Le pari opportunità nella Costituzione: i principali interventi legislativi a tutela delle donne
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Luana Leo
Il tema dei diritti delle donne assume consistenza in Assemblea Costituente non solo per gli interventi mossi dalle donne presenti nella Commissione incaricata di mettere a punto la Costituzione, ma anche per la stesura di articoli dedicati alla categoria femminile. Il presente contributo delinea i diritti riconosciuti alle donne a livello costituzionale, marcando le varie difficoltà incontrate dalle stesse ai fini dell´attuazione di tali diritti. Allo stato attuale, la donna risulta parte integrante e attiva dell´ambito economico e sociale e della vita politica. Tuttavia, permangono ancora vuoti normativi da colmare, oltre che un´effettiva attuazione dei diritti costituzionali.
Sommario: 1. Il contributo delle donne all’Assemblea Costituente del 1946; 2. Il diritto di voto: un iter lungo e travagliato; 3. Donna e famiglia: l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi; 3.1 La querelle sul cognome familiare; 3.2 Il dibattito in Assemblea Costituente come chiave di lettura dell’art. 37 Cost.; 4. I principali interventi legislativi a tutela delle donne; 5. La promozione delle pari opportunità nel settore pubblico; 6. L’ingresso delle donne in magistratura; 7. Elettorato passivo e doppia preferenza di genere; 8. Aborto e obiezione di coscienza; 9. Considerazioni conclusive.
1. Il contributo delle donne all’Assemblea Costituente del 1946
La presenza delle donne all’Assemblea Costituente del 1946 rappresenta un momento chiave della storia costituzionale italiana.
Occorre comunque sottolineare che su 566 solo 21 furono elette deputate e, di esse soltanto cinque, presero parte alla Commissione deputata a redigere la Costituzione.
Tuttavia, la condizione di inferiorità non ostacolò il lavoro delle Costituenti, accumunate dalla forte volontà di realizzare una politica diretta al riconoscimento dei diritti delle donne. Dai rapporti delle discussioni e dagli atti delle sedute emerge l’atteggiamento di sfiducia della maggior parte dei deputati che, nel breve arco di due anni, tentano di intralciare l’operato delle colleghe, fautrici della libertà femminile.
L’importanza di tale momento storico fu riconosciuta dalle stesse deputate. In tale senso, la democristiana Maria Federici sostenne che la donna “non avrebbe nella Costituzione il posto che di fatto vi ha, se non ci fosse stato alla Costituente quel gruppo di donne che il suffragio universale e l’esercizio dell’elettorato passivo, oltre che attivo, aveva portato nell’aula di Montecitorio”[1].
Consapevoli delle proprie capacità, le deputate diedero avvio ad un consistente movimento in difesa della parità di genere. Tale intento è riscontrabile nelle norme costituzionali. In particolare, a Lina Merlin si deve l’introduzione nell’art. 3, comma 1, dell’espressione “senza distinzione di sesso”;
Teresa Mattei pretese che l’art. 3 comma 2 fosse integrato dalla locuzione “di fatto”; Teresa Noce invece insistette sulla diversità di previdenza ed assistenza di cui all’art. 38 Cost..
Appare opportuno segnalare che, il desiderio di consacrare la parità di genere determinò la ripetizione di tale principio.
Esso, infatti, è riscontrabile sia nell’art. 29, comma 2, Cost. nel preciso punto in cui statuisce che “il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”, sia nell’art. 30, comma 1, Cost. in base al quale “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”.
Le deputate, però, non rivolsero attenzione esclusivamente ai temi c.d. femminili. Bianca Bianchi incolpa le scuole private di aver ottenuto con eccessiva magnanimità la “parificazione” con le scuole pubbliche e avanza l’ipotesi di una sostituzione della medesima con l’istituzione prefascista del “pareggiamento”, in grado di concedere migliori garanzie in termini di reclutamento dei docenti.
La socialista, coadiuvata dalla democristiana Laura Bianchini, pianifica l’apertura di scuole idonee ad erogare una preparazione qualificata e specializzata, conforme alle richieste provenienti dall’ambito lavorativo.
Angela Guidi Cingolani ritiene che lo sviluppo economico e sociale del Paese dipenda dalla prospettiva internazionale. In tale senso, la deputata invita l’Italia a prendere in considerazione i principi stilati a Filadelfia nel 1499, dalla XXVI sessione della Conferenza internazionale del lavoro.
Elsa Conci tratta la questione delle autonomie in relazione all’Alto Adige. Nella prima Sottocommissione, Nilde Iotti presenta una Relazione sulla famiglia, evidenziando l’eguaglianza giuridica dei coniugi, la totale equiparazione dei figli illegittimi a quelli nati da coppie coniugate ed il riconoscimento statale della funzione sociale della maternità.
Prendendo spunto dall’operato della collega Conci, la Iotti respinge l’idea di una possibile divisione dell’Emilia. In seguito, la deputata prese parte alla discussione relativa alla stampa periodica, invocando il sequestro giudiziario in casi palesemente offensivi sotto il profilo religioso, umano e patriottico[2].
Teresa Mattei richiede allo Stato di tutelare le donne lavoratrici e di offrire ad esse la possibilità di accedere in magistratura; la deputata[3], altresì, si ritiene contraria al “salario familiare”.
Lina Merlin sostiene che lo Stato debba provvedere ad eliminare i problemi di ordine economico, in modo tale da consentire a tutti di costituire una famiglia. Come noto, il suo nominativo alla legge 20 febbraio 1958, n. 75, con la quale è stata abolita la prostituzione legalizzata in Italia[4].
Maria Maddalena Rossi interviene nel corso del dibattito relativo all’approvazione del Trattato di Pace tra le potenze alleate e l’Italia, siglato a Parigi nel 1947, marcando l’importanza di una politica di cooperazione tra le popolazioni.
Teresa Noce prende parte alla discussione sul diritto al lavoro e all’assistenza, ritenendo utile separare l’assistenza dalla previdenza: i cittadini non adempienti i tributi, pur non potendo esigere il diritto alla previdenza, hanno comunque diritto a ricevere un’opportuna assistenza.
Vittoria Titomanlio, in occasione della discussione sul Titolo V del progetto di Costituzione attinente le Regioni e i Comuni, sostiene che solo un’istituzione locale possa comprendere e risolvere i problemi del proprio territorio; la deputata, dunque, esprime un giudizio positivo sull’autonomia regionale.
Maria Federici rivendica per le donne, rimaste prive di un coniuge, gli stessi diritti e le stesse garanzie giuridiche e sociali delle famiglie legittime.
Nadia Gallico, invece, richiede la soppressione del marchio N.N. associato ai figli nati al di fuori del vincolo matrimoniale. È interessante segnalare che le deputate, pur giungendo ad un accordo comune sulle numerose tematiche, diedero vita ad un confronto acceso e pungente.
2. Il diritto di voto: un iter lungo e travagliato
Il 2 giugno 1946 le donne esprimono il loro voto per il referendum istituzionale su monarchia o repubblica e per eleggere i componenti dell’Assemblea Costituente. Occorre precisare che, la data sopracitata non rappresenta per il genere femminile la prima volta in assoluto: pochi mesi prima le stesse avevano votato per le elezioni amministrative.
Tuttavia, la suddetta data entra nella storia, in quanto associata al volto di una donna. Si ricorda, infatti, la memorabile foto di Federico Palletani per la copertina della rivista “Tempo”, del 15-22 giugno 1946, che mostra il viso di una giovane donna, poi riproposto nella prima pagina del “Corriere della sera” dell’11 giugno, con il celebre titolo “È nata la Repubblica Italiana”, e in basso a sinistra la scritta “Rinasce l’Italia”[5].
Il diritto di voto, esercitato alla fine di una guerra sanguinosa, costituiva per il genere femminile non solo una prova di volontà, ma anche di capacità, ai fini del passaggio dalla dittatura alla democrazia.
In tale periodo storico, si avverte un forte scetticismo: la classe politica del tempo considera la categoria femminile non ancora matura per il diritto di voto, impreparata e poco attenta alla vita politica. Come noto, le suddette opinioni vennero meno: su 14 milioni di donne che avevano acquisito il diritto di voto, andarono a votare la maggior parte, nonché l’89 % delle aventi diritto.
Alla vigilia del voto, la presenza delle donne turbava i partiti politici, intenti a scommettere sulla percentuale che si sarebbe recata alle urne e sulla scelta delle stesse[6]. In tale senso, i timori del Partito comunista erano legati all’influenza della Chiesa. I democristiani tremavano all’idea che le donne potessero allontanarsi dall’ambiente familiare. I socialisti, pur favorevoli, intravedevano nel voto femminile dei pericoli insidiosi. Infine, i partiti minori (Partito liberale, Partito repubblicano e Partito d’Azione) non diedero peso all’evento, mostrandosi incuranti.
In generale, la partecipazione delle donne alle elezioni nazionali interessava la stessa popolazione[7]. Il riconoscimento alle donne del diritto di voto avviene da parte della classe politica dell’epoca, per motivazioni differenti. I due leader della Democrazia Cristiana e del Partito comunista, Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti, erano coscienti dei mutamenti scaturiti dai conflitti mondiali e della nuova posizione rivestita dalla donna nella società.
Nel 1944, il Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, guidato da Alcide De Gasperi, ammetteva a partire dalla prima consultazione elettorale amministrativa, il riconoscimento e l’applicazione del diritto di voto anche per le donne[8].
Sulla stessa linea, il massimo esponente del Partito comunista Palmiro Togliatti che, nel corso della I Conferenza delle comuniste del 1945, coniugava l’emancipazione femminile e la democrazia, nei seguenti termini: “se la democrazia italiana vuole affermarsi come democrazia nuova, antifascista, popolare e progressista, deve emancipare la donna. [...] La democrazia italiana ha bisogno della donna e la donna ha bisogno della democrazia. Questo vuol dire che tutte le questioni legate alla formazione e affermazione di un nuovo regime democratico, sono strettamente legate anche alla emancipazione delle donne, all’avvento delle donne alla vita politica e alla libertà”[9].
