3 della C.E.D.U. esclusivamente nel caso in cui siffatta condizione sia accompagnata dalla sussistenza di ulteriori aspetti di carenza di efficienza del sistema detentivo[48].
Sulla base delle considerazioni avanzate dai giudici di Strasburgo, di fatto, l'assenza di uno spazio vitale adeguato all'interno della cella può essere "compensato" dai c.d. allieviating factors invocati dal governo croato, così chiamati in quanto capaci di alleviare notevolmente la sofferenza dei detenuti, causata dall'assenza di uno spazio adeguato.
Pertanto, in siffatte situazioni, per lo Stato è possibile superare la presunzione di violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti dimostrando la presenza di determinati elementi e fattori, i quali, considerati congiuntamente, sono adeguati a compensare la mancanza di un spazio vitale sufficiente a tutelare i diritti della persona umana, come, ad esempio, la possibilità di svolgere attività all'esterno della cella, piuttosto che la prova dell'idoneità della struttura penitenziaria ad accogliere i detenuti[49].
Alla luce di tali considerazioni, la Grande Camera della Corte, pur constatando che le condizioni detentive non fossero state adeguate al pieno rispetto dei diritti del ricorrente in relazione allo spazio vitale a lui concesso, ha stabilito che tale situazione non aveva raggiunto un livello di gravità tale da determinare la sussistenza di un trattamento inumano o degradante, vietato dall'art. 3 della C.E.D.U.[50].
È indubbio che dalle constatazioni appena esposte derivino le premesse per l’interessante riflessione sul piano dell'ordinamento penitenziario italiano avanzata dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 6551/2021, la quale espressamente rimanda all'evoluzione della giurisprudenza C.E.D.U. sinora delineata.
4. Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, sentenza n. 6551/2021
Dopo aver tracciato complessivamente un quadro generale della giurisprudenza di Strasburgo con riguardo al problema del sovraffollamento carcerario negli istituti penitenziari italiani, occorre passare all'esame della pronuncia oggetto della presente discussione.
4.1. Ritenuto in fatto
La questione da cui trae origine la sentenza n. 6551/2021 concerne l'impugnazione ad opera del Ministero della Giustizia del provvedimento del Magistrato di Sorveglianza dell'Aquila, il quale aveva parzialmente accolto il ricorso presentato da un detenuto ai sensi dell'art. 35- ter L. ord. pen.
Nello specifico, il giudice di sorveglianza aveva riconosciuto che la detenzione del ricorrente negli istituti di Pianosa, Palmi, Reggio Calabria, Carinola, Napoli Poggioreale e Larino, per un periodo di tempo che ammontava a circa 4.571 giorni, contrastasse con il divieto di cui l'art. 3 della C.E.D.U., in quanto le condizioni detentive a cui era stato sottoposto il recluso integravano una violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti, così come interpretato dalla giurisprudenza europea.
Contrariamente, il Ministero ricorrente stabiliva che, dall'analisi della sentenza Murśić v. Croatia del 2016, si dovesse invece desumere un criterio di calcolo differente da quello preso in considerazione dal Magistrato abruzzese: infatti, secondo il reclamante, per la determinazione dello spazio vitale sufficiente nelle celle multiple si deve tenere conto altresì dell'ingombro degli arredi fissi e, di conseguenza, il giudice di sorveglianza avrebbe dovuto respingere la richiesta del detenuto, con riferimento alle istanze riguardanti le condizioni di detenzione riscontrate nelle Case Circondariali di Palmi e Carinola.
Tuttavia, con ordinanza del 2 aprile 2019, il Tribunale di Sorveglianza dell'Aquila rigettava siffatto reclamo avanzato dal Ministero della Giustizia, invocando i principi sanciti nella sentenza Sulejmanovic in cui, come in precedenza sottolineato, la Corte E.D.U. aveva sostenuto la sussistenza di una presunzione di violazione della Convenzione nell'ipotesi in cui lo spazio vitale riservato al detenuto fosse stato inferiore a tre metri quadri, senza considerare ulteriori aspetti della situazione detentiva. Alla luce di tali considerazioni, il Tribunale asseriva la necessità di determinare lo spazio vitale, scomputando gli arredi fissi presenti all'interno della cella, in quanto impedirebbero il libero movimento dell’individuo, allineandosi quindi all'orientamento del Magistrato di Sorveglianza competente.
