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Pubbl. Sab, 8 Mag 2021
Sottoposto a PEER REVIEW

L´OCRI e il procedimento di composizione assistita della crisi

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Antonio Aprile



Il presente lavoro si propone di studiare le finalità, i caratteri e il funzionamento degli Organismi di composizione della crisi d´impresa (OCRI), ai quali il d. lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, affida il compito di gestire il procedimento di composizione assistita della crisi, le cui fasi ed effetti sono criticamente analizzati nel contributo che segue.


ENG The paper aims to study the purposes, the characteristichs and the operating mechanism of the business crisis composistion systems (OCRI), whom the d. lgs. 12 january 2019, n. 14, assigns the task of managing the business crisis composition procedure, whose phases and effetcs are critically analyzed in the essay below.

Sommario: 1. L’OCRI: natura e competenza territoriale; 1.1. Il referente e il suo ufficio; 1.2. Il collegio degli esperti; 2. Il procedimento di composizione assistita della crisi: natura e funzioni dell’istanza del debitore; 2.1. Esito concorsuale volontario o chiusura con un accordo; 2.2. Conclusione negativa del procedimento: esito concorsuale non volontario o segnalazione al Pubblico Ministero; 3. Le misure protettive nella composizione assistita della crisi: istanza, funzioni e contenuto; 3.1. Segue: profili procedurali; 4. Le misure premiali; 5. Considerazioni conclusive.

1. L’OCRI: natura e competenza territoriale

Il nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza demanda – secondo la definizione di cui all’art. 2, comma 1, lett. u) – all’Organismo di Composizione della Crisi d’Impresa (OCRI) i poteri di gestione della fase dell’allerta e, per le imprese diverse dalle imprese minori, la cura della fase di composizione assistita della crisi[1].

Gli OCRI, costituiti presso ciascuna camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura, rivestono un ruolo primario nell’ambito delle procedure di allerta e composizione assistita delle crisi. Il successo stesso della riforma – di cui gran parte occupa il sistema dell’allerta – dipende, oltre che naturalmente da una faticosa ma imprescindibile affermazione di un rescue culture dell’impresa in crisi, o meglio – ancora più a monte – di una cultura di prevenzione dell’emersione della stessa, dall’efficace funzionamento degli OCRI.

Purtroppo, l’istituto desta, attualmente, tra gli imprenditori una “preoccupante” diffidenza che è generata da letture superficiali e, di conseguenza, fuorvianti del testo del Codice, le quali potrebbero causare seri rischi di insuccesso dell’Organismo.

In altri termini, “il timore delle segnalazioni all’OCRI ne sta facendo travisare il ruolo […]. Dalla segnalazione deriva, infatti, l’erronea convinzione che l’OCRI sia una minaccia per l’impresa e non permette di percepire che, invece, è innanzitutto un’opportunità da cogliere. La minaccia è ben altra, ovverosia il rilevante stock di scaduti di pagamento di fornitori, erario e dipendenti: una minaccia che l’OCRI ben potrà, nei casi in cui sia concretamente praticabile, disinnescare”[2].

Sul versante opposto, gli incentivi quali le misure premiali assicurate agli imprenditori che spontaneamente si rivolgono agli OCRI potrebbero drammaticamente condurre all’emersione di scenari di crisi inesistenti, basati su indici rivelatori di profili di mero rischio di discontinuità e non anche di uno stato di pericolo effettivo. Di fronte a tali “falsi positivi” occorrerà che l’OCRI proceda con l’archiviazione del caso, evitando così che “lo strumento dell’allerta […] diventi un mezzo per la creazione del dissesto aziendale, facendo perdere credibilità all’istituto già nelle prime fasi di applicazione”[3].

Il rischio in tal caso è non soltanto che l’allerta manchi l’ambizioso obiettivo attribuitole, ma anche che – mediante una temibile eterogenesi dei fini nell’attività degli OCRI – costituisca un fattore di generazione della crisi, spingendo impetuosamente le imprese verso una altrimenti evitabile insolvenza.

La centralità e la delicatezza del ruolo degli OCRI esigono un approfondimento dello studio delle regole di struttura e funzionamento, al fine di individuare – mediante una non fallace interpretazione delle nuove norme di diritto positivo – le linee guida di un modus operandi che possa dirsi virtuoso. Le previsioni normative su nomina, composizione e articolazione interna degli OCRI sono sostanzialmente identiche sia per i procedimenti di allerta sia per quelli di composizione assistita della crisi, così che le osservazioni che seguiranno varranno per ambedue[4].

Il legislatore delegato ha scelto di concentrare gli OCRI all’interno del sistema camerale, prescrivendone la costituzione presso ciascuna camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura (CCIAA). Si tratta di una inversione di tendenza rispetto al precedente in tema di crisi di impresa, rappresentato dagli organismi di composizione delle crisi da sovraindebitamento (OCC)[5], per i quali è appunto ammessa l’iscrizione nel relativo registro anche degli organismi costituiti presso enti differenti dalle camere di commercio.

La ratio dell’opzione favorita nel Codice è verosimilmente da ricercare nella diffusa concezione delle camere di commercio quali enti rappresentativi di una comunità differenziata costituita dalle imprese operanti sul territorio, vale a dire enti con funzione esponenziale degli interessi delle imprese, ai quali è anche attribuito – in via sussidiaria – il compito di erogare servizi a tutela della collettività generalmente intesa.

Siffatta configurazione delle camere di commercio, “poste sul crinale tra privato e pubblico, tra servizi nell’interesse della collettività delle imprese e compiti nell’interesse della collettività generale, le rende sede naturale e privilegiata per lo svolgimento del procedimento di allerta e di composizione assistita, nel quale convivono gli interessi del debitore in crisi, della platea dei creditori e del sistema economico in senso ampio”[6].

Il secondo comma dell’art. 16 del Codice, nel disporre che le segnalazioni dei soggetti qualificati e l’istanza del debitore di avvio del procedimento di composizione assistita della crisi vanno presentate all’OCRI costituito presso la camera di commercio nel cui ambito territoriale si trova la sede legale dell’impresa, radica la competenza territoriale del costituendo organismo di composizione secondo siffatto criterio.

Il legislatore delegato, dunque, ha preferito optare per l’individuazione dell’OCRI competente in base alla sede legale dell’impresa piuttosto che al centro principale degli interessi del debitore (COMI) – come avviene per i procedimenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza (art. 27 CCII) – nonostante che la legge delega, fra i principi generali di cui all’art. 2, imponesse di “recepire, ai fini della disciplina della competenza territoriale, la nozione di “centro degli interessi principali del debitore” definita dall’ordinamento dell’Unione Europea”.

La giustificazione di questa precisa scelta legislativa viene indicata dalla Relazione illustrativa di accompagnamento nella volontà di “escludere, in una fase in cui deve essere perseguita la tempestività dell’intervento, ogni dilazione dovuta all’eventuale incertezza sulla competenza”, così da rendere “più agevole per l’imprenditore” l’accesso a questa fase, pur nella consapevolezza della distonia della “eventuale diversa localizzazione del centro principale degli interessi del debitore”, potendo infatti mancare qualsivoglia collegamento tra quest’ultimo e la sede legale dell’impresa.

La disciplina della competenza territoriale degli OCRI è suscettibile di essere investita da alcuni profili problematici, che meritano di essere più da vicino osservati e, auspicabilmente, laddove possibile, risolti.

In primis, considerato che l’art. 28 CCII detta, per i procedimenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza, la regola della irrilevanza, ai fini della competenza, del trasferimento del centro degli interessi principali intervenuto nell’anno antecedente al deposito della domanda, ci si è chiesti se questa previsione risulti applicabile anche per gli OCRI.

Il dubbio che si è posto è, in realtà, di agevole scioglimento se si considera che la non applicabilità della regola in questione ai fini della competenza territoriale dell’OCRI è suggerita sia dall’assenza di un espresso richiamo, sia dall’atteggiamento del legislatore che – nel privilegiare la sede legale a discapito di quella effettiva – non mostra particolare sensibilità per l’esigenza di scongiurare eventuali fenomeni di forum shopping in tali procedimenti.

In secundis, l’incardinamento dell’allerta presso l’OCRI insediato nella CCIAA nel cui ambito territoriale è la sede legale dell’impresa pone sia, in via preliminare, la questione dell’ammissibilità o meno dell’accesso alle misure di allerta e di composizione assistita per le persone fisiche, persone giuridiche o enti esercenti attività d’impresa che non siano iscritti nel registro delle imprese (es: società irregolari), sia, in secondaria analisi, ove si propendesse per l’ammissibilità, l’esigenza di determinare un criterio di individuazione dell’OCRI competente per tali soggetti[7], nell’impossibilità di applicare il criterio della sede legale, che evidentemente manca in forza della mancata iscrizione nel registro delle imprese.

Autorevole dottrina, favorevole ad una soluzione restrittiva in ordine al problema della praticabilità del procedimento davanti all’OCRI per le “imprese irregolari”, afferma che il criterio della sede legale “pone un’esigenza preventiva di regolarizzazione per le imprese ivi non registrate: nell’ipotesi di istanza del debitore se ne potrebbe scorgere, in difetto, un requisito di irricevibilità[8].

Questa tesi prende le mosse dall’applicazione analogica della norma dell’art. 33, comma 4, CCII, che nega l’accesso al concordato preventivo ed agli accordi di ristrutturazione dei debiti per l’imprenditore cancellato dal registro delle imprese e che sarebbe espressione di un principio di “trasparenza titolata” anche nella fruizione del servizio di allerta o composizione assistita. “Apparirebbe contraddittorio”, infatti, “accettare l’innesco dell’attività dell’OCRI chiusa allo sbocco concorsual-giudiziale”[9].

Obiettano alla soluzione esposta, seppur corredata da una convincente motivazione, altri commentatori che individuano la debolezza di quella tesi nell’accostamento di situazioni non omogenee (imprenditore mai iscritto e imprenditore cancellato dal registro delle imprese) e nello svilimento del valore delle misure di allerta, derivante da una non adeguata consapevolezza di esse “quale strumento a beneficio non solo del debitore, ma anche dei creditori e dei terzi coinvolti nella crisi d’impresa”[10].

Nell’intento di ricercare, poi, un criterio di individuazione dell’OCRI competente per i debitori non iscritti, la dottrina in esame – propensa chiaramente ad una soluzione inclusiva – applica analogicamente le regole dettate dall’art. 27 CCII per i procedimenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza[11].

In tertiis, è appena il caso di rilevare che il d. lgs. 25 novembre 2016, n. 19, ha riordinato le circoscrizioni territoriali delle Camere di Commercio rideterminandole nel limite massimo di sessanta, ossia in un numero inferiore rispetto a quello dei tribunali competenti alla gestione dei procedimenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza, che sono attualmente centoquaranta.

Ciò significa che “la procedura più confidenziale e riservata” – vale a dire, chiaramente, quella instauratasi presso l’OCRI – “andrebbe a svolgersi presso autorità amministrative di minore prossimità rispetto a quelle giurisdizionali, in numero inferiore rispetto ai tribunali e per di più con accesso secondo un criterio (la sede legale) differente da quello giudiziario (il COMI)”[12].

Proprio la non coincidenza dei criteri di competenza, peraltro, apre la strada alla sfavorevole possibilità che la procedura di regolazione della crisi – anche eventualmente susseguitasi alla procedura di allerta o di composizione assistita – debba svolgersi presso un tribunale territorialmente molto lontano rispetto all’OCRI che era stato competente in quel determinato procedimento.

In ultima analisi, il disallineamento fra camere di commercio e circondari di tribunali potrebbe determinare segnalazioni rivolte a OCRI incompetenti. In tal caso, parte della letteratura[13] prospetta, quale soluzione più ragionevole, di consentire una trasmigrazione officiosa della segnalazione – senza possibilità di impugnazioni – tramite il referente[14], che insieme all’ufficio del referente e al collegio degli esperti costituiscono l’articolazione interna dell’OCRI

1.1. Il referente e il suo ufficio

L’OCRI opera attraverso il referente, che è l’organo propulsivo della procedura di allerta e composizione assistita e che svolge funzione di vigilanza sul suo iter, dotandosi, nello svolgimento di tale attività, di un “ufficio del referente” messo a disposizione dell’OCRI dalla Camera di Commercio.

Fermo restando che il referente si situa ed è incardinato presso ogni singola CCIAA, l’ufficio del referente – ai sensi dell’art. 16, comma 3, CCII – può essere consorziato con quello di altri organismi o, in altri termini, essere costituito in forma associata da parte di diverse camere di commercio.

Questa opzione, laddove venisse preferita, sarà il risultato di un’apposita convenzione tra le diverse camere, evidentemente nel presupposto che qualcuna non sia in grado di operare in modo autonomo e, contestualmente, nell’ottica di una significativa riduzione dei costi. Il consorzio fra organismi, conformemente ai compiti assegnati dal Codice ad ogni singolo ufficio del referente, può occuparsi solo della gestione organizzativa e dell’unitario coordinamento tra le varie attività amministrative e di supporto.

L’ufficio del referente, infatti, costituisce l’organo di ausilio che ha il compito di curare le attività esecutive e materiali nell’ambito delle procedure instaurate dinanzi all’OCRI, espletando le attività istruttorie e materiali connaturate ad esse.

Più in dettaglio, “dovrà provvedere ad effettuare, mediante posta elettronica certificata (art. 16, comma 5, CCII), tutte le comunicazioni cui sono tenuti il referente o il collegio degli esperti ed alla materiale acquisizione dal registro delle imprese, dall’anagrafe tributaria e dalle altre banche dati di tutti i dati e le informazioni cui il referente o il collegio degli esperti facciano richiesta. Rientrerà tra i compiti dell’ufficio del referente anche l’organizzazione degli incontri e delle riunioni eventualmente necessarie nello svolgimento dei procedimenti”[15].

Il referente è una persona fisica, individuato nel segretario generale della camera di commercio o in un suo delegato, il quale – anche se la legge tace sul punto – è pacifico che vada individuato esclusivamente tra i dipendenti delle camere di commercio (dunque, non necessariamente di quella territorialmente competente) o delle aziende speciali ovvero unioni regionali delle stesse. Ciò in ragione del fatto che il referente, diversamente dai membri del collegio degli esperti, è visto come interno al sistema camerale.

Al di là dei compiti, non espressamente previsti dal Codice, al cui adempimento il referente dovrà ugualmente provvedere, in quanto strumentali all’assolvimento delle funzioni affidategli nonché impliciti nella struttura e nel meccanismo dell’OCRI, si rintraccia una prima chiara indicazione contenutistica del ruolo del referente nell’art. 16, comma 4, il quale dispone che “il referente assicura la tempestività del procedimento, vigilando sul rispetto dei termini da parte di tutti i soggetti coinvolti”.

Il Codice non ha, tuttavia, specificato quali siano i poteri che potrebbe esercitare il referente per salvaguardare il rispetto dell’obiettivo di celerità e per correggere, sanzionandoli, eventuali comportamenti del collegio degli esperti che non siano particolarmente virtuosi sul fronte della tempestività.

La migliore dottrina si è allora chiesta se, di fronte alla mancata osservanza delle tempistiche ritenute idonee, il referente sia autorizzato a provvedere autonomamente alla sostituzione di uno o più componenti del collegio che siano rimasti inerti o, quantomeno, possa chiedere ai soggetti che li abbiano nominati di procedere anche alla loro sostituzione.

Da una parte, argomentando dal dato che il Codice già conosce ipotesi in cui il referente provvede autonomamente alla sostituzione di un componente, è stata sostenuta l’indiscutibile riconoscibilità dei suddetti poteri in capo ad esso, facendo contestualmente leva sul loro carattere strumentale alla garanzia di tempestività; dall’altra parte, l’attribuzione dei medesimi poteri è stata da diversa dottrina esclusa osservando, in primo luogo, che le ipotesi di cui prima riguardano fattispecie tipiche inerenti unicamente alla corretta formazione dell’organo (non anche agli eventuali inadempimenti o ritardi degli esperti), e, in secondo luogo, che se il legislatore delegato avesse voluto estendere il potere di sostituzione del referente anche a quella particolare casistica, lo avrebbe espressamente previsto.

In ogni caso, è sin da subito sembrato un ragionamento difficilmente controvertibile quello per cui “se […] la tempestività deve essere effettivamente assicurata e garantita da parte del referente, non può questo dovere assolversi compiutamente senza il contestuale riconoscimento al referente del potere di provvedere alla sostituzione dell’esperto o degli esperti inadempienti, con nomina del sostituto o dei sostituti”[16].

Sulla scorta di tale considerazione, il d. lgs. 26 ottobre 2020, n. 147, contenente disposizioni integrative e correttive al Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, ha espressamente previsto che, in caso di inerzia degli esperti o di mancato adempimento dei compiti loro affidati, il referente deve segnalare la situazione al Presidente della sezione specializzata in materia di impresa del Tribunale, al Presidente della Camera di commercio ed al rappresentante dell’associazione rappresentativa del settore di riferimento del debitore, i quali devono procedere, entro 30 giorni lavorativi dalla ricezione della richiesta, alla designazione di un nuovo esperto in sostituzione di quello inerte od inadempiente.

Un ruolo cruciale è svolto dal referente nello svolgimento del delicato compito di effettuare le valutazioni preliminari sui presupposti e le condizioni del procedimento di allerta e di composizione assistita.

Anzitutto, il referente – nel verificare la sussistenza del presupposto soggettivo per l’accesso alla procedura di allerta o composizione assistita della crisi innanzi all’OCRI – deve valutare se la segnalazione riguardi un’impresa per la quale l’allerta sia applicabile, vale a dire un’impresa che non rientri nel catalogo di cui all’art. 12, commi 4 e 5, CCII, “perché in questa ipotesi la segnalazione va archiviata, non apparendo compatibile con le regole il fatto che il referente possa direttamente investire il pubblico ministero ai sensi dell’art. 22, posto che in tale disposizione si stabilisce che la segnalazione al pubblico ministero presupponga l’inerzia dell’impresa[17].