La volontà di riconoscere alla donna un ruolo di maggiore importanza si riscontra anche nel mondo religioso.
La Chiesa, infatti, intendeva affidare alle donne un incarico di primo piano nel progetto di riqualificazione della dimensione cristiana[10]. Un contributo di notevole spessore è offerto dalle principali associazioni femminili di massa pro-suffragio – l’Associazione nazionale donne elettrici (Ande), l’Unione donne italiane (Udi), il Centro italiano femminile (Cif) – che si attivarono con l’intento di avvicinare le donne alla vita politica.
Occorre tener conto che, nei Paesi Occidentali il diritto di voto era stato riconosciuto prima o durante il primo conflitto mondiale. Il suffragio universale si realizza in Italia con il decreto legislativo luogotenenziale del 23 febbraio 1945, n. 23, varato dal secondo governo Bonomi.
Le premesse del decreto sopramenzionato si riscontrano nel decreto luogotenenziale del 25 giugno 1944, n. 151[11]. Il decreto in questione abrogava il decreto Badoglio del 2 agosto 1943, n. 705 relativo allo scioglimento dei fasci e delle corporazioni; di conseguenza, risultava ormai frantumata anche la continuità con la legge elettorale del 16 dicembre 1918, n. 1985, relativa alla concessione del diritto elettorale a tutti i cittadini prestanti servizio militare nell’esercito e nella marina. Lo scenario appena delineato induce a concedere “la parola alle donne”.
3. Donna e famiglia: l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi
L’art. 29 Cost. prescrive che “il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”. Occorre specificare che, l’attuazione della parità tra coniugi dipese dalla differente combinazione tra i principi di uguaglianza e di garanzia dell’unità familiare.
In tal senso, la Corte costituzionale[12] ha dichiarato più volte che le questioni relative all’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi devono essere definite non alla stregua dell’art. 3, il quale “tende ad escludere privilegi e disposizioni discriminatorie tra i cittadini”, ma solo in riferimento all’art. 29 Cost.
Sin dall’entrata in vigore della Costituzione, la dottrina si è interrogata sul significato dell’unità familiare, concepita sia come unità fisica e materiale, che come unità spirituale, al fine di individuare quel complicato bilanciamento tra principio di parità dei coniugi e unità della famiglia.
Come già enunciato, la Consulta ha recepito l’unità familiare in due differenti accezioni, quale limite alla pari posizione dei coniugi ovvero degli stessi nella veste di genitori.
Sotto il primo profilo, l’unità familiare è stata intesa come unità fisica e materiale, inabile a giustificare una diversità di trattamento.
Sotto il secondo profilo, l’unità familiare è stata concepita come necessità di manifestare, per motivi organizzativi, una volontà in senso unitario.
Come sottolineato da una parte della dottrina[13], il diverso impiego dell’unità familiare come limite ha provocato varie conseguenze. In primo luogo, la Consulta sporadicamente ha giustificato la diseguale posizione personale o patrimoniale delle parti per motivi di unità familiare.
In tale modo, essa ha anticipato la riforma del diritto di famiglia e, in particolare, il principio di parità dei coniugi nei loro diritti e doveri reciproci, attualmente consacrato nell’art. 147 c.c..
Al contrario, in passato, tenuta ad esprimersi sulla pari posizione dei coniugi nei confronti della prole, la Corte ha protetto le scelte legislative incentrate sulla regola della patria potestà. In tale occasione, la Consulta ha respinto le questioni sollevate per le ragioni “obiettivamente necessarie ai fini delle fondamentali esigenze di organizzazione della famiglia e che, senza creare alcuna inferiorità a carico della moglie, fanno tuttora del marito, per taluni aspetti, il punto di convergenza della unità familiare e della posizione della famiglia nella vita sociale”[14].
Da tale decisione, si scorge che, nelle questioni aventi ad oggetto disposizioni riconducibili alla patria potestà, l’infondatezza è pronunciata in ragione della presenza di norme imputabili alla necessità di garantire l’unità familiare. La Corte ha posto sullo stesso piano i coniugi nel rapporto con la prole solo dopo la riforma del diritto di famiglia, nel momento in cui la patria potestà è stata sostituita dalla potestà genitoriale[15].
Il quadro appena delineato pone in luce un atteggiamento instabile della giurisprudenza costituzionale. Appare opportuno ricordare che, il rapporto di coniugio è stato disciplinato dal codice civile del 1942, che lo definisce “unione dell’uomo con la donna per la più intima universale e perpetua comunanza di vita”, fino all’entrata in vigore della legge n. 151/1975.
Nel codice civile, il rapporto di coniugio è regolato in virtù della c.d. “salvaguardia dell’unità familiare”; essa è sentita, tanto da legittimare situazioni di disparità di trattamento tra i coniugi. Oggi, invece, la famiglia è vista come società naturale, nel cui ambito i componenti godono di pari dignità morale e giuridica e di una serie di prerogative e diritti, a prescindere dal ruolo assolto da essi all’interno della stessa.
I limiti del tessuto codicistico vengono meno grazie all’intervento decisivo del legislatore, dapprima con la legge 1 dicembre 1970, n. 898, sullo scioglimento del matrimonio, e poi con la legge 19 maggio 1975, n. 151, che riforma in toto in diritto di famiglia.
L’accoglimento del principio divorzista[16] nella legislazione nazionale ha suscitato le animate reazioni della Santa Sede; la polemica tra Stato e Chiesa sulla questione del divorzio ha posto in luce l’intensità della connessione tra diritti civili e fattore religioso in Italia.
Con la riforma del diritto di famiglia, il legislatore ha preso atto dell’evoluzione politico-sociale della società italiana, adottando una disciplina coerente[17] con i principi costituzionali, riparando taluni aspetti richiedenti un intervento necessario ed urgente, tra cui la condizione femminile.
Il legislatore, dunque, ha provveduto a sostituire il vecchio concetto della potestà maritale con il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Alla riforma in esame spetta il grande merito di aver indotto l’interesse della famiglia a identificarsi con quello dei suoi membri.
A partire dal 1975, l’unità della famiglia “non risulta più formalmente imposta, ma sostanzialmente salvaguardata attraverso il riconoscimento di quell’autonomia e quella libertà che trovano le loro più evidenti espressioni nei principi di solidarietà e responsabilità, da declinarsi sulla base del diritto alla partecipazione a pari titolo alla conduzione della vita familiare”[18]. Nel nuovo diritto di famiglia, nato dalla legge di riforma, la donna è posta su un piano di assoluta parità nei confronti dell’uomo, in relazione ai diritti e ai doveri[19].
3.1 La querelle sul cognome familiare
Sebbene la legge n. 151/1975 avesse ridisegnato il diritto di famiglia, la concezione gerarchica e patriarcale tipica del periodo post-repubblicano non fu soppressa del tutto: permase, infatti, il problema dell’automatica trasmissione alla donna del cognome maritale.
Occorre segnalare che, il diritto al nome, inteso come segno distintivo dell’individuo composto da un prenome e un cognome, fa il suo ingresso nell’ordinamento italiano solo in tempi recenti, con il codice civile del 1942. Tuttavia, a livello normativo, un’effettiva catalogazione dei nomi fu imposta con il Concilio di Trento che introdusse i registri di battesimo, con l’obbligo per i parroci di annotare l’atto di battesimo, indicando il nome e il cognome del bambino e dei suoi genitori[20].
A prescindere da ciò, il diritto al nome trova piena consacrazione con l’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana. Esso, infatti, assurge a diritto costituzionale protetto e come tale assoluto, inalienabile, imprescrittibile, intrasmissibile e personalissimo[21]. Oltre all’art. 2 Cost., che apporta una tutela generale, l’art. 22 Cost. stabilisce che “nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”. Altri riferimenti normativi si colgono nel D.P.R. n. 396 del 2000[22] e nella legge n. 184 del 1983[23].
Sul versante giurisprudenziale, la Corte costituzionale ha inizialmente osservato che oggetto del diritto “non è la scelta del nome”, nonché la possibilità di trasmettere il proprio cognome ai discendenti o di decidere il proprio nome, bensì la garanzia di possederne uno “per legge attribuito”[24].
In tale scenario, gli aspetti da esaminare sono due: il rapporto tra marito e moglie nella definizione del cognome di famiglia e il rapporto tra padre e madre nella trasmissione del cognome ai discendenti.
Tenuto conto del tema trattato, in tale sede interessa analizzare solo il primo profilo, come già sopracitato. Il legislatore del 1975, pur superando la previsione originariamente contenuta all’art. 144 c.c. sull’uso obbligatorio da parte della moglie del cognome maritale, convalida la prevalenza di quest’ultimo, ribadendo quanto statuito dalla Corte di Cassazione[25], che aveva definito come facoltativa l’aggiunta o la sostituzione del cognome del marito da parte della moglie.
Appare opportuno ricordare che, l’attribuzione del cognome maritale era collegata all’acquisizione di uno status ritenuto conveniente per la figura femminile. In tale senso, la Consulta osservava che l’assunzione da parte della moglie del cognome del marito si traduceva nell’appartenenza alla famiglia dello stesso[26].
Il cardine della questione consiste nel chiedersi se la disposizione dell’aggiunta del cognome del marito per le donne coniugate debba essere giustificata come un’irrinunciabile garanzia dell’unità familiare o se invece intacchi il principio costituzionale di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi.
Originariamente, la Consulta[27] ha negato che la garanzia dell’unità familiare possa costituire un limite al principio sopraindicato. Di recente, invece, il dibattito si è spostato sull’uguaglianza e le diverse voci giurisprudenziali concordano nel ritenere la vigente disciplina sul cognome maritale discriminante per la moglie.