Avverso siffatta decisione, il Ministero ricorreva per Cassazione, concludendo per l'annullamento senza rinvio dell'ordinanza impugnata e denunciando una errata interpretazione dell'art 35 e ss. della L. ord. pen., nonché l'adozione di un orientamento difforme da parte della giurisprudenza di Strasburgo, prendendo come riferimento la pronuncia relativa al caso Murśić v. Croatia.
Il ricorso in esame viene assegnato alla Prima sezione penale la quale, considerando sussistente il contrasto giurisprudenziale testé rilevato, con ordinanza adottata all'udienza del 21 febbraio 2020 rimette la decisione alle Sezioni Unite, avanzando la seguente questione di diritto:
«se, in tema di conformità delle condizioni di detenzione all'art. 3 CEDU come interpretato dalla Corte EDU, lo spazio minimo disponibile di tre metri quadrati per ogni detenuto debba essere computato considerando la superficie calpestabile della stanza ovvero quella che assicuri il normale movimento, conseguentemente detraendo gli arredi tutti senza distinzione ovvero solo quelli tendenzialmente fissi e, in particolare, se, tra questi ultimi, debba essere detratto il solo letto a castello ovvero anche quello singolo.»[51]
4.2. Considerato in diritto
In via preliminare, le Sezioni unite pongono l'accento sull'importanza e la rilevanza della disciplina normativa introdotta post Torreggiani, analiticamente descritta nel corso della presente trattazione, sottolineando il carattere completo ed efficace dei rimedi preventivi e compensativi previsti dagli artt. 35-bis e 35-ter L. ord. pen.
Inoltre, il Supremo Collegio precisa fin da subito l'avvenuta evoluzione della giurisprudenza di Strasburgo, che ha giustificato l'insorgenza di diversi orientamenti contrapposti con riferimento alle modalità di calcolo dello spazio vitale minimo da riservare ai detenuti, distinguendo il periodo antecedente all'adozione della sentenza Torreggiani, in cui non era ancora presente nell'ordinamento penitenziario italiano l'art. 35-ter, dagli anni successivi alla vicenda Murśić v. Croatia, in cui la citata disposizione era già stata introdotta.
Orbene, le Sezioni Unite affermano che, non appena adottata la normativa in esame e in seguito alla decisione Murśić v. Croatia, la giurisprudenza di Cassazione assumeva tale sentenza come punto di riferimento.
Tuttavia, una delle questioni più dibattute in ambito giurisprudenziale italiano riguardava il fatto che la Corte EDU non aveva preso una posizione determinante in relazione al computo dello spazio occupato dal letto.
In particolare, su tale punto, la Corte di Cassazione si è divisa, affermando in alcune sentenze che ai fini della determinazione dello spazio minimo a disposizione del detenuto affinché lo Stato non incorra nel divieto di cui l'art. 3 della Convenzione, deve essere tenuto conto della superficie effettiva che consenta il libero movimento della persona, considerando altresì gli arredi fissi e includendo i letti, a prescindere che essi presentino la struttura c.d. a castello o meno, in quanto essi si categorizzerebbero come elementi di notevole ingombro senza distinzioni[52].
Nondimeno, in altre decisioni, gli Ermellini avevano stabilito che i letti sono da considerarsi come ostativi alla libertà del movimento del detenuto solo nel caso in cui essi siano a castello, ma non quando si tratti di letti singoli[53].
