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Pubbl. Lun, 3 Mag 2021

L´articolazione delle attività di polizia giudiziaria nella fase delle indagini preliminari

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Francesco Castaldo
Praticante AvvocatoUniversità degli Studi di Salerno



Il presente lavoro focalizza l´attenzione sul ruolo centrale che la polizia giudiziaria svolge nella delicata fase delle indagini preliminari ed i suoi rapporti con il pubblico ministero, offrendo una visione d´insieme e, al contempo, numerosi spunti di riflessione. In particolare, sono state accuratamente analizzate le attività di indagine che la stessa pone in essere di sua iniziativa, da quelle tipiche - ”dirette” ed ”indirette”- a quelle atipiche, nel quale l´ausilio della tecnologia assume un ruolo sempre più importante. Pertanto, l´elaborato fornisce l´idea di un sistema integrato, ove le diverse forze di polizia collaborano tra loro al fine di arginare la commissione dei reati, passando dalla lotta al terrorismo alla criminalità comune a quella organizzata mafiosa e non.


ENG This paper focuses on the central role that the judicial police plays in the delicate phase of the preliminary investigations and its relations with the public prosecutor, offering an overview and, at the same time, numerous food for thought. In particular, the investigation activities that it carries out on its own initiative were carefully analyzed, from the typical ones - ”direct” and ”indirect” - to atypical ones, in which the aid of technology assumes an increasingly important role. Therefore, the paper provides the idea of an integrated system, in which the various police forces collaborate with each other in order to stem commission of crimes, from the fight against terrorism and common crime to organized mafia and non-mafia crime.

Sommario: 1. La natura e le finalità delle indagini preliminari; 1.1. L’attività di iniziativa della polizia giudiziaria; 2. L’attività di informazione: la notizia di reato;  3. Gli atti tipici di investigazione “diretta”; 3.1. L’identificazione della persona indagata e di altre persone; 3.2. La perquisizione; 3.3. Gli accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone; 4. Gli atti tipici di investigazione “indiretta”: le sommarie informazioni assunte dall’indagato e dalle persone informate sui fatti; 5. Gli atti atipici di investigazione: i servizi di osservazione, controllo e pedinamento; 5.1. Le nuove frontiere del pedinamento: dal tradizionale a quello "elettronico"; 5.2. Le individuazioni fotografiche e le videoriprese; 6. Conclusioni.

1. La natura e le finalità delle indagini preliminari

Le indagini preliminari rappresentano la prima fase del procedimento penale, anticipando la successiva fase processuale. Essa inizia nel momento in cui una notizia di reato perviene alla polizia giudiziaria o al pubblico ministero e termina quando quest’ultimo esercita l’azione penale o ottiene dal giudice l’archiviazione richiesta[1]

Il codice di rito riconosce nel pubblico ministero, cioè il magistrato in servizio presso la Procura della Repubblica titolare del fascicolo, a seguito dell’assegnazione da parte del capo dell’ufficio[2]e nella polizia giudiziaria, nel rispetto delle relative attribuzioni, gli attori principali delle investigazioni preliminari[3].

Così stabilisce, infatti, la prima delle disposizioni che apre il libro quinto del codice di procedura penale, dedicato alle indagini preliminari (art. 326 c.p.p.), nel prevedere che «il pubblico ministero e la polizia giudiziaria svolgono, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale» e, cioè, per la richiesta di archiviazione o di rinvio a giudizio.

Ebbene, va preliminarmente chiarito che in posizione diametralmente opposta alla prevenzione dei reati ed alla polizia di sicurezza, si colloca l’attività di repressione, c.d. di “polizia giudiziaria”, che non rappresenta un corpo a sé stante, bensì una funzione esercitata dalla Polizia di Stato, dall’Arma dei Carabinieri, dalla Guardia di Finanza e dal Corpo di Polizia Penitenziaria.

L’art. 57 c.p.p. fissa la tradizionale distinzione tra agenti ed ufficiali di polizia giudiziaria ed elenca sistematicamente gli appartenenti alle varie forze di polizia che assumono tali qualifiche.

Nello specifico, sono ufficiali di polizia giudiziaria:  

  •  «i dirigenti, i commissari, gli ispettori, i sovrintendenti e gli altri appartenenti alla Polizia di Stato ai quali l’ordinamento dell’amministrazione della pubblica sicurezza riconosca tale qualità»;
  • «gli ufficiali superiori e inferiori e i sottufficiali dei carabinieri, della guardia di finanza, degli agenti di custodia e del corpo forestale dello stato, nonché gli altri appartenenti alle predette forze di polizia ai quali l’ordinamento delle rispettive amministrazioni riconosca tale qualità»;
  • «il sindaco dei comuni ove non abbia sede un ufficio della polizia di Stato o un comando dell’arma dei carabinieri o della guardia di finanza»;

Sono, invece, agenti di polizia giudiziaria:

  • «il personale della polizia di Stato al quale l’ordinamento dell’amministrazione della pubblica sicurezza riconosce tale qualità»;
  • «i carabinieri, le guardie di finanza, gli agenti di custodia, le guardie forestali e, nell’ambito del territorio di appartenenza, le guardie delle province e dei comuni quando sono in servizio».

Inoltre, il comma 3 stabilisce che «sono altresì ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, nei limiti del servizio cui sono destinate e secondo le rispettive attribuzioni, le persone alle quali le leggi e i regolamenti attribuiscono le funzioni previste dall'articolo 55».

Secondo l’art. 327 c.p.p., la direzione delle indagini spetta al P.M. e tale norma tende, dunque, ad attuare il principio costituzionale in forza del quale l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria (art. 109 Cost.).

Alla luce di tale principio (secondo il quale il P.M. costituisce il dominus della fase delle indagini preliminari) discende che il giudice rimane durante tutta la fase estraneo ad esse ed interviene per provvedere, sulle richieste delle parti e della persona offesa, solo nei casi previsti dalla legge.

Occorre delineare all’interno di tale fase una fondamentale distinzione: vi sono atti che sono compiuti ad iniziativa della polizia giudiziaria ed atti che sono compiuti ad iniziativa del pubblico ministero.

La distinzione rileva in ordine ad una regolamentazione parzialmente diversa anche sotto il profilo della utilizzabilità di alcuni atti in dibattimento, ma soprattutto implica una differente ampiezza di poteri coercitivi in capo all’organo inquirente. Il dato concreto è che gli atti di indagine sono svolti in segreto dal soggetto che indaga e, dunque, sono assunti unilateralmente e in assenza di contradditorio.

Per tale ragione, di regola, gli atti di indagine non sono utilizzabili ai fini della decisione pronunciata in dibattimento (si allude al c.d. “principio della separazione delle fasi”).  La norma cardine è sancita dalla Carta costituzionale, in base al quale «il processo penale è regolato dal principio del contradditorio nella formazione della prova» (art. 111, comma 4); quest’ultimo si rinviene anche nel codice di rito all’art. 526, secondo cui «il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento».

Pertanto, il procedimento delle indagini preliminari è diretto a verificare, attraverso la ricostruzione di un determinato fatto, se sussistono o meno elementi idonei a consolidare il sospetto che un soggetto possa aver compiuto un reato, al punto tale da sottoporre quel fatto alla valutazione di un organo giurisdizionale[4].

In altri termini, questa fase è diretta a verificare, in via meramente preliminare, la fondatezza della notizia di reato pervenuta direttamente o indirettamente al pubblico ministero, con una attività, per l’appunto, di indagine che permetta di avere sufficiente contezza dei fatti e di poter così trarre le necessarie valutazioni sul punto di diritto.

Se, sulla scorta degli esiti di queste indagini, la colpevolezza di un indagato compiutamente identificato appare sufficientemente accertata (e non si profilano ragionevoli perplessità per desumere l’inutilità di un giudizio dibattimentale), il pubblico ministero esercita l’azione penale, sottoponendo l’ipotesi accusatoria al vaglio di un giudice terzo e imparziale. Davanti a quest’ultimo si formeranno le prove, su cui potrà, infine, essere ritualmente fondata la decisione di condanna o di proscioglimento.

Qualora, di converso, per considerazioni di varia natura, in punto di fatto o di diritto (sostanziale o processuale), il P.M. si convinca  che la notizia di reato è infondata (perché il fatto non sussiste o non costituisce reato, ovvero l’indagato non lo ha commesso o non è punibile per la particolare tenuità del fatto)[5], che il reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità, sarà, invece, richiesta al giudice per le indagini preliminari l’archiviazione degli atti. Alla stessa stregua si comporterà il magistrato inquirente, allorquando non siano stati identificati gli autori del reato[6].

Nel corso della fase in esame, come accennato, interviene il G.I.P. che svolge una funzione di controllo imparziale sui provvedimenti più importanti, senza esercitare poteri di iniziativa.

Egli è dotato di una “giurisdizione semipiena” perché incontra due limiti fondamentali: la funzione è esercitata soltanto «nei casi previsti dalla legge» e su richiesta di parte (art. 328 c.p.p.). Fra i casi previsti dalla legge si ricorda la convalida dell’arresto e del fermo, l’emissione dei provvedimenti cautelari e l’autorizzazione alle intercettazioni.

Inoltre, la legge consente che, in ipotesi tassativamente elencate, di fronte al giudice per le indagini preliminari siano assunte le prove non rinviabili al dibattimento, come nel caso dell’incidente probatorio (art. 392, c.p.p.).

Quando il giudice interviene nel corso delle indagini preliminari, e cioè prima della formulazione dell’imputazione, non ha una cognizione piena del quadro probatorio, ma limitata (a differenza di quello che accade in dibattimento), in quanto deve decidere soltanto sulla base dei verbali presentati delle parti potenziali (pubblico ministero, indagato, offeso).

L’altra peculiarità è rappresentata dal fatto che la funzione giurisdizionale è svolta in tali casi prima dell’esercizio dell’azione penale, in deroga al principio generale nulla iurisdictio sine actione. La deroga è giustificata dalla preminente esigenza di assicurare la garanzia di un organo imparziale in una fase nella quale il P.M. chiede provvedimenti che incidono profondamente sulle fondamentali libertà garantite dalla Costituzione.

1.1. L’attività di iniziativa della polizia giudiziaria

All’interno delle indagini preliminari, come già accennato nel precedente paragrafo, il codice distingue tra «attività a iniziativa della polizia giudiziaria» (titolo IV) ed «attività del pubblico ministero» (titolo V).

La finalità di tale ripartizione non è quella di isolare una fase “autonoma” attribuita alla polizia giudiziaria, in quanto tutte le indagini preliminari si svolgono sotto la direzione del P.M. (art. 327 c.p.p.), bensì quella di precisare la differente regolamentazione degli atti sotto vari profili, tra cui l’esercizio di poteri coercitivi sulle cose e la tutela del diritto di difesa.

Nell’ambito dell’attività svolta d’iniziativa dalla P.G. è possibile delineare ulteriori distinzioni. In primo luogo, vi è un’attività di iniziativa in senso stretto, c.d. “autonoma”, consistente nel raccogliere «ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto e alla individuazione del colpevole» (art. 348, comma 1, c.p.p.), che inizia dal momento in cui è pervenuta la notizia di reato e termina quando il pubblico ministero ha impartito le sue direttive.

In secondo luogo, vi è un’attività di iniziativa in senso ampio, c.d. “successiva”, che la polizia giudiziaria svolge dopo aver ricevuto le direttive dal pubblico ministero. Questa può ulteriormente distinguersi in iniziativa “guidata” ed in iniziativa “parallela”: la prima ha ad oggetto la stretta esecuzione delle direttive del P.M., mentre la seconda comprende «tutte le altre attività di indagine per accertare i reati», che la P.G. può eseguire a condizione che ne informi «prontamente» il pubblico ministero (art. 348 c.p.p.); ciò significa che l’indagine parallela è del tutto legittima, stante, tuttavia, il suo carattere eccezionale. È, pertanto, opportuno che il pubblico ministero abbia sempre chiaro il quadro generale delle indagini,

Infine, è prevista la c.d. attività “integrativa”, ossia svolta di iniziativa ma sulla base dei dati emersi a seguito del compimento di atti delegati dal pubblico ministero, al fine di assicurarne la massima efficacia. Basti pensare al caso in cui da un interrogatorio delegato si scoprono fonti di prova da assicurare.

Occorre evidenziare che l’attività integrativa e quella parallela incontrano due limiti: da un lato, il sistema induce a ritenere che sia vietato il compimento di atti eventualmente in contrasto con le direttive del pubblico ministero, dall’altro, la polizia giudiziaria ha l’obbligo di informare prontamente quest’ultimo degli ulteriori elementi raccolti.

2.  L’attività di informazione: la notizia di reato

La polizia giudiziaria, quale longa manus del pubblico ministero e, in ossequio all’art. 55, comma 1, c.p.p., pone in essere tre distinte attività nel corso delle indagini preliminari: attività informativa, attività investigativa e attività assicurativa.

L’attività “informativa” è diretta a conoscere la notizia di reato in tutte le sue sfaccettature, dal momento della realizzazione del fatto tipico sino alla ricostruzione dell’intera vicenda che sarà portata dinanzi al giudice. In altre parole, l’attività informativa discende dall’insieme degli atti (sommarie informazioni dell’indagato e della persona informata, sommarie informazioni sul luogo e nell’immediatezza, informazioni della P.G.), che hanno la finalità di fornire elementi conoscitivi atti a dimostrare l’esistenza del reato e l’attribuzione dello stesso ad un soggetto unitamente a tutte le circostanze[7].

La prima fonte informativa è la notizia di reato (c.d. notitia criminis, secondo l’antica formula), quale informazione pre-procedimentale non definita dal codice, ma che, tuttavia, può essere desunta dal combinato disposto degli artt. 330 e 347 c.p.p.

