Pubbl. Mar, 9 Feb 2021
La disciplina consumeristica tra neoformalismo comunitario e principio di autoresponsabilità
Modifica paginaIl presente elaborato analizza l´importante revirement della Suprema Corte di Cassazione che, per la prima volta, con la sentenza n. 14257 del 2020, supera la presunzione iuris et de iure di ”debolezza” del consumatore, applicando il principio di ”autoresponsabilità”.
Sommario: 1. Introduzione; 2. I caratteri dei contratti del consumatore; 3. Il neoformalismo negoziale; 4. Dogma consumeristico e principio di autoresponsabilità.
1. Introduzione
La libertà nella determinazione del contenuto del regolamento negoziale ha da sempre costituito uno dei principi cardine su cui il legislatore del 1942 ha modellato la figura del contratto.
In tale ottica il programma contrattuale dà forma alla libera volontà delle parti che, poste su un piano di tendenziale parità, concorrono alla elaborazione dell’accordo, nei limiti dell’affidamento e della buona fede.
Tuttavia l’ambizione del legislatore moderno di tener fede al disegno dei compilatori del ’42 si è trovato necessariamente a far fronte alla rapida evoluzione del quadro normativo, connotato da una pluralità di complesse esperienze giuridiche.
Di qui l’emersione del modello c.d. “secondo contratto”, come battezzato dalla recente dottrina, connotato da situazioni di asimmetria - soprattutto informativa - tale cioè da rendere il consumatore parte debole rispetto al professionista, e pertanto bisognevole di tutela[1].
La disciplina dei contratti del consumatore affonda le sue radici nell’esigenza avvertita dal Legislatore comunitario, sin dagli anni Settanta, di tutelare gli interessi del consumatore, al fine di regolamentare un’attività contrattuale di cui il soggetto professionale è in grado di dettarne unilateralmente le condizioni.
Il riconoscimento dei diritti del consumatore, nel novero dei valori comuni agli Stati membri, ha dato vita ad una vera e propria legislazione contrattuale di fonte comunitaria, ravvisabile in discipline speciali create ad hoc per apposite tipologie negoziali; si pensi ai contratti di vendita al di fuori dei locali commerciali, di credito al consumo, di viaggi “tutto compreso”, di vendita a distanza; modelli tutti confluiti nel Codice del Consumo D. Lgs n. 206 del 2005.
2. I caratteri dei contratti del consumatore
I contratti del consumatore, attualmente disciplinati agli articoli 33-38 del Codice del Consumo, si caratterizzano perché discostanti rispetto alle regole generali con cui, tuttavia, condividono la medesima ratio: “tutela della persona fisica in virtù della fisiologica sperequazione dei suoi poteri contrattuali riferiti a quelli del professionista, parte contrattuale più avveduta e più forte, in quanto abitualmente dedita a svolgere attività di impresa…”[2].
Pertanto, i rapporti tra normativa codicistica e legislazione consumeristica non possono essere considerati in termini di regola ed eccezione, divenendo la seconda essa stessa regola ogniqualvolta le parti possano esser qualificate come consumatore e professionista.
La prima caratteristica dei contratti in esame attiene la loro classificazione soggettiva.
In altri termini, possono essere definiti ‘del consumatore’ solo quei contratti conclusi tra “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta” (i.e. consumatore) e “la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale, ovvero un suo intermediario” (i.e. professionista)[3].
Altra peculiarità riguarda il controllo giudiziale della vessatorietà delle clausole, consistente nella valutazione del significativo squilibrio tra le parti, alla luce della natura del bene o del servizio e delle circostanze esistenti al momento della conclusione del contratto. Il tutto “malgrado la buona fede” (art. 33 Codice del Consumo).