Orbene, al fine di risolvere i rilevati contrasti giurisprudenziali presentatisi in relazione al calcolo dello spazio minimo fruibile dal detenuto, la Corte rileva che solo un "diritto consolidato", così come elaborato dalla giurisprudenza di Strasburgo, costituisce un obbligo per il giudice su cui basare la sua opera interpretativa allo scopo di applicare in maniera adeguata le norme esistenti nel nostro ordinamento.
Al fine di stabilire la natura non consolidata di un orientamento espresso in una sentenza della Corte EDU la Cassazione richiama la sentenza n. 49 del 2015 nella quale la Corte costituzionale indica determinati
«indici idonei ad orientare il giudice nazionale nel suo percorso di discernimento, fra cui la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; [...] il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano»[54].
La Cassazione stabilisce che l'orientamento consolidato su cui l’interpretazione del giudice comune è chiamato ad operare, sia per quanto concerne il calcolo dello spazio vitale minimo, sia in riferimento alla rilevanza dei c.d. fattori compensativi, debba essere quello indicato dai giudici europei nella vicenda Murśić v. Croatia, dove la giurisprudenza della Grande Camera ha operato una valutazione «multifattoriale» e «cumulativa»[55] delle esistenti condizioni detentive; inoltre, le Sezioni Unite rilevano che gli stessi principi sono stati affermati in ulteriori decisioni di Strasburgo, contribuendo al consolidamento dell'orientamento giurisprudenziale del 2016[56].
Fissate tali premesse, gli Ermellini non escludono la possibilità di interpretare in maniera differente la norma in questione e, di conseguenza, la giurisprudenza europea di riferimento, in quanto anche se la medesima costituisce, a detta del Supremo Collegio, parte integrante della disposizione, può essere essa stessa "vittima" di interpretazioni difformi.
Pertanto, il giudice di legittimità è chiamato a pronunciarsi nell'ambito dei procedimenti relativi all'applicazione dell'art. 35-ter nei soli casi di ricorso per violazione di legge, operando in una duplice veste: di fatto, la Cassazione non solo ha il compito di interpretare la normativa interna e la giurisprudenza consolidata della Corte di Strasburgo, bensì deve ulteriormente provvedere ad annullare i provvedimenti in violazione di legge nel caso in cui la giurisprudenza nazionale sia difforme dall'orientamento consolidato europeo[57].
In seguito a siffatti chiarimenti, le Sezioni Unite pongono l'attenzione su due passaggi rilevanti della sentenza Murśić v. Croatia, con la quale la giurisprudenza EDU afferma esplicitamente che «il calcolo della superficie disponibile nella cella deve includere lo spazio occupato dai mobili», aggiungendo altresì che «è importante determinare se i detenuti hanno la possibilità di muoversi normalmente nella cella»[58].
A tal proposito, la Cassazione Penale ritiene che l'impostazione del Procuratore generale e dell'Avvocatura Generale per il Ministero sia fondata su un errore nel calcolo dello spazio minimo da porre a disposizione del detenuto, in quanto il ricorrente proponeva una valutazione autonoma delle due condizione sopramenzionate; al contrario, rigettando di conseguenza il riferimento ad una concezione lorda della superficie, i giudici della Cassazione adottano una lettura congiunta dell'orientamento della Corte alsaziana, affermando che nello spazio utile a determinare la superficie disponibile per l'individuo all'interno della cella, si deve tenere conto non solo dei servizi igienici ma altresì dei mobili, valutando in maniera scrupolosa se il detenuto possa effettivamente godere di libertà di movimento.
Tuttavia, la Corte chiarisce che con il termine "mobili" si debba intendere solo gli arredi suscettibili di essere spostati all'interno della cella, non considerando, di conseguenza, gli arredi fissi, fra cui i letti a castello[59].
Con riferimento alla questione dei "fattori compensativi" riguardanti il sovraffollamento delle carceri, alle Sezioni Unite Penali viene richiesto di pronunciarsi sulla possibilità di escludere una violazione dell'art. 3 della C.E.D.U., nell'ipotesi in cui, nonostante lo spazio vitale minimo disponibile per il detenuto sia inferiore ai 3 metri quadri, sia comunque assicurata la sussistenza di taluni elementi positivi, come, a titolo esemplificativo, la brevità del periodo di detenzione, lo svolgimento di attività all'esterno della cella, le condizioni detentive complessivamente adeguate[60].