Pertanto, per notizia di reato deve intendersi qualsiasi informazione che costituisca una ipotesi di reato e che abbia ad oggetto fatti astrattamente sussumibili in fattispecie criminose. Non occorre che nel fatto siano contemplati tutti gli elementi costitutivi del reato (elemento oggettivo, soggettivo, assenza di esimenti), in quanto può ravvisarsi una notitia criminis ogniqualvolta si rappresenti un fatto astrattamente idoneo ad integrare il solo elemento oggettivo di un reato[8].

In dottrina, sono pacifici i caratteri che deve rivestire una comunicazione affinché possa essere qualificata come notizia di reato: la concretezza e la specificità del fatto[9] e la sua ipoteticità, intesa come possibilità di reato; essa, dunque, deve contenere «gli elementi essenziali del fatto», secondo quanto prevedono gli artt. 332 e 334, 2 comma, c.p.p., cioè una porzione di fatto storico, inquadrabile in un determinato schema di reato.

Nella nozione in esame rientra anche la sua attribuibilità ad un soggetto (art. 332, 1 comma, c.p.p.), in quanto, in assenza di collegamento, vi sarebbe soltanto un mero accidente o il frutto del caso fortuito o della forza maggiore. Inoltre, sulla scorta di quanto disposto dall’art. 335, 1 comma, c.p.p., si evince indirettamente che non è necessario per la sua configurazione che il soggetto sia identificato.

Infatti, la citata norma sancisce l’obbligatorietà dell’iscrizione della notizia di reato, a prescindere dall’avvenuta identificazione del soggetto. Quest’ultimo può essere ignoto, in quanto non ancora scoperto o identificato, oppure indeterminato ma determinabile (ad es. quando il reato è genericamente attribuito ad un organo della p.a.).

Anche la sua contestualizzazione in ambito spazio-temporale e la possibilità di verificazione, nel senso che non deve porsi in contrasto col patrimonio conoscitivo scaturito dal complesso delle leggi scientifiche e dalle massime di esperienza, sono parte della notizia di reato, con l’ulteriore conseguenza che un’informazione assurda e del tutto fantastica, prima facie, non lascerebbe adito ad alcuna indagine.

Ultimo carattere della notizia di reato, ma non meno importante, è la sua paternità, nel senso che gli scritti o le comunicazioni anonime, non essendo utilizzabili, al pari delle notizie confidenziali, non possono mai configurare gli estremi. In tal senso statuisce l’art. 333, comma 3, c.p.p., secondo il quale delle denunce anonime non può essere fatto alcun uso.

Fermo restando quanto esposto in ordine ai caratteri qualificanti la notizia di reato, la sua disciplina normativa si rinviene nell’art. 330 c.p.p., rubricato “Acquisizione della notizia di reato”, il quale prevede che il pubblico ministero e la polizia giudiziaria prendono notizia dei reati di propria iniziativa ovvero ricevono le notizie di reato a loro presentate o trasmesse.

Orbene, la citata disposizione è chiara nel prevedere che il pubblico ministero e la polizia giudiziaria non devono necessariamente essere dei passivi recettori di segnalazioni esterne[10], ma hanno la facoltà di procedere autonomamente alla ricerca[11]. Nel momento in cui una notizia di reato viene acquisita, gli operanti assumono immediatamente le funzioni e i doveri di ufficiali o agenti di polizia giudiziaria e devono provvedere nei termini di legge alla comunicazione al pubblico ministero di quanto a loro conoscenza, in ottemperanza alle disposizioni di cui all’art. 347, comma 1, c.p.p.

Il P.M., una volta acquisita la notizia di reato direttamente (di propria iniziativa o per il tramite di esposto/denuncia/segnalazione/querela presentati direttamente presso gli uffici della Procura) o indirettamente (a seguito di formale comunicazione da parte della polizia giudiziaria), deve procedere all’iscrizione nel registro delle notizie di reato ed assumere la direzione delle indagini, al fine di verificare se sussista o meno l’obbligo, stabilito dall’art. 112 Cost., di esercitare sul punto l’azione penale.

Pertanto, la notizia di reato si distingue tradizionalmente in due categorie:

  1. “qualificata”, se essa assume una delle forme tipiche previste dal codice di rito (denuncia, querela, istanza, richiesta, referto);
  2. “non qualificata”, allorché si tratta di qualsivoglia informativa idonea a portare a conoscenza degli inquirenti la realizzazione di un fatto ipotizzato come reato (attraverso comunicazioni mediatiche, fatto notorio anche a livello locale, diretta percezione o rappresentazione, scritti o telefonata anonima).

Detta suddivisione attiene alla morfologia della notizia di reato e dalla formale ricezione, apprensione o formazione di quest’ultima, si apre formalmente la fase delle indagini preliminari.

3. Gli atti tipici di investigazione “diretta”

Il pubblico ministero, come anzidetto, è secondo la concezione tradizionale il dominus delle indagini preliminari, dotato di rilevanti poteri coercitivi e della funzione di direzione e coordinamento dell’attività investigativa della polizia giudiziaria.

Egli, dopo aver iscritto la notizia di reato, può procedere personalmente ad atti di indagine, sia regolati dal codice (tipici) sia atipici (purché non illeciti), oppure può delegare singoli atti o l’intera attività investigativa, anche mediante direttive non del tutto specifiche, alla polizia giudiziaria.

In particolare, l’attività svolta dalla P.G. di propria iniziativa si pone all’inizio delle indagini preliminari, a decorrere dal momento in cui la stessa ha acquisito la notizia di reato; essa consiste nella raccolta di ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto (c.d. fonti di prova) ed alla individuazione del colpevole (art. 348, comma 1, c.p.p.), procedendo sia alla ricerca e conservazione delle cose e delle tracce pertinenti al reato (c.d. fonti di prova reali), sia alla ricerca di persone in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti (c.d. fonti di prova personali), nonché al compimento di atti specificamente indicati (artt. 340-354 c.p.p.).

L'attività di investigazione può consistere nel compimento di «atti tipici» di indagine, espressamente disciplinati dal codice di rito (ad esempio, le perquisizioni artt. 247 – 252, 352 c.p.p.; le sommarie informazioni dall’indagato e da altre persone artt. 350 e 351 c.p.p.) e di «atti atipici» (o informali), cioè quell’attività che, pur non essendo espressamente disciplinata dal codice, non è da questo vietata e anzi rientra nelle regole della buona tecnica di indagine[12].

Le attività della P.G., dirette a stabilire la natura del reato e l'identificazione dell'autore, implicano specifiche operazioni che vengono generalmente suddivise, secondo una consueta classificazione, in indagini dirette ed indirette.

Si definiscono atti di «investigazione diretta» quelli nei quali l’attività si svolge immediatamente su persone e cose. Si pensi a quelle compiute sul luogo del reato che consistono nell’osservare, fissare ed evidenziare con precise metodologie tutto ciò che presenta l’ambiente in esame, in stretta correlazione con il fatto per cui si opera; pertanto, essi fissano dati di fatto inconfutabili, cioè obiettivi e controllabili.

Si considerano, invece, di «investigazione indiretta», gli atti dove l’attività prevede il contributo di persone diverse dagli operanti (es. persona offesa, potenziale testimone, indagato) [13].

Tra gli atti tipici di investigazione “diretta” si annoverano l’identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini e di altre persone (art. 349 c.p.p.), la perquisizione (personale e locale) e gli accertamenti urgenti sullo stato dei luoghi, delle cose o delle persone (art. 354 c.p.p.).

3.1. L’identificazione della persona indagata e di altre persone

L’attività di identificazione è indirizzata all’accertamento delle esatte generalità di un soggetto e può riguardare tanto l’ambito di operatività della polizia di sicurezza, quanto quello di polizia giudiziaria.

Nel primo caso può essere definita quale attività preventiva diretta all’individuazione certa di soggetti potenzialmente pericolosi per l’ordine e la sicurezza pubblica ovvero, nel secondo caso (cui fa riferimento il presente paragrafo), quale attività d’indagine volta all’individuazione certa del soggetto sottoposto alle indagini o di altre persone in grado di riferire su circostanze utili alla ricostruzione dei fatti. In altre parole, l’identificazione, quale atto tipico non garantito[14] con cui “viene dato un nome ad un volto”[15], ha ad oggetto una persona fisica individuata, di cui però non si conoscono le generalità e il suo scopo è, dunque, il nome dell’indagato[16].

L’articolo 349 del codice di procedura penale disciplina le principali ipotesi di identificazione: quella relativa a persona sottoposta alle indagini e quella relativa alle persone informate sui fatti[17].

La persona indagata è invitata a dichiarare le proprie generalità, con il monito che il rifiutarsi di fornirle e il darle false, costituisce reato (art. 66, comma 1, c.p.p.). Difatti, il c.d. diritto al silenzio non si applica alle dichiarazioni sulla propria identità personale: il reato commesso in caso di mancata dichiarazione delle generalità è quello di cui all’art. 651 c.p., mentre in caso di false dichiarazioni sulla propria identità viene violato l’art. 496 c.p.[18].

La polizia giudiziaria, (per la completa identificazione) richiede all’indagato, oltre alle generalità, il soprannome o lo pseudonimo, le condizioni di vita individuale, familiare o sociale, se è sottoposto ad altri processi, le condanne riportate nello Stato o all’estero, etc.

Secondo quanto stabilisce il comma 2 dell’art. 349 c.p.p., qualora sia sottoposto a identificazione l’indagato, la P.G. può procedere «anche eseguendo, ove occorra, rilievi dattiloscopici, fotografici e antropometrici nonché altri accertamenti»; alla luce di tale disposizione, è da escludere che tale modus operandi possa essere applicato anche alle persone informate sui fatti, tenuto conto della invasività degli strumenti contemplati.

L’interpretazione dell’art. 349, comma 2, c.p.p. consente, tuttavia, di escludere che sia sempre e comunque doveroso l’espletamento dei rilievi prescritti per l’identificazione dell’indagato[19].

Peraltro, tra i rilievi da compiersi nei confronti della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini (per fini di identificazione) è compreso il prelievo di capelli o saliva, che può avvenire su consenso dell’interessato.

Se l’indagato non presta il suo consenso, la polizia giudiziaria procede al prelievo coattivo nel rispetto della dignità personale dell’interessato, ma deve ottenere dal pubblico ministero una previa autorizzazione scritta oppure resa oralmente e confermata per iscritto (art. 349, comma 2-bis, c.p.p.)[20].

Inoltre, ai sensi dell’art. 349, comma 3, c.p.p., la persona indagata viene invitata ad eleggere un domicilio per le notificazioni che si renderanno necessarie nel corso del procedimento (si pensi all’informazione di garanzia o alla richiesta di rinvio a giudizio)[21].

Infatti, in ossequio all’art. 161, comma 1, c.p.p., nel primo atto compiuto con l’intervento dell’imputato o dell’indagato, l’autorità procedente lo invita a dichiarare o eleggere il proprio domicilio[22].

Il codice di rito prevede, altresì, la possibilità di esercizio di un potere coercitivo in capo alla polizia giudiziaria. Il 4° comma dell’articolo 349 precisa, invero, che se taluna delle persone suindicate rifiuta di farsi identificare ovvero fornisce generalità o documenti di identificazione in relazione ai quali sussistono sufficienti elementi per ritenerne la falsità, la P.G. procede ad accompagnarla coattivamente presso i propri uffici e ivi la trattiene il tempo strettamente necessario per l’identificazione.

La persona accompagnata non può comunque essere trattenuta oltre le dodici ore, a meno che l’identificazione risulti particolarmente complessa ovvero occorra l’assistenza dell’autorità consolare o di un interprete; in queste ultime ipotesi, può essere trattenuta fino a ventiquattro ore previo avviso, anche orale, al pubblico ministero ed ha la facoltà di «chiedere di avvisare un familiare o un convivente».

In ogni caso, dell’accompagnamento[23] e dell’ora in cui questo è avvenuto è dato immediato avviso al pubblico ministero, il quale, se ritiene che non ricorrano i presupposti di legge, ordina il rilascio della persona accompagnata (art. 349, comma 5, c.p.p.). Il P.M. deve essere altresì informato del rilascio della persona accompagnata e dell’ora in cui esso è avvenuto (art. 349, comma 6, c.p.p.).

3.2. La perquisizione

I reati, quali attività umane espletate in un determinato contesto sociale, lasciano tracce anche indirette nel mondo fenomenico.

Nel caso in cui queste ultime siano nella materiale disponibilità di un soggetto, indagato o meno (sulla sua persona o all’interno di beni o luoghi a lui riconducibili), gli inquirenti devono effettuare le necessarie ricerche, anche invasive, per rinvenire ed acquisire al materiale probatorio quanto utile per l’accertamento dei fatti e l’individuazione dei responsabili.

Quest’atto di indagine, detto perquisizione[24] (mezzo di ricerca della prova), può essere effettuato, secondo regole parzialmente diverse, dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, su iniziativa o a seguito di delega. In questo paragrafo, si fa espressamente riferimento al primo caso (salva la necessità di tempestiva comunicazione alla Procura e di conseguente convalida), ai sensi dell’art. 352 c.p.p.

Essa consiste nel ricercare una cosa da assicurare al procedimento o una persona da arrestare[25]. L’azione di ricerca non si limita ad un mero esame visivo, bensì deve necessariamente esplicarsi anche nel frugare e rovistare: al contrario dell’ispezione dove gli operanti, metaforicamente, usano solo gli occhi, nella perquisizione devono usare anche le mani[26].

Ha un utilizzo multiforme e la sua collocazione nell’investigazione risponde alle esigenze più disparate, potendo essere posta all’esito di una complessa indagine, in cui rappresenterà una sorte di “redde rationem” dell’imponente sforzo investigativo sostenuto, oppure più semplicemente una verifica estemporanea di una presenza sospetta, cui potrà far seguito l’immediato conseguimento di un risultato (ad esempio l’arresto di un latitante, il sequestro di una partita di droga, ecc.)[27].