In particolare, l’espressione in questione è stata volutamente riproposta nel decreto legislativo del 2006, in barba all’abrogazione del 1 comma dell’art. 1469 bis cod. civ. che la citava nel testo, perché solo in tal modo riesce a garantirsi un maggior livello di tutela al consumatore, “permettendo di qualificare come abusive le clausole contrattuali che determinano un significativo squilibrio tra le prestazioni in danno del consumatore, nonostante la buona fede soggettiva dell’altro contraente, senza richiedere l’accertamento ulteriore della violazione delle regole della buona fede”[4].
L’art. 36 d. Lgs. 205/2006 sancisce l’ulteriore deviazione rispetto alla disciplina contrattuale del codice civile. Trattasi della cd. nullità di protezione.
Il legislatore, derogando rispetto all’art. 1419 cod. civ., ha introdotto una nullità necessariamente parziale del contratto, in quanto si presta in modo più efficace a tutelare la parte contrattualmente debole.
Invero, ove il giudice accerti la presenza di una clausola vessatoria la dichiara nulla, eliminandola dal testo contrattuale, mentre il resto dell’accordo negoziale rimane valido ed efficace.
È evidente, infatti, che la declaratoria di nullità dell’intero contratto, e la sua conseguente caducazione, finirebbero solo per pregiudicare il consumatore anziché tutelarlo, in virtù del primario interesse che lo stesso ha di procurarsi beni e servizi, oggetto di contrattazione con il professionista.
È inoltre una nullità di protezione, in quanto opera solo a vantaggio del consumatore (nullità relativa) e può essere rilevata d’ufficio dal giudice.
Come osservato dalla Suprema Corte, “il potere del giudice, in questi ambìti, rafforza l’intesto della tutela accordata alla parte che, in ragione della propria posizione di strutturale minor difesa, potrebbe non essere in grado di cogliere le opportunità di tutela ad essa accordata” (cfr. Cass. SS.UU., 12 dicembre 2014, n. 26242; Cass., SS.UU., 4 settembre 2012, n. 14828).
È evidente il carattere ancipite delle nullità di protezione funzionali alla tutela di un interesse generale - integrità ed efficienza del mercato - e, al contempo, particolare - quello della classe dei consumatori o dei clienti.
Ulteriore aspetto, caratterizzante la disciplina dei contratti del consumatore, riguarda il foro esclusivo.
La disposizione dell’art. 1469 bis, comma 3, n. 19 cod. civ. stabilisce, nelle controversie tra consumatori e professionisti, un foro esclusivo del consumatore, ossia il luogo dove lo stesso ha residenza o il domicilio effettivo, anche se derogabile a seguito di trattativa individuale, escludendo l’operatività dei fori previsti dagli art. 18,19 e 20 c.p.c.
Tale foro speciale - che opera a prescindere dalla posizione processuale assunta dal consumatore - prevede la competenza territoriale esclusiva del giudice del luogo ove il consumatore ha la residenza o il domicilio elettivo, prevedendo una presunzione di vessatorietà di una clausola che preveda un diverso foro competente.
3. Il neoformalismo negoziale
La normativa sul consumatore accorda particolare rilievo al formalismo: la molteplicità delle prescrizioni in tema di forma, introdotte dalla legislazione europea, ha indotto la giurisprudenza a parlare di “neoformalismo comunitario”[5].
La forma di tipo comunitario abbraccia un significato più ampio rispetto a quella nazionale, indicando le modalità di espressione cui deve uniformarsi l’operatore professionale.
Tale formalismo mira a garantire la massima trasparenza, prescrivendo chiarezza e comprensibilità su quanto proposto al consumatore.
Ad esser chiari, è opportuno che il contraente debole pervenga alla stipulazione del contratto solo dopo aver acquisito, in forma chiara e lineare, tutti gli elementi e tutte le informazioni utili.
Così facendo, il neoformalismo si pone in controtendenza rispetto al principio della libertà delle forme (ex artt. 2 e 41 Cost.), venendo a configurare un tertium genus accanto alla forma ad substantiam ed alla forma ad probationem.