Parimenti, il referente, ove accerti che la segnalazione dei soggetti qualificati o l’istanza del debitore riguardi un’impresa appartenente al palinsesto delle imprese agricole o delle imprese che – secondo i requisiti indicati dall’art. 2, comma 1, lett. d) – vengono definite “minori”, convoca direttamente il debitore avanti al competente OCC[18] che, ai sensi dell’art. 12, comma 7, “dovrebbe essere competente non solo ai fini della composizione assistita della crisi, ma anche a svolgere altresì preventivamente le procedure di alerting demandate all’OCRI”[19].

Questo accertamento, compiuto inaudita altera parte sulla base dei dati del registro delle imprese o della documentazione allegata alla segnalazione o istanza, richiede da parte del referente una verifica dei tratti sostanziali di impresa minore e potrebbe essere oggetto di contestazione da parte del debitore o dei soggetti qualificati autori della segnalazione, i quali potrebbero ritenere – in dissenso dal referente – che il debitore non sia titolare di un’impresa minore ovvero, al contrario, che la procedura trattenuta presso l’OCRI sia, in realtà, di competenza dell’OCC.

Ci si può chiedere se al referente sia riconosciuto anche il potere di compiere una delibazione sulla sussistenza del presupposto oggettivo, ossia sullo stato di crisi.

Da un lato, può osservarsi che se la valutazione preliminare sull’esistenza del presupposto soggettivo è finalizzata ad evitare una inutile costituzione del collegio degli esperti, con gli ingenti costi ad essa conseguenti (laddove si manifesta già prima facie l’improseguibilità del procedimento per assenza del presupposto), allora, negli stessi termini, “non avrebbe senso procedere alla nomina del collegio degli esperti, che adotterebbe il provvedimento di archiviazione in mancanza dello stato di crisi (art. 18, comma 3, CCII), quando l’assenza della crisi può già essere rilevata dal referente”[20]. Sul versato opposto, è stato osservato che l’indagine sullo stato di crisi “attiene al merito della gestione del procedimento[21] ed è stata legislativamente riservata al collegio degli esperti, esulando quindi dalle attribuzioni che vengono riconosciute al referente.

In ogni caso, l’attività del referente è adombrata in itinere dal dubbio della “giustiziabilità” o meno delle scelte di smistamento o rifiuto affidate a siffatta istituzione amministrativa.

Essendo il procedimento di allerta e composizione assistita situato fuori dal perimetro giurisdizionale, le decisioni del referente non sono suscettibili di sottoposizione al sindacato giudiziale né possono essere soggette ad un controllo interno alla camera di commercio stessa. Tuttavia, poiché lo statuto delle Camere di commercio le qualifica come enti di diritto pubblico, ne deriva che le deliberazioni del referente possono essere impugnate davanti al tribunale amministrativo regionale competente, al fine di ottenere la rimozione del provvedimento stesso.

In ultima analisi, oltre all’eseguimento di compiti dal carattere maggiormente esecutivo[22], il referente, una volta compiuta con esito positivo la verifica della competenza territoriale dell’OCRI, della sussistenza del presupposto soggettivo di attivazione della procedura, nonché della legittimazione del soggetto istante o segnalante[23], procede “senza  indugio” – ai sensi dell’art. 17, comma 1, CCII – “a dare comunicazione della segnalazione stessa agli organi di controllo della società[24], se esistenti, e alla nomina di un collegio di tre esperti”. Per tutelare il diritto di difesa delle parti interessate, analogo onere di comunicazione incombe, in ogni caso, sul referente in tutte le ipotesi in cui egli ritenga che non si debba dar luogo alla costituzione del collegio per mancanza dei presupposti di legge.

1.2. Il collegio degli esperti

L’OCRI è un organo complesso perché accanto al ruolo istituzionale del referente si colloca il collegio degli esperti, che opera sotto la vigilanza del primo ed è composto da tre componenti, i quali – sulla base di designazioni provenienti dai soggetti a ciò espressamente legittimati dal legislatore – vengono successivamente nominati dal referente[25] tra i soggetti iscritti nell’Albo Nazionale di cui all’art. 356 CCII[26].

Un componente del collegio è designato dal presidente (o da un suo delegato) della sezione specializzata in materia di impresa del tribunale territorialmente competente, avuto riguardo al luogo ove si trova la sede dell’impresa.

Come si evince dalla relazione ministeriale, l’attribuzione della designazione di un esperto al magistrato presidente della sezione imprese è “una scelta che […] intende sottolineare che non si tratta di un’apertura anticipata di una procedura concorsuale”[27].

Non molto chiaro è il richiamo al criterio della “sede dell’impresa” ai fini dell’individuazione del tribunale territorialmente competente.

Da un lato, potrebbe intendersi quella locuzione quale “sede legale dell’impresa”, conformemente a quanto previsto dall’art. 16, comma 2, CCII per l’individuazione dell’OCRI territorialmente competente; dall’altro, potrebbe ritenersi che essa faccia riferimento al “centro principale degli interessi del debitore” (COMI), in sintonia con la previsione dell’art. 27 CCII relativamente al criterio della competenza territoriale del tribunale nei procedimenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza.

La prima alternativa sembra, però, essere quella preferibile perché, ancorando la competenza ad un dato formale ed oggettivo quale la sede legale risultante dal registro delle imprese, permette di “evitare che il referente debba formulare la richiesta di designazione ad un magistrato non immediatamente individuabile”[28], coerentemente alla volontà legislativa di velocizzare i tempi di apertura del procedimento di allerta.

Un secondo componente del collegio è designato dal presidente della camera di commercio presso cui opera l’OCRI, o da un suo delegato, che non può, naturalmente, essere lo stesso referente.

Quest’ultimo è, però, chiamato ad esprimere la designazione del terzo esperto, scegliendolo, sentito il debitore, tra gli appartenenti all’associazione rappresentativa del settore di riferimento del debitore, tra quelli iscritti nell’elenco trasmesso annualmente all’OCRI dalle associazioni imprenditoriali di categoria.

Il legislatore delegato ha qui dimostrato di cogliere il suggerimento di consentire la partecipazione del debitore alla designazione di un componente.

Il confronto con il debitore, oltre a fornire al referente una maggiore consapevolezza della specificità dell’impresa ai fini della designazione, potrebbe anche essere risolutivo nelle ipotesi in cui non sia agevole individuare il settore di riferimento dell’impresa debitrice e, quindi, la relativa associazione rappresentativa. Per di più, “come si dà atto nella relazione ministeriale, la previsione secondo la quale deve essere sentito anche il debitore è diretta a fare in modo che l’organismo operi, e sia anche percepito dal debitore, come un ente “amico”, che ha il compito di assisterlo e agevolarlo nella gestione della situazione di crisi”[29].

L’esperto nominato dagli elenchi delle associazioni di categoria, in virtù delle caratteristiche di cui dispone[30] e che lo avvicinano ad un “arbitro di parte”, è visto da diversi commentatori come un “presidio” di cui sarà utile giovarsi per evitare che “i falsi positivi accedano ad un istituto di regolazione di una crisi inesistente”. L’esperto, infatti, essendo connotato da una professionalità meno determinata e, pertanto, più adattabile al caso concreto e maggiormente vicina all’imprenditore in crisi, potrebbe “più facilmente sostenere le ragioni di parte e contrastare le spinte più intransigenti degli altri due componenti del collegio”[31], assumendosi una responsabilità, nell’archiviare ingiustificate segnalazioni che potrebbero paradossalmente generare esse stesse una crisi piuttosto che porvi rimedio, che, di norma, chi è nominato dal tribunale farà più fatica ad assumersi per il timore di essere smentito nel futuro.

L’art. 17, comma 2, CCII prevede che tutte e tre le designazioni debbano essere effettuate in ossequio ai criteri di trasparenza e rotazione, tenendo conto in ogni caso della specificità dell’incarico. Si osserva, però, che i criteri menzionati, pur ricorrendo reiteratamente in numerose diposizioni del Codice, non godono di una adeguata specificazione e la loro violazione non sembra, peraltro, poter determinare vizi del procedimento di nomina o conseguenze caducatorie della nomina stessa.

Accanto a rotazione e trasparenza degli incarichi, il CCII ha fatto della riservatezza e della confidenzialità cardini anche del procedimento di designazione, oltre che – in generale – dell’allerta stessa. Infatti, le richieste di designazione inviate dal referente non conterranno alcun dato idoneo a identificare il debitore: presidente del tribunale delle imprese e presidente della camera di commercio non dovranno sapere altro che settore economico in cui agisce il debitore e dimensioni dell’impresa (desunte dal numero degli addetti e dall’ammontare annuo dei ricavi reperiti dal registro delle imprese).

Dei tre soggetti titolati a designare gli esperti, l’unico che conosce il nome dell’impresa è il referente, al quale è inoltre affidato un preciso potere-dovere, vale a dire di curare che nel collegio siano presenti distinte e complementari professionalità in grado di garantire un elevato livello di competenze gestionali, contabili e legali.

Tant’è che quando il referente riscontra la mancanza di uno dei profili necessari tra i membri designati, provvede con atto motivato alla nomina di un esperto che ne sia munito, in sostituzione del componente designato dal presidente della camera di commercio.

La speditezza del procedimento di nomina è resa evidente dai tempi estremamente ristretti che lo scandiscono: il referente deve richiedere senza indugio ai soggetti indicati dal legislatore di effettuare le designazioni, le quali devono pervenire all’OCRI entro tre giorni lavorativi dalla ricezione della suddetta richiesta. Il mancato rispetto del termine determina l’insorgere in capo al referente del dovere di procedere, in via sostitutiva, alla designazione e successiva nomina del componente[32].

Ancora più ristretto è il termine entro il quale i professionisti nominati debbano rendere all’OCRI, a pena di decadenza, l’attestazione della propria indipendenza e, anche se la lettera della legge non lo prevede espressamente, accettare l’incarico. Il termine in questione è, infatti, fissato nel giorno successivo alla nomina: ma è da ritenersi che, “malgrado l’infelice formulazione della norma, il dies a quo non va certo considerato quello della nomina, bensì quello in cui il professionista abbia ricevuto la comunicazione della propria nomina”[33].

In caso di rinuncia all’incarico o di decadenza per non aver trasmesso l’attestazione di indipendenza nel rispetto del termine acceleratorio di un giorno, il referente sarà chiamato anche stavolta a provvedere alla sostituzione dell’esperto[34].

È da rilevare, però, che la verifica della sussistenza o meno delle condizioni di indipendenza[35] è spesso il risultato di una valutazione piuttosto discrezionale e non fornisce una oggettiva sicurezza in ordine alla correttezza delle determinazioni in materia di decadenza.

Si pensi, ad esempio, al tema ampiamente dibattuto del rilievo o meno di rapporti di collaborazione (anche di tipo societario) intercorsi tra gli esperti designati ovvero nominati e altri professionisti che abbiano svolto attività di lavoro subordinato o autonomo con il debitore.

Di fronte ad una valutazione del referente che – nel caso di specie – abbia acclarato la mancanza di indipendenza con conseguente decadenza dall’incarico, l’esperto (o, eventualmente il debitore stesso) potrebbe contestare il provvedimento in questione e impugnarlo innanzi all’autorità giudiziaria, in modo da ottenerne la rimozione e, per l’effetto, la reintegrazione dell’esperto decaduto nell’incarico o anche solo il risarcimento del danno. Infine, analogamente, il provvedimento potrà essere impugnato con lo speculare intento di ottenere l’accertamento giudiziario della decadenza dell’esperto privo del requisito di indipendenza.

2. Il procedimento di composizione assistita della crisi: natura e funzioni dell’istanza del debitore

Probabilmente, anche solo la procedura di allerta in senso stretto “avrebbe potuto bastare[36] ad appagare le sollecitazioni normative – pure e soprattutto di stampo sovranazionale[37] – tese ad instaurare un sistema di allerta efficace, unitamente alla predisposizione di un valido supporto in termini di consulenza alle imprese che non ne dispongano già. 

Tuttavia, la recente riforma ha voluto spingersi oltre, coniando una figura giuridica inedita che per la prima volta entra nell’orizzonte del nostro ordinamento, ponendosi quale istituto più problematico della materia in esame: vale a dire il procedimento di composizione assistita della crisi – disciplinato dall’art. 19 CCII – il quale, “a differenza della procedura di allerta, ma in qualche modo in continuità con questa, mira ad ottenere una soluzione concordata e stragiudiziale della crisi, in accordo con i creditori e favorita dall’intervento dell’organismo di composizione della crisi (OCRI)”[38].

A onor del vero, l’art. 19 non offre una preliminare definizione di “composizione assistita della crisi” e anche lo stesso art. 2, che pure illustra con ruolo chiarificatore il significato di molti altri istituti presenti nel Codice, non si sottrae alla medesima mancanza.

Sul punto, un risolutivo contributo esegetico ci perviene, invece, dalla Relazione illustrativa del Codice, in cui si legge che, mentre la procedura di allerta “è finalizzata a far emergere tempestivamente la crisi dell’impresa, ricercando, con l’ausilio degli organi di controllo o dello stesso OCRI e senza coinvolgere i creditori, una soluzione alla crisi principalmente mediante l’adozione di misure riorganizzative dell’attività imprenditoriale, diversa è la prospettiva dell’istituto della composizione assistita della crisi, al cui interno, nel presupposto che sia imprescindibile la ristrutturazione del debito, la soluzione viene ricercata mediante una trattativa con i creditori, favorita dall’intervento dell’OCRI che si pone come una sorta di mediatore attivo fra le parti”.

Dal testo della Relazione si evince, anzitutto, con chiarezza che “composizione” sta per “accordo”, mentre la locuzione “assistita” – lungi dal caricarsi di qualsiasi connotazione imperativa – significa semplicemente “facilitata”, non certo “imposta”. L’OCRI svolge, infatti, la funzione propria di un mediatore, presentandosi né come giudice né come giudicante: esso si adopera al fine di facilitare l’accordo[39], conformandosi alla “aspirazione mediatorio-assistenziale” propria della composizione assistita, ma senza mai “supplire all’inerzia del debitore”, che deve essere “di per sé autonomo e proattivo”[40].

Infatti, al solo debitore spetta la legittimazione ad attivare la procedura di composizione assistita e soltanto il debitore ha il potere e la facoltà di avviare le trattative con i creditori davanti all’OCRI; decisione che egli deve prendere in autonomia e nella quale non possono interferire né i creditori – i quali potranno solo partecipare alle trattative, una volta avviate – né le autorità giudiziarie (giudice e pubblico ministero) che, essendo la composizione assistita destinata a svolgersi in un terreno distante dalla giurisdizione, rimangono figure estranee tout court al procedimento.

In termini generali, il comma 2 dell’art 12 CCII prevede che il debitore possa “all’esito dell’allerta o anche prima della sua attivazione” accedere alla composizione assistita della crisi, “che si svolge in modo riservato e confidenziale dinanzi all’OCRI”. A ben vedere – pur essendo imprescindibile che la negoziazione sia connotata dal massimo riserbo, in quanto il manifestarsi delle difficoltà del debitore potrebbe generare il rischio di un rush to the exit dei creditori, vale a dire il fenomeno per cui i prestatori sarebbero indotti ad avviare immediatamente azioni esecutive per recuperare i crediti divenuti esigibili – “la confidenzialità della procedura non può essere pienamente salvaguardata nella fase di composizione”[41].

La stessa nozione di “trattative”, con tutti o parte dei creditori, implica necessariamente che riservatezza e confidenzialità (caratteri che l’art. 4, comma 1 della L. delega attribuisce, in maniera indifferenziata, sia all’allerta che alla composizione assistita) possano, nel procedimento in questione, attenuarsi in fatto, considerato che il coinvolgimento informativo di soggetti terzi è presupposto necessario del raggiungimento di una soluzione negoziata[42].

È chiaro che non necessariamente il procedimento di composizione assistita sia il naturale epilogo della procedura di allerta, ben potendo, invece, prevenirla o prescindere del tutto da essa. Anzi, è dato ipotizzare che il debitore si attivi, presentando l’istanza all’OCRI, proprio per evitare che lo facciano i soggetti cui sono riservati gli strumenti di allerta.

Lo stesso comma 1 dell’art. 19 dispone che la procedura di composizione assistita viene avviata “su istanza del debitore, formulata anche all’esito dell’audizione di cui all’art. 18”, vale a dire all’esito della sua audizione nell’ambito della procedura di allerta[43].

Ma cosa potrebbe spingere l’imprenditore a rivolgersi spontaneamente all’OCRI? Oltre ai costi più contenuti, alla riservatezza e alla natura stragiudiziale dello strumento, nonché all’affidabilità (garantita dall’indipendenza dei suoi membri) delle valutazioni svolte dall’Organismo, il motivo principale è che l’OCRI potrà disporre di una varietà di strumenti nei confronti dei diversi stakeholders coinvolti quali fornitori, banche, clienti e dipendenti. Ad essi, in relazione alla categoria di appartenenza, potrà essere formulato un ventaglio di proposte per superare la crisi, attingendo da “una sorta di cassetta degli attrezzi[…] ai quali da solo l’imprenditore non riuscirebbe ad accedere, anche se assistito dai propri consulenti di parte”[44].

Si tratta di risorse che – tendenzialmente – potrebbero essere fruibili solo facendo ricorso ai concordati preventivi o agli accordi di ristrutturazione dei debiti, ossia a strumenti di composizione della crisi più invasivi che necessitano del coinvolgimento del tribunale.

“Come” va formulata l’istanza da parte del debitore l’art. 19 non lo specifica, “ma a ben vedere ce lo dice proprio non dicendolo. […] Il fatto che la norma ci parli genericamente di istanza, insieme al fatto che il procedimento non coinvolge l’autorità giurisdizionale, ci induce, o forse ce lo impone addirittura, a pensare che questa istanza possa essere formulata in qualunque modo, in qualunque forma. Cioè al di fuori di forme prescritte. Il che significa che rispetto a questo genere di istanze non saranno mai neppure immaginabili questioni di ammissibilità o inammissibilità, perché questioni di inammissibilità possono avere una loro ragion d’essere solo su un piano processuale, formalizzato, mentre qui giochiamo su un piano diverso, appunto deformalizzato. L’istanza, di per sé, sarà dunque sempre ammissibile dal punto di vista formale”[45].