A seconda dell’oggetto dell’attività di ricerca, si distingue tra perquisizione personale, locale (comprensiva delle cosiddette perquisizioni veicolari e domiciliari) e informatica.

La perquisizione personale è disposta quando vi è fondato motivo di ritenere che taluno occulti sulla persona:

  1. il “corpo del reato”, ovvero le cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso[28] e le cose che ne costituiscono il prodotto[29], il profitto[30]od il prezzo[31];
  2. le “cose pertinenti al reato”, locuzione più ampia che ricomprende qualunque cosa legata, pur solo indirettamente, alla fattispecie criminosa[32] avente la funzione di provare il reato o la responsabilità del suo autore[33].

La perquisizione locale è disposta quando vi è fondato motivo di ritenere che tali cose si trovino in un determinato luogo ovvero che in esso possa eseguirsi l’arresto dell’imputato o dell’evaso (art. 247, comma 1, c.p.p.).

La perquisizione informatica è disposta, invece, «quando vi è fondato motivo di ritenere che dati, informazioni, programmi informatici o tracce comunque pertinenti al reato si trovino in un sistema informatico o telematico», anche qualora tale sistema sia protetto da misure di sicurezza; devono essere adottate «misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne l’alterazione» (art. 247, comma 1-bis, introdotto dalla legge n.48 del 2008)[34].

Fatte queste premesse, come già detto, oltre che su delega del pubblico ministero, la polizia giudiziaria, secondo il sistema codicistico, può procedere a perquisizione di sua iniziativa (salva la necessità di tempestiva comunicazione alla Procura e di conseguente convalida), ai sensi dell’art. 352 c.p.p. Questa iniziativa deve ovviamente coordinarsi con il potere di direzione delle indagini del magistrato del pubblico ministero.

Le ipotesi in cui la P.G. procede di propria iniziativa sono disciplinate dall’art. 352 del c.p.p. La norma prevede due distinte fattispecie, disciplinate rispettivamente dal primo e dal secondo comma.

Nella prima ipotesi, i presupposti della perquisizione personale o locale consistono nello stato di flagranza di reato o evasione e nell’esistenza di un fondato motivo (non quindi di un mero sospetto) che sulla persona da perquisire si trovino occultate cose o tracce pertinenti al reato che possono essere cancellate o disperse, oppure che tali cose o tracce si trovino in un determinato luogo o, ancora, che nel predetto luogo si trovi la persona sottoposta alle indagini o l’evaso[35].

Nella seconda ipotesi è prevista la possibilità di procedere a perquisizione personale o locale quando occorre dare esecuzione a un’ordinanza che dispone la custodia cautelare oppure a un ordine che dispone la carcerazione nei confronti di persona imputata o condannata per uno dei delitti per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza ovvero al fermo di una persona indiziata di delitto.

In quest’ultimo caso, oltre ai presupposti previsti dalla precedente fattispecie, devono sussistere particolari motivi di urgenza che non consentano l’emissione di un tempestivo decreto di perquisizione da parte del pubblico ministero, e che dovranno essere specificamente indicati. In ambedue le ipotesi, la norma attribuisce il potere di procedere alle perquisizioni ai soli ufficiali di polizia giudiziaria; tuttavia, nei casi di particolare necessità e urgenza, queste possono essere compiute anche dagli agenti (art. 113 disp. att.)[36].

Le perquisizioni rientrano tra le ipotesi di atti limitativi della libertà personale e, come tali, dovrebbero sempre fondarsi su provvedimenti motivati dell’autorità giudiziaria, che li dispone nei soli casi e modi previsti dalla legge.

Tuttavia, l’esigenza di contemperare il rispetto della libertà personale costituzionalmente garantita e le esigenze di ordine e sicurezza pubblica, fanno sì che, in casi eccezionali di necessità e di urgenza, la polizia giudiziaria possa adottare provvedimenti provvisori, come appunto le perquisizioni, che devono essere trasmessi all’autorità giudiziaria competente entro quarantotto ore dal compimento degli stessi, la quale, ove ne ricorrano i presupposti, convalida l’atto.

Insomma, la potestà della polizia giudiziaria di procedere a perquisizione è sottoposta al controllo, pressoché immediato, dell’autorità giudiziaria che valuta se l’intervento sia stato rispettoso dei rigidi parametri normativi, secondo lo schema classico previsto dall’art. 13 Cost[37].

Nello specifico, l’art. 352, comma 4, c.p.p. stabilisce che «la polizia giudiziaria trasmette senza ritardo, e comunque non oltre le quarantotto ore, il verbale delle operazioni compiute al pubblico ministero del luogo dove la perquisizione è stata eseguita. Il pubblico ministero, se ne ricorrono i presupposti, nelle quarantotto ore successive, convalida[38] la perquisizione».

Nondimeno, il comma 3 dell’art. 13 Cost., prevede che qualora l’autorità di pubblica sicurezza non comunichi entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria i provvedimenti restrittivi della libertà personale, provvisoriamente adottati dalla P.G., tali atti “si intendono revocati e restano privi di ogni effetto”; pertanto, le perquisizioni compiute sono inutilizzabili. Si noti come, in ipotesi, l’ufficio di Procura a cui spetta convalidare la perquisizione possa non essere quello competente a procedere per il reato contestato[39].

Inoltre, quando viene effettuata una perquisizione devono essere osservate alcune formalità a tutela dei diritti di libertà garantiti dalla Costituzione. In particolare, le modalità esecutive sono contemplate dagli artt. 249, 250 e 251 c.p.p., che dettano disposizioni di carattere generale.

La perquisizione personale deve essere eseguita nel rispetto della dignità della persona e, nei limiti del possibile, del pudore di chi vi è sottoposto. A tal fine, l’art. 79 disp. att. c.p.p. esige che le perquisizioni (e le ispezioni) personali siano fatte eseguire da persone dello stesso sesso di quella che vi è sottoposta, salvi i casi di impossibilità o di urgenza assoluta; tale obbligo viene meno qualora le operazioni siano compiute da persona esercente la professione sanitaria.

Prima di procedere al relativo espletamento, la polizia giudiziaria deve avvertire la persona sottoposta alle indagini della facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia a patto che sia prontamente reperibile. Essendo, infatti, la perquisizione un atto a sorpresa, il difensore non ha diritto di essere preavvisato, poiché verrebbe frustrato lo scopo stesso dell’atto.

In caso di perquisizione locale, la polizia giudiziaria, prima di procedere, deve avvertire la persona sottoposta alle indagini e colui che ha la disponibilità anche momentanea del luogo, se persona diversa dall’indagato, che può farsi assistere da persona di fiducia purché prontamente reperibile e idonea a testimoniare agli atti del procedimento ai sensi dell’art. 120 c.p.p.

L’indagato deve essere ancora avvisato della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia purché prontamente reperibile[40] (art.114 disp. att.).

Quanto al modus operandi, le perquisizioni locali possono essere eseguite, di regola, nelle abitazioni o nei luoghi chiusi adiacenti ad esse non prima delle ore sette e non dopo le ore venti; tuttavia, i predetti limiti temporali possono essere derogati qualora il ritardo possa pregiudicare l’esito della perquisizione stessa (art. 352, comma 3, c.p.p.). 

Le cose rinvenute, se costituiscono corpo del reato o sono pertinenti al reato, sono sottoposte a sequestro (art. 252 c.p.p.). Se si trova la persona ricercata, si dà esecuzione all’ordinanza di custodia cautelare o ai provvedimenti di arresto o di fermo.

Per quanto concerne le ipotesi particolari di perquisizioni, previste da leggi speciali[41],  tra di esse si annoverano:

  • perquisizioni personali in materia di stupefacenti[42];
  • perquisizioni in materia di armi[43];
  • perquisizioni antimafia e antiterrorismo[44];
  • perquisizioni di polizia tributaria;
  • perquisizione presso banche e il blocco delle cassette di sicurezza;
  • perquisizioni in carcere.

Quest’ultime consistono nelle perquisizioni personali che la Polizia Penitenziaria esegue nei confronti di detenuti ed internati nelle celle da loro occupate all’interno degli istituti carcerari, “per motivi di sicurezza” e “nel pieno rispetto della personalità” (art. 34, L. n. 354/1975 cit.).

A questo istituto, che si basa su peculiarissime ragioni di controllo dell’ordine interno e non presuppone lo stato di flagranza, né la finalità di reperire prove o tracce di un reato, è stato riconosciuto il carattere amministrativo.

La disciplina dettata dall’art. 352 c.p.p. in materia di perquisizioni d’iniziativa da parte della polizia giudiziaria non trova, dunque, applicazione in questi casi, di modo che resta assolutamente superflua la convalida della perquisizione da parte dell’autorità giudiziaria (salvo la necessaria convalida dell’eventuale sequestro probatorio)[45].

3.3. Gli accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone

L’esperienza insegna che per molte specie di reati il sopralluogo è il mezzo più veloce per l’identificazione del colpevole. Purtroppo, le tracce lasciate sul luogo del reato e perdute, per sfortuna o incapacità degli inquirenti, non possono essere più recuperate.

Pertanto, gli atti fondamentali di tipo investigativo sono proprio i rilievi e gli accertamenti urgenti, che hanno una triplice finalità:

  1. comprendere la dinamica del fatto dalla quale spesso dipende l’esistenza o meno del reato;
  2. raccogliere gli elementi di prova presenti;
  3. cercare spunti per la successiva attività di indagine.

La fondamentale differenza tra questo accertamento (che prevede, ex art. 356 c.p.p., la facoltà per il difensore di assistere, pur senza diritto al preavviso) e il mero sopralluogo diretto a documentare, anche mediante fotografie o video, lo stato di un luogo o di una cosa in un determinato momento consiste proprio nell’attività di acquisizione di tracce del reato.

Il sopralluogo[46] inteso come atto riservato, sia pure non ripetibile, consiste essenzialmente in una mera percezione che non incide, neppure in minima parte, sulla struttura e sulla consistenza della res oggetto di osservazione; invece, l’effettuazione di accertamenti urgenti e rilievi[47] presuppone una condotta materiale che interviene fisicamente sulla realtà esteriore, anche in misura minima.

A tale riguardo, la P.G. pone in essere tre distinte attività:

  1. “l’attività di conservazione” che consiste nel curare che le cose o tracce pertinenti al reato siano conservate e che lo stato dei luoghi non sia mutato prima dell’intervento del pubblico ministero (art. 354, comma 1, c.p.p.)[48]. Sicché, la P.G., da un lato, deve impedire che vengano asportate cose (es. l’arma del delitto) o cancellate tracce (es. le impronte digitali dall’arma) e dall’altro lato, che cose o tracce vengano aggiunte (es. mozziconi di sigaretta) o che siano spostate di posizione (es. il bossolo del proiettile mortale);
  2. i “rilievi urgenti” che consistono nella attività di osservazione dello stato dei luoghi, delle cose o delle persone, nonché nella descrizione delle tracce o degli effetti materiali del fatto-reato (art. 354, comma 2, c.p.p.). Tale comma aggiunge che qualora vi sia pericolo che le cose, le tracce e i luoghi indicati nel 1 comma si alterino e si disperdano o comunque si modifichino, se il P.M. non può intervenire tempestivamente ovvero non ha ancora assunto la direzione delle indagini, gli ufficiali di polizia giudiziaria compiono i necessari accertamenti e rilievi sullo stato dei luoghi e delle cose;
  3. gli “accertamenti urgenti” che rappresentano una operazione di tipo tecnico che deve essere compiuta dalla P.G. in presenza dei presupposti sopra menzionati (il pubblico ministero non può intervenire tempestivamente o non ha ancora assunto la direzione delle indagini).

Va precisato che agli accertamenti ed ai rilievi può procedere di regola un ufficiale e, in casi di particolare necessità ed urgenza, un agente (art. 113 disp. att.).

Alla luce di quanto detto, è importante chiarire con esattezza il significato dei termini “rilievo” ed “accertamento”, che vengono usati dal legislatore con accezioni diverse.

I rilievi si ricollegano anzitutto alla osservazione e quindi sono frutto di attività descrittiva e concernono la raccolta di dati pertinenti al reato, mentre gli accertamenti, all’opposto, indicano una attività complessa che, muovendo dai fatti oggettivi rilevati, procede ad una loro rielaborazione critica allo scopo di verificare un determinata ipotesi[49].

Il giudice di legittimità chiarisce che i rilievi si esauriscono nella constatazione e raccolta di dati materiali pertinenti al reato ed alla sua prova, mentre l’accertamento concerne il loro studio e la relativa elaborazione critica, attività necessariamente soggettive e per lo più fondate su cognizioni tecnico-scientifiche.

La distinzione non è di poco conto, ove si consideri che la norma va posta in relazione all’art. 360 c.p.p. e va interpretata coerentemente con quanto prescritto da quest’ultimo articolo.

Infatti, in presenza di un accertamento tecnico irripetibile (in quanto riguardante persone, cose o luoghi il cui stato è soggetto a modificazione), occorre procedere necessariamente con le garanzie di cui all’art. 360 c.p.p., investendo immediatamente l’autorità giudiziaria, mentre nessuna specifica formalità è richiesta per i rilievi, anche di natura tecnica, concernenti persone, cose o luoghi soggetti a modificazione, salva la facoltà per il difensore (eventualmente nominato) di assistere al compimento dell’atto (art. 356 c.p.p.).

Nel caso in cui debbano essere compiute attività che richiedono specifiche competenze tecniche, la polizia giudiziaria può servirsi dell’opera di esperti, che non possono rifiutarsi di collaborare: sono i c.d. ausiliari di polizia giudiziaria (art. 348, comma 4, c.p.p.)[50].

È importante ricordare che la P.G., quando agisce di propria iniziativa, deve conservare gli elementi di prova e non modificarli[51]; per tale ragione può compiere soltanto quegli accertamenti urgenti che, se anche manipolano una cosa, tuttavia non comportano modifiche dell’elemento di prova[52].