Il neoformalismo, pertanto, si sostanzia anche nella imposizione di un contenuto obbligatorio di informazioni da fornire al contraente aderente all’interno o addirittura prima della conclusione del contratto.
Nella disciplina consumeristica vengono in rilievo obblighi informativi diversi ed ulteriori rispetto a quelli derivanti dalla buona fede ex artt. 1337 e 1375 cod. civ.
Il legislatore esige dal professionista il rispetto degli obblighi di informazione nascenti dalla buona fede, me ne impone altri affinché il consumatore possa essere edotto di tutti gli aspetti del contratto.
L’art. 35 del Codice del Consumo ha recepito la regola di trasparenza, che impone il requisito di chiarezza e comprensibilità delle clausole proposte al consumatore per iscritto: orbene, tale regola è stata applicata dalla giurisprudenza degli ultimi anni in modo molto incisivo, associando direttamente il difetto di trasparenza al profilo della vessatorietà.
Si consideri ad esempio che la ‘generica inosservanza’ di obblighi informativi da parte dell’intermediario finanziario, nella fase di formazione del contratto o in corso di esecuzione, genera responsabilità precontrattuale ex art. 1337 cod. civ. (anche in caso di contratto valido ed efficace ma dannoso) o contrattuale per inadempimento ex artt. 1375 e 1218 cod. civ. (Cass., SS.UU., 19 dicembre 2007, n. 26725).
Dunque, la conseguenza naturale di tali violazioni consiste nel risarcimento danni.
La ratio si rinviene nel discrimine tra regole di validità e regole di comportamento: la violazione di obblighi informativi non comporta la nullità virtuale del contratto, quand’anche gli stessi siano espressione del principio di buona fede.
Ebbene, derogando a tale tradizionale distinzione, il legislatore del codice del consumo, agli art. 52, 3 comma e 67 septies decies, ha stigmatizzato con la nullità del contratto il difetto di una adeguata informazione e quindi un comportamento contrattuale scorretto.
Costituisce ormai principio condiviso anche dalla giurisprudenza di legittimità che l'obbligo di trasferire informazioni da parte di chi agisce come professionista o imprenditore nei confronti di chi versa in una situazione di svantaggio informativo, opera anche nella fase che precede la conclusione del contratto, in quanto da un alto impedisce menomazioni volitive dipendenti dall'ignoranza di fatti e di circostanze rilevanti, dall’altro consente di disvelare notizie utili al pieno controllo dello svolgimento del rapporto, notizie difficili da acquisire o acquisibili solo a titolo oneroso per il consumatore.
4. Dogma consumeristico e principio di autoresponsabilità
Tuttavia, di recente si è assistito ad una inversione di tendenza. Nella sentenza n. 14257, depositata l’8 luglio 2020, la Corte di Cassazione affronta la questione relativa alla violazione di uno specifico obbligo di informazione precontrattuale di cui deve essere destinataria la consumatrice/acquirente di un contratto di viaggio organizzato, questione, peraltro, discussa in pubblica udienza in ragione dei profili di novità nomofilattica prospettati.
Il decisum della Cassazione parte da un principio volto alla tutela del consumatore, l’obbligo per il professionista di trasferire informazioni utili sin dalla fase precontrattuale, in modo da consentire al consumatore la possibilità di maturare una decisione che sia il più possibile consapevole.
Il Codice del Consumo dedica il Titolo II alle “Informazioni ai consumatori”, ove l’informazione risulta configurata quale diritto autonomo.
Facendo particolare riferimento alla vendita di pacchetti turistici (artt. 82 ss. cod. consumo), l’art. 87 sancisce che il venditore o l’organizzatore, nel corso delle trattative e comunque prima della conclusione del contratto, debba fornire per iscritto al consumatore una serie di informazioni ritenute basilari ai fini del viaggio che si sta per intraprendere. Informazioni che devono precedere la conclusione del contratto, collocandosi pertanto nella fase delle trattative.