In linea di massima, non esistono termini entro i quali l’istanza ai sensi dell’art. 19 va presentata. Tuttavia, come si vedrà, il Codice prevede dei termini che, decorsi inutilmente senza che il debitore si sia attivato nel rivolgersi all’OCRI, precludono l’applicazione delle misure premiali, fatte derivare – ai sensi dell’art. 24 – dal tempestivo accesso alle procedure sia di allerta che di composizione assistita[46].

Ma cosa dovrà chiedere il debitore nella sua istanza?

Bisogna partire dal dato per cui la composizione assistita – differentemente dall’allerta che è una procedura funzionale al superamento della crisi mediante misure di semplice riorganizzazione interna, che non richiedono in quanto tali il consenso dei creditori – è una procedura che presuppone la necessità di misure che trascendano l’area della pura organizzazione interna, vale a dire, allora, misure di ristrutturazione del debito che esigono una riduzione o dilazione dei crediti, ottenibili – stavolta sì – esclusivamente grazie al consenso dei creditori o di una parte di essi, quali banche e fornitori strategici.

Ne deriva, quindi, che il debitore nell’istanza di composizione assistita, per far sì che essa assolva alla natura e alla funzione che le sono proprie, “dovrà dare atto della crisi e delle ragioni che ne impongono ma al tempo stesso ne consentono il superamento attraverso un accordo di ristrutturazione; dovrà illustrare, quantomeno per sommi capi, il contenuto del possibile accordo”[47].

Per la durata della fase antecedente alla composizione assistita la legge non fissa un termine, affidando al collegio l’adozione delle decisioni in ordine all’opportunità di ampliarla o meno, con il solo limite della costante applicabilità in concreto delle misure individuate. Invece, dal momento della presentazione dell’istanza di composizione assistita la legge dispone che il Collegio può fissare “un termine non superiore a tre mesi, prorogabile fino ad un massimo di ulteriori tre mesi solo in caso di positivi riscontri delle trattative, per la ricerca di una soluzione concordata della crisi dell’impresa, incaricando il relatore di seguire le trattative” (art. 19, comma 1, CCII).

Il primo atto del procedimento da parte dell’OCRI è proprio la nomina da parte del collegio di un relatore al proprio interno, incaricato di seguire le trattative. Un ruolo che carica di significato l’espressione “mediatore attivo” che si legge nella Relazione illustrativa e che aveva diffuso una tendenziale perplessità nella dottrina, che – ragionevolmente – si è chiesta come potrebbe mai essere immaginato un mediatore passivo. Ma è sempre la Relazione che riesce a sciogliere i dubbi da essa stessa sollevati, precisando successivamente che il relatore, nel seguire le trattative, potrà anche farsi “parte attiva, se ciò sia utile per favorire l’accordo, con l’autorevolezza che gli deriva dal ruolo”.

A tal proposito, potrebbe essere lecito domandarsi se il ruolo del relatore possa essere accostato a quello del commissario giudiziale nel concordato preventivo. In altri termini, non sarebbe infondato chiedersi se, come il commissario nel concordato è autorizzato a convocare i creditori nell’adunanza ai fini del voto, il relatore – pur senza assumere la veste di pubblico ufficiale che la legge attribuisce al primo – possa vantare la medesima facoltà nella composizione assistita e contattare, così, i creditori al fine di ottenere un accordo sull’esposizione debitoria dell’imprenditore.

D’altronde il silenzio della legge, insieme all’assenza di formalizzazione dell’istanza e del procedimento che da essa origina, inducono a dare dignità alla possibilità che sia il relatore a contattare i creditori, allo scopo di stipulare un accordo sulla ristrutturazione del debito. Ciò in quanto la norma focalizza la sua attenzione sul risultato ambito (appunto, una soluzione concordata con i creditori), per raggiungere il quale sembra poter essere giustificato e ritenuto valido qualsiasi mezzo.

A ciò si aggiunge che il relatore dispone di tutte le informazioni utili e necessarie al fine di fornire ai creditori – dopo aver preso, se del caso, autonomamente contatti con loro – chiarimenti sull’accordo, perché l’art. 19, comma 2, afferma che, nel più breve tempo possibile, il collegio provvede ad acquisire dal debitore una relazione aggiornata sulla situazione economica e finanziaria dell’impresa ed un elenco dei creditori e dei titolari di diritti reali e personali, con l’indicazione dell’ammontare dei crediti e delle eventuali cause di prelazione[48].

Si osserva, però, che probabilmente un debitore titolare di un’impresa meno strutturata non sia in grado di produrre la documentazione richiesta in tempi contingentati (“nel più breve tempo possibile”). L’art. 19, comma 2, prevede, allora, che il Collegio, in seguito ad una precisa richiesta del debitore in tal senso, possa predisporre esso stesso la relazione “mediante suddivisione dei compiti tra i suoi componenti sulla base delle diverse competenze e professionalità”.

Autorevole dottrina afferma, sull’argomento, che una interpretazione troppo rigida che impedisca al collegio di disattendere la relazione ricevuta o formarne una propria anche senza istanza del debitore – in spregio di quanto si legge nella norma, che richiede una espressa richiesta, appunto, del debitore – “sarebbe lettura ostativa al principio di collaborazione dell’art. 4” [49]( e qui si ricava un ulteriore argomento a sostegno della “mediazione attiva” del relatore, rectius del collegio, di cui supra).

Altri, ancora, pur non trascurando che, per il debitore, affidare al collegio la predisposizione della relazione in questione presenti l’indiscusso vantaggio che essa – laddove dovesse successivamente essere utilizzata per l’accesso ad una procedura concorsuale – goda di una maggiore credibilità da parte degli organi della procedura stessa (in quanto redatta dai professionisti membri del collegio ossia da soggetti non scelti dal debitore) – ritengono “preferibile che il debitore non si avvalga di tale facoltà e, per quanto possibile, ricorra ai propri professionisti storici, che hanno una conoscenza della realtà aziendale più approfondita, tenuto altresì conto che una separazione tra chi redige la documentazione e chi la valuta costituisce un indubbio valore che si traduce in una più elevata probabilità di successo dell’operazione”[50].

Prima di passare allo studio degli esiti del procedimento di composizione assistita, sembra opportuno dedicare una breve riflessione al tema della ragionevolezza o meno della prospettiva, adottata dal legislatore delegato, di riservare la procedura di composizione assistita esclusivamente alle situazioni di “crisi”, da intendersi secondo la definizione fornita dall’art. 2 del Codice[51], e di escluderne l’applicabilità nelle situazioni in cui l’insolvenza si sia già – sebbene non con forte intensità – manifestata.

Questa interpretazione restrittiva – è stato commentato – rischia di alimentare “un serio pericolo di non funzionamento” destinato a gravare “sulla parte più innovativa della riforma e sulla diffusione di un istituto, la composizione assistita, che invece meriterebbe […] la migliore fortuna[52].

Anzitutto, la prospettiva adottata dal legislatore, che sembra sancire una netta e definita scissione tra la soluzione stragiudiziale della crisi – percorribile esclusivamente nel caso in cui il debitore sia soltanto prospetticamente insolvente, ma possa ancora far fronte regolarmente alle obbligazioni correnti –  e le soluzioni giudiziali – suscettibili di applicazione solo in situazioni di conclamata insolvenza – segnerebbe una piuttosto paradossale inversione di tendenza rispetto agli orientamenti susseguitesi alla riforma del 2005 che, avendo ricondotto la nozione di insolvenza nell’ambito del concetto economico di crisi, aveva consentito l’accesso alle composizioni concordate “anche” (e, quindi, non solo) in presenza di una crisi non ancora confluita in insolvenza.

Lo steccato giuridico che, invece, il Codice attualmente innalza per separare il concetto di crisi da quello di insolvenza, indicando solo la prima come unico presupposto oggettivo della composizione assistita, potrebbe essere controproducente all’utilizzo del procedimento in questione, nonché presentare profili di contraddittorietà.

Sinteticamente: a) la categoria più ampia di soggetti che sono ritenuti, prevedibilmente, futuri fruitori della composizione assistita è quella delle medie e piccole imprese, la cui governance è tendenzialmente caratterizzata dall’immedesimazione dei soggetti detentori del capitale di comando con quelli preposti alla gestione.

Ciò sicuramente non agevola un confronto dialettico tra proprietà e amministrazione, con la conseguenza che difficilmente quelle imprese ammeteranno di essere in stato di crisi, neppure di fronte a segnali di warning lanciati dai professionisti che abitualmente le assistono, e prenderanno coscienza della necessità di ricorrere alla procedura di composizione della crisi soltanto una volta che si siano manifestati i sintomi dell’insolvenza[53], vale a dire quando la soluzione concordata non sarà più esperibile; b) analogamente, tra i soggetti cui la riforma affida potere di iniziativa nella direzione dell’allerta e della composizione assistita, i sindaci – in virtù dello stretto legame  con la proprietà che li ha nominati e che è fisiologicamente restia ad assumere iniziative per il superamento della crisi che non si sia ancora tradotta in insolvenza – difficilmente denunceranno eventuali “criticità” all’OCRI, se non quando esse si accompagnino a diffusi inadempimenti che rendano evidente una già attuale insolvenza[54]; c) gli indici sintomatici della crisi fissati dal Codice e consistenti in reiterati ritardi nei versamenti per importi ritenuti rilevanti appaiono già di per sé indici di insolvenza: le imprese che effettuano simili ritardi potrebbero essere – in realtà – già insolventi.

Allora, le considerazioni svolte sembrerebbero spingere per l’adozione di un diverso criterio di distinzione tra i concetti di crisi e di insolvenza, sulla scorta delle suggestioni offerte dalle regole comunitarie.

Queste ultime, anch’esse fortemente orientate verso l’obiettivo sintetizzabile nella formula “to avoid insolvency”,  tendono a distinguere – da un lato –  le imprese non più meritevoli di restare sul mercato (perché senza possibilità di sopravvivenza) e destinate, dunque, ad una rapida liquidazione, e – dall’altro lato – le imprese che possono, o meglio devono, essere salvate (perché hanno possibilità di sopravvivenza) e che sono meritevoli di essere soccorse con tutti gli strumenti diretti a favorire gli accordi con i creditori.

Tuttavia, è il caso di rilevare che alla base di questa distinzione non vi è la presenza o l’assenza di una situazione di insolvenza, bensì soltanto la circostanza che la crisi sia gestibile con interventi giudiziali articolati e complessi ovvero con più semplici interventi stragiudiziali.

Del resto, “anche un’impresa insolvente, se alleggerita da buona parte dei debiti mediante un accordo con il ceto creditorio, può avere opportunità di sopravvivenza”. Le criticità generate dalla artificiosa distinzione tra crisi e insolvenza adottata dal Codice farebbero probabilmente pensare che “la soluzione stragiudiziale dovrebbe prescindere dalla gravità della crisi, purché essa sia presumibilmente risolubile nel ristretto ambito temporale indicato dal Codice”[55]. Ciò non impedirebbe, comunque, di conservare la previsione delle misure premiali ex art. 25 CCII nel solo caso di iniziativa tempestiva in presenza di situazioni di crisi non tradottesi ancora in insolvenza.

2.1. Esito concorsuale volontario o chiusura con un accordo

L’accesso, o quantomeno la domanda di accesso, a una procedura concorsuale costituisce uno dei possibili esiti della composizione assistita. Qualora, infatti, il debitore non voglia o non abbia successo nel concludere un accordo stragiudiziale con i creditori, avrà la possibilità – riconosciutagli dall’art. 19, comma 3, CCII – di “presentare domanda di omologazione di accordi di ristrutturazione dei debiti o di apertura del concordato preventivo”.

Come si legge nella Relazione illustrativa, la ragione dell’acquisizione della documentazione di cui al secondo comma dell’art. 19 (vale a dire la relazione aggiornata sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa, nonché l’elenco dei creditori e dei titolari di diritti reali o personali, con indicazione dei rispettivi crediti e delle eventuali cause di prelazione) si spiega, oltre che con l’opportunità di disporre di tutti gli elementi conoscitivi utili a valutare la situazione dell’impresa e ad individuare il possibile oggetto delle trattative, anche con il fine di precostituire la documentazione necessaria per l’accesso ad una procedura concorsuale, così realizzandosi evidenti economie di tempi e costi procedurali.

Ed è sulla scorta di tali finalità che il comma 3 dell’art. 19 consente al collegio, su richiesta del debitore, di attestare la veridicità dei dati aziendali[56], agevolando di fatto “la documentazione utile alla migrazione successiva in una possibile procedura concorsuale giudiziale”[57].

A buona parte della letteratura è apparso “curioso” che il Codice abbia previsto che l’attestazione da parte del collegio fosse limitata alla sola veridicità dei dati, senza estendersi ad altri giudizi pur richiesti, quali quello della fattibilità, della funzionalità al miglior soddisfacimento dei creditori ovvero ai giudizi propri degli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa di cui all’art. 61.

Tuttavia, a ben vedere, “la limitazione dell’attestazione è coerente con il fatto che il piano delle procedure in questione potrebbe essere redatto con l’assistenza del collegio e potrebbe, in ogni caso, essere il frutto delle misure concordate con il creditore. Basterebbero, infatti, queste situazioni a pregiudicare l’indipendenza intellettuale del collegio occorrente per un effettivo vaglio critico”[58].

Diversamente, nell’epilogo ottimale, la crisi è composta con un accordo: se, all’esito delle trattative, il debitore raggiunge un accordo con i creditori circa la composizione della crisi in atto, tale accordo – stando a quanto prevede l’art. 19, comma 4, CCII – dovrà essere formalizzato per iscritto e depositato presso l’OCRI. La sua efficacia non si estende ai creditori che non vi abbiano partecipato (“a soggetti diversi da coloro che lo hanno sottoscritto”), ai quali non è neanche ostensibile (in altri termini, non può essere mostrato), salvo che il debitore – con il consenso dei creditori interessati[59] – preferisca richiederne l’iscrizione nel registro delle imprese.

La riservatezza rispetto ai soggetti diversi dai sottoscrittori evidenzia come la conclusione dell’accordo possa aver luogo senza dover previamente informare tutti i creditori risultanti dall’elenco – di cui al comma 3 dell’art. 19 – acquisito o predisposto dal collegio, e senza dover necessariamente assicurare agli stessi la possibilità di parteciparvi. Ciò “sembra denotare un apparentamento della figura di accordo in esame con il piano attestato di risanamento, di cui all’art. 67, comma 3, lett. d), l. fall. […], nella […] ricordata variante (peraltro diffusa) bi- o plurilaterale, concordata cioè con uno o più creditori più significativi[60].

Ma, in realtà, è lo stesso Codice nel comma 4 dell’art. 19 a precisare che l’accordo in questione produce gli stessi effetti degli atti esecutivi del piano attestato di risanamento; dal che deriva l’esenzione – in caso di successiva liquidazione giudiziale – dall’azione revocatoria di atti, pagamenti e garanzie concesse su beni del debitore posti in essere in esecuzione del piano stesso[61].

Il testo della disposizione in esame non rende ben chiaro se tale portata esiga l’iscrizione dell’accordo nel registro delle imprese. Ancora una volta, riesce a sopire i dibattiti interpretativi la Relazione illustrativa, nella quale l’iscrizione nel registro delle imprese, che rende l’accordo conoscibile a tutti, viene espressamente qualificata come facoltativa. Per di più, una soluzione che induce a negare ogni doverosità dell’iscrizione dell’accordo di cui all’art.19 è dettata anche dalla circostanza che l’art. 56 (disciplinante il piano di risanamento) non subordina affatto l’effetto dell’irrevocabilità all’iscrizione del piano, che resta puramente facoltativa.

L’accordo raggiunto all’esito di una procedura di composizione assistita è, sì, un contratto speciale – perché gli atti che vi danno esecuzione non saranno revocabili – ma resta comunque un contratto privato sottoscritto davanti a un soggetto terzo, che è l’OCRI. In quanto tale non può produrre quegli effetti esdebitatori che sono esclusivo appannaggio di procedure di natura pubblicistica, quali il fallimento o il concordato.

In ogni caso, “la composizione assistita, rispetto ad un piano attestato di risanamento, presenta più di un vantaggio per il debitore[62].

Pur essendo previsto un costo dell’OCRI, il procedimento favorisce un minor costo degli advisors, esclude il costo dell’attestazione[63] ed offre la possibilità di ottenere le misure protettive di cui all’art. 20 CCII. Infine, la presenza dell’OCRI e la predeterminazione della durata del processo dovrebbero garantire una maggiore speditezza delle trattative con i creditori.

2.2. Conclusione negativa del procedimento: esito concorsuale non volontario o segnalazione al Pubblico Ministero

Di una conclusione diversa dall’accordo si occupa l’art. 21 CCII il quale, considerato che alla scadenza del termine (tre mesi dall’istanza, prorogabili fino ad altri tre mesi) l’OCRI non può più proseguire la composizione assistita per evidente limite normativo, dispone che il collegio – in caso di mancato raggiungimento di un accordo – deve: a) in primo luogo, invitare il debitore a presentare entro 30 giorni domanda di accesso a una delle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza di cui all’art. 37 CCII (liquidazione giudiziale, concordato preventivo, accordo di ristrutturazione[64]), utilizzando la documentazione e l’attestazione di veridicità dei dati aziendali prodotta dallo stesso Collegio; b) in secondo luogo, dare comunicazione della conclusione negativa del procedimento ai soggetti di cui agli articoli 14 e 15 che non vi abbiano partecipato, vale a dire a quei soggetti che sarebbero stati legittimati ad avviare una procedura di allerta (organi di controllo societari e creditori pubblici qualificati)[65] e che vengono adesso reintegrati nella medesima legittimazione in caso di inattività del debitore.

Ma a ben vedere, affinché il collegio sia tenuto a formulare l’invito e ad inviare la comunicazione non è sufficiente il no deal, ossia la mancata conclusione di un accordo – anche parziale – con i creditori, nella quale è comunemente tipizzato l’insuccesso della procedura di composizione assistita. L’insuccesso in questione “non si gioca solo qui, non si misura solo su questo, sul cosiddetto no deal, sulla mancata conclusione di un accordo […] attraverso l’esecuzione del quale il debitore possa aspirare al superamento della crisi. Occorre anche che una situazione di crisi permanga, perché potrebbe anche darsi che, al di là di un accordo, la crisi sia nel frattempo ugualmente venuta meno”[66].