Il comma 2 dell’art. 354 c.p.p. prevede, altresì, il caso in cui ove sul posto siano reperiti dati, informazioni e programmi informatici o sistemi informatici o telematici, gli ufficiali della polizia giudiziaria devono adottare «le misure tecniche» e devono impartire «le prescrizioni necessarie ad assicurarne la conservazione e ad impedirne l’alterazione e l’accesso» dei dati originali e provvedono, ove possibile, alla loro «immediata duplicazione su adeguati supporti, mediante una procedura che assicuri la conformità della copia all’originale e la sua immodificabilità» (art. 354, comma 2, c.p.p.).

Infine, per quanto concerne l’acquisizione di reperti biologici, il materiale biologico, da cui può essere estratto il profilo generico (DNA), non sempre fa parte della sfera corporale di una persona vivente e, quindi, non necessariamente è oggetto di prelievo.

Invero, le tracce biologiche possono essere acquisite anche da luoghi, cadaveri o cose; in tali ipotesi il materiale biologico può essere raccolto ai sensi degli artt. 354 e 348, comma 4, ed è denominato «reperto»[53].

La raccolta di tracce biologiche può avvenire anche fuori del sopralluogo: in altri termini, i materiali organici, tessuti o fluidi corporei, possono trovarsi su cose abbandonate (es. mozziconi di sigaretta o tazzina del caffè)[54], ovvero su oggetti (es. indumenti) sottoposti a sequestro[55].  Trattasi di tracce biologiche che hanno già lasciato la sfera corporale del “proprietario” e perciò non viene in considerazione la necessità di eseguire prelievi o accertamenti personali coattivi.

Attualmente, la polizia giudiziaria può prelevare coattivamente materiale biologico esclusivamente dalla persona sottoposta alle indagini e soltanto al fine di provvedere all’identificazione personale di tale soggetto (art. 349, comma 2-bis, del quale si è trattato nei precedenti paragrafi[56]), mentre su persone diverse dall’indagato l’acquisizione di campioni biologici può avvenire soltanto su consenso dell’interessato[57].

4. Gli atti tipici di investigazione “indiretta”: le sommarie informazioni assunte dall’indagato e dalle persone informate sui fatti

La polizia giudiziaria non svolge solo atti tipici di investigazione diretta, bensì effettua anche indagini c.d. “indirette”.

Per atti di «investigazione indiretta», si intendono quelli dove l’attività prevede il contributo di persone diverse da chi opera, come l’indagato, potenziali testimoni, persone offese, etc. Si tratta di attività compiute in parallelo o successivamente alle “dirette”, al fine di acquisire elementi e informazioni utili alla identificazione del responsabile del reato in esame e volte ad acquisire dati confutabili, cioè soggettivi e non sempre controllabili. In tale categoria rientrano, in particolare:

  • le sommarie informazioni dall’indagato (art. 350 c.p.p.);
  • le sommarie informazioni assunte dalle persone informate sui fatti (art. 351 c.p.p.).

Con l’espressione «sommarie informazioni dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini», l’art. 350 c.p.p. dà un'unica indicazione per tre diverse modalità - molto diverse nei presupposti e nel regime di utilizzabilità - con cui l’indagato può rendere dichiarazioni alla polizia giudiziaria.

In primo luogo, si fa riferimento alle sommarie informazioni con l’assistenza del difensore, il cui atto non può essere compiuto dal semplice agente di polizia giudiziaria, ma è riservato all’ufficiale.

Quest’ultimo può assumere “sommarie informazioni utili per le investigazioni” ponendo domande all’indagato in presenza di due condizioni (art. 350, commi 1 e 3, c.p.p.): che l’indagato sia libero (e comunque non sia sottoposto alla misura dell’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare; art. 384-bis) e che il suo difensore sia presente.

La P.G., prima di assumere le sommarie informazioni, invita l’indagato a nominare un difensore di fiducia e, in mancanza, provvede a nominarne uno di ufficio per mezzo di richiesta al sistema automatizzato.

Il difensore, avvisato tempestivamente, ha l’obbligo di presenziare al compimento dell’atto e se non è stato reperito o non sia comparso (senza neppure avvalersi di un rituale sostituto), la polizia giudiziaria richiede al pubblico ministero di nominarne un altro “immediatamente reperibile”.

Si noti come le formalità di questo atto sono ridotte rispetto all’interrogatorio svolto dal pubblico ministero. L’art. 350, comma 1, c.p.p., infatti, impone di osservare l’art. 64[58], mentre nessun richiamo è fatto all’art. 65; pertanto non è imposto l’obbligo di contestare all’indagato un addebito provvisorio né di rendere noti gli elementi a suo carico[59].

In secondo luogo, vi sono le dichiarazioni spontanee dell’indagato[60]. L’ultimo comma dell’articolo 350 c.p.p. prevede la possibilità per la polizia giudiziaria di «ricevere dichiarazioni spontanee dall’indagato» libero o arrestato, ove il legislatore aggiunge che «di esse non è consentita l’utilizzazione nel dibattimento, salvo quanto previsto dall’art. 503, comma 3».

Questa seconda modalità presuppone che la P.G. non abbia posto domande e occorre che l’iniziativa sia provenuta dall’indagato[61]. Il codice non obbliga espressamente la polizia giudiziaria di dare gli avvisi contenuti nell’art. 64, comma 3 (avvertimento della facoltà di non rispondere, ecc.).

Di solito le dichiarazioni fatte spontaneamente alla P.G. vengono inserite in un separato verbale, sottoscritto anche dall’indagato ed esse, in considerazione della espressa previsione di legge, sono senza dubbio utilizzabili ai fini di prova nel giudizio abbreviato[62].

In terzo luogo, si hanno le dichiarazioni sul luogo o nell’immediatezza del fatto. Il comma 5 dell’art. 350 c.p.p. prevede che «sul luogo o nell’immediatezza del fatto» gli ufficiali di polizia giudiziaria possano, anche senza la presenza del difensore, assumere dall’indagato «notizie e indicazioni utili ai fini della immediata prosecuzione delle indagini».

Tale facoltà può essere esercitata anche se l’indagato è stato tratto in arresto in flagranza di reato o fermato a norma dell’art. 384 c.p.p. La disposizione introduce una deroga al sistema delle garanzie difensive, in quanto consente l’escussione dell’indagato anche in assenza del suo difensore e senza l’osservanza delle ulteriori garanzie di cui al comma 2 dell’art. 350 c.p.p.

La deroga è però temperata dal comma 6, in forza del quale di tali notizie ed indicazioni, assunte senza la presenza del difensore, «è vietata ogni documentazione e utilizzazione»[63].

Non è quindi possibile raccogliere a verbale questo tipo di dichiarazioni, non potendo essere in alcun modo documentate.

L’estrema fluidità di questo contatto tra operanti e l’indagato è dunque finalizzata a canalizzare eventuali esiti investigativi unicamente nella “immediata prosecuzione delle indagini”, permettendo alla polizia giudiziaria di sviluppare e approfondire i temi proposti dall’indagato. Anche in questo caso, il codice non impone alla P.G. di avvertire l’indagato che ha la facoltà di restare in silenzio.

L’altro atto di investigazione “indiretta” di iniziativa della polizia giudiziaria consiste nell’assumere «sommarie informazioni dalle persone diverse dall’indagato» (art. 351 c.p.p.).

Coloro che rendono le informazioni sono indicati dal codice con l’espressione «persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini» e vengono denominati nella prassi “persone informate” (o anche “possibili testimoni”).

Ciò vale a dire che la P.G. può assumere sommarie informazioni anche dalle persone che, a conoscenza dei fatti sui quali si svolgono le indagini, sono in grado di consentirne l’esatta ricostruzione e possono, nel caso in cui sia esercitata l’azione penale, assumere la veste di testimoni in sede di giudizio.

Non può tuttavia chiedere notizie sulle domande già formulate dal difensore dell’indagato (o dal suo sostituto) e sulle risposte che a tali domande siano state date.

Quindi, l’ufficiale o l’agente di polizia giudiziaria, una volta identificata la persona informata sui fatti[64] e convocata la stessa per rendere dichiarazioni, deve preliminarmente domandare se è stata già sentita dal difensore dell’indagato (o dal suo sostituto) e, in caso positivo, avvertirla che non deve fornire informazioni in merito alle risposte date. 

Le persone convocate hanno l’obbligo di presentarsi[l65], attenersi alle prescrizioni date[l66] per le esigenze delle indagini e raccontare ciò che sanno in relazione ai fatti sui quali vengono sentite.

L’assunzione di notizie avviene con l’osservanza delle norme dettate in tema di testimonianza concernenti l’incompatibilità con l’ufficio di testimone, l’obbligo di prestare l’ufficio, la facoltà di astensione dei prossimi congiunti, la disciplina del segreto professionale, d’ufficio e di Stato e il particolare regime riservato alle notizie fornite dagli informatori della polizia giudiziaria e dei servizi segreti (art. 351, commi 1 e 1-ter, c.p.p.).

Il rispetto delle suddette disposizioni è, evidentemente, funzionale alla verifica della possibilità di citare i soggetti escussi, innanzi al giudice del dibattimento, affinché riferiscano, in qualità di testimoni, sui medesimi dati conoscitivi comunicati alla P.G. in sede di sommarie informazioni. Queste ultime sono documentate attraverso verbale (art. 357, commi 1-3, che rinviano all’art. 373 c.p.p.) e di regola non sono utilizzabili in dibattimento (art. 514 c.p.p.)[67].

È stata, inoltre, prevista una disciplina ad hoc quando si devono assumere informazioni da minorenni in relazione a delitti di prostituzione minorile, adescamento di minori, atti persecutori, maltrattamenti in famiglia, pedopornografia ed assimilati[68].

Secondo il nuovo comma 1-ter, inserito nell’art. 351 c.p.p. dalla Legge n. 172 del 2012, la polizia giudiziaria deve avvalersi, in tali casi, «dell’ausilio di un esperto in psicologia o in psichiatria infantile, nominato dal pubblico ministero»; il compito dell’esperto è duplice: da un lato rendere meno traumatica per il minorenne la presa di contatto con l’autorità inquirente e la rievocazione di fatti e circostanze legati alla sua sfera intima, dall’altro rendere più proficua l’assunzione di informazioni attraverso l’uso di un linguaggio maggiormente comprensibile al minore[69]. Si ritiene opportuno segnalare che il relativo atto di indagine deve essere diretto dall’ufficiale di polizia giudiziaria.

Allo stesso modo (con l’ausilio di un esperto in psicologia o psichiatria) la P.G. procede quando deve assumere sommarie informazioni da una persona offesa, anche maggiorenne, in condizione di particolare vulnerabilità, e ciò a prescindere da un elenco tassativo di reati (art. 90-quater c.p.p.).

In ogni caso, «assicura che la persona offesa particolarmente vulnerabile, in occasione della richiesta di sommarie informazioni, non abbia contatti con la persona sottoposta ad indagini e non sia chiamata più volte a rendere sommarie informazioni, salva l’assoluta necessità per le indagini».

Occorre rammentare che l’assunzione di informazioni da persona indagata o imputata, in altro procedimento penale, per fatti «connessi» (art. 12 c.p.p.) o «collegati» per vincoli diversi dall’unicità della fonte probatoria (art. 371, comma 2 lett. b, c.p.p.) a quello per il quale si svolgono le indagini, è atto tipico dell’ufficiale di P.G., assimilabile all’analogo atto posto in essere dal magistrato del pubblico ministero.

L’ufficiale di polizia giudiziaria deve avvisare la persona che è assistita da un difensore d’ufficio, ma che può nominarne uno di fiducia e deve avvertire tempestivamente il difensore del diritto di assistere all’atto (art. 351, comma 1-bis, c.p.p.). Debbono ritenersi applicabili le disposizioni relative all’interrogatorio di persona indagata o imputata, in separato procedimento penale, per fatti connessi o collegati (artt. 363 e 210, commi 2,3,4 e 6, c.p.p.).

5. Gli atti atipici di investigazione: i servizi di osservazione, controllo e pedinamento

La polizia giudiziaria non compie solo atti tipici ma anche attività c.d. atipiche. Queste ultime, al contrario di quelli tipici, sono quelle attività che pur non essendo espressamente disciplinate dal codice di rito, non sono da questo vietate e anzi rientrano nelle regole della buona tecnica di indagine.  

Si tratta, pertanto, di tutte le attività di indagine non delineate dal legislatore secondo modalità di compimento conformi ad uno schema tipico, alle quali pure la polizia giudiziaria ricorre nell’esercizio della funzione[70].

Così, ad esempio, quando si prescrive che la P.G. deve raccogliere «ogni elemento utile» alla ricostruzione del fatto e all’individuazione del presunto colpevole (art. 348, comma 1, c.p.p.) si conferisce alla stessa un potere di iniziativa nell’investigazione tanto ampio da indirizzarsi in plurime direzioni e, in ragione delle scelte del momento, nel compimento di non ben definiti atti di indagine.

Ancora, e più esplicitamente, quando si precisa che, per conseguire i suoi fini istituzionali, la polizia giudiziaria procede, «tra l’altro», alla ricerca delle cose e delle tracce del reato, all’individuazione delle persone informate ed al compimento degli atti espressamente indicati (art. 348, comma 2, c.p.p.), si vuole ribadire l’eventualità che l’indagine richieda un approfondimento investigativo solo in parte suscettibile di essere inquadrato nello schema dell’atto «tipico».

Ovviamente, la distinzione incide sull’obbligo di documentazione: gli atti tipici debbono risultare da verbali, le attività atipiche possono formare oggetto di mera annotazione.

Alla luce di ciò, risulta sempre possibile un’attività di indagine “atipica” e all’interno di esse rientrano, in generale, gli appostamenti, le segnalazioni, le informazioni, le indicazioni, le notizie e le confidenze delle quali la P.G. si avvale e che assume secondo le modalità e i criteri più disparati, non riconducibili a schemi normativamente descritti.