Nel caso Burghartz c. Svizzera, la Corte Edu[28] ha dichiarato incompatibile con gli artt. 8 e 14 della Cedu la previsione contemplata nell’ordinamento svizzero che preclude al marito di aggiungere al proprio cognome quello della moglie. Analogamente, nel caso Ünal Tekeli c. Turchia[29], la Corte Edu statuisce il contrasto della normativa turca che impone alla donna coniugata di impiegare il cognome del marito con il principio di non discriminazione.
Da tale quadro emerge che, la disposizione di cui all’art. 143 c.c. non pone i coniugi in condizione di parità. Come osservato in dottrina, “non solo la norma predilige il cognome del marito, ma è discriminatoria nei confronti del marito che non ha la stessa possibilità della moglie di aggiungere il cognome della moglie al proprio”[30].
In tale senso, l’automaticità dell’individuazione del cognome familiare e la propensione legislativa verso il cognome del marito risulta non solo discriminatoria, ma rischia di compromettere l’unitarietà della famiglia. L’evoluzione sociale e l’influenza del panorama sovranazionale hanno indotto l’Italia a prestare più attenzione al tema.
Tuttavia, la mancanza di scontri evidenzia la limitata importanza assunta dal cognome familiare nella prassi sociale e convalida la prospettiva della libertà di scelta[31], lasciando irrisolta la questione della disparità tra i coniugi.
3.2 Il dibattito in Assemblea Costituente come chiave di lettura dell’art. 37 Cost.
Come precisato in dottrina[32], l’art. 37 Cost. si caratterizza per tre aspetti.
Il primo consiste nella parità tra uomo e donna nel diritto al lavoro, diritto peraltro intangibile anche per gli uomini, in quanto non esigibile.
Il secondo attiene alla volontà di tutelare la donna lavoratrice, al fine di consentire alla stessa di assolvere la sua essenziale funzione di moglie e di madre.
Il terzo concerne la parità retributiva per uguale lavoro.
Occorre sottolineare che, l’art. 37 Cost. è stato oggetto di un movimentato dibattito in Assemblea Costituente. L’operato della Terza Sottocommissione sul tema prende le mosse dall’intervento di Lina Merlin, intenta ad attirare l’attenzione dei Costituenti non solo sulle necessità femminili in materia di lavoro, ma anche sulla rilevanza della maternità.
In particolare, secondo l’on Merlin “il riconoscimento della funzione sociale della maternità non interessa solo la donna, o l'uomo, o la famiglia; interessa tutta la società. Proteggere la madre significa proteggere la società alla sua radice”[33]. Oltre alla Merlin, altre tre donne espressero considerazioni sulla formulazione dell’art. 37 Cost.
La democristiana Maria Federici pone al centro di tutto la famiglia, proponendo al contempo un articolato imperniato sul ruolo della donna “capofamiglia”. L’on. Federici si pronuncia così: “Da qui a pochi anni, noi dovremo perfino meravigliarci di aver introdotto questo articolo nel testo costituzionale; non perché esso non riguardi materia puramente costituzionale - da questo punto di vista dovremmo meravigliarci d'aver introdotto troppi articoli del genere -ma piuttosto per aver dovuto sancire nella Carta costituzionale che a due lavoratori di diverso sesso, ma che compiono lo stesso lavoro, spetta un'uguale retribuzione. Così pure ci dovremo meravigliare di aver dovuto stabilire come norma costituzionale che le condizioni di lavoro, per quanto riguarda la donna, debbano consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare”[34].
Teresa Noce, invece, pone la questione della funzione sociale della maternità: quest’ultima non è solo un “affare privato”, ma anche dello Stato[35]. In tale senso, la Noce ritiene ormai superata l’immagine della famiglia “antidemocratica” tracciata da Nilde Iotti, poiché relega le donne in una condizione di netta inferiorità che impedisce loro di sviluppare la propria personalità.
In tale scenario, si colloca[36] il vivace scontro tra Nilde Iotti e il democristiano Camillo Corsanego. Se per la prima, i diritti e i doveri dei genitori sono identici, il secondo non intende sconvolgere il diritto di famiglia, incentrato sulla figura del padre, quale leader della stessa.
Di rilievo è il dibattito tra l’on. Moro e l’on. Merlin, circa il termine “essenziale”.
L’on. Moro avanza una formulazione della norma simile[37] a quella vigente: “Alla donna lavoratrice sono assicurati tutti i diritti che spettano al lavoratore ed inoltre è garantita in ogni caso la possibilità di adempiere, insieme al suo lavoro, alla sua essenziale missione familiare”[38].
La senatrice sosteneva che l’impiego della parola “essenziale” avrebbe circoscritto l’attività femminile al solo contesto familiare, confinando la donna dall’ambito economico, sociale e politico. Secondo l’on. Merlin “la maternità [...] non è una condanna, ma una benedizione e deve essere protetta dalle leggi dello Stato senza che si circoscriva e si limiti il nostro diritto a dare quanto più sappiamo e vogliamo in tutti i campi della vita nazionale e sociale, certe, come siamo, di continuare e completare liberamente la nostra maternità”[39].
Al contrario, l’on. Moro riteneva che “questo riferimento alla “essenzialità” della missione familiare della donna sia un avviamento necessario ed un chiarimento per il futuro legislatore, perché esso, nel disciplinare l'attività della donna nell'ambito della vita sociale del lavoro, tenga presenti i compiti che ne caratterizzano in modo peculiare la vita”.
Un’interpretazione simile del concetto di “essenziale funzione familiare” trova giustificazione nel periodo storico di redazione della Costituzione. I molteplici interventi delle Madri Costituenti comprovano la necessità di affermare la più ampia pubblicizzazione e socializzazione del lavoro di riproduzione sociale, senza trascurare il suo valore economico, in modo tale da superare le disuguaglianze di genere tracciate intorno alla dicotomia tra la dimensione privata della famiglia e quella pubblica della produzione[40].
In linea generale, l’art. 37 Cost. risulta di complessa lettura. Appare opportuno sottolineare che, la difficoltà non attiene alla coesistenza, nella medesima disposizione, di due prescrizioni diverse, quali la parità e la speciale tutela delle lavoratrici. Come espresso da una corrente di pensiero, la compresenza delle prescrizioni sopraindicate, si è risolta, per decenni, nella separazione dei percorsi seguiti dall’attuazione dell’art. 37 nella legislazione italiana[41].
4. Interventi legislativi a tutela delle donne
In Italia, il problema della disuguaglianza delle donne è stato affrontato grazie alle pressioni dell’Unione Europea.
Una svolta radicale avviene negli anni Settanta, con l’emanazione della legge 9 dicembre 1977, n. 903, nota come “legge di parità”, alla quale si deve il merito di aver provveduto ad abrogare tutte le disposizioni in contrasto con il divieto di discriminazione in ambito di lavoro per ragioni di sesso.
Il punto centrale della legge di parità, dunque, consiste nell’eliminazione pressoché totale delle precedenti disposizioni di tutela del lavoro femminile. L’insuccesso della legge di parità, dovuto alla mancata previsione di un opportuno supporto istituzionale, ha indotto all’introduzione e al riconoscimento delle azioni positive, con la legge 10 aprile 1991, n. 125.
Stando alla volontà della Consulta, le c.d. “azioni positive” consistono in “interventi di carattere positivo diretti a colmare o, comunque, ad attenuare un evidente squilibrio a sfavore delle donne, che, a causa di discriminazioni accumulatesi nel corso della storia passata per il dominio di determinati comportamenti sociali e modelli culturali, ha portato a favorire le persone di sesso maschile nell'occupazione delle posizioni di imprenditore o di dirigente d'azienda”[42].
La suddetta legge si propone di favorire l’occupazione femminile, attuare l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel mondo del lavoro, rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione delle pari opportunità.
La legge n. 125/1991 si articola in tre parti: la prima è dedicata alla definizione e alla disciplina giuridica delle azioni positive; la seconda è riservata all’apparato istituzionale (Comitato nazionale pari opportunità e rete dei consiglieri di parità), la terza è destinata alla delineazione della discriminazione e dei rimedi per la violazione del divieto di discriminazione fondata sul sesso.
In tema di azioni positive, merita menzione la giurisprudenza della Corte EDU. Le pronunce relative a misure di tale tipo partono dal presupposto che l’art. 14 CEDU non osta alla messa a punto di interventi diretti a rimediare alle “disuguaglianze di fatto” che le donne possono subire nell’ambito lavorativo o nella vita sociale[43]. Una parte[44] della dottrina pone a confronto la giurisprudenza della Corte EDU con quella della Corte di Lussemburgo, sottolineando come lo schema impiegato dalle due Corti non coincide del tutto. In tale senso, mentre la prima ha potuto rilevare le giustificazioni più liberamente, ricavandole dai principi caratterizzanti le società democratiche, la Corte di Strasburgo ha dovuto appurare il legame tra lo scopo invocato e le previsioni dell’Unione Europea.
In particolare, l’art. 2, par. 4, della direttiva 76/2017[45] è stato costantemente richiamato a difesa dei programmi interni in favore delle donne.
La norma racchiusa nella direttiva sopracitata autorizza “misure volte a promuovere la parità delle opportunità per gli uomini e le donne, in particolare ponendo rimedio alle disparità di fatto che pregiudicano le opportunità” delle stesse nei settori dell’accesso all’occupazione, della formazione e promozione professionale, nonché delle condizioni di lavoro.
In seguito alla Conferenza di Pechino dell’ONU (1995) sulla condizione femminile, si avverte la necessità di intervenire in modo più incisivo. Con l’entrata in vigore del d.l. 23 maggio 2000, n. 196 “Disciplina dell'attività delle consigliere e dei consiglieri di parita' e disposizioni in materia di azioni positive, a norma dell'articolo 47 della legge 17 maggio 1999, n. 144”, il legislatore armonizza l’apparato strumentale delineato dalla legge n. 125/91. Essa puntualizza che l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne deve essere attuata sia per mezzo delle politiche di promozione di parità, sia mediante le strategie di accertamento e soppressione delle situazioni discriminatorie.