A tal proposito, considerato che gli eventi che l’art. 13 denomina indicatori di crisi costituiscono indici meramente indizianti dello stato di crisi (privi di presunzione assoluta), sembra opportuno che il riscontro sulla permanenza o meno dello stato di crisi vada eseguito dal collegio assumendo come parametro la nozione di “crisi” di cui all’art. 2, comma 1, lett. a), cioè “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore”; “rispetto a cui per le imprese l’insostenibilità nel semestre degli oneri dell’indebitamento con i flussi di cassa generati e l’adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi (aggiungendosi alla incapacità dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate) è dettata come forma di “manifestazione”, così assumendo la nozione, al pari della storica insolvenza, una portata prettamente fenomenologica”[67].

Una volta conclusasi negativamente la procedura, a salvaguardia della riservatezza e della confidenzialità delle trattative intercorse con i creditori, tutti gli atti relativi alla procedura di composizione assistita così come tutti i documenti acquisiti o prodotti nel corso del suo svolgimento potranno essere utilizzati – ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 21 – solamente nell’ambito di una liquidazione giudiziale o di un procedimento penale.

Aderendo all’invito del collegio, il debitore può incaricare i membri del collegio stesso di assisterlo nella presentazione della domanda di accesso ad una delle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza. Ma, giunti a tal punto, il procedimento di composizione assistita è da ritenersi chiaramente concluso.

Ciò implica che la predetta “assistenza” richiesta dal debitore debba configurarsi non tanto come una prosecuzione del ruolo di consulenza dell’organismo, bensì come oggetto di un regolare incarico professionale autonomo, che il debitore potrebbe eventualmente conferire anche ad altri professionisti, ma preferisce – allo scopo – i componenti del collegio, in ragione dei vantaggi in termini di tempi e costi derivanti dalla circostanza che quei soggetti sono già coscienti dei dettagli della crisi dell’impresa in questione ed in possesso della documentazione già acquisita durante l’esperimento del tentativo di composizione assistita.

L’esito della procedura di composizione assistita ha una rilevanza anche ai fini della determinazione del quantum da compensare all’OCRI.

Ai sensi dell’art. 23, tale compenso, se non pattuito con il debitore, verrà liquidato dal Presidente (o da un suo delegato) della sezione specializzata per l’impresa territorialmente competente per l’adozione delle misure protettive, applicando i criteri indicati dall’art. 351 e tenendo conto, separatamente, dell’attività svolta per l’audizione del debitore e per l’eventuale procedura di composizione assistita della crisi, nonché dell’impegno in concreto richiesto e degli esiti del procedimento. Tali compensi, peraltro, saranno prededucibili in caso di successiva apertura della liquidazione giudiziale, secondo quel che prevede l’art. 6, comma 1, lett. a), e ribadisce il comma 3 dello stesso art. 6.

La conclusione negativa della composizione assistita può anche essere oggetto di segnalazione al Pubblico Ministero da parte dello stesso Collegio degli esperti.

A chiarirlo è il disposto dell’art. 22, comma 1, CCII, ai sensi del quale,  ove all’esito infausto delle trattative il debitore non acceda nel termine assegnatogli ad una delle procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza, e il Collegio – preso atto di siffatto comportamento omissivo – dovesse ritenere che gli elementi acquisiti evidenzino la sussistenza di uno stato di insolvenza, lo segnala con relazione motivata al referente dell’OCRI che ne dà poi notizia al P.M.[68] competente ai sensi dell’art. 27 CCII e cioè presso l’ufficio giudiziario nel cui circondario si trova il COMI.

Va sottolineato che la comunicazione non innesca ex se un procedimento giurisdizionale e non impone affatto al P.M. di esercitare l’azione di avvio della liquidazione giudiziale o delle altre procedure liquidatorie. Egli, infatti, procederà in tal senso solo “quando ritiene fondata la notizia di insolvenza” (art. 22, comma 2, CCII), con il limite temporale – che non opera ove la notitia decoctionis gli sia pervenuta da altre fonti e per altra via – di 60 giorni dalla ricezione[69]. Resta inteso che, ove il P.M. lasci inutilmente decorrere siffatto termine, decade dalla possibilità di esercitare l’iniziativa di cui all’art. 38, comma 1, CCII: l’omessa o tardiva attività determinerà la chiusura della composizione assistita senza effetti giudiziali, a meno che l’iniziativa del P.M. non sia sostituita dai soggetti indicati dall’art. 37, comma 2 (organi e autorità amministrative che hanno funzioni di controllo e di vigilanza sull’impresa o uno o più creditori) che possono investire per conto proprio il tribunale ex art. 37.

Il secondo comma dell’art. 22, con la già ricordata formula “quando ritiene fondata la notizia di insolvenza”, rammentando puntigliosamente che l’azione ulteriore del P.M. non è affatto obbligata ma frutto di una sua autonoma valutazione circa la fondatezza dei presupposti di attivazione di una procedura giudiziale, sembra conformarsi perfettamente alle indicazioni contenute nella relazione di accompagnamento allo schema di legge delega per la riforma delle procedure concorsuali, soddisfacendo l’aspirazione in essa espressa: escludere in radice la derivazione automatica della liquidazione giudiziale dalla negativa conclusione del tentativo di composizione della crisi.

Nella relazione, infatti, si legge che “il ricorso alle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi non deve essere (e soprattutto non deve venir percepito come se fosse) un piano inclinato verso la liquidazione giudiziale dell’impresa”, considerato che – come si è visto – l’eventuale mancato o cattivo uso delle stesse procedure sia già sufficientemente sanzionato dalla previsione di disincentivi, anche in chiave di responsabilità civili e penali. L’instaurazione delle procedure giudiziali di insolvenza – aggiunge la relazione – deve aver luogo secondo le regole ordinarie e ad iniziativa dei soggetti a ciò legittimati, senza che “l’apertura di una procedura di liquidazione giudiziale sia fatta discendere in modo automatico dalla conclusione negativa del tentativo di composizione della crisi”.

Sulla scorta di simili precisazioni, era certamente prevedibile che il testo del nuovo Codice – come poi effettivamente è avvenuto – puntasse, almeno in astratto, sui caratteri della confidenzialità e della stragiudizialità delle procedure di allerta e composizione assistita, senza coinvolgimento dell’autorità giudiziaria se non su possibile richiesta del debitore, per l’adozione di misure protettive delle trattative.

Però, se, da un lato, la minore quota di giudizialità e coercitività dei procedimenti in questione può essere valutata come scelta virtuosa, in ragione dell’ “inevitabile effetto di deterrenza che produce sull’imprenditore in crisi la prospettiva di dovere eventualmente comparire dinanzi ad un giudice o di vedersi confrontato con un pubblico ministero che indaga sulla sua    situazione”; dall’altro lato, “la scelta di prevedere che, in caso di esito negativo della composizione assistita della crisi, se ne debba dare notizia al pubblico ministero per le eventuali iniziative di sua competenza non […] pare felice, né era necessaria giacché il mancato raggiungimento di soluzioni concordate con i creditori apre comunque la strada all’iniziativa di ciascuno di essi senza bisogno di aggiungervi la previsione di un intervento  pubblico” [70].

Resta, infatti, “difficilmente contestabile” che la possibilità di una finale segnalazione al P.M. in caso di insuccesso della procedura compositiva – tradendo gli intenti espressi nella relazione di accompagnamento, nonché realizzando ciò che espressamente si voleva evitare – “inclini quest’ultima verso lo sbocco liquidativo, quale deterrente rispetto ad un inadeguato impegno alla risalita (allora, su un piano appunto inclinato) da parte del debitore e insieme quale sanzione della sua inerzia”[71], a poco rilevando allora che il P.M. sia chiamato ad effettuare una autonoma valutazione sulla sussistenza dei presupposti della procedura giudiziale prima di procedere alla sua attivazione.

3. Le misure protettive nella composizione assistita della crisi: istanza, funzioni e contenuto

Le misure protettive, disciplinate dall’art. 20 CCII e riguardanti specificamente la composizione assistita, costituiscono – insieme alle misure premiali (di cui all’art. 25) riguardanti, come si vedrà, anche altre “procedure” previste nel Codice – figure assimilabili mutatis mutandis agli elementi accidentali del contratto, tenuto conto peraltro che l’accordo raggiunto all’esito della composizione assistita ha natura di contratto tout court. In quanto elementi accidentali, esse possono esserci come non esserci: nel senso che la procedura di composizione assistita potrà ugualmente compiersi e giungere tranquillamente al termine senza aver conosciuto misure protettive e senza che ad essa facciano seguito misure premiali.

Orbene, in ragione del fisiologico attenuarsi – nella composizione  assistita – dei criteri di confidenzialità e riservatezza che avevano permeato la fase dell’allerta, il Codice, al fine di tutelare gli interessi primari messi astrattamente in pericolo dalla crisi, ha voluto consentire al debitore di chiedere l’adozione delle misure protettive “necessarie per condurre a termine le trattative in   corso” (art. 20, comma 1, CCII), in una fase in cui il suo patrimonio – essendosi le difficoltà in cui versa palesate all’esterno – è inevitabilmente esposto a iniziative esecutive, al rischio di iscrizioni di ipoteche e al rischio che qualche creditore presenti il ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale[72].

L’art. 20 disciplina, rispettivamente nel primo e nel quarto comma, due diverse tipologie di misure protettive, che si distinguono in relazione sia all’oggetto alla cui tutela sono rivolte, sia – almeno in parte – ai presupposti necessari per avanzare la relativa istanza.

Per cominciare, le misure di cui tratta la prima parte dell’art. 20 attengono alla conservazione della stabilità patrimoniale del debitore. La lettera della legge, limitandosi a stabilire che esse devono risultare necessarie al fine di concludere le trattative in itinere[73], non ne indaga approfonditamente il contenuto e lascia così spazio ad una interpretazione piuttosto indeterminata sul punto. Ciò, unitamente alla minima tipizzazione offerta dalle “Definizioni” dell’art. 2 (che,  alla lettera p, qualifica le misure protettive quali “misure temporanee disposte dal giudice competente per evitare che determinate azioni dei creditori possano pregiudicare, sin dalla fase delle trattative, il buon esito delle iniziative assunte per la regolazione della crisi o dell’insolvenza”), induce a ritenere che le misure “appaiono modulari, cioè adattabili in relazione all’utilità protettiva, probabilmente proponibili nel loro dettaglio dallo stesso debitore e dunque concedibili ove e nei limiti in cui assolvano allo scopo di necessaria inerenza al condurre a termine le trattative in corso”[74].

Il procedimento per ottenere le misure protettive di tipo patrimoniale costituisce la più importante inserzione giurisdizionale negli istituti della concorsualità preventiva, e d’altronde “non poteva essere altrimenti visto che […] si tratta di disporre dei diritti, anche se potenziali, dei creditori che, peraltro, sempre in via astratta, in questa fase assumono la veste di contraddittori del debitore”[75].

Competente per la decisione su tali misure è la sezione specializzata in materia di impresa, individuata in base all’art. 4 del D. Lgs. 27 giugno 2003, n. 168, vale a dire in base alla sede legale dell’impresa e non in base al “centro principale di interessi del debitore”, criterio invece scelto dall’art. 27, comma 2, CCII per incardinare la competenza del Tribunale nei procedimenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza. In verità, se già soltanto a considerare la minore diffusione territoriale degli uffici giudiziari delle sezioni specializzate per l’impresa rispetto a quelli dei Tribunali ordinari, non tanto si comprendono le ragioni della diversa soluzione, essa appare ancora più irragionevole ove si consideri: a) in primo luogo, che in caso di esito negativo della procedura di composizione assistita nel cui ambito sono state adottate misure protettive mediante istanza alla sezione specializzata, l’avvio di una delle procedure di regolazione delle crisi o dell’insolvenza debba avvenire davanti al Tribunale ordinario individuato, stavolta, in base al COMI; b) in secondo luogo che – come si è visto – al P.M. del medesimo Tribunale vada fatta la segnalazione ex art. 22 da parte dell’OCRI.

Nonostante l’art. 4, comma 1, lett. g) della legge delega contemplasse la possibilità che potesse avanzare domanda per l’adozione delle misure protettive sia il debitore che avesse presentato domanda di composizione assistita della crisi, sia il debitore che fosse stato semplicemente convocato davanti al Collegio (in seguito all’attivazione degli strumenti di allerta), il legislatore delegato – mediante una limitazione della suddetta previsione legislativa – ha preferito consentire la richiesta di misure protettive solo al “debitore che ha presentato istanza per la soluzione concordata della crisi” (art. 20, comma 1, CCII), cioè che abbia chiesto la composizione assistita.

L’opzione scelta dal legislatore delegato sembra, peraltro, allinearsi al dettato della Direttiva (in materia di insolvenza) UE 2019/1023, il cui art. 6, par. 1, impone agli Stati membri di provvedere “affinché il debitore possa beneficiare della sospensione delle azioni esecutive individuali al fine di agevolare le trattative sul piano di ristrutturazione nel contesto di un quadro di ristrutturazione preventiva”[76].

Ma è il caso di rilevare che, per avanzare la richiesta di misure protettive, neppure è sufficiente la sola domanda di composizione assista, seppur tempestiva. Imprescindibile presupposto per la richiesta delle misure è anche (quindi, in una prospettiva diametralmente opposta a quella adottata nella legge delega, che ne aveva sancito l’alternatività) che il debitore abbia avuto un confronto sulla sua situazione di crisi con un organismo terzo – nello specifico, l’OCRI – prima di approdare alla composizione assistita[77].

Lo stesso comma 1 dell’art. 20 esordisce affermando: “dopo l’audizione di cui all’articolo 18”, ossia dopo aver avuto un colloquio con gli esperti del Collegio (e, chiaramente, dopo aver proposto istanza per la soluzione concordata della crisi), il debitore è autorizzato a richiedere le misure di protezione.

Probabilmente “la ragione di questo passaggio sta […] nella considerazione per la quale solo dopo l’audizione del debitore possono dirsi effettivamente verificate quelle condizioni di crisi per le quali appare utile intervenire con l’adozione di misure protettive. Il legislatore, in altre parole, sembra voler evitare che l’imprenditore si possa rivolgere alle sezioni specializzate per ottenere provvedimenti sui diritti dei creditori a suo favore senza un passaggio che ne testimoni la fondatezza, lasciando altrimenti l’iniziativa al suo arbitrio. Altra ragione sembra risiedere nel fatto che con l’audizione si incardina il collegio OCRI che […] potrebbe risultare l’unico interlocutore al quale il tribunale si rivolge per ottenere i chiarimenti necessari ad un procedimento giurisdizionale che, sebbene in astratto abbia natura contenziosa, si sviluppa con modalità libere e con forme che non sono indispensabili al fine del decidere”[78].

In virtù di quanto stabilito nel secondo comma dell’art. 9 CCII, l’istanza del debitore richiede il patrocinio obbligatorio del difensore e – sulla scorta di quanto viene stabilito dal primo comma della norma citata – alla procedura in questione non è applicabile la sospensione feriale dei termini. In tema di compenso del difensore, va precisato che si tratta di credito non prededucibile, conformemente a quanto stabilito dal terzo comma dell’art. 6, ai sensi del quale “non sono prededucibili i crediti professionali per prestazioni rese su incarico conferito dal debitore durante le procedure di allerta e di composizione assistita della crisi a soggetti diversi dall’OCR”I[79].

Si è detto che nell’istanza il debitore dovrà indicare le misure protettive specificamente richieste (in relazione al caso concreto) e funzionali ad assolvere allo scopo cui esse sono ex lege destinate. A ciò va aggiunto che, inserendosi la richiesta del debitore in un procedimento a tutti gli effetti giurisdizionale, dovrebbe valere anche per esso il principio della corrispondenza fra chiesto e pronunciato sancito dall’art. 112 c.p.c.: ne deriva, allora, una conferma al dato per cui l’istanza del debitore non può essere del tutto generica, perché – proprio in virtù del citato principio – non può farsi seguire un provvedimento giudiziale ad una richiesta atipica o in bianco.

La stessa operatività del principio in questione – che regge anche la domanda cautelare – è stata posta come ulteriore argomento a sostegno della tesi per cui è difficile negare un accostamento delle misure protettive a quelle con funzione cautelare. Pur dovendosi infatti escludere – per le prime – una struttura propriamente strumentale e cautelare, in quando non collegate – a differenza delle seconde – all’esercizio di una specifica azione cognitiva, esse hanno comunque la finalità di assicurare il buon esito delle iniziative assunte e lo scopo (in un’ottica, appunto, cautelare) di salvaguardare l’integrità della massa fallimentare nel caso in cui dovesse registrarsi una conclusione negativa della composizione assistita, evitando che il patrimonio del debitore subisca le incursioni dei singoli creditori nel tempo necessario per esperire il tentativo di composizione.

Sull’argomento è, invece, di contrario avviso altra dottrina che risalta la differenza delle misure protettive da quelle cautelari, sostenendo che “mentre le misure cautelari del Codice della crisi dell’impresa sono, in tutto e per tutto, corrispondenti alle altre misure cautelari presenti nel campo del diritto civile, le misure protettive sono – al contrario – qualcosa di assolutamente nuovo e singolare, poiché con esse non si chiede al giudice un provvedimento in funzione di un diritto, ma un provvedimento contra ius in funzione della regolazione della crisi […].

La novità della misura protettiva, secondo la prospettiva in esame, sarebbe proprio questa: “immaginare che si possa aver diritto a chiedere non l’attuazione della legge ma la sua disapplicazione”[80]

Ad ogni modo, resta difficilmente revocabile in dubbio che il legislatore delegato abbia voluto sottolineare l’identità funzionale delle misure cautelari e delle misure protettive, anche perché ha affidato la disciplina di entrambe alla medesima disposizione del Codice – l’art. 54 – che ha ad oggetto, oltre alle misure cautelari, le misure protettive adottabili nel corso del procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale o della procedura di concordato preventivo o di omologazione degli accordi di ristrutturazione.