In particolare, uno dei mezzi investigativi classici, quasi un topos delle tecniche di polizia e persino della narrativa, è rappresentato dal pedinamento, ossia dal controllo visivo, da parte di un operante o di più operanti organizzati e coordinati tra loro, degli spostamenti e delle condotte posti in essere in luogo pubblico o aperto al pubblico da un determinato soggetto[71].

Si tratta di un’attività di semplice constatazione della realtà storica a cui non consegue alcuna manifestazione autoritaria, né invasione della sfera della riservatezza (ascolto a distanza, teleriprese, etc.), né tantomeno con effetti di compressione delle libertà garantite (perquisizioni, intercettazioni, etc.).

Il pedinamento[72], quale modalità di indagine dinamica, in altre parole, rappresenta il seguire e l’annotare gli spostamenti, i movimenti, gli atteggiamenti ed i contatti di una persona; trattasi di una attività complicatissima da condurre, prefiggendosi una osservazione in movimento, a volte per percorsi lunghi ed articolati, nella maniera più occulta e riservata, onde non vanificare la genuinità dell’atto stesso.

Per siffatto motivo deve essere eseguito con un adeguato numero di operatori sufficienti a garantire una frequente ed oculata alternanza nella posizione di tallonamento del pedinato, al fine di non insospettirlo.

Il gergo degli operanti, traslato anche in non pochi provvedimenti giudiziari, definisce questa tipologia di indagine come “osservazione, controllo e pedinamento” (O.C.P.).

Quest’ultima, insomma, si esplica in una condotta di sorveglianza priva di qualsiasi intervento diretto nei confronti del controllato, che non si limiti a seguirlo sulla pubblica via, ma preveda anche momenti più statici ed, in questi casi, assume la connotazione di appostamento (ad esempio, se ne osservano discretamente gli incontri, i gesti, l’abbigliamento, i veicoli utilizzati, il luogo di lavoro, le compagnie e i locali frequentati, anche quando il soggetto è fermo in un bar, in un’area di parcheggio, in una zona isolata, ovvero lo si attende mentre è all’interno di un edificio, al fine di raccogliere tutte le informazioni necessarie).

L’appostamento, dunque, anche definito “appiattamento”, rappresenta, in genere, una attività di osservazione sicuramente meno difficoltosa, stante la sua natura statica[73].

Una volta individuata una collocazione che consenta una buona visuale, congiunta ad un adeguato occultamento, l’osservatore non avrà grossi problemi nel condurre il servizio annotando o documentando (con mezzi fotografici o audiovisivi) quanto occorra all’indagine.

La maggior cura va riservata alla scelta del posto di osservazione, che può essere la strada, se particolarmente affollata, un locale, una abitazione privata, un veicolo o mezzo nautico, opportunamente individuati per la loro posizione[74].

Il pedinamento, quale attività dinamica, e l’appostamento, quale attività statica, sono diretti all’acquisizione di elementi investigativi, in linea di massima, utili a raccordare e completare altre fonti di prova ovvero a predisporre la effettuazione di ulteriori atti di indagine.

Quanto appreso mediante diretta verifica sul campo è poi inserito in un’annotazione di servizio, il cui contenuto potrà essere veicolato nel dibattimento dall’escussione degli agenti o degli ufficiali di polizia giudiziaria che hanno materialmente espletato l’attività[75].

5.1. Le nuove frontiere del pedinamento: dal tradizionale a quello "elettronico"

Il moderno scenario tecnologico permette di pedinare un soggetto senza bisogno di mantenere costantemente il contatto visivo, mediante l’utilizzo di particolari apparecchiature.

A differenza dell’attività classica fatta di appostamenti, attese, tallonamenti, alternanza di operanti per evitare di allertare il bersaglio, controlli a media distanza, osservazioni discrete con binocoli (magari a infrarossi), le nuove modalità di pedinamento non riescono a registrare informazioni importantissime, legate alla diretta percezione visiva (un incontro, la cessione di un oggetto, la compagnia, l’abbigliamento, etc.), ma consentono di restare del tutto invisibili, monitorando discretamente i movimenti anche da una distanza di sicurezza (e persino dalla relativa comodità della “saletta intercettazioni”), con una precisione altissima (con uno scarto massimo di qualche metro), in teoria senza possibilità di perdere le tracce dell’obiettivo, e soprattutto con la possibilità di seguire il soggetto anche in luoghi privati o comunque di fatto preclusi all’ingresso degli operanti[76]: si allude al “pedinamento elettronico” mediante sistemi di tipo satellitare ovvero sfruttando la localizzazione cellulare.

Peraltro, nulla esclude la possibilità di proficue sinergie tra le indagini di “vecchia scuola” e i controlli basati sulle nuove tecnologie.

Nel primo caso, il c.d. target, obiettivo del pedinamento satellitare, è seguito nei suoi spostamenti tramite un localizzatore, o tracker, GPS (Global Positioning System, Sistema di posizionamento globale) che acquisisce da una rete dedicata di satelliti in orbita indicazioni precise sulle proprie coordinate geografiche, in ogni condizione metereologica e purché ci sia un contatto privo di ostacoli verso l’alto.

Il dispositivo trasmette di solito, mediante una Sim, i dati sulla posizione, comprensivi degli orari aggiornati, a un sistema informatico che li elabora e li riversa sulla cartografia per renderli fruibili all’utente. Si può prescindere dall’installazione del tracker su un’automobile o su un oggetto che il target porta con sé (attività clandestina che richiede intuitivamente cautela, attenzione e una qualche dose di fortuna), ogni qualvolta si possa utilizzare un sistema GPS nella disponibilità del target (basti pensare all’antifurto satellitare di un veicolo o il GPS residente di uno smartphone).

Questa particolare forma di pedinamento, c.d. satellitare, eseguita con strumenti tecnologici (detta anche tracking, tracciamento), diretta a seguire i movimenti di un soggetto e a localizzarlo, controllando a distanza la sua presenza in un dato luogo, non è accomunabile in alcun modo all’attività di intercettazione telefonica e telematica, pur talvolta fondandosi parzialmente su strumentazioni simili o analoghe.

Essa, quale mezzo atipico di ricerca della prova, rientra nella piena competenza della polizia giudiziaria e non necessita di alcuna autorizzazione preventiva da parte del G.I.P.[77].

La prassi conosce d’altronde l’abitudine degli operanti, seppure in astratto competenti a procedere autonomamente, di richiedere un decreto di pedinamento satellitare al pubblico ministero, non soltanto perché un simile atto non può prescindere dall’approvazione del dominus delle indagini, ma anche per ragioni di imputazione delle spese[78].

La seconda modalità – che avviene attraverso la localizzazione cellulare -, invece, sfrutta il sistema di “celle” di copertura della telefonia mobile, in cui il territorio terrestre viene suddiviso.

In particolare, la potenza del segnale radio di ogni cella telefonica viene analizzata in relazione alle coordinate geografiche della rispettiva stazione radio base collegata con il dispositivo mobile o terminale, la cui distanza da tale stazione viene individuata in base alla conoscenza dell’attenuazione dell’ambiente di radiopropagazione. Per impiegare questo strumento ai fini investigativi è sufficiente uno smartphone (o uno strumento collegato ad esso, come lo smartwatch) dotato di connessione mobile.

Risulta evidente come tali nuovi strumenti di monitoraggio abbiano totalmente modificato la tradizionale fisionomia del pedinamento, agevolando il lavoro degli operatori che si prestano all’investigazione.

Tuttavia, come tutti i mezzi tecnologici, questi nuovi strumenti di indagine presentano nuove problematiche interpretative dal punto di vista processuale; infatti, da tempo, dottrina e giurisprudenza dibattono in ordine alla natura giuridica della geolocalizzazione e, di conseguenza, anche sulla relativa disciplina applicabile.

L’orientamento maggioritario annovera il pedinamento elettronico tra i mezzi di indagine atipici, grazie al quid pluris che viene conferito dalla modalità elettronica dell’attività, che ne stravolge completamente la natura originaria, non prevista, invece, dal pedinamento tradizionale.

Pertanto, ad oggi si può pacificamente inserire lo strumento de quo nella categoria degli atti investigativi atipici, ma, come visto, non sempre è stato così.

Dal quadro delineato emerge ancora una volta il difficile contemperamento, tuttora irrisolto, tra i vantaggi nelle esigenze investigative e i problemi in tema di privacy e di attendibilità degli elementi di prova, che l’utilizzo di tali strumenti provoca. 

5.2. Le individuazioni fotografiche e le videoriprese                        

All’interno degli atti di investigazione non tipizzati dal legislatore sono annoverate anche le individuazioni fotografiche e le videoriprese effettuate dalla polizia giudiziaria.

Numerose sono le sentenze, che nel tempo si sono susseguite, del giudice di legittimità che hanno statuito in materia di individuazione fotografica, chiarendo che si tratta di un «atto di indagine atipico, diverso dalla ricognizione che è espressamente regolata dal codice di rito»[79].

Tuttavia, il riconoscimento fotografico operato dagli agenti di P.G. non gode di uno statuto probatorio privilegiato, ma è compito del giudice valutarne la attendibilità. La metodologia dell’assunzione del riconoscimento fotografico influenza la sua efficacia dimostrativa: il tempo trascorso, la impossibilità di verificare le foto di raffronto e la mancata previa descrizione dei soggetti poi identificati sono fattori che possono far ritenere inattendibili le ricognizioni informali.

La certezza del riconoscimento fotografico non discende, invero, dal riconoscimento come strumento probatorio, ma dall’attendibilità accordata alla deposizione di chi si dica certo dell’individuazione. Anche nelle ipotesi in cui il riconoscimento sia operato da agenti della polizia giudiziaria, il giudice non è esonerato dalla valutazione della efficacia dimostrativa di tale atto.

L’attività di individuazione attraverso la fotografia è, infatti, sempre stata ritenuta dalla giurisprudenza una mera indicazione in fatto non avente la stessa forza probante della formale ricognizione di persona, da valutare liberamente seppure con particolare attenzione. La sua forza dimostrativa non risiede nell’atto in sé (come è, invece, per la ricognizione formale), ma nel complesso delle necessarie valutazioni di supporto (quale esplicazione del libero convincimento del giudice) che inducano ad assumerne la sostanziale attendibilità[80].

Pertanto, l'utilizzabilità e la sindacabilità delle individuazioni fotografiche compiute dalla P.G. sia in fase investigativa che dibattimentale presenta delle evidenti problematiche legate all'atipicità probatoria delle stesse. Invero, le individuazioni fotografiche differiscono dalla tipicità dell'accertamento ricognitivo personale ex artt. 213-214 c.p.p. che, appunto, costituisce un mezzo di prova ex lege.

Più precisamente, l'individuazione fotografica – eseguita per mano della P.G. – non conduce ad un risultato probatorio "tipico" come per l'atto ricognitivo, soggetto alle forme ed alle garanzie di cui all'art. 214 c.p.p.

A causa di tale atipicità, indiziaria prima e probatoria poi, l'atto di individuazione fotografica diviene utilizzabile solo attraverso un vaglio giudiziale di attendibilità, secondo il prudente apprezzamento fattuale e giuridico, il quale diviene maggiormente rigoroso in caso di contestazione circa il risultato e le forme di detto adempimento investigativo.

Insomma, il vaglio di attendibilità è l'elemento fondamentale ai fini dell'utilizzabilità indiziaria e probatoria dell'individuazione fotografica, da intendersi in senso assoluto, prescindendo, quindi, dalla natura pubblicistica o meno del soggetto individuante.

A tale conclusione è pervenuta la Cassazione in una recente sentenza[81], in cui ha affermato che "anche nelle ipotesi in cui il riconoscimento sia operato dagli agenti della polizia giudiziaria, il giudice non è esonerato dall'efficacia dimostrativa di tale atto".

A questo punto, rilevata la necessità di sindacare l'attendibilità di tale atto anche se compiuto da un soggetto pubblicistico, resta da chiedersi se e quali cautele debbano sussistere nell'esecuzione dell'adempimento investigativo affinché esso possa ritenersi "attendibile" ed il controllo giudiziario possa ritenersi effettivo ed efficace. Gli ermellini, nella sentenza in commento, precisano come la metodologia dell'assunzione dello strumento fotografico influenzi la sua efficacia dimostrativa, incidendo direttamente sul suo grado di attendibilità.

In particolare, la Cassazione, respingendo una aprioristica efficacia “fidefacente” delle individuazioni di P.G., statuisce l'indispensabilità nell'atto ricognitivo delle attività preparatorie e cautele procedimentali previste dall'art. 213 c.p.p.

Le cautele procedimentali ex art. 213 c.p.p. consentono al giudicante un effettivo vaglio postumo intorno al grado di attendibilità del soggetto riconoscitore.

La sentenza del 15/02/2017 n. 17747, quindi, manifesta una particolare sensibilità a tutela dell'indagato, garantendogli uno strumento di controllo sull'utilizzabilità nei propri confronti dell'atto di individuazione personale. Quest’ultimo, per evitare di sconfinare nell'arbitrio, necessita di conseguenza dei riscontri intrinseci dati proprio da quelle cautele procedimentali di cui all'art. 213 c.p.p.[82].

Per quanto riguarda, invece, le videoriprese della polizia giudiziaria, occorre premettere che le registrazioni di immagini (o di immagini e suoni) da parte di strumentazioni in uso a soggetti pubblici e privati, ma comunque estranei al contesto procedimentale, costituiscono “documenti”, ai sensi dell’art. 234 c.p.p.

Di converso, le videoregistrazioni effettuate nel corso delle indagini rappresentano la documentazione di un’attività investigativa atipica, alle quali gli organi inquirenti ricorrono con sempre maggiore frequenza, complice anche la straordinaria evoluzione della tecnologia digitale negli ultimi anni[83]; tale attività è diretta al monitoraggio tecnologico di determinati ambienti (sono cioè, “atti”, e non documenti).