A tal proposito, si segnala la legge 25 febbraio 1992, n. 215 “Azioni positive per l'imprenditoria femminile”, diretta a promuovere l’uguaglianza sostanziale e le pari opportunità per uomini e donne nell’attività economica ed imprenditoriale. Alla legge appena menzionata consegue il d.lgs. 25 novembre 1996, n. 645 “Recepimento della direttiva 92/85/CEE concernente il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento”, che proibisce al datore di lavoro di adibire la donna in gestazione ad attività nocive, faticose ed insalubri, per un certo lasso di tempo. Un passo fondamentale è compiuto con la legge 8 marzo 2000 n. 53[46] “Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città”, che equipara la maternità alla paternità, accordando anche al padre il diritto di astensione obbligatoria nei tre mesi successivi alla nascita del figlio.
In ambito regionale, il d.p.r. 28 luglio 2000, n. 314 “Regolamento per la semplificazione del procedimento recante la disciplina del procedimento relativo agli interventi a favore dell’imprenditoria femminile”, intende invitare le Regioni e le Province Autonome a predisporre un programma per la promozione e il coordinamento delle iniziative riportate, al fine di “promuovere la formazione imprenditoriale delle donne; sviluppare servizi di assistenza e consulenza tecnica e manageriale a favore dell'imprenditorialità femminile; attuare iniziative di informazione e di supporto per la diffusione della cultura d'impresa tra le donne”.
Di spessore è il d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151 “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53”, che ribadisce la rilevanza della responsabilità familiare tra madre e padre.
Al Testo Unico succedono vari interventi legislativi focalizzati sulle pari opportunità. Il d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, “Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, prevede l’obbligo di garantire le pari opportunità tra uomini e donne per l’accesso al lavoro e il trattamento in sede. La legge 15 luglio 2002, n. 145 “Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l'interazione tra pubblico e privato”, introduce nuove tipologie contrattuali idonee a promuovere la partecipazione attiva di soggetti vulnerabili nel mercato del lavoro, tra cui le donne.
La disciplina sui congedi parentali è modificata dalla legge 14 febbraio 2003, n. 30 “Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro”, che distingue l’assunzione a tempo determinato dal reclutamento temporaneo di personale, nell’ipotesi di sostituzione di lavoratori (uomini e donne) in congedo. Il d.lgs. 25 gennaio 2010, n. 5 “Attuazione della direttiva 2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione)”, intensifica la parità di trattamento e di opportunità tra uomini e donne in tutti i campi, “compresi quelli dell’occupazione, del lavoro e della retribuzione”.
Con due incisivi interventi normativi[47], il legislatore non solo agevola la presenza delle donne nei consigli di amministrazione, ma introduce meccanismi diretti ad incentivare la selezione dei futuri componenti, a prescindere dal sesso.
Sul versante comunitario, la recente direttiva (UE) 2019/1158 del Parlamento e del Consiglio, del 20 giugno 2019, relativa all'equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza, mira a conciliare l’attività professionale e la vita privata, a fronte di orari di lavoro prolungati o indeterminati, aventi una ripercussione negativa sull’occupazione femminile. Infine, merita considerazione la fiorente disciplina nazionale ed europea inerente alla discriminazione diretta[48].
5. La promozione delle pari opportunità nel settore pubblico
Prima esaminare da vicino la normativa relativa alle pari opportunità nel settore pubblico[49], appare necessario segnalare l’emersione di posizioni tese a limitare o ostacolare l’introduzione di norme al riguardo.
Uno scoglio è rappresentato dalla legge 17 luglio 1919, n. 1176, la quale escludeva le donne dagli impieghi pubblici implicanti poteri giurisdizionali nonché l’esercizio di diritti e potestà pubbliche[50].
A partire dagli anni ’80, il diritto comunitario assolve un ruolo cruciale con la Raccomandazione 84/635/CEE, che invita gli Stati Membri ad adottare azioni positive volte a rimuovere gli ostacoli impedenti la piena partecipazione delle donne al lavoro, individuando nel settore pubblico l’area privilegiata di intervento.
Con la legge 10 aprile 1991, n. 125, la suddetta fonte europea è stata tradotta nell’ordinamento italiano, pur essendo priva di valore vincolante. Tale legge, da un lato, impone la menzione di entrambi i sessi nei bandi di concorso; dall’altro, introduce l’obbligo di attuare azioni positive finalizzate a promuovere le pari opportunità nel settore pubblico. Un’impronta è lasciata dal d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, (confluito nel T.U. di cui al d.lgs. n. 165/2001) che consacra il principio di promozione delle pari opportunità verso le donne.
In particolare, l’art. 7 del d.lgs. n. 165/2001 stabilisce che “le amministrazioni pubbliche garantiscono parita' e pari opportunità tra uomini e donne per l'accesso al lavoro ed il trattamento sul lavoro”.
Al fine di conseguire l’obiettivo paritario, sono stati adottati appositi strumenti volti a rimediare alla sotto-rappresentazione della figura femminile in certi settori o livelli di qualificazione. In tale senso, si pensi alla riserva di almeno un terzo dei posti nelle commissioni di concorso alle donne[51].
In tale contesto, trova terreno fertile la questione sulla legittimità delle misure sopramenzionate, dalla quale è scaturita la prima pronuncia della Corte di Giustizia del 1995[52]. Essa dichiara il contrasto tra i sistemi di “quote” a favore delle donne e il principio di uguaglianza formale, riscontrando una discriminazione a danno degli uomini. In seguito, la Corte di Giustizia muta il proprio orientamento; tuttavia, essa afferma la necessità di tenere presente il principio di eguaglianza formale e la presenza di clausole di flessibilità che consentano di derogare all’applicazione della “quota” in determinati casi, nel rispetto del più generale principio di proporzionalità[53].
A livello normativo, la pronuncia della Corte di Giustizia ha generato effetti positivi sia nell’ambito interno sia in quello comunitario. Sotto il primo profilo, la legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1, ha aggiunto[54] un periodo al primo comma dell’art. 51 Cost. che, come noto, racchiude il principio della parità dei sessi nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive.
Sotto il profilo extranazionale, il Trattato di Amsterdam ha introdotto un’ulteriore comma all’art. 157 TFUE[55]. Come osservato da una corrente di pensiero[56], l’asserzione della doverosità della promozione di pari opportunità tra uomini e donne inclusa nella norma costituzionale ha inciso positivamente sulla valutazione della disposizione che prescrive l’onore di motivazione in caso di scelta del candidato uomo in sede di assunzione o di promozione, finalizzato ad assicurare la trasparenza delle decisioni amministrative, al fine di evitare possibili discriminazioni.
Uno strumento prezioso si ravvisa nel d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, che all’art. 48 prevede la predisposizione di piani di azioni positive, aventi durata triennale, “tendenti ad assicurare, nel loro ambito rispettivo, la rimozione degli ostacoli che, di fatto, impediscono la piena realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel lavoro tra uomini e donne”, da parte delle amministrazioni dello Stato, delle Province, dei Comuni e di altri enti pubblici non economici.
Sul punto, la novità del d. lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, consiste nella possibilità di fare in modo che il Piano Triennale per le azioni positive “discenda in maniera coerente e integrata dal Piano della performance, nell’ambito del più ampio processo di pianificazione strategica e di programmazione economico-finanziaria”, anche “in ragione della necessità di assicurare la coerenza con gli obiettivi strategici e operativi previsti nel Piano della performance e con le risorse finanziarie adeguate per la concretizzazione degli interventi programmati” (Delibera n. 22/2011).
6. L’ingresso delle donne in magistratura
Dopo quindici anni dall’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana, la donna accede alla magistratura.
Dai lavori dell’Assemblea Costituente emerge la complessità della questione dell’ordine giudiziario e della partecipazione ad esso delle donne. Particolare rilevanza assume il progetto di Calamandrei, favorevole all’ingresso delle donne in magistratura.
In particolare, l’art. 20 del suddetto progetto, attinente il Titolo IV parte II della Costituzione, si incentrava su tre questioni cruciali: l’accesso delle donne alla magistratura, l’ammissione di giuristi illustri e la nomina di magistrati onorari[57].
Il primo punto, per taluni Costituenti, necessitava di essere ridiscusso. La maggior parte dei componenti aveva acquisito una cultura giuridica incentrata sulla discriminazione di genere. In tale senso, Cappi[58] riteneva che le donne avrebbero dovuto essere immesse e impiegate in determinati giudizi, precludendo ad esse l’accesso alla carriera giudiziario.
Angela Gotelli, insieme a Leonilde Iotti e Maria Federici, assunse un ruolo attivo per sostenere la partecipazione delle donne al potere giudiziario. L’oggetto della discussione fu l’art. 98 del progetto costituzionale, così formulato: “I magistrati sono nominati con decreti del Presidente della Repubblica, su designazione del Consiglio Superiore della Magistratura, in base a concorso seguito da tirocinio. Possono essere nominate anche le donne nei casi previsti dalle norme sull’ordinamento giudiziario”[59].
Favorevole al testo del Comitato di redazione, l’On. Leone[60] sosteneva che tra i campi di espressione femminile non rientravano gli alti gradi della Magistratura, poichè più consoni agli uomini. L’intervento dell’On. Leone provoca le dure reazioni dell’On. Federici, che pone in risalto la “poca sensibilità maschile nel non volere far giustizia nei riguardi della donna”, e dell’On. Iotti, per la quale “se è vero che si deve far sentire in certo grado la femminilità della donna, non per questo si deve precludere alla donna l’accesso agli alti gradi della magistratura, quando abbia la capacità di arrivarci. Può anche darsi che le donne non ci arrivino; ma in questo caso si tratta di merito”.