In particolare, l’art. 54 denomina come misure protettive quelle del secondo comma, che il debitore deve espressamente richiedere nella domanda di accesso a una delle procedure menzionate e che si identificano nel blocco o nella sospensione delle azioni esecutive e cautelari, nella sospensione della prescrizione e nella neutralizzazione delle decadenze. Il comma in esame ci aiuta, peraltro, a comprendere maggiormente il possibile contenuto delle misure protettive di cui all’art. 20 CCII perché, sul presupposto che queste ultime siano le stesse delle misure di cui al secondo comma dell’art. 54, il legislatore delegato ha contemplato nel quarto comma dell’art. 54 la possibilità che le misure protettive di cui al comma 2 siano richieste “ai sensi dell’art. 20” dal debitore che abbia proposto istanza per la soluzione concordata della crisi.

Tuttavia, una fondamentale differenza tra le misure di protezione previste dall’art. 54, comma 2, e le misure di cui all’art. 20 va rintracciata sul terreno dell’automaticità degli effetti delle misure stesse.

Preliminarmente, si osserva che nel Codice della crisi il carattere di automaticità risulta generalmente depotenziato risetto al sistema precedente. Infatti, in base alle norme finora vigenti, era previsto che la pubblicazione nel registro delle imprese della domanda di accesso alle procedure di regolazione della crisi determinasse – secondo il fenomeno definito automatic stay – l’automatica sospensione delle azioni esecutive sul patrimonio del debitore. Il legislatore delegato, invece, ha previsto – in relazione, per i fini che qui interessano, alle misure protettive di cui all’art 54, comma 2 – che il debitore, per ottenere l’operatività della misura, ne deve fare specifica istanza nella domanda di avvio della procedura di regolazione prescelta. Solo una volta adempiuto tale onere, l’effetto si determina automaticamente, successivamente alla pubblicazione della domanda nel registro delle imprese. Però, in ossequio alle indicazioni del diritto dell’Unione[81] che subordina la produzione degli effetti protettivi ad un vaglio, caso per caso, dell’autorità giudiziaria, a non essere più automatica è “la protrazione dello stay, occorrendo un’espressa conferma di esso da parte del tribunale, a pena di decadenza, entro 15 giorni dalla pubblicazione suddetta”[82].

Diversamente, per quanto riguarda le misure protettive connesse con la composizione assistita della crisi, l’automatismo è escluso a monte: esse non scattano automaticamente con l’istanza del debitore che sia pubblicata nel registro delle imprese, bensì devono – ai sensi dell’art. 20 – essere espressamente disposte dalla sezione specializzata in materia di impresa.

In ogni caso, la sostanziale identità – in termini di contenuto – delle misure protettive di cui agli artt. 54, secondo comma, e 20, primo comma, permette anche di approdare ad una soluzione definitiva sul tema che concerne la durata di siffatte misure.

Orbene, il terzo comma dell’art. 20 stabilisce che la durata iniziale delle misure protettive della procedura di composizione assistita “non può essere superiore a tre mesi[83] e può essere prorogata anche più volte, su istanza del debitore, fino al termine massimo di cui all’art. 19, comma 1 [vale a dire, ulteriori tre mesi], a condizione che siano stati compiuti progressi significativi nelle trattative tali da rendere probabile il raggiungimento dell’accordo[84] […].

Ora, posto che l’art. 8 CCII, conformemente alle sollecitazioni europee[85],  pone la regola generale per cui “la durata complessiva delle misure protettive non può superare il periodo, anche non continuativo, di dodici mesi, inclusi rinnovi o proroghe”, ci si è chiesti in dottrina come dovesse essere computato il termine di durata massima laddove, successivamente alla conclusine negativa della composizione assistita in cui erano state concesse misure protettive ex art. 20, il debitore – nel presentare domanda di apertura di una delle procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza – chieda che scattino nuovamente le misure protettive, stavolta ex art. 54, comma 2.

In verità, si riesce a dare agevole risposta all’interrogativo in oggetto proprio valorizzando la coincidenza tra le misure protettive dell’art. 54 e quelle dell’art. 20, e tenendo in considerazione che la previsione dell’art. 8 “non distingue affatto fra la diversa origine delle misure protettive o la diversa fonte delle stesse ed è da ritenere, dunque, applicabile a prescindere dal contesto in cui le misure protettive siano state disposte”.

Né potrebbe eludersi il limite temporale massimo stabilito dall’art. 8 trasformando le misure protettive in misure cautelari, “per le quali il limite dell’art. 8 non trova applicazione, essendo evidente che le due categorie di misure non sono interscambiabili, come chiaramente emerge sia dagli artt. 54 e 55, che le disciplinano come misure di natura diversa, sia dall’art. 20, che – proprio sul presupposto della differente natura – ammette la concessione delle une (quelle protettive), ma esclude quella della altre (quelle cautelari)”[86].

Come già anticipato, la seconda parte dell’art. 20 – precisamente il quarto comma – prevede un’ulteriore misura protettiva che riguarda gli obblighi societari, ampliando così la definizione di misure protettive, che – secondo la tipizzazione dell’art. 2 lett. p) e dell’art. 54, comma 2 – dovrebbero includere solo quelle di tipo patrimoniale.

Tra le misure protettive che il debitore può sottoporre al vaglio giurisdizionale, la norma contempla: il differimento degli obblighi previsti dagli artt. 2446, 2° e 3° comma, 2477, 2482-bis, 4°, 5° e 6° comma, e 2482-ter c.c., ossia l’obbligo di intervenire sul capitale sociale in presenza di perdite oltre un terzo o di azzeramento del capitale stesso. Il debitore può inoltre ottenere anche la non operatività della causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale, di cui agli artt. 2484, 1° comma, n. 4, e 2545-duodecies c.c.

Può essere già rilevato che la norma in esame ha una duplice valenza. “Essa, infatti, esonera i soci delle società di capitali dall’onere di immettere nel circuito patrimoniale della società nuove risorse per rispristinare il capitale sociale ormai eroso, quale alternativa allo scioglimento della società. Per altro verso, la stessa interviene proprio sull’obbligo di procedere allo scioglimento a cui è legato l’ulteriore obbligo di gestire la società, una volta appurata la perdita del capitale, con un criterio meramente conservativo, in attesa di approdare alla fase della vera e propria messa in liquidazione. Nelle intenzioni del legislatore la perdita del capitale sociale non deve rappresentare, durante la composizione assistita, un vincolo alla gestione economica”[87].

La sospensione di tali obblighi – che, secondo il dettato della disposizione, dovrebbe operare fino alla conclusione del procedimento di composizione assistita della crisi – è volta all’obiettivo di salvaguardare la continuità aziendale, quindi mira a proteggere un’aspettativa piuttosto che un bene concreto, e si fonda sul presupposto che l’improvvisa e prolungata interruzione del ciclo economico dell’impresa rischierebbe di ulteriormente mortificare l’interesse dei creditori.

Già da tempo le sollecitazioni di stampo comunitario, in effetti, hanno abbracciato – nel diritto concorsuale – una tendenza che privilegia la continuità d’impresa, il salvataggio dei cicli economici e la protezione dei valori aziendali. Ma ciò significa accettare un rischio che è di gran lunga più elevato rispetto a quello che verrebbe scaricato sulla compagine creditoria ove venissero disposte misure protettive di tipo patrimoniale, dirette a preservare – in quanto tali – un valore statico e non dinamico. In altri termini, “mantenere in atto il circuito produttivo e commerciale dell’impresa in crisi nel corso di una fase nella quale si tenta un approccio negoziale per il suo salvataggio, non offre di per sé alcuna assicurazione che il bene, in astratto tutelato, sia effettivamente utile alla causa dei creditori in ragione delle incertezze implicite alla prosecuzione di un’attività di impresa, per la quale non si può escludere a priori che essa non comporti un aggravamento delle condizioni patrimoniali e finanziarie dell’imprenditore, già entrato nel tunnel della crisi”[88].

Il comma 4 dell’art 20 aggancia la richiesta, da parte del debitore, delle misure protettive (atipiche) sulla continuità al solo presupposto che sia stato avviato il procedimento di composizione assistita della crisi di cui all’articolo 19, tralasciando – a differenza di quanto previsto per l’istanza volta ad ottenere le misure protettive patrimoniali – il passaggio dell’audizione del debitore prevista dall’articolo 18. Contestualmente, non sembra rinvenirsi un richiamo agli articoli 54 e 55 – seppur limitato dalla clausola della compatibilità – per disciplinare l’applicazione delle misure e il procedimento per la richiesta e concessione delle stesse: richiamo presente, invece, come a breve si vedrà, nella disposizione (art. 20, comma 2) riferibile alle misure protettive tipiche.

A ben vedere, comunque, è la mancata previsione della necessarietà dell’audizione ex art. 18 a suscitare particolari perplessità, perché essa potrebbe costituire un non secondario difetto nella struttura del procedimento. Infatti, posto che il secondo comma dell’art. 20 dispone che il Tribunale – nel decidere sulla concessione delle misure – può sentire i soggetti che abbiano effettuato la segnalazione all’OCRI ovvero lo stesso presidente del Collegio degli esperti, il mancato passaggio dell’audizione del debitore finirebbe per sottrarre al Tribunale gli interlocutori dai quali ottenere le indispensabili informazioni per decidere.

Il debitore allora, potrebbe benissimo domandare la protezione sulla continuità prima di ogni allerta o convocazione presso l’organismo di composizione, adducendo quale unica argomentazione a sostegno dell’istanza, volta ad ottenere l’esenzione dalla regola “ricapitalizza o liquida”[89], la sola presenza del procedimento finalizzato ad una soluzione concordata della crisi[90].

3.1. Segue: profili procedurali

Per il procedimento di concessione delle misure protettive, l’art. 20, comma 2, rinvia al modello degli artt. 54 e 55, applicabili secondo un criterio di compatibilità. Dunque, sembra opportuno chiarire quali punti della disciplina di cui agli artt. 54 e 55 siano condivisibili con la procedura di cui all’art. 20.

Per cominciare, un primo interrogativo concerne la compatibilità, con la procedura dell’art. 20, del quinto comma dell’art. 54, il quale – relativamente alle misure protettive ordinarie (vale a dire, connesse ad una procedura di regolazione della crisi e dell’insolvenza diversa dalla composizione assistita) – prevede che il presidente del Tribunale o della sezione, cui è assegnata la trattazione della procedura, “fissa con decreto l’udienza entro un termine non superiore a trenta giorni dal deposito della domanda” oppure entro un termine non superiore a 45 giorni con provvedimento motivato e, “all’esito dell’udienza, provvede, senza indugio, con decreto motivato, fissando la durata delle misure”.

È dubbio che tale procedimento si applichi per intero all’art. 20 perché, come si è già rilevato, nella composizione assistita non ci sono effetti protettivi automatici e la seconda parte della disposizione citata fa implicitamente riferimento alle misure protettive automatiche di cui al secondo comma dello stesso art. 54. Invece, “nel caso delle misure protettive connesse alla composizione assistita […], la sezione specializzata dovrà decidere anzitutto sull’an delle misure richieste e poi stabilire anche la durata […][91].

Dubbi sorgono anche sull’organizzazione del procedimento. La norma di rinvio, cioè l’art. 55, prevede al primo comma – di regola – la designazione di un magistrato delegato che diviene giudice relatore del sub-procedimento avente ad oggetto proprio la fissazione della durata delle misure protettive, considerato che esse scattano in maniera automatica.

Quanto alle misure protettive di cui all’art. 20, il modulo procedurale non dovrebbe essere il medesimo, sia perché la competenza è della sezione specializzata per l’impresa, sia perché lo stesso art. 20, al comma 2, utilizza la locuzione “tribunale”, facendo intendere che la procedura per l’esame dell’istanza di misure protettive connesse alla composizione assistita debba svolgersi integralmente davanti al Collegio e non al singolo giudice relatore.

Relativamente al modus procedendi del Tribunale per decidere sulle misure protettive ordinarie, il terzo comma dell’art 55 stabilisce che il giudice – dovendo esprimersi unicamente sulla durata delle misure stesse (connotate da automaticità degli effetti) – assume “ove necessario, sommarie informazioni”.

Ma quando si tratta delle misure protettive dell’art. 20, avendo in tal caso la valutazione del giudice ad oggetto proprio la concessione delle misure richieste (oltre che la loro durata), è davvero difficile pensare che alla sezione specializzata – ai fini della decisione – possa bastare l’eventuale assunzione di sommarie informazioni, senza instaurare il contradditorio con il debitore richiedente e con gli altri soggetti controinteressati.

Invero, pur in assenza di una specifica disposizione, sembra doversi ritenere che, come minimo, “il debitore non potrà sottrarsi al deposito di un elenco dei creditori, altrimenti il procedimento giurisdizionale mancherebbe nell’individuazione, anche se solo potenziale, di una delle parti”[92].

Senza considerare che lo stesso art. 4, 1° comma, lett. g) della legge delega n. 155/2017, parlando proprio delle misure protettive connesse alla composizione assistita della crisi, sottolinea che il legislatore delegato avrebbe dovuto prevedere la possibilità al debitore “di chiedere alla sezione specializzata in materia di impresa l’adozione, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, delle misure protettive necessarie per condurre a termine le trattative in corso”. E allora, sembra essere in contrasto con la stessa legge delega l’eventualità che, per l’adozione di tali misure, si possa seguire un procedimento che non assicura affatto il contraddittorio[93].

In ogni caso, l’opzione più ragionevole sembra essere che la sezione specializzata in materia di impresa si pronunci con ordinanza secondo le modalità indicate dall’art. 55, comma 2, relativamente all’adozione delle misure cautelari. La norma in esame, infatti, dispone che “il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione alla misura richiesta”.

Piuttosto scontata è, invece, l’applicazione, anche al provvedimento di pronuncia sulle misure di cui all’art. 20, del terzo comma dell’art. 55, il quale prevede che il provvedimento[94] vada trasmesso, a cura della cancelleria, al registro delle imprese per l’iscrizione. Potrebbe obiettarsi che questa previsione si pone in apparente conflitto con il carattere di riservatezza della procedura di composizione assistita. Ma il rilievo è agevolmente superabile constatando che “non avrebbe senso reclamare una misura di natura giurisdizionale senza che la stessa sortisca gli effetti desiderati, ossia che sia resa applicabile, quindi conoscibile, a tutti i destinatari, ovvero i creditori"[95].

La pubblicità del provvedimento, del resto, è l’unico strumento idoneo a rendere conoscibili ai terzi interessati (id est: i creditori) le misure in questione, al fine di consentire ad essi di far valere – in sede di impugnazione – le ragioni sottese all’opposizione verso il permanere delle misure.

Il regime impugnatorio è quello dettato dall’art. 124 CCII, per espresso rinvio dell’art. 55, terzo comma: se la competenza è del tribunale collegiale, il provvedimento sarà reclamabile davanti alla Corte d’Appello (sia nel caso in cui il provvedimento impugnato sia di accoglimento dell’istanza del debitore, sia nel caso opposto); se la competenza è del tribunale in composizione monocratica, al tribunale stesso può essere proposto reclamo – di volta in volta – dai terzi interessati o dal debitore, in ragione della soccombenza.

Sempre il dettato dell’art. 124 permette di stabilire sia il termine breve di proposizione del reclamo (10 giorni), sia la sua decorrenza (dalla comunicazione per il debitore e le parti; dall’iscrizione nel registro delle imprese per gli altri interessati), sia il termine lungo (90 giorni dal deposito del provvedimento nel fascicolo della procedura). Va rilevato, inoltre, che la pendenza del reclamo non sospende l’esecuzione e l’esecutività del provvedimento impugnato (art. 124, 4° comma), e che avverso la decisione sul reclamo non è possibile esperire il ricorso per cassazione, stante la natura provvisoria e lato sensu cautelare delle misure protettive.

In ultima analisi, va rivolta qualche considerazione al tema della revoca delle misure protettive. L’ultimo comma dell’art. 20 dispone, in piena aderenza al dettato dell’art. 4, 1° comma, lett. g), della legge delega n. 155/2017, che “le misure concesse possono essere revocate in ogni momento, anche d’ufficio, se risultano commessi atti di frode nei confronti dei creditori o se il collegio di cui all’articolo 17 [si intende, il Collegio degli esperti dell’OCRI] segnala al giudice competente che non è possibile addivenire a una soluzione concordata della crisi o che non vi sono significativi progressi nell’attuazione delle misure adottate per superare la crisi”.

Se, da un lato, la prima parte della disposizione rivela con molta chiarezza l’intento di arginare l’azione fraudolenta del debitore nei confronti dei creditori, dall’altro lato, è stato da più parti osservato che la parte finale del comma riportato solleva alcune criticità, che ne rendono meno agevole l’interpretazione.

Esplicitando, la seconda parte della disposizione sembra attribuire all’OCRI il potere-dovere di riferire al Tribunale delle imprese alcune circostanze, emerse durante le trattative, che parrebbero essere limitate alla sola impossibilità di addivenire ad un accordo, risultando invece escluse quelle condizioni che pure potrebbero costituire un rischio per i creditori: si pensi, ad esempio, alla concessione di una misura protettiva che si riveli successivamente dannosa per i creditori senza, però, che risulti integrato il presupposto della frode; ovvero al caso del debitore che, durante la composizione assistita, abbia richiesto la protezione sulla continuità aziendale sopravvalutando l’idoneità della gestione – medio tempore – a sostenere le ragioni del ceto creditorio.

A ben vedere, però, si potrebbe recuperare il potere-dovere del Collegio, durante la composizione assistita, di verificare e poi di riferire che la continuità non produce le utilità attese, e che riduce – al contrario – le speranze dei creditori, valorizzando l’ultimissima precisazione del comma in esame in cui si dispone che la segnalazione può riguardare anche i casi in cui “non vi sono significativi progressi nell’attuazione delle misure adottate per superare la crisi”. Si tratta, effettivamente, di una valutazione ben diversa dall’impossibilità di raggiungere un accordo.

D’altronde, “nella stessa direzione sembra andare anche il comma 4° dell’art. 55 del CCII che detta una regola all’apparenza generale, ma che in realtà è specifica per la procedura nella quale si incardinano le misure in esame. Il tribunale, infatti, potrà revocare le misure protettive anche se l’attività intrapresa dal debitore non è idonea a pervenire alla composizione assistita"[96].