In relazione alla successiva spendibilità processuale, richiamando le tradizionali categorie dogmatiche, è utile distinguere tra il mezzo di ricerca della prova (la ripresa visiva, cioè il supporto sul quale sono fissate le immagini, la “fonte di prova”) e il mezzo di prova (lo strumento che permette di acquisire nel processo il contenuto rappresentativo del supporto, “l’elemento di prova”). Il contradditorio nel giudizio, previsto dall’art. 189 c.p.p., non concerne la ricerca della prova ma la sua assunzione in dibattimento, quando il giudice è chiamato a decidere sull’ammissione delle prove.

Secondo la giurisprudenza dominante, le linee di discrimine essenziali, sulla cui base valutare l’utilizzabilità di questi esiti di indagine, risiedono nel luogo in cui le videoriprese sono state poste in essere:

  • luogo pubblico (vie, piazze, aree verdi pubbliche) o esposto al pubblico (cioè oggettivamente visibile da un numero indeterminato di persone: terrazze, davanzali, cortili, giardini privati, campi, boschi, spiagge), dove, in virtù della percepibilità esterna, non sussiste alcuna intrusione nella privata dimora o nel domicilio e non sussistono, ragioni di tutela della riservatezza, potendosi sostanzialmente equiparare l’uso della videocamera ad una operazione di appostamento, eseguita nei limiti dell’autonomia investigativa, senza alcuna necessità di autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria[84];
  • luogo aperto al pubblico (stadi, esercizi commerciali, teatri, aule scolastiche) ovvero non aperto al pubblico, ma non omologabile al privato domicilio (luoghi di lavoro), dove le riprese sono possibili, anche in difetto di autorizzazione del G.I.P., con decreto motivato del pubblico ministero, poiché la natura del luogo in cui si svolge la condotta registrata comporta un’implicita rinuncia alla riservatezza;
  • luogo in cui sono tutelate l’intimità e la riservatezza, ma privo di una relazione stabile e continuativa con le persone che lo frequentano (un bagno pubblico), in cui le videoriprese della polizia giudiziaria sono possibili, ma necessitano di autorizzazione dell’autorità giudiziaria procedente[85];
  • luogo di privata dimora (meritevole di tutela ex art. 14 Cost., a meno che il titolare del domicilio non presti il consenso alla ripresa) e “domicilio lavorativo” (qualsiasi luogo in cui allo svolgimento dell’attività di lavoro si affianchi la possibilità di godere di riservatezza nell’esplicazione di atti della vita privata, escludendo ingerenze esterne indipendentemente dalla presenza della persona che ha la titolarità del domicilio) , in cui è necessario ulteriormente distinguere quando oggetto della captazione siano comportamenti comunicativi (quelli finalizzati a trasmettere il contenuto di un pensiero mediante la parola, i gesti, le espressioni fisiognomiche o altri atteggiamenti idonei a manifestarlo) o non comunicativi (tutte le altre condotte umane, attive o omissive). Nel primo caso è possibile soltanto procedere ad intercettazione c.d. ambientale, ai sensi e nelle forme previsti dagli artt. 266 ss., c.p.p., mentre nel secondo caso è vietata la videoripresa, nonché l’acquisizione e l’utilizzazione delle registrazioni, in quanto prova illecita.

6. Conclusioni

I temi affrontati e la trattazione delle concrete modalità investigative poste in essere dalla polizia giudiziaria ci consentono, a questo punto, di capire l’importanza che la stessa svolge nella delicata fase delle indagini preliminari alle dirette dipendenze del pubblico ministero.

In particolare, i rapporti con la P.G. richiedono spiccate capacità professionali dell’autorità giudiziaria - fondamentali per svolgere quel ruolo di direzione –, che si sostanziano non solo in conoscenze giuridiche, ma anche in rilevanti doti umane e pratiche, quali l’autorevolezza, la capacità di ascolto e la conoscenza effettiva dello svolgimento del lavoro degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria; sicché, appare evidente e necessaria una costante sinergia e collaborazione tra questi due organi.

Particolarmente interessante è stata l’analisi delle tecniche di indagine svolte dagli operatori, da quelle tipiche – “dirette” ed “indirette” – a quelle atipiche, entrambe indispensabili ai fini della repressione dei reati, nel quale l'ausilio della tecnologia assume un ruolo sempre più importante.

Ebbene, attesa la complessità degli istituti trattati nonché dei numerosi risvolti pratici, emerge da tale contesto l’idea di un sistema integrato, ove le diverse Forze di Polizia, sotto la direzione del pubblico ministero, collaborano tra loro al fine di arginare la commissione dei reati, passando dalla lotta terrorismo alla criminalità comune a quella organizzata mafiosa e non mafiosa.


Note e riferimenti bibliografici

[1] P. TONINI, Manuale di procedura penale, Giuffrè, Milano, 2017, p. 503.

[2] Ovvero raramente i due o più magistrati assegnatari, nel caso di procedimenti particolarmente complessi.

[3] F. ALVINO – D. PRETTI, Le indagini preliminari. Tra fonti disciplinari e prassi applicative, Giappichelli, Torino, 2017.

[4] E. APRILE - P. SILVESTRI, Le indagini preliminari e l’archiviazione, Giuffrè, Milano, 2011, p. 10.

[5] Le altre ipotesi di esclusione della punibilità (in particolare, per l’accertata incapacità di intendere e di volere) non consentono la definizione del procedimento mediante archiviazione ma prevedono solo la possibilità del proscioglimento.

[6] A. LEOPIZZI, Le indagini preliminari. I soggetti. Le tecniche investigative e transnazionali. Le prospettive dibattimentali. L’archiviazione e l’esercizio dell’azione penale, Giuffrè, Milano, 2017, p.221.

[7] F.P. GIORDANO, Le indagini preliminari. Poteri e limiti del Pubblico Ministero e della Polizia giudiziaria, Cedam, Padova, 2006, p.289.

[8] F. SCIOLI, La polizia giudiziaria: organizzazione, poteri investigativi e cautelari, Giappichelli, Torino, 2006, p.26.

[9] in giurisprudenza Cass., Sez. Ⅲ, 8/3/1995, Ceroni, CP, 1996, 1876.

[10] A. LEOPIZZI, Le indagini preliminari. I soggetti. Le tecniche investigative e transnazionali. Le prospettive dibattimentali. L’archiviazione e l’esercizio dell’azione penale, cit., p.156.

[11] Prima ancora, cioè, di indagare su un determinato fatto storico, per acquisire ogni elemento utile alla sua comprensione in un’ottica penalistica (se la vicenda presenta un rilievo penale, chi ne sia l’autore e chi la persona offesa, etc.), gli inquirenti possono legittimamente verificare se taluni fatti storici o taluni ambiti sociali-amministrativi presentino i requisiti minimi per poter offrire il plausibile sospetto che dei reati siano stati commessi (es. quali siano i canali di approvvigionamento dei tossicodipendenti di una certa piazza di spaccio o verificando se nella crisi di una società commerciale siano ravvisabili reati fallimentari o societari o tributari, e così via). Esiste, quindi, un minimo margine di attività info-investigativa da parte degli inquirenti, prima ancora che, formalizzatasi la notizia di reato in senso stretto, si apra la fase delle indagini preliminari. Questa attività ha una funzione esclusivamente endo-procedimentale e priva di valore probatorio (ad eccezione di quanto rilevi per accertare l’esistenza di una condizione di procedibilità) e non può essere aprioristicamente esclusa quando la notizia di reato provenga da canali non qualificanti. Il sistema sicuramente riconosce la necessità di adeguata precisazione e contestualizzazione di queste embrionali informazioni, onde verificare anche solo la astratta ipotesi della avvenuta commissione di un fatto di rilievo penale. Questa attività si può concludere con la formalizzazione di una notizia di reato e quindi con la conseguente iscrizione a carico di soggetti noti o ignoti ovvero con un nulla di fatto, una “non notizia”, priva dei requisiti minimi per avviare un’indagine in senso stretto. Inoltre, la tecnica e la prassi investigativa (e prima ancora la polizia di sicurezza) conosce, si può dire da sempre, il contributo offerto da informatori e confidenti, ovvero da quei soggetti che, agendo di regola dietro compenso di denaro o comunque in vista di altri vantaggi, forniscono alla polizia giudiziaria, occasionalmente ma con sistematicità, notizie riservate di cui sono depositari in quanto frequentatori a vario titolo del sottobosco malavitoso. Costoro rappresentano fonti anonime, dal momento che il tacito ma stringente accordo di collaborazione tra l’ufficiale o l’agente di P.G. e l’informatore postula che sia mantenuta la segretezza sull’identità del delatore. Il codice tutela questo patto di riservatezza: durante la fase dibattimentale, il giudice non può obbligare il testimone operatore di polizia giudiziaria a rivelare il nome dei suoi informatori. La gestione di un confidente è uno degli aspetti più delicati e più difficili dell’attività investigativa per le forze di polizia. Ciò appare evidente considerando da un lato la straordinaria possibilità di penetrazione nel microcosmo criminale che offre la disponibilità di una fonte interna ad esso, dall’altro la necessità di un’enorme cautela nel trattare il confidente prima e il materiale cognitivo da lui offerto poi (trattandosi di un soggetto fisiologicamente ben inserito in circuiti criminali, che si muove sulla base di obiettivi suoi propri, talora persino maliziosi). Occorrono, dunque, notevoli sensibilità, acume e conoscenza dell’ambiente in cui si opera per valutarne l’affidabilità, soppesare il concreto contenuto delle informazioni, eliminando gli elementi non plausibili o che lasciano intravedere strumentalizzazioni fini a sé stesse.

[12] Può pensarsi, ad esempio, alle attività informali che possono essere compiute per individuare una persona, la sua attività, le sue fattezze fisiche (accertandone presso il Comune l’identità anagrafica oppure acquisendo presso la Prefettura la copia della fotografia apposta sulla patente di guida, ecc.); ai sopralluoghi per verificare sul posto la fondatezza di fatti e circostanze di cui si è avuta notizia magari confidenziale; ai pedinamenti e agli appostamenti che rappresentano l'espressione più frequente ed efficace, spesso integrati con rilevamenti fotografici per consentire l’identificazione di persone e meglio proseguire l’attività investigativa; all’attivazione di contatti con gli informatori.

[13] Ad esempio, rientrano in questi atti le dichiarazioni dell’indagato e dei potenziali testimoni per le sommarie informazioni, ecc.

[14] Alla luce di ciò, non deve essere dato alcun avviso al difensore e questi comunque, in ogni caso, non potrebbe parteciparvi.

[15] P. TONINI, Manuale di procedura penale, cit., p.531.

[16] Si faccia l’esempio in cui la polizia giudiziaria arresti in flagranza un rapinatore: essa sa con certezza chi è il rapinatore (cioè la persona arrestata), ma ne ignora le generalità, elemento a cui si tenta di risalire attraverso l’identificazione.

[17] In sintesi, si può dire che oggetto di identificazione possono essere tutte le persone che hanno avuto a che fare con il reato, direttamente o indirettamente (la persona offesa, i possibili testimoni e la persona sottoposta alle indagini).

[18] Le citate disposizioni incriminatrici sono rubricate rispettivamente: “Rifiuto di indicazioni sulla propria identità personale” e “False dichiarazioni sulla identità o su qualità personali proprie o di altri”.

[19] In tal senso Cass. pen. 26 aprile 2000, n.8105, in CED Cassazione, secondo il quale «il mancato ricorso alle suddette modalità non comporta che sia da ritenersi non identificato colui che abbia dato le proprie generalità, ancorché non successivamente rintracciato presso l’indirizzo indicato e che sulla scorta di ciò si debba pervenire alla declaratoria di non doversi procedere per essere ignoti gli autori del reato».

[20] Comma inserito ex art. 9, co. 1, D.L. 27-7-2005, n. 144, conv. in L. 31-7-2005, n. 155 (Misure urgenti per il contrasto al terrorismo internazionale), in vigore dal 8-8-2005.

[21] È importante che il domicilio sia ben identificato, in quanto non è accettabile la formula “eleggo domicilio presso l’avvocato che la S.V. vorrà nominarmi”; invece, deve essere fatta prima la nomina del difensore e poi l’elezione di domicilio presso lo studio del medesimo. Occorre tenere presente che, di regola, i difensori consigliano di eleggere domicilio in luogo diverso dal proprio studio. Ciò per ottenere l’effetto della decorrenza di un doppio termine per l’esercizio di quelle facoltà che la legge attribuisce all’avvocato e all’imputato; per esempio, in materia di impugnazioni, quando la decorrenza è diversa per l’imputato e per il suo difensore, opera per entrambi il termine che scade per ultimo (art. 585, comma 3, c.p.p.).

[22] È pacifico che tutti questi adempimenti non possono essere eseguiti se non presso gli uffici della polizia giudiziaria. All’identificazione possono procedere tanto gli ufficiali quanto gli agenti di polizia giudiziaria.

[23] Una ulteriore ipotesi di accompagnamento per identificazione è prevista e disciplinata dall’articolo 11 del D.L. 21 marzo 1978, n. 59. Detta norma è applicabili nei confronti di chiunque, nel corso di un servizio di prevenzione, si rifiuta di fornire le proprie generalità o esibisce documenti di identificazione in relazione ai quali sussistano sufficienti elementi per ritenerne la falsità. In questo caso, la persona accompagnata può essere trattenuta negli uffici per l’identificazione fino a ventiquattro ore. Pertanto, l’attività di identificazione può riguardare anche l’ambito di operatività della polizia di sicurezza, e, a tal proposito, l’articolo 4 del T.U.L.P.S. conferisce all’autorità di pubblica sicurezza la facoltà di ordinare che le persone pericolose o sospette e coloro che non siano in grado o si rifiutino di provare la loro identità siano sottoposti a rilievi segnaletici. Di conseguenza si applica l’art. 349 c.p.p. quando deve essere identificato l’indagato o il potenziale testimone di un reato, mentre si applica l’art. 11 del D.L. 59/78 in tutti gli altri casi in cui gli organi di polizia procedono all’identificazione di persone e ricorrono le condizioni per effettuare il loro accompagnamento ai fini identificativi.