Ebbene, attraverso la citata sentenza, la Grande Camera della Corte E.D.U. approda alla conclusione secondo cui l'assenza di uno spazio minimo di 3 metri quadri per persona non è destinato ad integrare un contrasto con l’art. 3 della Convenzione, ma solo una strong presumption, non di carattere assoluto, di violazione, superabile appunto in presenza di altri alleviating factors, ossia dei fattori positivi, operanti congiuntamente.
La Corte prosegue stabilendo l'onere in capo all'Amministrazione Penitenziaria di dimostrare l’esistenza di siffatti fattori positivi, affinché lo Stato possa superare la "forte presunzione" di violazione della C.E.D.U.[61]
Tuttavia, nell'ipotesi in cui lo spazio vitale disponibile si attesti fra i tre e i quattro metri quadri, tali "fattori compensativi", presi in considerazione però unitamente ad altri elementi di natura negativa, possono condurre ad una valutazione delle condizioni detentive come risultanti in un trattamento inumano e degradante[62].
Di conseguenza, la contemporanea presenza di siffatti fattori negativi potrebbe risultare nell'accertamento di una violazione dell'art. 3 della C.E.D.U. e, tra tali elementi, la giurisprudenza europea elenca, ad esempio, l'impossibilità di accedere al cortile o all’aria aperta e alla luce naturale, il mal funzionamento dell'aereazione, l'insufficienza delle condizioni igienico-sanitarie[63].
In definitiva, alla luce delle presenti considerazioni, gli Ermellini hanno rigettato il ricorso proposto dal Ministero della Giustizia, affermando che esso si fosse fondato su un’erronea modalità di computo dello spazio minimo vitale da riservare ai detenuti, valutazione effettivamente contrastante con l'orientamento consolidato della giurisprudenza della Corte E.D.U.[64]
Pertanto, le Sezioni Unite hanno affermato tale principio
«nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati da assicurare ad ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall'art. 3 della CEDU, si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello»;
«i fattori compensativi costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, se ricorrono congiuntamente, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati; nel caso di disponibilità di uno spazio individuale fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi, unitamente ad altri di carattere negativo, concorrono nella valutazione unitaria delle condizioni di detenzione richiesta in relazione all’istanza presentata ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen.».
5. Osservazioni conclusive
Dalle considerazioni finora avanzate, è possibile desumere la natura garantista e positiva di quanto statuito nel presente giudizio, essendo stata la Corte di Cassazione in grado di dirimere una insidiosa difformità interpretativa di carattere giurisprudenziale.
Invero, il tema del sovraffollamento carcerario è da sempre al centro del dibattito nazionale e sovranazionale e, a ben vedere, siffatta questione può condurre a condizioni detentive non solo contrastanti con obblighi internazionali, ma anche generanti rischi di non poca rilevanza per la salute umana (si pensi, soprattutto, ai pericoli connessi al contesto della grave pandemia causata da COVID-19); in definitiva, tale situazione potrebbe vanificare la stessa ragion d'essere nonché gli scopi primari della pena detentiva e altresì i principi sanciti dal diritto penale in quanto tale.
Per questi motivi, a parer di chi scrive, essendo la C.E.D.U. un living instrument e svolgendo la Corte di Strasburgo il ruolo di interprete principale di tale carattere evolutivo della Convenzione, è attribuito soprattutto alle Corti nazionali e in particolar modo alla Corte di Cassazione il compito di fornire gli strumenti ermeneutici corretti di tale sviluppo progressivo, ai fini del conseguimento di una piena ed effettiva protezione dei detenuti e degli internati; ciò simultaneamente nell'ottica di tutelare lo Stato italiano da possibili condanne per violazione di disposizioni fondamentali del sistema del Consiglio d'Europa.