In termini di procedimento da seguire per la revoca, si deve far capo – ancora una volta – all’art. 55, 4° comma, in cui si prevede il procedimento per la revoca sia delle misure protettive ordinarie, sia di quelle connesse alla composizione assistita della crisi. Se ne ricava che la sezione specializzata, sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procederà nel modo che ritiene più opportuno all’assunzione degli atti di istruzione e deciderà sulla revoca delle misure[97].

4. Le misure premiali

È ormai pacifico che di fondamentale importanza è la tempestività dell’emersione della crisi, al fine della migliore riuscita della composizione bonaria della crisi stessa. Il legislatore delegato, in questa prospettiva, oltre ad aver previsto – come si è già visto – un sistema incentivante (ad effettuare le segnalazioni di allarme) operante per gli organi di controllo e i creditori qualificati, ha istituito un sistema di “misure premiali” – utilizzando una locuzione tipica del diritto penale – per l’imprenditore che acceda tempestivamente alla procedura di allerta in senso lato, ovvero ad una delle procedure regolatrici della crisi o dell’insolvenza disciplinate dal Codice[98].

Circa il requisito della tempestività, l’art. 24, 1° comma, definisce in negativo, come non tempestiva, la domanda di accesso alle procedure del Codice se avanzata dopo sei mesi per le procedure concorsuali ordinarie regolate dal CCII[99], e dopo tre mesi per la composizione assistita, da quando si sono registrati eventi – tipizzati dalla stessa norma – indicativi della situazione di crisi. Il termine entro il quale sussiste tempestività decorre: a) dall’esistenza di debiti retributivi scaduti da almeno sessanta giorni e pari ad oltre la metà del totale mensile delle retribuzioni; b) dall’esistenza di debiti verso fornitori scaduti da almeno centoventi giorni per un totale superiore a quello dei debiti non scaduti; c) con il superamento, nell’ultimo bilancio approvato o comunque per oltre tre mesi, degli indici elaborati ai sensi dell’art. 13, commi 2 e 3, dal CNDCEC o dalla stessa impresa e attestati come adeguati da un professionista indipendente.

Considerate le conseguenze che ne derivano ai fini delle misure premiali, l’art. 24, 2° comma, prevede che la tempestività – anche in virtù della complessità del relativo accertamento – debba essere attestata dal presidente del Collegio dell’OCRI su istanza del debitore, in modo che l’imprenditore possa invocare il titolo premiale quale elemento di prova in ordine alla diligenza della propria condotta nell’ambito di eventuali procedimenti a suo carico, tanto civili, quanto penali, in ipotesi di successiva apertura di procedura concorsuale. Sta di fatto, però, che prevedere la necessarietà della citata attestazione – il cui ottenimento resta meramente eventuale – significa “alterare l’oggettiva formazione di un requisito fondante la concessione delle misure, differendone l’effettività ad un contenzioso interno ai procedimenti, a cominciare da quello della composizione assistita"[100].

A ben vedere, accanto al requisito della tempestività, l’art. 25 aggiunge due ulteriori condizioni che consentono all’imprenditore di beneficiare – anche cumulativamente – delle misure premiali contemplate dallo stesso art. 25, primo e secondo comma. Tali condizioni sono, da un lato, che l’imprenditore abbia attuato secondo buona fede le prescrizioni del collegio nominato dall’OCRI, dall’altro, che le sue domande di accesso ad una delle procedure regolatrici della crisi o dell’insolvenza previste dal CCII non siano state dichiarate inammissibili.

Le misure premiali, di cui all’art. 25, comma 1, lett. a), b) e c), consentono all’imprenditore di godere di una considerevole attenuazione della propria responsabilità patrimoniale. Ciò ha sollevato perplessità in parte della dottrina, che si è chiesta perché mai i terzi (creditori) che abbiano già subito danno dagli amministratori (in quanto conduttori di una cattiva gestione che ha spinto l’impresa verso il declino) debbano subire una riduzione delle loro pretese.

Dal punto di vista della giustizia commutativa, si evince qualcosa di “evidentemente storto” perché i terzi finirebbero per finanziare economicamente le misure premiali previste per gli amministratori che li hanno danneggiati.

Per superare le criticità, potrebbe sostenersi che le misure premiali giovano anche ai danneggiati perché, incentivando gli amministratori a reagire tempestivamente, permettono di arginare i danni per la collettività.

Ma, in realtà, questa tesi viene facilmente scartata dalla considerazione che “chi è stato già vittima di un danno risarcibile cessa di far parte della collettività indifferenziata dal momento in cui è stato pregiudicato: da quel momento il danno fa la differenza. Non si vede perché egli dovrebbe subire un esproprio totale o parziale del suo credito a beneficio di una collettività che, in quanto danneggiato, non lo rappresenta”.

Una soluzione forse può rintracciarsi ipotizzando che il legislatore, più che penalizzare quanti già abbiano subito un danno, “abbia voluto riferirsi alla responsabilità degli amministratori verso coloro che potrebbero essere danneggiati dalla loro inerzia dopo che i famosi parametri si sono verificati"[101].

La riduzione della responsabilità patrimoniale dell’imprenditore rileva, allora, quale mera conseguenza di fatto dell’aver presentato tempestivamente istanza per la regolazione della crisi: circostanza che lo rende immune da eventuali rimproveri di aver ritardato negligentemente le misure necessarie a contenere la crisi.

Proseguendo nella lettura del primo comma dell’art. 25, ulteriore misura premiale (lett. d) – stavolta di natura processuale – è il raddoppio del termine della proroga che il giudice può concedere per il deposito della proposta di concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell’art. 44 CCII, a meno che l’OCRI non abbia chiuso la procedura di composizione assistita con notitia decoctionis al PM[102].

Infine, restando nella prospettiva concordataria, la lett. e) prevede che per rendere inammissibile la proposta concorrente, è sufficiente l’attestazione che la proposta concordataria del debitore assicuri “il soddisfacimento dei crediti chirografari in misura non inferiore al 20% dell’ammontare complessivo”.

Quanto alle misure personali previste dal secondo comma dell’art. 25, esse concernono interventi sulla responsabilità penale per le sole condotte antecedenti l’assunzione tempestiva dell’iniziativa, vale a dire poste in essere prima dell’apertura della procedura.

Il legislatore delegato ha introdotto una causa di non punibilità – nell’ipotesi in cui il danno è di speciale tenuità – non solo per la bancarotta semplice (per la quale l’art. 131-bis c.p. già esclude la punibilità per particolare tenuità del fatto, in presenza di condotte non abituali), ma anche per la bancarotta fraudolenta e gli ulteriori reati menzionati dall’articolo 25 CCII.

Ne deriva una notevole riduzione dell’area del rischio penale, perché la suddetta misura premiale “tutela l’assai frequente circostanza che condotte di non corretta destinazione dei beni dell’impresa, ma con effetti depauperativi del patrimonio estremamente modesti e con incidenza minima se non quasi nulla sul soddisfacimento dei creditori, poste in essere anche in epoca assai risalente, assumano a seguito dell’apertura della procedura concorsuale rilevanza come reati di bancarotta fraudolenta"[103].

Invece, al di fuori dell’ipotesi di danno di speciale tenuità – ma a condizione che il danno sia comunque di ammontare non superiore a due milioni di euro e risulti all’atto dell’apertura della procedura concorsuale un attivo inventariato o offerto ai creditori che consenta il soddisfacimento di almeno un quinto dell’ammontare dei crediti chirografari – è prevista una circostanza attenuante ad effetto speciale, con riduzione della pena fino alla metà[104].

“L’attenuante spetta, di conseguenza, solo nei casi in cui alla tempestività dell’iniziativa si accompagni un soddisfacimento non irrisorio dei creditori ed un danno non esorbitante, giacché solo in questi casi può ritenersi che la tempestività dell’iniziativa abbia prodotto effetti positivi in termini di conservazione del patrimonio"[105].

5. Considerazioni conclusive

Rappresentando un necessario allineamento agli orientamenti comunitari e di altri ordinamenti europei, l’introduzione anche nel nostro ordinamento dei meccanismi lato sensu di allerta va tendenzialmente salutata con favore, sebbene non risulti arduo sollevare rilievi contro le non poche ambiguità del testo normativo di nuovo conio.

L’interprete, inizialmente animato da un naturale entusiasmo per le “novità” recate dal Codice, non può successivamente non constatare che il testo in questione risulti “sensibilmente perfettibile e dunque ben lontano dal poter essere considerato, per dirla con Leibniz […], il migliore dei mondi possibili"[106].

In primo luogo, la disciplina dell’allerta e del procedimento di composizione assistita pecca di una certa macchinosità procedimentale appesantita da un’eccessiva burocratizzazione, che rischia di far consumare inutilmente tempo e risorse.

La minuzia di disposizioni previsionali che stabiliscono ossessivamente indicatori ed indici quantitativi, sia per stabilire quando sorge l’obbligo di segnalazione della crisi sia per l’applicazione di misure premiali o sanzionatorie per chi (imprenditore o creditori pubblici qualificati) abbia rispettato o eluso quegli obblighi, potrebbe costituire terreno fertile per il sorgere di controversie nella fase attuativa di tali istituti.

Ma, soprattutto il carattere “sovrabbondante” delle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi – nutrite da una serie di adempimenti fin troppo dettagliatamente prescritti –, rischia di conferir loro una arcigna fisionomia, similmente a quella delle procedure concorsuali tradizionali, finendo così per generare – in una clamorosa eterogenesi dei fini – la fuga dell’imprenditore, che invece dovrebbe essere incoraggiato a ricorre alle suddette procedure per superare nel modo migliore una crisi che, se non già attuale, starebbe astrattamente per affliggerlo.

In secondo luogo, ulteriore riflessione degna di nota è che se, guardando al mero contesto di svolgimento delle procedure di allerta e di composizione assistita, se ne riconosce una prima estraneità organizzativa rispetto alla giurisdizione, successivamente si registra nello svolgimento degli atti una piuttosto preoccupante invasività del controllo amministrativo e giudiziale nella vita delle imprese: ciò evidenzia la natura, per certi versi, meramente declamatoria della precisazione circa il carattere non giudiziale e confidenziale degli istituti in questione.

Sul punto, desta sconcerto che il d. lgs. 26 ottobre 2020, n. 147, recante misure correttive al Codice della crisi, non ha provveduto, come da più parti si auspicava, alla riscrittura della disposizione che impone all’OCRI – nella persona del Referente – la segnalazione al Pubblico Ministero al verificarsi delle condizioni di cui all’art. 22.

Trattasi di una “minaccia” che crea più danni dei vantaggi che si prefigge: sarebbe forse stato preferibile – nell’intento di non colorare l’allerta di profili pubblicistici potenzialmente idonei a spaventare l’imprenditore e a costituire un deterrente dell’emersione anticipata della crisi – lasciare al mercato, ossia ai creditori, l’iniziativa per la dichiarazione di insolvenza senza bisogno di aggiungervi la previsione di un intervento pubblico. Ciò vale ancor di più considerando che adesso, ai sensi dell’art. 38, comma 1, CCII, il P.M. – la cui iniziativa potrebbe già ben esplicarsi ai sensi del precedente art. 37, comma 2 – può agire “in ogni caso in cui ha notizia dell’esistenza di uno stato di insolvenza”.

In ultima analisi, è appena il caso di precisare che l’impianto dei meccanismi di allerta e composizione assistita della crisi potrà risultare efficace solo se sorretto dalle solide fondamenta di una nuova cultura dell’impresa, perseguibile attraverso percorsi formativi, di aggiornamento, sostegno e consulenza (possibilmente gratuita, ovvero fondata su logiche assicurative) in favore degli imprenditori, da sviluppare in un ambiente davvero confidenziale, sotto la guida di professionisti indipendenti esperti in materia aziendale107].

Per concludere, come è avvenuto in passato per altre innovazioni giuridiche, anche per le procedure di allerta vale la massima per cui “solo la pratica potrà dirci se le riforme di oggi si trasformeranno domani in istituti duraturi e virtuosi"[108].


Note e riferimenti bibliografici

[1] I compiti dell’OCRI sono delineati in termini generali, oltre che dal menzionato art. 2, anche dall’art. 16 del CCII, il cui comma 1 attribuisce al costituendo organismo l’onere di “gestire il procedimento di allerta e assistere l’imprenditore, su sua istanza, nel procedimento di composizione assistita di cui al capo III”. È appena il caso di rilevare che l’art. 2 supra richiamato parla di “gestione della fase di allerta” e di “fase della composizione assistita”, mentre l’art. 16 utilizza una diversa nomenclatura parlando – rispettivamente – di “procedimento di allerta” e di “procedimento di composizione assistita della crisi”, specificando che quest’ultimo è ancorato ad una preventiva istanza del debitore.

Appare evidente che tali difformità lessicali costituiscono niente più che “marginali differenziazioni formali” cui non va attribuito eccessivo significato sul piano applicativo, rappresentando semplicemente “il portato di una non puntuale opera di rifinitura complessiva del testo finale del codice, rimanendo prive di rilievo concreto”. Di ciò si trova conferma non solo nell’impossibilità di cogliere “una reale differenza ermeneutica” tra la locuzione fase o procedimento, ma anche nel dato per cui una più meticolosa identificazione degli specifici compiti dell’OCRI e delle attività a cui è chiamato per adempiere i suddetti compiti è contenuta nelle norme di dettaglio degli artt. 18 e 19 del CCII, dedicati alle fasi (o procedimenti) di allerta e composizione assistita. (Le citazioni sono tratte da G. D’ATTORE, Gli Ocri: compiti, composizione e funzionamento nel procedimento di allerta, Fallimento, 2019, 12,1430 ss.)

[2] R. RANALLI, L’OCRI: un’opportunità e non una minaccia, tratto da ilsocietario.it.

[3] F. CESARE, I rischi di eterogenesi dei fini nell’attività degli OCRI, tratto da ilfallimentarista.it.

[4] Diversamente, per quanto riguarda le regole di funzionamento, l’esame sarà limitato, ivi, al solo procedimento di composizione assistita della crisi, nel cui ambito i compiti e i doveri dell’OCRI si declinano in modo differente rispetto al procedimento di allerta.

[5] Ai sensi dell’art. 12, comma 7, CCII, gli OCC risultano ancora competenti – limitatamente alle imprese agricole e alle imprese minori – per la gestione della fase successiva alla segnalazione dei soggetti di cui agli art. 14 e 15 ovvero alla istanza del debitore di composizione assistita della crisi. Con riferimento al suddetto (limitato) ambito soggettivo di applicazione, gli OCRI – organismi fissi ed unici – vengono dunque sostituiti dagli OCC che, differentemente dai primi, sono plurimi e anche verosimilmente assenti in un dato territorio.

[6] G. D’ATTORE, op.cit.

[7] Stesse questioni si pongono per il caso di società con sede legale all’estero, ma con centro degli interessi principali in Italia, che vogliano ricorrere alle procedure di allerta o composizione assistita in Italia.

[8] M. FERRO, Allerta e composizione assistita della crisi nel D. Lgs n. 14/2019: le istituzioni della concorsualità preventiva, Fallimento, 2019, 4, 421 ss.

[9] Le citazioni sono tratte da M. FERRO, op. cit.

[10] G. D’ATTORE, op. cit.

[11] Si dovrà, allora, fare riferimento al centro degli interessi principali, che, in mancanza di sede legale risultante dal registro delle imprese, si considera coincidente con la sede effettiva dell’attività abituale o, se sconosciuta, con l’ultima dimora nota o, in mancanza, con il luogo di nascita del legale rappresentante.

[12] M. FERRO, op. cit.

[13] Sul punto, S. SANZO – D. BURRONI, Il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Zanichelli, 2019.

[14] Diversa dottrina, invece, asserisce che, (anche) nel caso in cui il referente accerti l’incompetenza territoriale dell’OCRI, deve essere adottato il provvedimento di rigetto o archiviazione o non luogo a provvedere. Ciò in quanto, in mancanza di un’espressa previsione, non sembra residuare alcuno spazio per un provvedimento di trasmissione della segnalazione ovvero dell’istanza all’OCRI territorialmente competente, come previsto nelle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza (art. 29 CCII).

[15] G. D’ATTORE, op. cit.

[16] G. D’ATTORE, op. cit.

[17] M. FABIANI, La fase dell’allerta non volontaria e il ruolo dell’Ocri, tratto da ilcaso.it

[18] L’OCC competente per territorio viene indicato dallo stesso debitore o, se manca, è individuato sulla base di un criterio di rotazione, ai fini dell’eventuale avvio del procedimento di composizione assistita della crisi. In realtà, nonostante la lettera della legge disponga che è lo stesso referente a convocare direttamente il debitore dinanzi all’OCC, è probabilmente da ritenersi che il referente assegni al debitore un termine per rivolgersi all’OCC, trasmettendo gli atti e avvisando quest’organo, che poi procederà ad organizzare l’effettiva audizione.

[19] G. BONFANTE, Le misure di allerta, Giur. it., 2019, 8/9, 1973 ss.

[20] G. D’ATTORE, op. cit.

[21] M. FABIANI, op. cit.

[22] In particolare, il referente dovrà curare: a) l’inserimento del nominativo del debitore nell’elenco nazionale dei soggetti sottoposti alle misure di allerta di cui all’art. 15, comma 6, CCII, curandone il costante aggiornamento; b) la trasmissione dei dati per l’osservatorio permanente sull’efficienza delle misure di allerta e delle procedure di composizione assistita della crisi (art. 353 CCII).