Dalla parte delle donne, l’On. Targetti propose un emendamento soppressivo, alla disposizione in esame, dei termini “nei casi previsti dalle norme sull’ordinamento giudiziario”, riscontrando nell’operato del Comitato di redazione la volontà di frenare l’ingresso delle donne in magistratura.
Il presente emendamento non viene approvato, e di conseguenza, l’art. 98 entra a far parte del “Progetto Costituzione della Repubblica Italiana”. L’On. Federici, convinta della sufficienza delle previsioni contenute negli artt. 3 e 48, propone di eliminare il secondo periodo.
I lavori dell’Assemblea Costituente terminano con l’affidamento dell’accesso delle donne alla Magistratura ai principi costituzionali sopracitati.
A seguito di un acceso scambio di opinioni sulla natura dell’art. 51 Cost., fu introdotta la legge n. 287/1951 inerente al riordinamento dei giudizi di Assise, che non prevedeva tra i requisiti richiesti ai giudici popolari delle Corti d’Assise l’appartenenza al sesso maschile.
Tuttavia, la visione giurisprudenziale fu completamente opposta: la sentenza dell’11 febbraio 1956 accordava al legislatore ordinario il potere di porre qualche limitazione per alcuni uffici pubblici relativamente al sesso. Analogamente, la Corte di Appello di Roma sosteneva che il silenzio della legge in esame doveva essere interpretato nel senso di includere il sesso maschile tra i requisiti dei giudici popolari in ragione dei precedenti provvedimenti in materia di giudizio di Assise[61].
Un anno dopo, la predetta sentenza fu confermata dalla Corte di Cassazione, che riconosceva la natura programmatica dell’art. 51 Cost. Un primo rilevante passo fu attuato con la legge 27 dicembre 1956, n. 114: essa ammetteva le donne a far parte delle Corti d’Assise, stabilendo però che dei sei giudici popolari almeno tre dovevano essere di sesso maschile.
Al contempo, la Corte costituzionale statuisce la legittimità costituzionale della legge in esame[62]. Nella sentenza del 13 maggio 1960, n. 33, la Consulta inverte il proprio antecedente approccio, dichiarando “l’illegittimità costituzionale della norma contenuta nell'art. 7 della legge 17luglio 1919, n. 1176, che esclude le donne da tutti gli uffici pubblici che implicano l'esercizio di diritti e di potestà politiche, in riferimento all'art. 51, primo comma, della Costituzione”[63].
Un intervento così incisivo della Consulta non poteva essere ignorato dal legislatore ordinario: la legge 9 febbraio 1963, n. 66, abroga “la legge 17 luglio 1919, n. 1176, il successivo regolamento approvato con regio decreto 4 gennaio 1920, n. 39, ed ogni altra disposizione incompatibile”. Grazie al concorso indetto nel 1963, le prime donne magistrato furono elette nel 1965. Tuttavia, a causa di un deficit di democrazia ancora presente nella vita sociale e politica nazionale, si riscontra una riduzione della presenza femminile ai vertici della Magistratura[64].
7. Elettorato passivo e doppia preferenza di genere
In tema di elettorato passivo, un momento cruciale è rappresentato dall’attivismo femminile degli anni Settanta, dal quale scaturiscono un ventaglio di diritti, quali il divorzio, l’aborto e la parità sul lavoro, e la riforma del diritto di famiglia (1975).
In tale lasso di tempo, le donne iniziano ad assumere un ruolo attivo anche nella vita politica: nel 1976, Tina Anselmi è eletta Ministro del lavoro e della previdenza sociale, dal 1979 al 1992, Nilde Iotti riveste la carica di Presidente della Camera dei Deputati.
A seguito dell’inerzia del legislatore degli anni Ottanta, nel 1996 viene istituito l’ufficio del Ministro per le Pari opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei ministri.
Tra il 1993 e il 1995 vengono approvate una serie di leggi concepite per promuovere l’inserimento femminile negli organi politici elettivi: la legge 25 marzo 1993, n. 81, sancisce che, per l’elezione dei consigli comunali nei comuni con popolazione fino a 15.000 mila abitanti, nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi possa essere rappresentato in misura superiore ai tre quarti rispetto all’altro, e nei comuni con popolazione oltre i 15.000 mila abitanti in misura superiore ai due terzi; la legge 4 agosto 1993, n. 277, stabilisce che le liste presentate ai fini dell’assegnazione dei seggi con sistema proporzionale debbano essere “liste bloccate”, costituite da candidati di sesso differente, escludendo così la possibilità per l’elettore di esprimere preferenze; la legge elettorale del Senato, il d.lgs. 20 dicembre 1993, n. 533, prescrive che il Senato “è eletto a suffragio universale, favorendo l’equilibrio della rappresentanza tra donne e uomini”; infine, la legge 23 febbraio 1995, n. 43, prevede che nessuno dei due sessi possa essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati, sia nelle liste comuni che nel “listino” per l’attribuzione del premio di maggioranza.
Tali legge vengono dichiarate incostituzionali dalla Consulta[65], in quanto non idonee a “rimuovere gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati”, bensì ad “attribuire loro direttamente quei risultati medesimi”.
Entrando nel vivo della sentenza, la Corte costituzionale statuisce che, in tema di elettorato passivo, “la regola inderogabile stabilita dallo stesso Costituente, con il primo comma dell'art. 51, è quella dell'assoluta parità, sicché ogni differenziazione in ragione del sesso non può che risultare oggettivamente discriminatoria, diminuendo per taluni cittadini il contenuto concreto di un diritto fondamentale in favore di altri, appartenenti ad un gruppo che si ritiene svantaggiato”.
Alla luce di ciò, il Parlamento provvede a ridisegnare a livello costituzionale la disciplina delle pari opportunità nella rappresentanza politica: la riforma del Titolo V della Costituzione (legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3) delinea il comma 7 del nuovo art. 117 Cost., in virtù del quale “le leggi regionali rimuovo ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”; la successiva legge costituzionale 31 gennaio 2001, n. 2, contiene un principio simile al precedente, enunciando che le leggi elettorali delle regioni speciali, “al fine di conseguire l’equilibrio della rappresentanza dei sessi”, incentivano “condizioni di parità per l’accesso alle consultazioni elettorali”; infine, la legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1, integra il primo comma dell’art. 51, che attualmente recita: “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.
Nel contempo, sulla questione della parità di genere nelle cariche elettive torna ad esprimersi la Consulta, interrogata sulla legittimità costituzionale della legge regionale della Valle d’Aosta del 15 dicembre 2003, n. 21, per la quale ciascuna lista deve obbligatoriamente includere, pena l’esclusione dalla competizione elettorale, candidati di ambedue i sessi, senza indicazione di quote, lasciando così l’elettore libero di manifestare il suo voto di preferenza.
Con la sentenza 10-13 febbraio 2003, n. 49, la Corte costituzionale muta la propria visione, negando l’equivalenza tra eleggibilità e candidabilità. Ad avviso dei giudici, le suddette misure “concernono solo le liste e i soggetti che le presentano”, e pertanto, non pongono l’appartenenza all’uno o all’altro sesso nemmeno come requisito di candidabilità dei singoli cittadini.
La Consulta si distacca dalla precedente pronuncia, affermando che “la misura prevista dalla legge impugnata non può qualificarsi come una di quelle “misure legislative, volutamente diseguali”.
Infine, la Corte rileva che negli otto anni trascorsi i partiti “non hanno mostrato grande propensione” a tradurre con regole di autodisciplina la finalità di realizzare una parità effettiva tra uomini e donne nell’accesso alla rappresentanza elettiva.
La Corte, dunque, traccia la distinzione tra azioni positive e misure antidiscriminatorie, posizionando la disposizione valdostana in quest’ultime. Con la sentenza 14 gennaio 2010, n. 4, la Consulta si pronuncia sulla legge regionale della Campania 27 marzo 2009, n. 4[66].
L’oggetto della questione concerne la c.d. doppia preferenza di genere: nel cui in cui l’elettore esprime due preferenze queste devono ricadere su candidati di sesso diverso, pena l’annullamento della seconda preferenza.
Per il Giudice delle Leggi, la legge in esame non è idonea a introdurre “un meccanismo, ma solo promozionale”: “l’espressione della doppia preferenza è meramente facoltativa per l’elettore, il quale ben può esprimerne una sola, indirizzando la sua scelta verso un candidato dell’uno o dell’altro sesso”.
La regola in discussione, dunque, si sottrae alla censura di incostituzionalità, dal momento che “rende maggiormente possibile il riequilibrio, ma non lo impone”.
Di recente, il Governo nazionale ha esercitato il proprio potere sostitutivo ai sensi della legge 120 comma 2, Cost., nei confronti della legge elettorale della Regione Puglia (n. 2/2005), per non essersi quest’ultima conformata alla previsione della doppia preferenza di genere, come previsto dall’art. 4, comma 1, lett. c-bis), n. 1, della legge n. 165/2004.
La previsione in esame, prima introdotta dall’art. 3 della legge n. 215/2012 e, poi, modificata dall’art. 1, comma 1, della legge n. 20/2016, stabilisce che “qualora la legge elettorale preveda l’espressione di preferenze, in ciascuna lista i candidati (devono essere) presenti in modo tale che quelli dello stesso sesso non eccedano il 60 per cento del totale e (deve essere)consentita l’espressione di almeno due preferenze, di cui una riservata a un candidato di sesso diverso, pena l’annullamento delle preferenze successive alla prima”.
La legge elettorale pugliese risulta non conforme alla seconda norma contenuta nella disposizione nazionale sopracitata.
Con il decreto legge n. 85/2020, convertito in legge n. 98/2020, il Governo ha sottolineato che l’omesso recepimento della legge doppia preferenza di genere nella legislazione elettorale della Puglia “integra la fattispecie di mancato rispetto di norme di cui all’articolo 120 della Costituzione e, contestualmente, costituisce presupposto per l’assunzione delle misure sostitutive ivi contemplate”.