Di fatto, l'Italia si è dimostrata in innumerevoli occasioni baluardo d'onore in siffatto ambito, come anche dimostrato dall'introduzione della disciplina specifica post Torreggiani, volta alla piena attuazione del diritto convenzionale concernente la protezione dei diritti fondamentali e delle libertà della persona umana.
[1] La C.E.D.U., completata da 14 Protocolli addizionali, è stata firmata a Roma nel 1950 nell'ambito del Consiglio d'Europa ed è in vigore dal 1953 per 47 Stati, compresa l'Italia. L'art. 3 della Convenzione stabilisce che "no one shall be subjected to torture or to inhuman or degrading treatment or punishment." D'ora in avanti, si riterrà opportuno riportare la dicitura delle disposizioni della Convenzione e delle pronunce della Corte EDU in inglese e/o francese, quali lingue ufficiali del sistema del Consiglio d'Europa.
[2] Cfr. § 18, Cass. Penale, Sez. un., sent. 24 settembre 2020, n. 6651, depositata il 19 febbraio 2021.
[3] Ivi, § 22.
[4] C. CATANEO, Le Sezioni unite si pronunciano sui criteri di calcolo dello ‘spazio minimo disponibile’ per ciascun detenuto e sul ruolo dei fattori compensativi nell’escludere la violazione dell’art. 3 CEDU, in Sistema Penale, 23 marzo 2021.
[5] Corte EDU, Saadi v. Italy, ricorso n. 37201/06, sentenza del 28 febbraio 2008, § 127.
[6] Sul punto, si veda anche N. RONZITTI, Diritto internazionale, Sesta Edizione, G. Giappichelli Editore, Torino, 2019, p. 334 ss.
[7] Cfr. Corte EDU, Saadi v. Italy, § 127. L'articolo 15 della C.E.D.U. stabilisce: "In time of war or other public emergency threatening the life of the nation any High Contracting Party may take measures derogating from its obligations under this Convention to the extent strictly required by the exigencies of the situation, provided that such measures are not inconsistent with its other obligations under international law. 2. No derogation [...] from Articles 3, 4 (paragraph 1) and 7 shall be made under this provision."
[8] Cit. R. CONTI, La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sul sovraffollamento carcerario e i diritti del detenuto, in Politica del diritto, a. XLIV, n. 4, dicembre 2013, p. 441.
[9] Per approfondimenti sull'attività del CPT, si veda anche V. C. N. ROBERT, Si può o si deve migliorare il carcere? L'attività del Comitato per la Prevenzione della tortura presso il Consiglio d'Europa, in Antigone: Quadrimestrale di Critica del Sistema Penale e Penitenziario, 2009.
[10] Convenzione Europea per la Prevenzione della Tortura e delle Pene o Trattamenti Inumani e Degradanti, adottata a Strasburgo il 26 novembre 1987, entrata in vigore nel 1989. La Convenzione è stata ratificata dai 47 Stati membri del Consiglio d'Europa.
[11] CPT, Living space per prisoner in prison establishments: CPT standards, dicembre 2015, CPT/Inf (2015) 44.
[12] CPT, Living space per prisoner in prison establishments: CPT standards, § 9 e 11.
[13] Ivi., §21. "The CPT has never considered that its cell-size standards should be regarded as absolute. In other words, it does not automatically hold the view that a minor deviation from its minimum standards may in itself be considered as amounting to inhuman and degrading treatment of the prisoner(s) concerned, as long as other, alleviating, factors can be found, such as, in particular, the fact that inmates are able to spend a considerable amount of time each day outside their cells (in workshops, classes or other activities). Nevertheless, even in such cases, the CPT would still recommend that the minimum standard be adhered to."
[14] Cfr. W. DE AGOSTINO, I diritti dei detenuti in Italia: tutela e garanzie alla luce della C.E.D.U., Key Editore, Milano, gennaio 2016.