[23] Premesso che, in caso di amministratore unico, la presentazione dell’istanza di composizione assistita della crisi ex art. 19 CCII rientri nelle prerogative dello stesso, ci si è chiesti in dottrina se – in caso di consiglio di amministrazione – la medesima istanza possa essere presentata all’OCRI solo dal consiglio di amministrazione e su delega del consiglio, o possa essere esercitato anche dagli amministratori delegati eventualmente disattendendo una deliberazione del consiglio. “La legge non dice affatto che la scelta di rivolgersi all’organismo di composizione sia di competenza del plenum del consiglio di amministrazione. Essa fa intendere piuttosto che chiedere l’intervento di tale organismo sia un atto di gestione che il consiglio può delegare. Le deleghe gestionali possono essere conferite di volta in volta oppure far parte delle competenze proprie degli amministratori delegati, secondo le disposizioni dello statuto o secondo il loro atto di nomina”. Ai fini dell’efficacia esterna dell’istanza è sufficiente che essa provenga da chi è titolare della rappresentanza dell’ente e sia, quindi, investito del potere di spendere il nome sociale. “Se il consiglio resta inerte […] pare inevitabile ammettere che l’istanza all’organismo di composizione della crisi istituito presso la Camera di commercio debba essere presentata di propria iniziativa almeno […] da chi sia investito del corrispondente potere e della rappresentanza sociale”. Nelle società di capitali, che rappresentano il tipo societario più diffuso, il potere di rappresentanza degli amministratori è generale e l’eventuale inefficacia o nullità di un atto compiuto ultra vires può essere dichiarata solo provando che essi abbiano agito intenzionalmente a danno della società: ipotesi che esula dal caso in esame di presentazione di istanza all’OCRI. Maggiori problemi si pongono “quando il consiglio voti contro la presentazione dell’istanza, perché la maggioranza […] preferisce un’alternativa che uno o più degli amministratori delegati ritengono invece inadeguata. In questo caso, l’organismo di composizione assistita della crisi potrebbe rigettare l’istanza in limine perché gli amministratori delegati o investiti della rappresentanza sociale non sarebbero legittimati a presentarla? Sembra assurdo sostenerlo: come abbiamo ricordato, la rappresentanza degli amministratori è generale e per l’organismo di composizione basta che essa sia presentata a nome della società da chi può spendere tale nome”. Del resto, risulterebbe distonico sostenere che gli amministratori delegati non possono fare quello a cui sarebbero legittimati anche i componenti degli organi di controllo, il revisore, la società di revisione nonché i creditori pubblici qualificati. Né è possibile condividere l’obiezione di quanti ritengono che gli amministratori delegati, nel caso di specie, abusino di un loro potere qualora presentino l’istanza. “Per abusare di un potere occorre usarlo al di fuori della sua funzione (abuso funzionale), oppure creare artificiosamente le condizioni del suo esercizio (abuso fraudolento), oppure esercitarlo senza trarne alcun vantaggio (abuso emulativo) o, infine, esercitarlo con un danno sproporzionato per la controparte (abuso antisolidale)”. Nel caso in questione, invece, non sussiste abuso funzionale perché gli amministratori presentano un’istanza che verrebbe ugualmente presentata da altri organi, laddove essi restassero inerti; la richiesta di intervento dell’organismo potrà dirsi fraudolenta solo in casi eccezionali da provare, di volta in volta, in concreto, senza alcuna presunzione; non può parlarsi di abuso emulativo perché la presentazione dell’istanza ha effetti premiali per chi la avanza; l’intervento di un organismo autorevolmente costituito con le dovute garanzie quale è l’OCRI esclude a priori qualsiasi rischio di abuso antisolidale. (Le citazioni sono tratte da M.S. SPOLIDORO, Procedure d’allerta, poteri individuali degli amministratori non delegati e altre considerazioni sulla composizione anticipata della crisi, Riv. soc., 2018, 1, 177 ss.)

[24] L’adempimento della comunicazione “appare una mera conferma dell’ingresso del debitore nella fase matura del procedimento, almeno nel caso in cui la segnalazione, ai sensi dell’art. 14, comma 2, provenga dagli stessi controllori […]. Maggiore utilità ricorre quando l’allerta sia nata da un creditore qualificato ex art. 15 ovvero il debitore, omisso medio, chieda la composizione assistita” Così osserva M. FERRO, op. cit.

[25] Dubbi sull’opportunità di designare necessariamente tre professionisti anche per crisi di imprese piccole o medie sono stati espressi da A. JORIO, La riforma della legge fallimentare tra utopia e realtà, Dir. fall, 2019, 2, 301 ss.

L’Autore osserva che “più efficace sarebbe stato l’individuare nel presidente del tribunale o direttamente nel presidente della sezione fallimentare, ove esistente, l’autorità alla quale rivolgersi per la nomina di un professionista esperto […], il quale, verificatane la fattibilità, coadiuvasse il debitore nella rapida predisposizione di un accordo con il ceto creditorio, lasciando che il debitore continuasse ad essere assistito anche dal proprio professionista di fiducia. […] Con il che sarebbe stata evitata la complessa procedura di costruzione e di attività della terna”.

[26] Si tratta dell’ “Albo dei soggetti incaricati dall’autorità giudiziaria delle funzioni di gestione e di controllo nelle procedure di cui al codice della crisi e dell’insolvenza”.

Va rilevato che i membri del collegio degli esperti sono scelti sulla base di differenti presupposti nel regime transitorio e in quello definitivo. “Infatti, l’art. 17 del Codice prevede che il referente nomini gli esperti scegliendoli tra quelli iscritti all’Albo di cui all’art. 356, ma fintanto che esso non diverrà definitivo, l’art. 352 stabilisce che gli esperti nominati dalla Camera di Commercio e dal Tribunale devono essere scelti tra i dottori commercialisti e gli esperti contabili, dall’albo degli avvocati e devono aver svolto incarichi di Commissario giudiziale, attestatore o devono aver assistito imprese in crisi in almeno tre concordati preventivi ammessi o tre accordi di ristrutturazione dei debiti omologati. Ma con l’entrata in funzione dell’Albo nazionale, spariranno i professionisti che hanno assistito l’impresa in crisi nei concordati o negli accordi di ristrutturazione. Il cambio di sensibilità nell’individuazione delle professionalità richieste tra il regime transitorio e quello definitivo appare pericoloso. Mentre l’art. 352 CCII focalizza il profilo del professionista nell’alveo della ristrutturazione (commissari, attestatori, avvocati) l’albo di cui all’art. 356 CCII privilegia i curatori che, al contrario dei primi, sono caratterizzati per attitudini spiccatamente versate in un contesto liquidatorio e non inteso alla conservazione della continuità”. F. CESARE, op. cit.

[27] R. RANALLI, Il successo della riforma dipende dall’Ocri: un accorato suggerimento al legislatore, tratto da ilcaso.it

[28] M. FABIANI, op. cit.

[29] R. RANALLI, Il successo (cit.).

[30] Più in dettaglio, l’esperto in questione: a) è scelto solo dopo aver sentito il debitore, che in qualche modo potrà indirizzarne la nomina; b) è inamovibile (in caso non siano concretamente rappresentate nel collegio le professionalità contabili, aziendalistiche e legali, potrà essere sostituito unicamente il componente designato dal presidente della camera di commercio); c) nel regime transitorio di cui all’art. 352 CCII, può essere scelto anche se non ha assunto incarichi dal tribunale o non ha assistito con successo imprese in crisi in concordati ammessi o accordi di ristrutturazione.

[31] Le citazioni sono tratte da F. CESARE, op. cit.

[32] In dottrina ci si è chiesti “quale designazione prevalga nel caso in cui la designazione da parte del presidente del tribunale o del presidente della camera di commercio, benché tardiva, pervenga all’OCRI prima che il referente abbia provveduto alla designazione sostitutiva. Se si ritiene che il vano decorso dei tre giorni lavorativi comporti la decadenza del potere di designazione, è evidente che la designazione tardiva sarà inefficace. Se, invece, si ritiene, come appare preferibile, che il decorso dei tre giorni lavorativi non determini la decadenza, la designazione tardiva impedisce al referente di procedere alla sua designazione sostitutiva, non potendo quest’ultimo sostituirsi ad una designazione comunque intervenuta. Laddove, tuttavia, sia già intervenuta la designazione sostitutiva da parte del referente, la successiva designazione tardiva sarà a sua volta inefficace”. G. D’ATTORE, op. cit.

[33] G. D’ATTORE, op. cit.

[34] È chiaro che – nella fattispecie in esame – l’esplicito riferimento alla decadenza esclude aprioristicamente qualunque possibilità di un’efficace dichiarazione di indipendenza tardiva, che – se pervenuta – risulterà in ogni caso irrilevante.

[35] I requisiti di indipendenza del professionista sono previsti dall’art. 2, comma 1, lett. o), ad eccezione dell’iscrizione nel registro dei revisori legali. Il professionista potrà, allora, attestare la propria indipendenza nel caso in cui, congiuntamente, sia: a) in possesso dei requisiti previsti dall’art. 2399 c.c.; b) non legato all’impresa o ad altre parti interessate all’operazione di regolazione della crisi da rapporti di natura personale o professionale. I professionisti nominati ed i soggetti con i quali essi sono eventualmente uniti in associazione professionale non devono aver presentato negli ultimi cinque anni attività di lavoro subordinato o autonomo in favore del debitore, né essere stati membri degli organi di amministrazione o controllo dell’impresa, né aver posseduto partecipazioni in essa.

[36] M. PERRINO, Crisi di impresa e allerta: indici, strumenti e procedure, Corr. giur., 2019, 5, 653 ss.

[37] Ad abundantiam, si ricorda che già nelle indicazioni dell’Uncitral e della Banca Mondiale era emersa la convinzione che, affrontando tempestivamente la crisi dell’impresa, ci siano maggiori possibilità di intervento al fine di assicurare la continuità aziendale e di evitare, in questo modo, la dispersione dei beni dell’impresa, che sarebbe l’inevitabile esito dell’eventuale adozione di procedure di natura liquidatoria. Medesimo fondamento logico è alla base dell’ “allerta precoce” di cui parla anche la Direttiva UE 2019/1023 (riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, che modifica la Direttiva UE 2017/1132 sulla ristrutturazione e sull’insolvenza), il cui considerando 22 recita: “quanto prima un debitore è in grado di individuare le proprie difficoltà finanziarie e prendere le misure opportune, tanto maggiore è la probabilità che eviti un’insolvenza imminente o, nel caso di un’impresa la cui sostenibilità è definitivamente compromessa, tanto più ordinato ed efficace sarà il processo di liquidazione”. La stessa Direttiva, nell’art. 3, par. 1, impone agli Stati membri di provvedere “affinché i debitori abbiano accesso a uno o più strumenti di allerta precoce chiari e trasparenti in grado di individuare situazioni che potrebbero comportare la probabilità di insolvenza e di segnalare al debitore la necessità di agire senza indugio”. Precedentemente, nella medesima direzione, si era posta anche la Raccomandazione 2014/135/UE.

[38] A. CARRATTA, La composizione assistita della crisi e le misure di protezione “anticipate” nel codice della crisi e dell’insolvenza, Dir. fall., 2020, 2, 268 ss.

[39] Posto che la funzione di favorire – facilitandoli – gli accordi è connaturata a tutte le figure di mediazione, deve intendersi, tuttavia, che la Relazione faccia riferimento alla mediazione civile e commerciale, non a quella penale o familiare, che pure sono state introdotte nel nostro ordinamento in tempi più risalenti rispetto alla prima.

[40] Le citazioni sono tratte da N. NISIVOCCIA, La composizione assistita della crisi, tratto da ilfallimentarista.it

[41] BANCA D’ITALIA, Osservazioni alla Commissione Giustizia del Senato, Schema di decreto legislativo recante Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155, tratto da bancaditalia.it

[42] Nella Relazione Illustrativa, all’art. 20 si legge: “Mentre è possibile pretendere che la procedura di allerta si svolga in via riservata e confidenziale, essendo in essa coinvolti tendenzialmente solo il debitore, gli organi societari, i professionisti, gli uffici pubblici e l’OCRI, tale riservatezza non può essere del tutto mantenuta nel procedimento di composizione assistita della crisi, nella quale vengono necessariamente coinvolti, almeno in parte, i creditori”.

[43] Considerato che l’istanza del debitore di avvio della composizione assistita va rivolta al Collegio di esperti dell’OCRI, è dato rilevare che laddove lo stesso avvio si inserisca nella procedura di allerta, il Collegio è stato già costituito a seguito delle segnalazioni dei soggetti legittimati all’allerta (ai sensi degli art. 14 e 15 CCII). Il Collegio dovrà invece essere costituito ab origine laddove l’avvio avvenga in maniera autonoma.

[44] R. RANALLI, Il successo (cit.).

L’Autore specifica che tra gli “attrezzi” rientrano “alcuni vantaggi propri solo delle procedure maggiori, quali ad esempio il differimento dell’adozione dei provvedimenti in caso di perdita del capitale sociale che, attraverso una attenta negoziazione con adeguati stralci da parte dei creditori, potrebbero addirittura essere evitati proprio grazie alla mediazione dell’OCRI. Altri dipendono direttamente dalla presenza dell’OCRI: ci si riferisce alle interlocuzioni con i clienti per ottenere la conversione di forniture in conto lavoro o un’accelerazione dei tempi di pagamento, o alle interlocuzioni con i fornitori per riattivare il ciclo passivo o con le parti sociali per attestare i presupposti necessari per la prosecuzione dell’attività”.

[45] N. NISIVOCCIA, op. cit.

[46] In particolare, nell’ambito di quest’ultima, le misure premiali potranno trovare applicazione solo laddove l’istanza di cui all’art. 19 sia stata presentata entro tre mesi dal momento in cui si manifesti l’esistenza di debiti retributivi o verso fornitori oltre un certo ammontare o risultino superati – nell’ultimo bilancio – gli indici qualificati come “indicatori della crisi” dall’art. 13.

[47] N. NISIVOCCIA, op. cit.

[48] L’opportunità di siffatta previsione deriva dalla circostanza che “per affrontare la composizione della crisi, il set informativo acquisito nella fase dell’audizione sarà probabilmente insufficiente. Mentre per l’individuazione delle misure ci si potrebbe limitare alla conoscenza di massima dell’indebitamento e dei flussi che possono essere posti al servizio dello stesso, nella trattativa con i creditori occorrerà dare evidenza della loro puntuale misurazione con una scansione temporale che solo un piano economico-finanziario è in grado di rendere. È inoltre estremamente opportuno che venga svolta una misurazione del rischio inerente, quale normalmente emerge ad esito delle analisi di sensitività all’esposizione dei rischi di natura endogena ed esogena. Sarebbe altresì opportuno che venisse declinato il processo di gestione del rischio. Esso, anche sulla scorta di quanto previsto dalla riforma in ordine al contenuto dei piani, si traduce nelle modalità di monitoraggio dell’esecuzione del piano, nella valutazione degli scostamenti e nella individuazione di misure correttive atte a mitigare i rischi nel momento in cui dovessero concretizzarsi”. R. RANALLI, Il successo (cit.).

[49] M. FERRO, op. cit.

[50] R. RANALLI, Il successo (cit.).

[51] “Stato di difficoltà economico-finanziario che renda probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”.

[52] Le citazioni sono tratte da A. JORIO, op. cit.

[53] Un argomento a sostegno di siffatta teoria deriva dal dato per cui, ad oggi, sono sostanzialmente inesistenti i casi nei quali un’impresa in crisi ma non ancora tecnicamente insolvente abbia fatto ricorso al concordato. Né, da più parti, si ritiene che la ritrosia degli imprenditori possa essere efficacemente superata grazie all’assenza del giudice nell’Organismo deputato a gestire il procedimento di composizione assistita.

[54] La proposta, ventilata in seno alla commissione Rordorf, di introdurre la nomina di un sindaco da parte di un’istituzione terza, riesumando l’ormai risalente proposta della commissione De Gregorio, ha incontrato l’opposizione decisa degli esponenti della Confindustria ed è stata purtroppo abbandonata.

[55] Le citazioni sono tratte da A. JORIO, op. cit.

L’esortazione a non limitare la composizione stragiudiziale alle sole situazioni di crisi che non siano ancor tradotte in insolvenza si colloca su un fronte speculare a quello sul quale si pongono le osservazioni di R. RANALLI, Il successo (cit.), ove viene manifestato il timore che l’OCRI venga addirittura sommerso da migliaia di richieste di intervento, alla quale sia difficile, soprattutto nella fase di avvio, far fronte in termini adeguati. Viene così suggerito che la composizione stragiudiziale escluda, in un primo periodo di applicazione delle nuove norme, le imprese di minori dimensioni.

[56] Il falso nell’attestazione è sanzionato penalmente. “L’art. 345 punisce il componente dell’organismo di composizione della crisi che renda dichiarazioni false sui dati aziendali del debitore che intenda presentare domanda di omologazione di accordi di ristrutturazione dei debiti o di apertura del concordato preventivo stabilendo che “il componente dell’organismo di composizione della crisi di impresa che nell’attestazione di cui all’art. 19, comma 3, espone informazioni false ovvero omette di riferire informazioni rilevanti in ordine alla veridicità dei dati contenuti nel piano o nei documenti ad esso allegati, è punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da 50.000 a 100.000 euro”. La norma prevede altresì un incremento della spesa se il fatto è commesso al fine di conseguire un ingiusto profitto per sé o per altri, oppure cagiona un danno per i creditori”. G. SANCETTA – A.I. BARATTA – L. SICURO, Gli strumenti di allerta e le funzioni dell’organismo di composizione della crisi, tratto da ilsocietario.it

[57] M. FERRO, op. cit.

[58] R. RANALLI, Il successo (cit.).

[59] A prescindere che siano parti o meno dell’atto; questa lettura è suggerita dal dato per cui la formula “coloro che lo hanno sottoscritto” non è più ripetuta a proposito dell’iscrizione, per cui tra i “creditori interessati” sarebbero da annoverare anche soggetti non aderenti ma non contrari all’accordo.

[60] M. PERRINO, op. cit.

[61] Gli effetti del piano di risanamento sono previsti dagli articoli 56 e 166 del Codice. Peraltro, si tratta degli effetti che già oggi derivano dai piani di risanamento disciplinati dall’art. 67 della legge fallimentare.

[62] R. RANALLI, Il successo (cit.).

[63] Il piano attestato di risanamento, infatti, è sorretto da una attestazione di veridicità dei dati aziendali e di fattibilità del piano medesimo da parte di un professionista indipendente. Invece, l’accordo raggiunto all’esito della procedura di composizione assistita non è munito di analoga attestazione. Ciò ha indotto taluno a sostenere “una qual certa evanescenza del carattere assistito della procedura di composizione attuata mediante l’accordo in esame […], nella misura in cui tale assistenza da parte dell’organismo si riduce al seguire le trattative ed all’acquisizione o anche predisposizione di dati sulla situazione dell’impresa e sulla composizione del suo monte debitorio; differendo solo in ciò l’ assistenza qui fornita dall’organismo, rispetto a quella dallo stesso prestata nella già vista (mera) procedura di allerta, allorché il collegio rileva la sussistenza degli indizi della crisi, individua insieme al debitore le possibili misure idonee a porvi rimedio e monitora che nel termine assegnatogli il debitore proceda alla assunzione ed attuazione delle relative iniziative: una differenza obiettivamente esigua, onde giustificare il parlare ora di un distinto ed ulteriore procedimento di composizione assistita, in cui trascorra la procedura di allerta in senso stretto”. M. PERRINO, op. cit.