Il 3 agosto 2020, il Prefetto di Bari ha emesso un proprio provvedimento, con il quale ha disposto che “in virtù della ricognizione effettuata (...) l’art. 7 della legge regionale 28 gennaio 2005, n. 2 (...) deve ritenersi applicabile secondo la (...) formulazione” riportata. Infine, ad esso sono seguiti quattro[67] decreti del Presidente della Giunta della Regione Puglia, con cui esso ha indetto le elezioni, determinato il numero di seggi assegnati alle singole circoscrizioni, prescritto le regole di composizione e sottoscrizione delle liste e delineato il modello di scheda elettorale.
Occorre sottolineare che l’esercizio del potere sostitutivo da parte del Governo è stato fortemente criticato in dottrina; in tale senso, vi è chi ha proposto soluzioni alternative volte a conseguire il medesimo scopo seguendo percorsi diverse. In particolare, si fa riferimento all’ipotesi dell’autoapplicabilità del principio fondamentale relativo alla doppia preferenza di genere[68].
Tuttavia, la suddetta strada risulta impraticabile, anche a fronte delle vicende giurisdizionali inerenti un ulteriore principio della legge n. 165/2004, nonché quello della non immediata rieleggibilità del Presidente della regione eletto a suffragio universale diretto, allo scadere del secondo mandato consecutivo[69].
8. Aborto e obiezione di coscienza
In tema di aborto, un passo cruciale è compiuto ad opera della Corte costituzionale che, con sentenza 18 febbraio 1975, n. 27, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 546 c.p., nella parte in cui “non prevede che la gravidanza possa venir interrotta quando l'ulteriore gestazione implichi danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della madre”.
Sulla decisione della Corte grava l’enorme peso della sentenza della Corte Suprema americana nel noto caso Roe vs Wade[70]. In tale vicenda, l’organo di vertice si interroga sulle limitazione introdotte all’aborto, individuando tre possibili giustificazioni: prevenire atti sessuali; tutelare la salute della donna; e infine, proteggere il feto.
La Corte Suprema opta per una decisione intermedia, riconoscendo alla donna libertà di scelta in merito alla gravidanza, ma precisando la presenza di un limite dettato dall’interesse statale a tutelare la vita potenziale, in una suddivisione in tre trimestri[71].
Nella sentenza sopraindicata, la Corte costituzionale ha individuato i beni di rilievo costituzionale invischiati nella vicenda, evidenziando la necessità di un ragionevole bilanciamento tra le istanze in conflitto. Secondo la Consulta, il legislatore deve precisare le condizioni di grave danno o pericolo per la madre che giustificano il ricorso all’aborto e predisporre opportuni accertamenti sulla sussistenza delle stesse.
Tuttavia, appare necessario specificare che, la sentenza in commento non muta la mentalità collettiva: in tale periodo storico, alle donne non è riconosciuta una reale autonomia decisionale sulle questioni del corpo[72].
Alla luce di tale scenario, il Parlamento approva la legge 22 maggio 1978, n. 194, tramite la quale lo Stato “garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutelala vita umana dal suo inizio”. Sin dall’entrata in vigore della suddetta legge, una parte della dottrina[73] ha ritenuto che l’aborto non possa essere situato sullo stesso piano della maternità, tutelata dalla Costituzione all’art. 31, comma 2. In dottrina, altresì, solo poche correnti[74] hanno azzardato nel qualificare l’aborto quale diritto; la giurisprudenza non ha riconosciuto una tale situazione giuridica soggettiva.
Tuttavia, la Corte di Cassazione, nel risolvere un contrasto giurisprudenziale concernente il c.d. danno da nascita indesiderata ha statuito che i presupposti definiti dalla legge n. 194/1978 farebbero scaturire “un vero e proprio diritto all’autodeterminazione della gestante di optare per l’interruzione della gravidanza”.
Sotto il profilo pratico, l’interruzione volontaria della gravidanza implica una richiesta entro i primi novanta giorni dall’inizio della gestazione, che deve essere presentata ad un consultorio pubblico, ad una struttura sociosanitaria abilitata dalla Regione o al medico di fiducia.
Decorso il termine prescritto dalla legge, l’operazione è praticabile solo in due ipotesi: quando la gravidanza o il parto possano comportare un grave pericolo per la vita della donna; nel caso in cui vengano accertati processi patologici tali da determinare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
Un aspetto peculiare della legge in esame consiste nell’attribuire agli obiettori di coscienza il diritto di non praticare l’aborto. Occorre però specificare che l’art. 9 della stessa non dispensa tale figura “dal prestare la propria attività nelle fasi successive per evitare ogni possibile rischio per le condizioni cliniche e di salute della donna”.
Tale considerazione trova conferma nella recente sentenza della Corte di Cassazione[75], per la quale l’obiezione di coscienza esonera il medico esclusivamente dal “compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza", diritto che peraltro trova il suo limite nella tutela della salute della donna, tanto è vero che il comma 5 dell'art. 9 della legge citata esclude ogni operatività all'obiezione di coscienza nei casi in cui l'intervento del medico obiettore sia "indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo”.
In tale scenario, trovano spazio le procedure attuate innanzi al Comitato Europeo dei Diritti Sociali del Consiglio d’Europa[76]. In un primo reclamo[77], esso ha accertato la violazione dei diritti delle donne rispetto alla Carta sociale europea. In un secondo reclamo, il Comitato ha riaffermato lo stato di violazione del diritto alla salute e del principio di non discriminazione, riconoscendo anche il profilo di violazione della posizione dei medici non obiettori di coscienza[78]. Dal quadro appena delineato affiora che, la legge sull’aborto continua ad essere oggetto di vivaci contrasti.
9. Considerazioni conclusive
Da quanto emerso nel presente contributo, l’attuazione dei diritti delle donne espressamente riconosciuti dalla Costituzione Repubblicana del 1948 (esclusa l’interruzione volontaria della gravidanza che, come già riportato, è disciplinata dalla legge n. 194/1978) ha incontrato non pochi ostacoli.
In tema di rappresentanza politica, la situazione appare migliorata rispetto alla seconda metà del Novecento; tuttavia, la strada verso un’effettiva eguaglianza sostanziale tra uomini e donne è ancora lunga e travagliata.
La presenza paritaria di ambedue i sessi è segno di una “democrazia conquistata”[79]. Come precisato in dottrina, le donne non sono chiamate a rappresentare “interessi di genere”, ma “a null’altro che a portare nella determinazione dell’agenda politica e nella sua attuazione la loro specificità – il loro modo di vedere e respirare il mondo –, affinché essa vada a integrare quella pari, ma inevitabilmente diversa, degli uomini”.
Oltre alla sfera pubblica, anche quella privata era marcata dal predominio maschile, nonché del pater familias. Con il principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, la donna è posta sullo stesso piano dell’uomo. Occorre però segnalare che, solo grazie alle pronunce della Corte costituzionale si consolida il principio secondo cui “il corpo della moglie non è di proprietà del marito”.
Con la prima[80] sentenza, la Consulta dichiara incostituzionale l’art. 559, commi 1 e 2, c.p. che incriminava l’infedeltà femminile. Nella seconda decisione[81], il Giudice delle Leggi si pronuncia in termini analoghi, dichiarando illegittime altre disposizioni del codice penale (artt. 559, comma 3; 560, comma 1; 561, commi 2 e 3) strettamente legate alle precedenti che punivano la donna per la relazione adulterina e l’uomo per il concubinato.
Nel contesto lavorativo, le donne si trovano sempre in una condizione di incertezza. Come osservato da una corrente di pensiero, l’invisibilità che caratterizza la presenza femminile nell’ambito pubblico è affiancata dalla cecità con la quale si rileva l’operato delle donne nella sfera riproduttiva[82].
Nel corso degli anni, le donne hanno conquistato posizioni significative, assumendo incarichi di notevole responsabilità.
Tuttavia, esse non sono riuscite a colmare il gap in ambiti segnati dal monopolio maschile. In concreto, permane da attuare in pieno il secondo comma dell’art. 3 Cost., ai sensi quale “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Il gender pay gap, ossia il divario retributivo tra uomo e donna, avalla la condizione di inferiorità di quest’ultima nel contesto lavorativo. Al fine di colmare tale divario, la Commissione europea ha riconosciuto ai lavoratori il diritto di accedere alle informazioni salariali[83].
L’esercizio del predetto diritto consente di individuare il gap retributivo ingiustificato, sanabile in sede di contrattazione collettiva, nella prospettiva delle relazioni sindacali. Con riguardo alla magistratura, il reclutamento delle donne è ormai fermo al 40-50%.
La presenza femminile comincia a crescere negli anni ’70 e ’80, in ragione dell’aumento delle laureate in giurisprudenza e del ruolo assolto dalle scuole di preparazione al concorso[84].
Oggi, la situazione è in netto miglioramento, data la recente nomina di donne nella veste di Presidente della Corte Costituzionale e Presidente aggiunto della Commissione.
Al contempo, però, “non vi è chi non veda come nell’attuale situazione storica sia molto problematico ritenere che la presenza femminile all’interno del CSM costituisca un aspetto secondario, una rivendicazione da parte delle donne e non un problema da risolvere per rinnovare l’organo di autogoverno e consentirgli di uscire da logiche di autoreferenzialità”[85].
Infine, per quanto concerne l’interruzione volontaria della gravidanza, il bilancio della legge n. 194/1978 è complesso, non tanto su un piano qualitativo, quanto invece su un piano quantitativo.
Come sostenuto in dottrina, il modo in cui è attuata l’obiezione di coscienza risulta “frutto di una dichiara-zione formalmente inequivocabile che, proprio in quanto esplicita, non previene la donna dal cercare contatto con medici non obiettori”. In definitiva, occorre interrogarsi sulle ragioni che inducono a parlare di diritti delle donne quale categoria a parte rispetto ai diritti umani in generale.