[24] Dal latino perquerere = ricercare in un luogo.

[25] Secondo Cass., Sez. ⅠⅠ, 10 settembre 1997, n.84, in Arch. n. proc., 1998, 297, può farsi ricorso alla perquisizione quale mezzo coattivo di ricerca della prova solo se sia stato individuato il tema nel cui ambito tale ricerca ha un suo contenuto di concretezza e specificità, posto che, diversamente, la perquisizione da strumento di ricerca di una prova utile per determinati reati si trasformerebbe in un mezzo di acquisizione della notitia criminis.

[26] F. CORDERO, Procedura penale, Giuffrè, Milano, 2012.

[27] A. MANGANELLI – F. GABRIELLI, Investigare. Manuale pratico delle tecniche di indagine, Cedam, Padova, 2007, p. 82.

[28] Es. refurtiva e strumenti da scasso, immobile edificato in assenza di permesso di costruire, arma con cui sono state cagionate le lesioni, area adibita a discarica abusiva, stupefacenti, falsa testimonianza, etc.).

[29] Oggetto materiale derivato al reo come conseguenza dell’illecito: ad esempio l’atto pubblico contraffatto nel delitto di falso materiale ex art. 476 c.p.

[30] L’utilità economica ricavata dal reato: ad esempio, il denaro versato come tangente al pubblico ufficiale concussore o come corrispettivo per la cessione di stupefacente.

[31] L’utilità data al reo perché commetta il reato: ad esempio, il pagamento di un sicario o il c.d. “cavallo di ritorno” per la “cartiera” nel delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti.

[32] Ad esempio, contabilità, appunti e documentazione varia; cellulari e computer utilizzati per le condotte criminose; assegni e altri effetti; sostanza da taglio, bilancino di precisione e materiale per il confezionamento delle singole dosi, etc.

[33] La Corte costituzionale con la sentenza interpretativa di rigetto n. 229 del 1998 ha preso in esame un decreto, emesso dal pubblico ministero, con il quale si disponeva una perquisizione al fine di sequestrare scritti formati dall’imputato «con funzione di appunti al fine di rispondere all’interrogatorio». La Corte ha affermato che il tribunale del riesame avrebbe dovuto pronunciare «l’annullamento del provvedimento di perquisizione e sequestro» perché, in materia, sono direttamente applicabili i principi costituzionali sulla tutela della persona umana e sul diritto di difesa (artt. 2 e 24 comma 2). A giudizio della Corte, la perquisizione ed il sequestro nel caso di specie «sono da considerare illegittimamente disposti» e comunque «inutilizzabili» ai sensi dell’art. 191 c.p.p. La cassazione ha ricondotto alla perquisizione personale l’esame radiografico effettuato coattivamente all’addome del sospettato di detenere nel corpo ovuli contenenti sostanze stupefacenti, precisando che tale mezzo di ricerca della prova ben può estrinsecarsi in attività invasive della persona, soprattutto nell’ambito della procedura prevista dall’art. 103 d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, qualora si tratti di attività volta sia all’accertamento del reato, sia alla tutela della salute dell’indagato (Cass., Sez. Ⅵ, 11 luglio 2005, Hombang, in Cass. pen., 2006, 3340). Si ricordi, inoltre, che la giurisprudenza ha ricondotto alla disciplina della perquisizione-sequestro anche l’acquisizione di materiale biologico depositato su oggetti personali.

[34] In tema di correttezza delle procedure per la conservazione della prova digitale, si segnala Cass., Sez. ⅠⅠ, 13 marzo 2009, n. 11135, Bruno, in Guida dir., n. 17, 2009, p. 84.

[35] Nell’ipotesi di flagranza di reato il legislatore ha ritenuto ricorressero particolari motivi di urgenza tali da non consentire la emissione di un tempestivo decreto di perquisizione. Per queste ragioni si è attribuito agli ufficiali di polizia giudiziaria il potere di procedere d’iniziativa a perquisizioni personali e locali. Le medesime ragioni sottendono il conferimento di analoghi poteri in caso di evasione. La cattura del fuggitivo potrebbe infatti essere irrimediabilmente pregiudicata dai tempi di attesa necessari all’intervento dell’autorità giudiziaria.

[36] Il connotato dell’urgenza che, anche a prescindere dalla necessità di consentire l’intervento dei soli agenti di polizia giudiziaria, è connaturato all’attività di iniziativa consente di eseguire la perquisizione domiciliare anche fuori dei limiti temporali fissati dall’art. 251, “quando il ritardo potrebbe pregiudicarne l’esito”.

[37] L’ultimo comma dell’art. 352 c.p.p. riproduce pedissequamente il contenuto del comma 2 dell’art. 13 Cost., relativo ai provvedimenti restrittivi della libertà personale, adottati dall’autorità di pubblica sicurezza. Le perquisizioni incidono sulla libertà personale del cittadino e sulla inviolabilità del domicilio, quali beni costituzionalmente rilevanti. Qualsiasi apprezzabile limitazione della sfera di autodeterminazione individuale, che provochi una menomazione dei cosiddetti diritti personalissimi, incide in senso negativo sulla libertà personale. Pertanto, il mancato rispetto dei termini imposti dalla norma del codice di rito comporta la inutilizzabilità dell’atto.

[38] Il decreto di convalida della perquisizione di iniziativa assorbe ogni questione riguardante la sussistenza dei presupposti autorizzativi dell’attività di rintraccio e apprensione del corpo del reato compiuta dalla polizia giudiziaria. In ogni caso questo provvedimento non è impugnabile mediante richiesta di riesame (limitata dall’art. 357 al solo caso di sequestro) e non è neppure ricorribile per cassazione, salva l’ipotesi in cui lo stesso sia qualificabile come atto abnorme: In tal senso Cass., Sez. Ⅵ, 20 novembre 2012, n. 46250, Albanese.

[39] Ad esempio, evaso rintracciato a grande distanza dal luogo di esecuzione della pena o della misura, perquisizione effettuata contestualmente all’arresto in flagranza, dopo un inseguimento protrattosi a lungo, etc.

[40] In tal senso dispone l’art. 114 disp. att. c.p.p., che inerisce espressamente alle perquisizioni eseguite dagli ufficiali di P.G. di iniziativa. L’avvertimento non esige alcuna formula sacramentale, «purché esso sia idoneo al raggiungimento dello scopo». (Cass. pen. 23 ottobre 1992, n. 11908, in CED Cassazione). In aderenza al principio enunciato, è stata ritenuta formula idonea a soddisfare l’obbligo di cui all’art. 14 disp. att. c.p.p. la semplice domanda, rivolta all’indagato dalla polizia giudiziaria, “se voleva l’avvocato”. L’avvenuto avvertimento del diritto dell’indagato di farsi assistere da un difensore deve essere documentato e quindi deve risultare dal verbale di perquisizione. Ciò significa che la prova di tale adempimento può ricavarsi solo dal contenuto del verbale di sequestro. Dal tenore della disposizione in esame si evince che nessun obbligo ha la polizia giudiziaria di procedere alla nomina di un difensore d’ufficio, nell’ipotesi in cui il soggetto da perquisire non intenda avvalersi di un difensore di fiducia. Non esiste infatti un “obbligo” per il soggetto in questione di farsi assistere da un difensore, bensì solo una “facoltà”. In tal senso Cass. pen. 17 dicembre 2003, n. 18610, in Cass. pen., f. 2, 583. Il difensore di fiducia, inoltre, deve essere prontamente reperibile, per non intralciare o ritardare ingiustificatamente il compimento dell’atto investigativo.

[41] Queste perquisizioni rappresentano statisticamente la maggior parte degli interventi compiuti sul territorio dalle forze dell’ordine in una sfera al confine tra polizia di sicurezza e polizia giudiziaria, in modo che resta demandata al pubblico ministero la funzione di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali dei destinatari del controllo.

[42] Previste dall’art.103 D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, Testo Unico delle leggi in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope, queste si differenziano dalle perquisizioni ex art. 352-1° co. del c.p.p. sia in relazione ai presupposti dell’atto, sia in relazione alla finalità per cui vengono poste in essere. Infatti, mentre per le perquisizioni ex art. 352-1° co. il presupposto è lo stato di flagranza di reato o l’avvenuta evasione, per le perquisizioni in parola questo è costituito dall’esistenza di un’operazione di polizia finalizzata alla prevenzione e alla repressione del traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, nonché dall’esistenza di motivi di particolare necessità ed urgenza tali da non consentire di richiedere l’autorizzazione telefonica del magistrato competente. Solo la sussistenza contestuale di entrambi i presupposti indicati rende legittima questa tipologia di perquisizione. Quanto allo scopo, le perquisizioni ex art. 352-1° co, c.p.p. presuppongono l’avvenuta realizzazione di una fattispecie criminosa, tanto è vero che sono finalizzate alla ricerca di tracce o cose pertinenti al reato, mentre, le perquisizioni in materia di stupefacenti hanno un ambito operativo più ampio; esse non presuppongono necessariamente la consumazione di un reato ma possono essere eseguite anche a scopo preventivo. Le perquisizioni in materia di stupefacenti possono essere eseguite solo da ufficiali di polizia giudiziaria, ciò non esclude che gli Agenti possano prestare assistenza nel compimento dell’atto; inoltre, queste possono essere estese al mezzo di trasporto dell’interessato, nonché ai bagagli e agli effetti personali del medesimo. Della perquisizione deve essere redatto apposito verbale, di cui una copia va rilasciata all’interessato e una copia trasmessa al P.M. competente entro 48 ore per la convalida dell’atto.

[43] Secondo l’art. 41, R.D. n. 773/1931 cit. (testo unico di pubblica sicurezza) gli ufficiali e gli agenti della polizia giudiziaria, che abbiano notizia, anche se per indizio, della esistenza, qualsiasi locale pubblico o privato o in qualsiasi abitazione, di armi, munizioni o materi esplodenti, non denunciate o non consegnate o comunque abusivamente detenute, procedono immediatamente a perquisizione e sequestro.

[44] L’art. 27, L. 19 marzo 1990, n. 55 consente ad ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, nel corso di operazioni di polizia per la prevenzione e la repressione del delitto di associazione mafiosa e dei delitti connessi (ivi compresi i delitti di riciclaggio e di reimpiego di beni o denaro di provenienza illecita), di procedere in ogni luogo al controllo e all’ispezione di mezzi di trasporto, bagagli ed effetti personali quando hanno fondato motivo di ritenere che possano essere rinvenuti: armi, munizioni o esplosivi, denaro o valori provenienti dai delitti suindicati o denaro o valori costituenti il prezzo della liberazione di una persona sequestrata.

[45] Cass., Sez. I, 9 marzo 2005, n. 10683, Piccolo.

[46] Ad esempio, siamo in presenza di un semplice sopralluogo se gli operanti si limitano a constatare la presenza di uno scarico non autorizzato che da un opificio artigianale sversa liquami in un corso d’acqua superficiale, documentando lo stato dei luoghi con fotografie che saranno poi allegate al verbale.

[47] Si verte in un atto da qualificarsi come di accertamento e rilievo ex art. 354, comma 2, se la polizia giudiziaria compia misurazioni, effettui verifiche pratiche rispetto alle dinamiche dell’idrografia locale, effettui dei prelievi delle acque in vari punti dell’area. In quest’ultimo caso, il difensore ha solo il diritto di assistere agli accertamenti ma non ha il diritto di essere preventivamente avvisato (e d’altronde trattandosi di un accertamento “a sorpresa”, il preventivo avviso potrebbe rendere inutile l’accertamento stesso, permettendo maliziose contromisure).

[48] Si tratta di elementi utili alla ricostruzione del fatto ed alla individuazione del colpevole e, in questa direzione, l’attività della polizia giudiziaria si inscrive nel più ampio compito di assicurazione delle fonti di prova. Gli ufficiali ed agenti si adoperano, inoltre, affinché lo stato dei luoghi e delle cose non venga mutato prima dell’intervento del P.M., allo scopo evidente di rendere maggiormente efficace la sua azione investigativa.

[49] F. SCIOLI, La polizia giudiziaria: organizzazione, poteri investigativi e cautelari, cit., p.94.

[50] L’ausiliario svolge l’atto insieme alla polizia giudiziaria in funzione di semplice aiuto materiale e pertanto si tratta di un atto compiuto dalla polizia giudiziaria. Il consulente tecnico svolge le attività in proprio dietro mandato del pubblico ministero, a cui dovrà riferire i risultati.

[51] Un accertamento che comporti la modifica dell’elemento di prova è riservato al pubblico ministero, che lo compirà nelle forme garantite dell’art. 360 c.p.p. (accertamento tecnico non ripetibile da svolgersi con preavviso all’indagato e all’offeso).

[52] Ad esempio, la polizia può prelevare da un oggetto le impronte digitali al fine di conservarle inalterate (Cass., Sez. Ⅵ, 6 febbraio – 6 marzo 2013, n. 10350, Granella, in Guida dir., 2013, 17, 84). Viceversa, se l’analisi di un piccolo residuo di polvere consuma completamente il reperto e rende impossibile compiere ulteriori esami, siamo in presenza di un accertamento tecnico non ripetibile, che è riservato al pubblico ministero ex art. 360 c.p.p.

[53] L’art. 10, comma 1 della legge n. 85 del 2009 dispone quanto segue: «Se, nel corso del procedimento penale, a cura dei laboratori delle Forze di polizia o di altre istituzioni di elevata specializzazione, sono tipizzati profili del DNA da reperti biologici a mezzo di accertamento tecnico, consulenza tecnica o perizia, l’autorità giudiziaria procedente dispone la trasmissione degli stessi alla banca dati nazionale del DNA, per la raccolta e i confronti».