[15] Corte EDU, Seconda sezione, Sulejmanovic v. Italy, ricorso n. 22635/03, sent.16 luglio 2009, disponibile esclusivamente in lingua francese.
[16] L'articolo 34 permette agli individui, alle organizzazioni non governative o a gruppi di individui, oltre che agli Stati, di presentare ricorsi dinanzi alla Corte EDU contro uno Stato membro della Convenzione accusato di aver violato i diritti stabiliti dalla C.E.D.U. Per approfondimenti, si veda anche C. FOCARELLI, Diritto internazionale, Terza Edizione, Wolters Kluwer CEDAM, 2015, pp. 344 ss.; per le condizioni specifiche in base alle quali i ricorsi individuali possono essere presentati alla Corte si, si veda N. RONZITTI, op. cit, pp. 340 ss.
[17] "Il impose à l’Etat de s’assurer que tout prisonnier est détenu dans des conditions qui sont compatibles avec le respect de la dignité humaine, que les modalités d’exécution de la mesure ne soumettent pas l’intéressé à une détresse ou à une épreuve d’une intensité qui excède le niveau inévitable de souffrance inhérent à la détention et que, eu égard aux exigences pratiques de l’emprisonnement, la santé et le bien-être du prisonnier sont assurés de manière adéquate". Cit., Corte EDU, Sulejmanovic v. Italy, § 39.
[18] CPT, 2nd General Report on the CPT's activities, CPT/Inf (92) 3, 13 aprile 1992, § 43.
[19] Cfr. Corte EDU, Sulejmanovic v. Italy, § 39.
[20] Corte EDU, Grande Camera, Kudła v. Pologne, ricorso n. 30210/96, sent. 26 ottobre 2000, § 92-94.
[21] Cfr. Corte EDU, Sulejmanovic v. Italy, § 40.
[22] Cfr. Camera dei Deputati, Le pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo e le raccomandazioni del Consiglio d'Europa, disponibile qui: https://temi.camera.it/leg17/post/la_sentenza_torreggiani_e_altri_contro_italia.html?tema=temi/la_questione_carceraria.
[23] Cfr. Corte EDU, Sulejmanovic v. Italy, § 51.
[24] Sul punto, A. DI PERNA, Situazione carceraria e divieto di tortura: il caso Sulejmanovic dinanzi alla Corte europea dei diritti umani, in Diritti umani e diritto internazionale, vol. 3, 3/2009.
[25] Cfr. Opinion concordante du Juge Sajò: "Dans la présente affaire, ce n’est pas le manque d’espace dans le cellule qui constitue en soi un traitementinhumain ou dégradant. [...] Dans les circonstances particulières de l’espèce, l’inhumanité de la situation réside dans le fait que l’Etat n’a pas montré qu’il avait adopté des mesures compensatoires supplémentaires pour atténuer les conditions extrêmement éprouvantes résultant de lasurpopulation carcérale. Il aurait pu prêter une attention particulière à la situation, par exemple en accordant aux détenus d’autres avantages, ce qui leur aurait fait passer le message que l’Etat, bien que confronté à une crise carcérale soudaine, n’était pas indifférent au sort des détenus et entendait créer des conditions de détention qui, en somme, ne donnaient pas à penser qu’un détenu était simplement un corps qu’il fallait bien mettre quelque part. En l’espèce, l’absence de préoccupation de l’Etat ajoute une touche d’indifférence à la vive souffrance provoquée par le châtiment, souffrance qui allait déjà quasiment au-delà de l’inévitable".
[26] Cfr. Opinion dissidente du Juge Zagrebelsky, à laquelle se rallie la Juge Jočienė.
[27] Corte EDU, Sezione Decima, Torreggiani and others v. Italy, ricorsi n. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10, sent. 8 gennaio 2013.
[28] Rules of the Court, Nuova Edizione, 1° gennaio 2020.