Tale circostanza potrebbe portare a dei fraintendimenti, ad una sorta di rivendicazione femminista. Tuttavia, come anche evidenziato da una corrente di pensiero, la necessità di parlare di diritti delle donne discende da una innegabile condizione di asimmetria di potere tra generi[86]. La società moderna è chiamata ad adempiere un compito delicato e cruciale: portare avanti il progetto faticosamente elaborato dalle Madri Costituenti.
[1] M. Federici, L’evoluzione socio-giuridica della donna alla Costituente, in AA.VV., Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea Costituente, Vallecchi, Firenze, 1969, p. 203.
[2] Sul tema, si veda F. Russo, Nilde Iotti all'Assemblea Costituente, in Le culture politiche nell'Italia della “prima Repubblica”, A. Bisignani (a cura di), Cacucci, 2016, pp. 127-137.
[3] Sul tema, si veda P. Pacini, La Costituente., storia di Teresa Mattei. Le battaglie della partigiana Chicchi, la più giovane madre della Costituzione, Milano, Altreconomia, 2011.
[4] Sul tema, si veda L. Leo, La legge Merlin: la legge che salvò l’Italia, in Salvis Juribus, 2020; V. Serafini, Prostituzione e legislazione repubblicana: l'impegno di Lina Merlin, in Storia e problemi contemporanei, 1997, pp. 105-119; T. Pitch, La sessualità, le norme, lo Stato. Il dibattito sulla legge Merlin, in Memoria: rivista di storia delle donne, 1986, pp. 24–41; S. Bellassai, La legge del desiderio. Il progetto Merlin e l'Italia degli anni Cinquanta, Rome, Carocci, 2006.
[5] Sul punto, P. Gabrielli, Il 1946, le donne, la Repubblica, Donzelli, Roma, 2009, p. 242, osserva correttamente che “questa è la scelta di un artista: la Repubblica, invece, a faticato a riconoscere alle donne la possibilità di rappresentarla, ha marginalizzato la loro presenza nei luoghi decisionali della politica, nelle istituzioni, nelle direzioni dei partiti, soggetti dominanti lo scenario politico, facendo così della democrazia italiana una democrazia incompiuta”.
[6] Sulle paure dei partiti, si veda A. Rossi-Doria, Diventare cittadine, Giunti, Firenze, 1998, cit., p. 26 ss.
[7] In particolare, A. Garofalo, L’italiana in Italia, Laterza, Bari, 1956, p. 38, descrive il momento storico nel seguente modo: “Lunghissima attesa davanti ai seggi elettorali. Sembra di essere tornate alle code per l'acqua, per i generi razionati. Abbiamo tutti nel petto un vuoto da giorni d'esame, ripassiamo mentalmente la lezione: quel simbolo, quel segno, una crocetta accanto a quel nome. Stringiamo le schede come biglietti d'amore. Si vedono molti sgabelli pieghevoli infilati al braccio di donne timorose di stancarsi e molte tasche gonfie per il pacchetto della colazione. Le conversazioni che nascono tra uomini e donne hanno un tono diverso, alla pari”.
[8] 9-10-11 settembre 1944. Mozione del Consiglio Nazionale della D.C., in Atti e documenti della Democrazia Cristiana 1943-1959, Cinque Lune, Roma 1959, p. 63.
[9] L’emancipazione della donna, Discorso alla conferenza delle donne comuniste, in P. Togliatti, Opere, vol. V, 1944 -1955, Riuniti, Roma, 1984, cit., p. 155.
[10] Sul tema, si veda A. Riccardi, La nazione cattolica, in Le interpretazioni della Repubblica, A. Giovagnoli (a cura di), Il Mulino, Bologna 1998, pp. 47-61.
[11] Ai sensi dell’art. 1 di tale decreto: “Dopo la liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggera', a suffragio universale diretto e segreto, una Assemblea Costituente per deliberare la nuova costituzione della Stato”.
[12] Corte cost., sent. 19 dicembre 1968, n. 126.
[13] F. Biondi, Famiglia e Matrimonio. Quale modello costituzionale, in Gruppo di Pisa, n. 2, 2013, p. 19.
[14] Corte cost., sent. 8 luglio 1967, n. 102.
[15] Corte cost. sent. 9 febbraio 1983, n. 30.
[16] Sull’iter della legge del 1970, si veda S. Lariccia, La legge sul divorzio e la riforma del diritto di famiglia in Italia negli anni 1970-’75, in Stato e chiese, n. 22, 2020, pp. 62-72.
[17] Sulle nuova concezione della famiglia, si veda L. Rosa, Il nuovo diritto di famiglia. La legge 19 maggio 1975, n. 151, in Aggiornamenti Sociali, 1976, n. 4, pp. 222-227.
[18] R. Pasquili, La famiglia nel tempo, in Donne, politica e istituzioni: il tempo delle donne, S. Serafin, M. Bollo (a cura di), Forum, Udine, 2013, p. 226.
[19] Ai sensi dell’attuale art. 143 c.c.: “Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono gli stessi doveri”.
[20] R. Serafino, I diritti della personalità, Cedam, Assago (Mi), 2013.
[21] M. R. Mottola, Il diritto al nome, Giuffrè, Milano, 2016, p. 6.
[22] Decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, (“Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127”). .
[23] Legge 4 maggio 1983, n. 184 (“Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori”).
[24] Corte cost., ord. 11 febbraio 1988, n. 176.
[25] Corte cass., sent. del 13 luglio 1961, in Foro it., vol. 85, n. 1, 1962.
[26] Corte cost., sent. 13 luglio 1970, n. 128.
[27] Tale riflessione è riportata nella già citata sentenza n. 126/168, con la quale la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità dell'art. 559 c. p., che puniva la donna adultera.
[28] Corte europea dei diritti dell’uomo, 22 febbraio 1994, Burghartz c. Svizzera.
[29] Corte europea dei diritti dell’uomo, 16 settembre 2005, Ünal Tekeli c. Turchia.
[30] A. Arceri, Articolo 143 bis, in Codice della famiglia, M. Serra (a cura di), Giuffrè, Milano, 2015, cit., p. 476.
[31] In termini analoghi, Cass. sent. 17 luglio 2004, n. 13298, secondo la quale “nonostante l'apparente incisività della nuova formulazione, essa deve considerarsi di modesto spessore [...] tenuto conto, da un lato, che anche nel vigore della precedente normativa la giurisprudenza di questa Suprema Corte aveva ravvisato il diritto della moglie a conservare il proprio cognome, aggiungendo ad esso quello del marito [...], considerato, d'altro lato, che anche la disposizione novellata evidenzia, sia pure in termini attenuati rispetto al passato, l'opzione del legislatore verso il cognome del marito come identificativo della nuova famiglia costituita, in quanto unico cognome comune, così rimarcando una posizione di evidente disparità tra i coniugi”.
[32] F. Kostoris, P. Schioppa, La donna lavoratrice a 60 anni dalla Costituzione italiana, in Riv. di politica economica, n. 7-8, 2006, p. 139.
[33] A.C., III Sottocommissione, resoconto sommario, 13 settembre 1946, in Camera dei deputati.
[34] A.C., seduta antimeridiana, 10 maggio 1947, in Camera dei Deputati, cit.
[35] A.C., III commissione, resoconto sommario, 26 luglio 1946, in Camera dei Deputati.
[36] A.C., I Sottocommissione, 30 ottobre 1946, resoconto sommario, in Camera dei Deputati.
[37] A. C., I Sottocommissione, resoconto sommario, 8 ottobre 1946, in Camera dei deputati.
[38] In termini analoghi, l’on. La Pira, per il quale “la donna ha un'essenziale missione familiare”. L’on. Moro trova anche il forte sostegno dell’on. Mastrojanni, secondo il quale “il fenomeno dilagante dell’attività della donna nel campo sociale e politico, come nel campo del lavoro comune, ha portato come conseguenza l’indebolimento della compagine familiare e dell’educazione dei figli”, mentre “la funzione naturale della donna è quella che la natura le ha attribuito, comprendente non solo la procreazione, ma anche la difesa e l’educazione dei figli”. In tale modo, “si verrebbe ad ammettere il principio che si possa anteporre alla funzione naturale biologica della donna, la funzione economica e sociale. Di conseguenza, ritiene che la parola “essenziale” abbia un significato dal quale non si possa prescindere, nel senso che si deve ritenere che la donna rimanga quanto è più possibile nella sua funzione naturale, e che il resto della sua attività nella vita pubblica e lavorativa sia considerato come accessorio e non come essenziale”.
[39] A. C., seduta antimeridiana, 10 maggio 1947, in Camera dei deputati.
[40] L. Ronchetti, Genere e genere di famiglia, in Questione Giustizia, n. 2, 2019.
[41] M. Gigante, I diritti delle donne nella Costituzione, Editoriale Scientifica, Napoli, 2007, p. 82-83.
[42] Corte cost., sent. 23 marzo 1993, n. 109.
[43] Corte EDU, 10 maggio 2007, Runkee e White c. Regno Unito.
[44] F. Spitaleri, Trattamenti preferenziali e azioni positive a favore delle donne: punti fermi e linee di sviluppo della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in L’eguaglianza alla prova delle azioni positive, Giappichelli, Torino, 2013, pp. 204-206.
[45] Direttiva 76/207/CEE del Consiglio, del 9 febbraio 1976, relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro.
[46] Ai sensi dell’art. 1 della legge 8 marzo 2000, n. 53: “La presente legge promuove un equilibrio tra tempi di lavoro, di cura, di formazione e di relazione, mediante: l'istituzione dei congedi dei genitori e l'estensione del sostegno ai genitori di soggetti portatori di handicap; l'istituzione del congedo per la formazione continua e l'estensione dei congedi per la formazione; c) il coordinamento dei tempi di funzionamento delle città e la promozione dell'uso del tempo per fini di solidarietà sociale”.