Ancora, il secondo comma precisa che sempre prima dell’inizio del viaggio, l’organizzatore e/o il venditore debbano comunicare per iscritto al consumatore-viaggiatore tutto quanto concerne gli orari, le località di sosta intermedia e le coincidenze, i recapiti telefonici di eventuali rappresentanti locali dell’organizzatore, la facoltà di sottoscrivere un contratto di assicurazione.
Gli obblighi informativi, a ben vedere, si sostanziano anche nel c.d. opuscolo (art. 86 codice del consumo), ossia un dossier, consegnato prima del viaggio, in grado didi porre il consumatore nella condizione di avere quante più notizie possibili circa il pacchetto acquistato.
Nel caso esaminato, la viaggiatrice imputava all'agenzia viaggi la violazione proprio degli artt. 87 ed 88 del Codice del Consumo, in virtù della mancata informazione circa le condizioni applicabili al cittadino di uno Stato membro della UE in materia di passaporto e per questo, trattenuta per un giorno dalla polizia locale.
In particolare, la ricorrente lamentava il contegno del giudice a quo, il quale, nella sentenza di prime cure, aveva qualificato come valido adempimento negoziale la consegna dell'opuscolo informativo cinque giorni prima del viaggio, anziché prima delle trattative o comunque prima della conclusione del contratto.
La Corte Suprema, infatti, rilevava che, sebbene l’agenzia avesse fornito al turista le informazioni necessarie a breve distanza dalla partenza, la condotta in questione non era stata adeguatamente censurata dal consumatore, che dal canto suo non aveva spiegato quale pregiudizio avesse subito a causa di tale difetto informativo.
In altre parole, la doglianza non atteneva ad una lesione formale dei diritti del consumatore; piuttosto sarebbe stato opportuno dimostrare “la conseguenza concreta e pregiudizievole di tale lesione”[6].
In tal modo, viene in rilievo il principio di autoresponsabilità che stempera il dogma consumeristico, il quale pretende di inquadrare il consumatore sempre e comunque quale soggetto debole nell’economia del contratto.
Gli Ermellini sposano dunque una via mediana che garantisca la tutela del consumatore senza favorirne gli abusi, in linea con la giurisprudenza eurounitaria.
Difatti, la disponibilità delle informazioni qualche giorno prima della partenza, informazioni, peraltro, colpevolmente non utilizzate dalla turista, di fatto non aveva comportato alcuna conseguenza pregiudizievole suscettibile di essere ristorata.
Seguendo l’orientamento che vede aprioristicamente il consumatore in una posizione di assoluta debolezza, qualsiasi deficit informativo andrebbe censurato, in quanto pregiudizievole.
Al contrario, una soluzione ispirata all’ autoresponsabilità del consumatore, appare il percorso preferibile al fine di evitare storture ed abusi dettati da una protezione totalizzante.
Se le ricorrenti non fossero state negligenti non avrebbero avuto problemi.
O, perlomeno, avrebbero potuto contestare all’agenzia la violazione ed esercitare il diritto di recesso dal contratto. “Il tutto doveva però essere fatto prima di chiudere le valigie”[7].
[1] G. CHINE', M. FRATINI, A. ZOPPINI, Manuale di Diritto Civile, Roma, 2014, 1489 ss.
[2] Cass., 29 novembre 2011, n. 25212.
[3] Cass., 29 novembre 2011, n. 25212; Cass., 13 giugno 2006, n. 13643; Cass., 22 maggio 2006, n. 11933; Cass., 25 luglio 2001, n. 10127.
[4] Relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 206 del 6 settembre 2005.
[5] Corte giust. UE, C-412/06; C-489/07; C-511/08.
[6] Cass., sent. n. 14257 dell'8 luglio 2020.
[7] P. MACIOCCHI, Tour operator, l’agenzia che informa in ritardo non paga se il viaggiatore non è autoresponsabile, Il Sole 24 Ore, 10 luglio 2020, www.quotidianodiritto.ilsole24ore.com.