[29] Cfr. F.M. PALOMBINO, La "procedura di sentenza pilota" nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, in Rivista di diritto internazionale e processuale, 2008, Vol. 44, Fasc.1, pp. 91 ss.; sul punto, N. RONZITTI, op. cit., p. 339.
[30] Supra, nota 16.
[31] Legge del 26 luglio 1975, n. 354, "Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà".
[32] Cfr. A. GIUSTI, Sentenza Torreggiani: i diritti dei detenuti nelle carceri sovraffollate, in Iusinitinere, 17 marzo 2018.
[33] Cfr. Corte EDU, Torreggiani and others v. Italy,§ 54. Si veda anche, Corte EDU, Prima sezione, Ananyev and others v. Russia, ricorso n. 42525/07, sent. 10 gennaio 2012, § 98: "where the fundamental right to protection against torture, inhuman and degrading treatment is concerned, the preventive and compensatory remedies have to be complementary in order to be considered effective. [...]the existence of a preventive remedy is indispensable for the effective protection of individuals against the kind of treatment prohibited by Article 3. Indeed, the special importance attached by the Convention to that provision requires, in the Court’s view, that the States parties establish, over and above a compensatory remedy, an effective mechanism in order to put an end to any such treatment rapidly. Had it been otherwise, the prospect of future compensation would have legitimised particularly severe suffering in breach of this core provision of the Convention and unacceptably weakened the legal obligation on the State to bring its standards of detention into line with the Convention requirements."
[34] Sul punto, W. DE AGOSTINO, op. cit.
[35] Cit. Corte EDU, Torreggiani and others v. Italy, § 78.
[36] Ivi, § 101, Cfr. Camera dei deputati, Le pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo e le raccomandazioni del Consiglio d'Europa.
[37] Cit. art. 69, co. 6, lett. b), L.354/1975.
[38] Cfr. W. D'AGOSTINO, op. cit. Per approfondimenti sulla portata dell'art. 35-bis, si veda anche, A. LAURITO, Reclamo giurisdizionale e rimedi compensativi a tutela degli internati: gli ʻesclusi eccellenti’ della riforma, in Giurisprudenza Penale, 2016; G. VARRASO, Commento all’art. 35-bis ord. pen., in A. GIARDA, G. SPANGHER (a cura di), AA.VV., Codice di procedura penale commentato, Quinta edizione, Milano, 2017, pp. 2364 ss.
[39] Cfr. § 5, Cass. Penale, Sez. un., sent. 6551/2021.
[40] Art. 35-ter, co. 2. Si veda anche, L. BARONE, G. FIDELBO, I nuovi rimedi risarcitori previsti dall’art. 35-ter ord. penit. nelle prime applicazioni della giurisprudenza di merito, in UniCost: Unità per la Costituzione, Rel. n. III/01/2015, 13 aprile 2015, disponibile qui: https://www.unicost.eu/novita-legislativa-i-nuovi-rimedi-risarcitori-previsti-dallart-35-ter-ord-penit-nelle-prime-applicazioni-della-giurisprudenza-di-merito/.
[41] Cfr. § 4, Cass. Penale, Sez. un., sent. 6551/2021.
[42] In senso conforme, si veda altresì P. GORI, Art. 3 CEDU e risarcimento da inumana detenzione, in Questione Giustizia, 2014.
[43] Corte EDU., Grande Camera, Murśić v. Croatia, ricorso n. 7334/13, sent. 20 ottobre 2016.
[44] Corte EDU., Prima sezione, Murśić v. Croazia, ricorso n. 7334/13, sent. 12 marzo 2015.
[45] "compensating or allieviating factors".
[46] Sul punto, si veda anche F. CANCELLARO, Carcerazione in meno di tre metri quadri: la Grande Camera sui criteri di accertamento della violazione dell'art. 3 CEDU, in Diritto penale contemporaneo, 13 novembre 2016.
[47] Cit. Corte EDU., Grande Camera, Murśić v. Croatia, § 137.