[54] Cass., Sez. Ⅰ, 11 marzo 2003, Esposito, in Dir. Giust., 2003, 34, 98 ss.: nel caso concreto, oggetto dell’accertamento tecnico era stato un campione di saliva dell’indagato raccolto da un bicchiere in cui questi aveva bevuto un caffè offerto dalla polizia giudiziaria. La Cassazione ha precisato che nessun rilievo riveste la circostanza che la bevanda sia stata offerta al solo fine di acquisire reperti biologici «in quanto nessuna disposizione di legge subordina lo svolgimento delle indagini al consenso dell’indagato, quando appunto non si risolva in violazioni della libertà personale o di altri diritti costituzionalmente garantiti». In termini analoghi, Cass. Sez. Ⅰ, 23 ottobre 2008, n. 43002, Tripodi, in Guida dir., 2008, 1, p. 95; Cass., Sez. Ⅰ, 23 giugno 2005, P., in Guida dir., 2005, 38, 82; Cass., Sez. Ⅰ, 10 maggio 2005, D., In Guida dir., 2005, 35, 105.

[55] Cass., Sez. ⅠⅠ, 13 marzo 2007, M.C., in Dir. pen. Proc., 2007, p. 867; Cass., Sez. Ⅰ, 2 febbraio 2005, C., in CED, n. 233448; e in Cass. pen., 2007, 5, 2108; Cass., Sez. Ⅳ, 12 luglio 2004, Ⅰ. e altro, in CED, n. 229129 e in Cass. pen., 2005, 11, 3395.

[56] La regolamentazione attuale rappresenta il frutto di varie modifiche legislative. Il decreto-legge n. 144 del 2005, conv. In legge n. 155, aveva permesso alla polizia giudiziaria, in sede di sopralluogo, di prelevare coattivamente, dall’indagato o da terze persone, capelli o saliva: era necessaria la previa autorizzazione del pubblico ministero, scritta oppure resa oralmente e confermata per iscritto. La legge n. 85 del 2009 ha eliminato questa possibilità, poiché ha soppresso il secondo periodo del comma 3 dell’art. 354, che consentiva il prelievo coattivo appena menzionato.

[57] La legge n. 85 del 2009 non indica espressamente quale è la destinazione del campione. Si deve ritenere che l’estrazione del profilo del DNA debba essere svolta dai laboratori del corpo di polizia che ha proceduto alle indagini.

[58] È sufficiente che l’indagato riceva quegli avvertimenti che sono disciplinati dall’art. 64: a) le sue dichiarazioni potranno essere sempre utilizzate nei suoi confronti; b) può non rispondere ad alcuna domanda «ma comunque il procedimento seguirà il suo corso»; c) se renderà dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altri assumerà in ordine a tali fatti la qualifica di testimone. Soltanto sulle proprie generalità l’indagato ha l’obbligo di rispondere secondo verità (artt. 495 e 651 c.p.).

[59] Questa particolare tipologia è poco frequentata dai pratici, tenuto conto degli incombenti tutt’altro che irrilevanti e della minore “resa processuale” rispetto a un interrogatorio: queste dichiarazioni mantengono un’ampia possibilità di utilizzo in fase di indagini preliminari e possono essere valutate dal giudice dell’udienza preliminare, ma in dibattimento possono costituire soltanto la base per le contestazioni qualora l’imputato consenta a sostenere l’esame.

[60] Molto più snella la procedura per la ricezione di “dichiarazioni spontanee” dell’indagato, controbilanciate in qualche modo dalla impossibilità di utilizzazione in dibattimento, salvo che per le contestazioni durante l’esame, in maniera sostanzialmente analoga a quanto previsto per le dichiarazioni rese in presenza del difensore (artt. 350, comma 7 e 503, comma 3, c.p.p.). L’ampio spettro di possibilità di utilizzo in fase di indagine (ad esempio, per fondare una misura cautelare) e le oggettive limitazioni all’esercizio del diritto di difesa derivanti dal mancato supporto e consiglio del difensore, rendono questo atto di indagine un mezzo particolarmente delicato.

[61] Il punto cruciale, su cui si regge di fatto l’intero istituto, consiste nella effettiva “spontaneità” delle frasi riferite agli operanti. Le dichiarazioni, in primo luogo, non possono essere ritenute spontanee solo perché così le ha qualificate dalla polizia giudiziaria all’atto della ricezione e nell’intitolazione del verbale. Il rischio di forme di sollecitazione, più o meno esplicite, da parte degli operanti è in effetti alto e da questi atti di impulso verrebbe travolta la autonomia della decisione dell’indagato di riferire agli investigatori informazioni nella propria disponibilità. Sono invece necessarie attente valutazioni da parte del giudice, tenuto ad accertare anche d’ufficio, sulla base di tutti gli elementi a sua disposizione, l’effettiva natura libera e volontaria delle dichiarazioni, dando atto del percorso logico seguito con motivazione congrua ed adeguata. In tal senso Cass., Sez. Ⅲ, 19 novembre 2013, n. 2627, PM in proc. Cuberi. Il carattere di spontaneità, ad esempio, non può essere escluso per il solo fatto che e informazioni sono state offerte agli investigatori a seguito di invito a presentarsi (Cass., Sez. I, 17 maggio 2013, n. 27678, PG in proc. Sgobio).

[62] Cass., Sez. V, 12 giugno 2014 n. 44829, Fabbri e altro.

[63] Sono state però ritenute utilizzabili nel giudizio abbreviato le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, senza assistenza difensiva, dalla persona sottoposta alle indagini sul luogo e nell’immediatezza del fatto durante l’esecuzione di una perquisizione domiciliare finalizzata alla ricerca di sostanze stupefacenti. Così Cass., Sez. IV, 14 novembre 2012, n. 6962, Memoli.

[64] Ciò avviene con poteri di accertamento diversi da quelli che gli sono conferiti per individuare l’indagato, perché non è consentito disporre rilievi dattiloscopici, fotografici e antropometrici.

[65] Nel caso in cui non si presenti alla convocazione della polizia, può essere incriminata per inosservanza di un provvedimento della pubblica autorità (art. 650 c.p.).

[66] Per esempio, può essere imposto di identificare cose o persone (art. 349 c.p.p.).

[67] Eccezionalmente sono utilizzabili, se ripetibili, mediante contestazione nei limiti posti dall’art. 500 c.p.p.; se sono divenute non ripetibili, sono utilizzabili mediante lettura alle condizioni previste dall’art. 512 c.p.p.

[68] Artt. 572, 600, 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-quinquies, 601, 602, 609-bis, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, 609-undecies e 612-bis c.p.

[69] G. CONSO – V. GREVI – M. BARGIS, Compendio di procedura penale, Cedam, Padova, 2014, p.570.

[70] Le attività dirette all’accertamento dei fatti, alla individuazione del colpevole e ad ogni ulteriore necessaria verifica non sono un numerus clausus. Il codice disciplina, talvolta nel dettaglio, talaltra più genericamente, molti atti di indagine, ma lascia aperta la possibilità per ogni altra iniziativa investigativa che non si inquadri in schemi normativamente prefissati, tali da fissarne le modalità di compimento.

[71] Tale soggetto non deve essere necessariamente essere un indagato, si pensi alle verifiche sui comportamenti di un tossicodipendente, in procinto di acquistare sostanze stupefacenti.

[72] Per seguire una persona a piedi va di norma utilizzato personale appiedato che, in zone particolarmente affollate, terrà una distanza più ristretta, avendo più facilità a mimetizzarsi e per non rischiare di perdere il contatto visivo; in luoghi, invece, privi di ostacoli e poco frequentati, potrà e dovrà mantenere il contatto molto più distanziato per evitare di essere notato. Un soggetto, invece, che si sposta a bordo di un veicolo o di un mezzo nautico dovrà essere seguito da personale automontato o monomontato, considerato che anche questo tipo di pedinamento, per garantire una probabile riuscita, presuppone un alternarsi di mezzi che, con maggiori difficoltà, dovranno consentire il mantenimento del contatto da una posizione il più possibile defilata. È evidente, infine, sottolineare che il pedinamento, proprio per le difficoltà sopra indicate, presuppone una sufficiente esperienza, nonché doti di prontezza di riflessi, spirito di osservazione e determinazione operativa.

[73] www.nonnodondolo.it/content/atti-atipici-investigazione

[74] Qualora, nel corso del servizio sia necessario un certo intervento (o per procedere all’arresto, o ad una perquisizione, o identificare una persona) deve essere possibile con gli operatori un perfetto collegamento radio, che deve essere adeguatamente preordinato e provato nella stessa zona, affinché ne sia assicurata l’efficienza e per evitare spiacevoli sorprese.

[75] Una parte della giurisprudenza, nondimeno, ritiene atti irripetibili “i verbali di pedinamento e appostamento della polizia giudiziaria”, assimilabili ai verbali di perquisizione domiciliare o di sopralluogo, con quanto ne consegue in termini di possibile inserimento nel fascicolo del dibattimento ex art. 431 (Cass., Sez. III, 9 novembre 2011, n. 44413, A.). Più convincente appare il percorso argomentativo di quelle pronunce che muovono dalla premessa per cui sono irripetibili solo quegli atti la cui mancata acquisizione condurrebbe alla perdita di un’informazione certamente più genuina della descrizione che potrebbe farsene in dibattimento e che si può rivelare essenziale per l’esito del processo. Questa perdita dell’informazione probatoria però, “non si verifica nei casi in cui la relazione di servizio (o altro atto della polizia giudiziaria) si limiti a descrivere attività investigative consistenti in osservazione, constatazione, pedinamenti, accertamento della presenza di persone e di loro attività come contatti, spostamenti ecc. ovvero si limitino a descrivere le circostanze di tempo e di luogo in cui è stata acquisita la notizia di reato”. In questi casi, manca qualsivoglia “impossibilità di natura oggettiva” alla riproduzione narrativa in dibattimento delle attività svolte e non si può paventare alcuna perdita di informazioni probatorie genuine in difetto di un risultato estrinseco in cui si sia concretizzata l’attività di indagine che non possa essere riprodotto in dibattimento. “Il pedinamento può essere descritto in dibattimento da chi l’ha compiuto che potrà riferire, per esempio, delle attività svolte e delle persone con cui il pedinato ha avuto contatti. Se il pedinato verrà osservato mentre consegna sostanza stupefacente ad un terzo saranno l’arresto e il sequestro della sostanza che non potranno essere riprodotti in dibattimento non la descrizione dell’attività investigativa precedentemente svolta e delle modalità di acquisizione della notizia di reato” (Cass., Sez. un., 17 ottobre 2006, n. 41281, PM in proc. Greco.). 

[76] In tal caso sarà possibile verificare la posizione momento per momento del target all’interno di un grande edificio, di un’area recintata, di un singolo appartamento.

[77] Cass., Sez. II, 13 febbraio 2013, n. 21644, Badagliacca e altri.

[78] In ogni caso, ordinariamente il decreto con cui il P.M. dispone l’esecuzione delle operazioni di intercettazione di utenze mobili prevede anche procedure di tracciamento e localizzazione, indipendentemente da una preventiva autorizzazione del giudice, trattandosi di un atto investigativo contestuale all’attività di captazione ma da esso distinto (Cass., Sez. III, 27 febbraio 2015, n. 32699, Diano). Tuttavia, non esiste però reciprocità in questo intreccio di indagini tecniche: nonostante molti tracker consentano astrattamente di ascoltare gli eventi sonori che accadono nelle loro vicinanze, resta categoricamente esclusa qualsiasi lecita possibilità di usufruire di questi dispositivi di pedinamento per procedere all’ascolto, anche senza registrazione, di comunicazione tra presenti, in assenza di espressa autorizzazione del giudice ai sensi degli artt. 266 ss. (tipico caso di intercettazioni illegittime/illecite). Oltre a questo limite, occorre richiamare alcune perplessità della dottrina e della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (che, peraltro, non hanno trovato sponda nelle decisioni dei tribunali e delle corti nazionali), in ordine alla innegabile estrema pervasività di questo strumento di indagine e alle difficoltà di conciliarlo con alcuni diritti fondamentali, in primis il diritto alla riservatezza. I giudici di Strasburgo hanno infatti evidenziato come il pedinamento satellitare possa essere un atto che, sia pure in maniera minore rispetto ad altri strumenti di indagini più invasivi, può ledere il diritto al rispetto della vita privata e familiare espresso dall’art. 8 della Convenzione. Occorre, dunque, che il legislatore nazionale fissi adeguate barriere normative contro interferenze arbitrarie nella vita privata (Corte EDU, 2 settembre 2010, Uzun c. Germania.). Tra l’altro, non si dubita in giurisprudenza che i risultati di questa attività investigativa atipica (e non irripetibile), paragonabile al pedinamento, possano essere sottoposti a valutazione probatoria del giudice dibattimentale anche attraverso la testimonianza degli ufficiali di polizia giudiziaria (Cass., Sez. VI, 11 dicembre 2007, n. 15396, Sitzia e altri).

[79] Cass. 6 aprile 1999, n. 12027, in CED Cassazione.

[80] canestrinilex.com/risorse/ricognizione-fotogrfica-inattendibile-anche-se-proviene-dalla-polizia-giudiziaria-cass-1774717

[81] Cass. pen. sent. 15 febbraio – 7 aprile 2017, n. 17747.

[82] www.diritto24.ilsole24ore.com/art/dirittoPenale/2017-11-15/attivita-investigativa-ed-individuazioni-fotografiche-attendibilita-utilizzabilita-e-sindacabilita-161235

[83] A. SCALFATI, Le indagini atipiche, Giappichelli, Torino, 2019.

[84] Corte. Cost., sent. 16 aprile 2008, n. 149 e Cass., Sez. II, 24 ottobre 2014, n. 46786, Borile.

[85] Cass., Sez. III, 18 maggio 2011, n. 35725, M. 

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http://www.nonnodondolo.it/content/atti-atipici-investigazione