[47] L. 12 luglio 2011, n. 120 (“Modifiche al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, concernenti la parita' di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati”); d.p.r. 30 novembre 2012, n. 251 (“Regolamento concernente la parita' di accesso agli organi di amministrazione e di controllo nelle società, costituite in Italia, controllate da pubbliche amministrazioni, ai sensi dell'articolo 2359, commi primo e secondo, del codice civile, non quotate in mercati regolamentati, in attuazione dell'articolo 3, comma 2, della legge 12 luglio 2011, n. 120).
[48] D.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (“Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell'articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246”); direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego.
[49] Come osservato da S. Borelli, Pari opportunità e non discriminazione nella amministrazioni pubbliche, in Il nuovo diritto del lavoro. Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche: la terza riforma, L. Fiorillo, A. Perulli (a cura di), Giappichelli, Torino, 2013, p. 505, “il pubblico impiego è tradizionalmente scelto dalle donne perché family-friendly”.
[50] Ai sensi dell’art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176: “Le donne sono ammesse, a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesse espresse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato secondo la specificazione che sarà fatta con apposito regolamento”.
[51] Ai sensi dell’art. 57 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165: “Le pubbliche amministrazioni, al fine di garantire pari opportunità tra uomini e donne per l'accesso al lavoro ed il trattamento sul lavoro: a) riservano alle donne, salva motivata impossibilità, almeno un terzo dei posti di componente delle commissioni di concorso, fermo restando il principio di cui all'articolo 35, comma 3, lettera e)”.
[52] Corte di Giust., sent. 17 ottobre 1995, C –450/91 Kalanke – Freie Hanseltadt Bremen.
[53] Corte di Giust., sent. 28 marzo 2000, C-158/97 Georg Badeck
[54] Ai sensi dell’art. 51, comma 1, Cost: “Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.
[55] Ai sensi dell’art. 157, comma 4, TFUE (ex art. 141 TCE): “Lo scopo di assicurare l'effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l'esercizio di un'attività professionale da parte del sesso sotto rappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali”.
[56] S. Scarponi, L’art. 51 della Costituzione e l’accesso delle donne ai pubblici uffici e al lavoro nel settore pubblico, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. IT, n. 406, 2019, p. 16.
[57] Sul tema, si veda A. Barbera, Calamandrei e l'ordinamento giudiziario: una battaglia su più fronti, in Rassegna parlamentare, 2006, pp. 359-393.
[58] F. Malgeri, Cappi, Giuseppe, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Treccani, 1976, vol. 19.
[59] Tale disposizione è oggi rinvenibile nell’art. 106 Cost., che prevede l’accesso alla magistratura per concorso.
[60] A.C., seduta antimeridiana, resoconto sommario, 26 novembre 1947, in Camera dei deputati.
[61] Corte d’app. di Roma, sent. 29 marzo 1952, in Foro it., 1952, II, 84 ss.
[62] Corte cost., sent. 29 settembre 1958 n. 56.
[63] In particolare, nella sentenza n. 33/60, la Corte osserva che “non può essere dubbio che una norma che consiste nello escludere le donne in via generale da una vasta categoria di impieghi pubblici, debba essere dichiarata incostituzionale per l'irrimediabile contrasto in cui si pone con l'art. 51, il quale proclama l'accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive degli appartenenti all'uno e all'altro sesso in condizioni di eguaglianza. Questo principio é stato già interpretato dalla Corte nel senso che la diversità di sesso, in sé e per sé considerata, non può essere mai ragione di discriminazione legislativa, non può comportare, cioè, un trattamento diverso degli appartenenti all'uno o all'altro sesso davanti alla legge”.
[64] F. Tacchi, Eva togata. Donne e professioni giuridiche in Italia dall'Unità a oggi, Utet, Torino, 2010, p. 214.
[65] Corte cost., sent. 6-12 settembre 1995, n. 422.
[66] Per un commento sulla sentenza, si veda L. Califano, L’assenso “coerente” della Consulta alla preferenza di genere, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2010; G. Ferri, Le pari opportunità fra donne e uomini nell’accesso alle cariche elettive e la “preferenza di genere” in Campania, in Le Regioni, n. 4, pp. 902-915.
[67] D.P.G.R. nn. 324, 325, 326 e 327 del 3 agosto 2020.
[68] L. Trucco, Preferenza di genere e sostituzione legislativa della regione Puglia: quanto il fine potrebbe già avere il mezzo, in Quaderni Costituzionali, n. 3, 2020, p. 607.
[69] Sul tema, M. Raveraira, Il limite del doppio mandato alla immediata rielezione del Presidente della Giunta regionale: una questione complessa, in Federalismi.it, n. 19, 2009; L. Brunetti, Sulla pretesa ineleggibilità al terzo mandato consecutivo del Presidente della Giunta regionale, in Forum costituzionale, 2010.
[70] Corte Suprema, 22 gennaio 1973, Roe v. Wade.
[71] Una descrizione dettagliata dei trimestri è compiuta da G. Viggiani, La questione giuridica dell’aborto negli Stati Uniti, in AG AboutGender, n. 5, 2014 p. 115.
[72] Sul punto, L. Perini, Quando l’aborto era un crimine. La costruzione del discorso in Italia e negli Stati Uniti (1965-1973), in Storicamente, n. 6, 2010, p. 3, osserva espressamente che “la politica, i suoi linguaggi e i suoi riti, profondamente maschili e maschilisti, restano impermeabili a quel sapere su di sé che le donne invece stanno faticosamente costruendo e sperimentando e che, da un certo momento in poi, entra necessariamente a far parte del patrimonio narrativo delle relazioni femminili”.
[73] C. M. Bianca, Sub art. 1, in Commentario alla l. 22 maggio 1978, n. 194, C.M. Bianca-F. D. Busnelli (a cura di), 1978, p. 1593.
[74] G. Dell’osso, I soggetti della vicenda abortiva: la donna, il padre, il medico, in P. Martini, G. Dell’Osso, T. De Palma, C. Lorè, G. A. Norelli, I. Piva, L’aborto. Aspetti medico-legali della nuova disciplina, Milano, 1979, p. 25.
[75] Cass. pen., sez. VI, sent. 2 agosto 2012, n. 14979. Sulla sentenza, si veda V. Abu Awwad, Obiezione di Coscienza e Aborto farmacologico, in Diritto penale contemporaneo, 2013.
[76] Sul tema, si veda M. Di Masi, Obiezione di coscienza e interruzione volontaria di gravidanza: il Consiglio d’Europa ammonisce l’Italia, in Questione Giustizia, 2014; F. Cembrani, Il Comitato europeo dei diritti sociali, lo stato di attuazione della legge italiana sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza e la sostenibilità pubblica dell’obiezione di coscienza, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, n. 27, 2016, pp. 1-30.
[77] Reclamo collettivo n. 87 del 2012 (International Planned Parenthood Federation European Network c. Italia).
[78] Reclamo collettivo n. 91/2013 (CGIL c. Italia).
[79] A. Mangia, Rappresentanza di “genere” e “generalità” della Rappresentanza, in La parità dei sessi nella rappresentanza politica, R. Bin, G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi (a cura di), Giappichelli, Torino, 2002, p. 79.
[80] In particolare, nella sentenza 19 dicembre 1968, n. 126, la Corte ritiene che “la discriminazione, lungi dall'essere utile, é di grave nocumento alla concordia ed alla unità della famiglia. La legge, non attribuendo rilevanza all'adulterio del marito e punendo invece quello della moglie, pone in stato di inferiorità quest'ultima, la quale viene lesa nella sua dignità, é costretta a sopportare l'infedeltà e l'ingiuria, e non ha alcuna tutela in sede penale”.
[81] Nella sentenza 27 dicembre 1969, n. 147, la Consulta sottolinea la diversità strutturale dei due reati, affermando che “si può qui prescindere dalla questione se l'espressione "tenere una concubina" usata nel primo comma dell'art. 560 stia già ad indicare che la legge richieda, ai fini della punizione del marito, qualcosa di più della semplice relazione con una donna diversa dalla moglie. A mettere in evidenza la netta differenza fra i due delitti é sufficiente la circostanza che per il reato di concubinato é necessario che la consumazione abbia luogo "nella casa coniugale o notoriamente altrove", mentre per la relazione adulterina appaiono del tutto indifferenti le modalità di svolgimento: il che é quanto dire che quelle violazioni della fedeltà coniugale che sono necessarie e sufficienti ad integrare il reato di relazione adulterina imputabile alla moglie non bastano, se commesse dal marito, a renderlo colpevole di concubinato. E se identici comportamenti sono penalmente rilevanti per l'un coniuge e irrilevanti per l'altro, bisogna concludere che le disposizioni impugnate dettano una disciplina differenziata per il marito e per la moglie, nonostante che la legge (art. 143 Cod. civ.) ponga a carico di entrambi il dovere di fedeltà coniugale”.
[82] T. Toffanin, Donne al lavoro in Italia tra parità formale e disparità sostanziale, in Le grandi questioni sociali del nostro tempo, P. Basso, G. Chiaretti (a cura di), Edizioni Ca’ Foscari, Venezia, 2018, p. 122.
[83] Relazione della Commissione europea del 7 marzo 2014 sul potenziamento del principio della parità retributiva tra donne e uomini tramite la trasparenza.
[84] G. Di Federico, A. Negrini, Le donne nella magistratura ordinaria, in Polis, n. 2, 1989, p. 10.
[85] M. D’amico, Magistratura e questione di genere: alcune riflessioni sulla (necessaria) presenza femminile nel Consiglio Superiore della Magistratura, in Forum di Quaderni costituzionali, n. 4, 2020.
[86] A. Apostoli, La rappresentanza di genere nel campo “minato” della rappresenta politica, in Rivista AIC, n. 4, 2016, p. 1.
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