[48] La Corte, a titolo esemplificativo, elenca alcuni di questi aspetti: "access to outdoor exercise, natural light or air, availability of ventilation, adequacy of heating arrangements, the possibility of using the toilet in private, and compliance with basic sanitary and hygienic requirements." Cfr. Murśić v. Croatia, § 106.
[49] Ivi, § 135.
[50] F. CANCELLARO, op. cit.; Per approfondimenti, si veda anche A. ALBANO, Prime osservazioni sulla sentenza 20 ottobre 2016 della Corte Europea dei Diritti dell'uomo in Muršić c. Croazia: un caso icastico, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 3/2015. Inoltre, risulta interessante soffermare l'attenzione altresì sul § 53 della dissenting opinion del giudice Pinto de Albuquerque, dove viene sottolineato che "the majority (la Grande Camera, N.d.A.) makes use of what should be ordinary features of a prison facility in order to justify an extraordinarily low level of personal space for individuals in detention. For the majority, normal living conditions justify abnormal space conditions. Logic would require that extraordinary negative circumstances be offset only by extraordinary positive counter-circumstances. This is not the case in the majority’s logic. No extraordinary positive features of prison life are required by the majority to compensate for the deprivation of each prisoner’s right to adequate accommodation in detention."
[51] Cit. Cass. Penale, Sez. un., sent. 665/2021, § 1. Si veda anche C. CATANEO, op. cit.
[52] Tale orientamento è stato adottato dalla Cass. pen., sent. 39207/2017, in tema di mandato di arresto europeo.
[53] Si veda Cass. pen., Prima Sezione, sent. n. 40520 del 16 novembre 2016, depositata nel 2017.
[54] Cit. Corte Cost. sent. 49/2015, 14 gennaio 2015.
[55] Cfr. Cass. Penale, Sez. un., sent. 665/2021, §14.
[56]Ivi, § 11. Si veda, ad esempio, le pronunce della Corte EDU, Rezmives v. Romania, 25 aprile 2017; Sylla and Nollormont v. Belgium, 16 maggio 2017; J.M.B. v. France, 30 gennaio 2020.
[57] Ivi, § 12.
[58] Ivi, § 15.
[59] "In definitiva deve essere affermato il seguente principio di diritto: nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello". Ivi, § 15.
[60] Ivi, §19.
[61] "Nell'istanza presentata ai sensi dell'art. 35-ter ord. pen., il detenuto dovrà porre a fondamento della domanda risarcitoria, oltre alla detenzione in celle collettive con uno spazio individuale inferiore a quattro metri quadrati, anche alcuni dei fattori negativi sopra indicati. Da parte sua, l'Amministrazione potrà opporre i fattori compensativi per contrastare la domanda: il magistrato di sorveglianza dovrà, quindi, esprimere una valutazione globale delle condizioni di detenzione tenendo conto di tutti i fattori, positivi e negativi, così come richiesto dalla Corte EDU. La valutazione dei concorrenti aspetti dell'offerta trattamentale idonei ad essere posti in bilanciamento con le dimensioni della cella collettiva deve formare oggetto di specifica motivazione in relazione alle concrete opportunità di cui abbia realmente usufruito ciascun detenuto, non potendo essere fondata su parametri potenziali correlati all'astratta offerta trattamentale presente nell'istituto penitenziario" Cit. Cass. Penale, Sez. un., sent. 665/2021, §21.
[62] Ivi, §22.
[63] Cfr. Murśić v. Croatia, §139. Sul punto, si veda anche A. DI TULLIO D'ELISIIS, Carcere: spazio minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento fermo restando che taluni fattori compensativi, se ricorrono congiuntamente, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU, in diritto.it, 3 marzo 2021.
[64] Cfr. C. CATANEO, op. cit.
Bibliografia e sitografia
- ALBANO A., Prime osssercazioni sulla sentenza 20 ottobre 2016 della Corte Europea dei Diritti dell'uomo in Muršić c. Croazia: un caso icastico, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 3/2015.
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