[64] L’accordo di ristrutturazione è stato fatto rientrare a pieno titolo nell’ambito delle procedure in questione da un recente orientamento della Cassazione (Cass. Civile, sez. I, 18 gennaio 2018, n. 1182).

[65] La finalità della segnalazione è quella di portare a conoscenza dei destinatari l’insussistenza di ostacoli alla segnalazione stessa, ove dovuta, oppure a consentire loro di attivarsi in modo tempestivo per chiedere l’apertura della liquidazione giudiziale. Ne potrebbe così seguire la piena ripresa della responsabilità segnalatoria o delle iniziative a propria tutela, una volta manifestata a quei soggetti l’esito infausto del procedimento.

[66] N. NISIVOCCIA, op. cit.

In realtà altri Autori (tra cui M. FERRO, op. cit.) ritengono che, in riferimento alla notizia da dare ai controllori interni e ai creditori qualificati, rilevi il fatto in sé del mancato accordo, senza che – a differenza del prologo concorsual-giudiziale – sia decisivo anche una verifica sulla permanenza della situazione di crisi, ultronea rispetto allo scopo della norma.

[67] M. FERRO, op. cit.

L’Autore aggiunge – sul punto – che “l’indagine del collegio metterà in luce le condotte inerti o inadeguate, rispetto agli impegni scaduti e a venire, connotative del rapporto esterno del debitore piuttosto che mere proiezioni contabili ricavate, almeno principalmente, dall’analisi dei fattori di remuneratività del capitale. Crisi ed insolvenza, in ciò, sono ragionevolmente abbinabili per la loro apprezzabilità sintomatica, potendosi conferire rilievo a regolarità della dissoluzione dei fattori produttivi, ritardi nei pagamenti e insufficienza dei ricavi rispetto agli oneri finanziari, secondo uno dei principali indici dell’art. 13, comma 1”.

[68] Si rileva che “alla medesima segnalazione portano anche altri comportamenti tenuti dal debitore nel corso della procedura di allerta. Ed infatti, il 1° comma dell’art. 22 richiama anche – sempre ai fini della segnalazione al P.M. – l’ipotesi in cui, avviata la procedura di allerta, il debitore non si presenti per l’audizione davanti al Collegio degli esperti di cui all’art. 18 o, dopo l’audizione, non depositi l’istanza per la composizione assistita della crisi di cui all’art. 19, 1° comma, senza che il Collegio abbia disposto l’archiviazione delle segnalazioni di allerta, ai sensi del 3° comma dell’art. 18. Anche in questi casi, ovviamente, il Collegio procederà alla segnalazione sempre che ritenga sussistente, sulla base degli elementi acquisiti, lo stato di insolvenza del debitore.

Va aggiunto che, per come formulato, il 1° comma dell’art. 22 prevede la segnalazione in questione semplicemente per il fatto che il debitore rientri fra le imprese sottoponibili agli strumenti di allerta o alla composizione assistita della crisi. Ne deriva che – anche in considerazione […] della non piena coincidenza fra ambito applicativo della procedura di allerta e della composizione assistita della crisi […] – la segnalazione potrebbe riguardare anche imprese sottoponibili ad amministrazione straordinaria o a liquidazione coatta amministrativa o imprese minori o agricole. In quest’ultimo caso, peraltro, la segnalazione (da parte dell’OCC e non dell’OCRI) sarà funzionale all’eventuale apertura non della liquidazione giudiziale, ma della liquidazione controllata, di cui all’art. 268, 2° comma”. CARRATTA A, op. cit.

[69] In dottrina è discusso se il citato limite precluda al P.M. l’iniziativa anche quando gli elementi di convincimento decisivo per agire siano stati acquisiti aliunde, ma pur sempre nella sua attività istituzionale, tornando in applicazione il regime generale dell’art. 38.

[70] Le citazioni sono tratte da R. RORDORF, Prime osservazioni sul codice della crisi e dell’insolvenza., Contratti, 2019, 2, 133 ss.

[71] Le citazioni sono tratte da M. PERRINO, op. cit.

[72] Nell’art. 2, lett. p), CCII, le misure protettive sono descritte come quelle che mirano ad “evitare che determinate azioni dei creditori possano pregiudicare, sin dalla fase delle trattative, il buon esito delle iniziative assunte per la regolazione della crisi o dell’insolvenza”. Si tratta, quindi, di porre i singoli beni facenti parte del patrimonio del debitore a riparo dalle autonome azioni dei creditori muniti di particolari titoli esecutivi. Nella fase della composizione, infatti, può generarsi un conflitto che vede, da una parte, il debitore e alcuni creditori che cercano una soluzione concordata della crisi, e dall’altra parte singoli creditori propensi ad intervenire prima degli altri a tutela del proprio diritto. Va rilevato che “l’art. 2, lett. p) non contiene più, come faceva il testo originario della disposizione, il chiarimento, opportuno, che il divieto riguarda non solo il patrimonio del debitore, ma anche quello dell’impresa: è questo il caso in cui il bene del terzo sia inserito, in virtù di un diritto di godimento, nell’organizzazione di beni appartenenti al debitore […] finalizzata all’esercizio dell’azienda […]. Il chiarimento era volto ad impedire anche iniziative di terzi proprietari di singoli beni che con le loro azioni esecutive vadano ad incidere sul complesso dei rapporti giuridici facenti capo all’impresa. Oggi […] è solo in via interpretativa che si può arrivare a estendere la portata del divieto a beni diversi da quelli di titolarità dell’imprenditore, sì da escludere che il programma di risanamento dell’attività venga compromesso da iniziative esecutive dei proprietari di singoli beni che produrrebbero, in questo modo, la disgregazione dell’azienda del debitore, pregiudicandone quindi il patrimonio, con conseguente danno per il ceto creditorio”. I. PAGNI, Le misure protettive e le misure cautelari nel codice della crisi e dell’insolvenza, Società, 2019, 4, 440 ss.

In ultimo, va notato che le misure protettive di tipo patrimoniale sono, sì, poste a garanzia dell’integrità del patrimonio del debitore, ma – contestualmente – il beneficio dell’insensibilità alle aggressioni singole si trasferisce, indirettamente, a favore della massa dei creditori, sebbene la misura in questione contragga momentaneamente il diritto di ciascuno di essi.

[73] È appena il caso di rilevare che la disposizione del primo comma dell’art. 20 non fa esplicito riferimento ai creditori quali controparti nelle suddette trattative. In effetti, per affrontare e cercare di superare la crisi di impresa non esistono soltanto le trattative con i creditori, rivolte a ristrutturare in via diretta il debito. Possono verificarsi, infatti, trattative con soggetti diversi dai creditori ma che possono qualificarsi, ugualmente, come controparti dell’impresa in settori che possono avere lo scopo di ristrutturare le sue componenti di natura prettamente economica. Si può sperare di superare una crisi riducendo prospetticamente alcuni costi e, per ottenere ciò, il debitore può intraprendere specifiche trattative. D’altronde, lo stesso termine “ristrutturazione” trova nella Proposta di Direttiva UE del 2016 una definizione che travalica il confine dell’accordo con i creditori. Essa è infatti riassunta come “la modifica della composizione, delle condizioni o della struttura delle attività e delle passività del debitore o di qualsiasi altra parte della struttura del capitale del debitore, tra cui il capitale azionario, o una combinazione di questi elementi, compresa la vendita di attività o parti dell’impresa, con l’obiettivo di consentire la continuazione, in tutto o in parte, dell’impresa”.

[74] M. FERRO, op. cit.

[75] M. MASTROGIACOMO, Le misure protettive nella composizione assistita, tratto da osservatorio-oci.org

[76] Il considerando 32 della Direttiva in oggetto aggiunge: “un debitore dovrebbe poter beneficiare di una sospensione temporanea delle azioni esecutive individuali, sia essa concessa da un’autorità giudiziaria o amministrativa oppure per legge allo scopo di agevolare le trattative sul piano di ristrutturazione, così da poter continuare a operare o almeno mantenere il valore della massa fallimentare durante le trattative […]. Tuttavia, gli Stati membri dovrebbero poter disporre che le autorità giudiziarie o amministrative abbiano la facoltà di rifiutare la concessione di una sospensione delle azioni esecutive individuali qualora tale sospensione non sia necessaria o non soddisfi l’obiettivo di agevolare le trattative”.

[77] Va precisato, comunque, che “la chiamata a relazionarsi con il collegio dei professionisti non dipende solo dall’avvio dell’allerta, sia interna che esterna, ma anche da una propria iniziativa dell’imprenditore, messo alle strette dai conti del suo bilancio”. M. MASTROGIACOMO, op. cit.

[78] M. MASTROGIACOMO, op. cit.

[79] Diversamente – ma con seri dubbi circa la conformità della scelta al principio di ragionevolezza – è previsto per i crediti professionali sorti in funzione della domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti e per la richiesta delle misure protettive: l’art. 6, comma 1, lett. b), ne ammette la prededucibilità nei limiti del 75% del credito accertato e a condizione che gli accordi siano omologati.

[80] Le citazioni sono tratte da G. SCARSELLI, Le misure cautelari e protettive del nuovo codice della crisi dell’impresa, tratto da judicium.it

[81] Il riferimento è alla Direttiva UE 2019/1023 in tema di ristrutturazione preventiva.

[82] BANCA D’ITALIA, op. cit.

[83] Il decreto correttivo (d. lgs. 26 ottobre 2020, n. 147) ha innalzato a quattro mesi la durata iniziale massima delle misure protettive, conformemente a quanto previsto dall’art. 6, par. 6 della Direttiva UE 2019/1023, per cui “la durata iniziale di una sospensione delle azioni esecutive individuali è limitata a un massimo di quattro mesi”.

[84] Analogamente, sempre la Direttiva UE 2019/1023 all’art. 6, par. 7 ammette la possibilità che venga disposta la proroga o il rinnovo della sospensione delle azioni esecutive individuali. Ciò esclusivamente quando – come nel caso in cui siano stati compiuti “progressi significativi nelle trattative sul piano di ristrutturazione” – risulti che “la proroga o il rinnovo sono debitamente giustificati”.

[85] Anche l’art. 6 del par. 8 della Direttiva UE 2019/1023 stabilisce che “la durata totale della sospensione delle azioni esecutive individuali, inclusi le proroghe e i rinnovi, non supera i dodici mesi”.

[86] Le citazioni sono tratte da A. CARRATTA, op. cit.

[87] M. MASTROGIACOMO, op. cit.

[88] Così osserva sempre M. MASTROGIACOMO, op. cit., il quale aggiunge che “non si deve, peraltro, tralasciare di considerare che durante la composizione assistita, anche in ragione di una scansione temporale molto ristretta e del fatto che ci si potrebbe trovare di fronte a un soggetto imprenditoriale poco strutturato e sprovvisto di una pianificazione aziendale, il debitore potrebbe non fornire elementi rigorosi per far convergere le valutazioni sulla utilità di una prosecuzione, anche solo parziale e momentanea”.

[89] Si rileva che la non operatività della regola “ricapitalizza o liquida”, imposta dal codice civile nel caso di perdite del capitale della società, era già divenuta prassi consolidata nel periodo interinale delle procedure concorsuali, per effetto delle modifiche alla legge fallimentare apportate dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, che ha introdotto l’art. 182 sexies.

[90] In linea con questo orientamento eccessivamente permissivo nei confronti del debitore deve, probabilmente, leggersi anche l’ultimo periodo del comma 4 dell’art. 20, che lascia alla facoltà del debitore la pubblicazione del provvedimento che concede la misura, con l’effetto di rendere del tutto inconsapevoli – riguardo alle condizioni patrimoniali – i creditori o i soggetti che nel frattempo intrattengono normali rapporti commerciali.

[91] A. CARRATTA, op. cit.

[92]M. MASTROGIACOMO, op. cit.

[93] Osserva giustamente A. CARRATTA, op. cit., che “stabilita, dunque, la necessità che la pronuncia sulle misure protettive sia preceduta dall’instaurazione del contraddittorio, non è chiaro, tuttavia, quali siano le parti fra le quali tale contraddittorio debba essere assicurato. Ed infatti, se è indubbio che parte del procedimento in questione sia il debitore istante, le controparti vanno individuate di volta in volta a seconda della misura protettiva concretamente richiesta. È facile ipotizzare che debba essere il Collegio, investito dell’istanza del debitore, il quale, nel fissare l’udienza nel corso della quale procedere a sentire le parti in contraddittorio, stabilisca anche i soggetti ai quali il decreto di fissazione dell’udienza andrà comunicato a cura della cancelleria insieme all’istanza del debitore”.

[94] Si ritiene che il provvedimento in questione sia solo quello di accoglimento, perché quello di rigetto non produce alcun effetto per i creditori.

[95] M. MASTROGIACOMO, op. cit.

[96] M. MASTROGIACOMO, op. cit.

L’Autore, sul punto, aggiunge: “il collegio OCRI che […] è chiamato a seguire le trattative per la ricerca di una soluzione concordata della crisi, avrebbe, quindi, un ruolo simile a quello dell’attuale commissario giudiziale che, anche nella fase interinale del concordato in continuità, deve vigilare affinché si verifichino le condizioni di cui all’ultimo comma dell’art. 186-bis, ossia una prosecuzione dell’impresa dannosa per i creditori. Per sostenere tale tesi, tuttavia, bisognerebbe investire il collegio anche dei poteri di verifica contabile assegnati al commissario giudiziale ai sensi dell’art. 161, settimo comma, quarto periodo, che, tuttavia, non sembrano ricavarsi dalla disciplina sulla composizione assistita”.

[97] Nonostante il silenzio della legge, anche il provvedimento sulla revoca dovrebbe essere suscettibile di reclamo davanti alla Corte d’Appello, ai sensi dell’art. 124.

[98] Deve comunque precisarsi che “a prescindere dal sistema incentivante delle misure premiali, rappresenta un dovere di carattere generale per l’imprenditore quello di verificare l’attitudine dell’impresa ad operare secondo criteri d’ordinario funzionamento, nella prospettiva della continuità aziendale, attraverso un adeguato monitoraggio dell’attività gestoria. Dovendo, in ogni caso, l’imprenditore (organo d’amministrazione, per l’impresa societaria) agire secondo criteri di diligenza e prudenza in funzione degli obblighi imposti dalla legge e dallo statuto (artt. 2392, comma 1, e 2476, comma 1, c.c.), nonché della conservazione dell’integrità del patrimonio sociale (artt. 2394, comma 1, e 2476, comma 6, c.c.)”. L. GAMBI, Le misure premiali nel Codice della crisi, tratto da ilfallimentarista.it

[99] Il riferimento all’accesso ad una delle procedure regolatrici della crisi o dell’insolvenza disciplinate dal CCII sembrerebbe precludere l’applicazione del sistema premiale in caso di redazione di un piano attestato di risanamento che non transiti dagli organismi di composizione, pur essendo esso generalmente annoverato tra gli strumenti di composizione della crisi. Il debitore dovrebbe, quindi, sempre ricorrere, in tal caso, alla procedura di composizione assistita della crisi. Con ciò potrebbe trovare conferma l’impressione, da più parti avvertita, che l’allerta funzioni più efficacemente solo all’interno del contenitore di cui all’art. 19 CCII.

[100] M. FERRO, op. cit.

[101] Le citazioni sono tratte da M.S. SPOLIDORO, op. cit.

L’Autore aggiunge che “la disposizione parla di misura premiale riferendosi all’id quod plerumque accidit, quasi come fa un buon vecchio, seduto al caffè, quando commenta i fatti di uno scavezzacolo di paese: Alfredo si è accorto che il vizio del gioco lo stava travolgendo. Ora è tornato dalla moglie e ha evitato guai peggiori”.

[102] Questa previsione, in effetti, può tornare utile al debitore ove, all’esito della procedura di composizione assistita della crisi ed a prescindere dal fatto che sia stato raggiunto o no l’accordo, intenda avanzare domanda di concordato preventivo o di accordo di ristrutturazione.

[103] G. SANCETTA – A.I. BARATTA – L. SICURO, op. cit.

[104] Nella Relazione illustrativa si dà atto che le due soglie (minima, per il soddisfacimento dei creditori chirografari, e massima per il danno cagionato) sono state introdotte seguendo i rilievi della Commissione Giustizia della Camera, in modo da “restituire significato alla norma di delega, una volta stabilito che la causa di non punibilità per tenuità del danno è riferibile al delitto di bancarotta semplice e agli altri reati e mira ad evitare che sia premiata la pianificazione di condotte distrattive o dissipative di rilevante entità esclusivamente grazie al successivo – e programmato – accesso ad una procedura di composizione della crisi o di regolazione della crisi o dell’insolvenza”.

[105] La citazione è tratta dalla "Relazione Illustrativa" scaricabile dal sito www.osservatorio-oci.org

[106] Ambrosini S. (2018). Osservazioni e proposte sullo schema di decreto delegato: allerta, procedimento unitario e concordato preventivo, tratto da osservatorio-oci.org

[107] In questo senso si veda P. VELLA, L’allerta nel codice della crisi e dell’insolvenza alla luce della Direttiva (UE) 2019/1023, tratto da ilcaso.it

L’Autore suggerisce, inoltre, che “la mancata adesione dell’imprenditore a questi percorsi virtuosi potrebbe poi restare sanzionata in ambito privatistico, mediante la comunicazione o pubblicazione nel registro delle imprese di appositi report redatti dagli organi chiamati a gestire le procedure di allerta e composizione assistita della crisi, […] così come si potrebbe arrivare a concepire una sorta di check periodico del benessere dell’impresa, da leggere in chiave antropomorfica come screening per una efficiente diagnosi   precoce”.

[108] M.S. SPOLIDORO, op. cit.

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