Pubbl. Lun, 25 Gen 2021
Infortuni sul lavoro: la Corte di cassazione ritorna sull´efficacia causale della condotta colposa del lavoratore
Modifica paginaIl presente contributo ha l’obiettivo di analizzare il principio di diritto della sentenza in commento, Corte di cassazione penale, sez. IV, n. 29585 del 2020, la quale interviene sull’efficacia causale della condotta colposa del lavoratore in materia di infortuni sul lavoro penalmente rilevanti e imputabili alla responsabilità del datore di lavoro. Il commento ha necessitato la disamina delle complesse questioni che vengono in rilievo, quali la struttura dei reati omissivi impropri e il corrispondente rapporto di causalità, in confronto con quello inerenti ai reati commissivi, nonché l’analisi della dirimente categoria di «rischio» alla luce della sentenza ThyssenKrupp.
Sommario: 1. Premessa; 2. La quaestio facti e la pronuncia della Corte di cassazione; 3. Inquadramento sistematico: la struttura omissiva impropria dei reati in materia di lavoro; 4. La posizione di garanzia del datore di lavoro de iure condito e de iure condendo: la categoria del «rischio»; 5. Il rapporto di causalità; 5.1. L'elemento positivo: la spiegazione dell'evento e la teoria condizionalistica; 5.1.1. La spiegazione del nesso causale tra omissione ed evento; 5.1.2. La causalità omissiva e la causalità della colpa: una diversa ipotesi ricostruttiva; 5.2. L'elemento negativo: l'articolo 41, II comma, c.p.; 6. Il compromesso raggiunto dalla Corte: l'area del rischio e la definizione di comportamento «abnorme» del lavoratore; 7. Considerazioni conclusive.
1. Premessa
La Corte di cassazione, con la sentenza in commento, la n. 29585/2020, è tornata a pronunciarsi sull’efficacia causale della condotta colposa del lavoratore e sulla eventuale conseguente esclusione di responsabilità del datore di lavoro, nonché sul quantum probatorio necessario alla pronuncia di condanna di quest’ultimo.
Tale decisione si inserisce all’interno di un contesto attivo sul tema; infatti, nello stesso mese, gli Ermellini, con più pronunce[1], hanno ridefinito le nozioni e i confini delle penali responsabilità di datore di lavoro e lavoratore.
La questione affrontata inerisce all’applicazione degli articoli 40 e 41 c.p., rispettivamente disciplinanti il rapporto di causalità -anche omissivo- e le cause ritenute da sole interruttive del nesso eziologico instauratosi, alla responsabilità del datore di lavoro a titolo di colpa per i reati di cui agli articoli 589 o 590 c.p. in violazione anche degli obblighi cui lo stesso è tenuto ai sensi del d.lgs. 81/2008. In altri termini, la quaestio iuris si sostanzia nel determinare quando, anche in ipotesi di mancata adozione delle misure di prevenzione degli infortuni, il datore di lavoro vada esente da responsabilità, ovvero, mutando prospettiva, nello stabilire quando il comportamento del lavoratore è tale da assurgere a causa interruttiva del nesso causale instauratosi a seguito della condotta colposa del datore di lavoro.
L’imprenditore è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del lavoratore poiché, ai sensi dell’articolo 2087 c.c., “è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Ora, le misure che il datore di lavoro deve adottare sono sia quelle imposte tassativamente dalla legge, sia quelle generiche dettate dalla comune prudenza. Traducendo ciò in termini penalistici, l’imprenditore, in ipotesi di lesioni o morte del lavoratore sul luogo di lavoro, può esserne chiamato a rispondere anche a titolo di colpa, sia generica che specifica, ex articolo 43 c.p. se “l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per l’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.
Quindi, è necessario che il datore adotti tutte quelle misure antinfortunistiche e le precauzioni previste dal lavoratore per far sì che un eventuale evento lesivo rientri nel limite del “rischio consentito”.
Il quesito che si è posto in giurisprudenza concerne il se possono esservi ipotesi in cui l’imprenditore inadempiente a tali obblighi sia comunque ritenuto non penalmente responsabile e, in caso di risposta affermativa, in presenza di quali condotte questo si verifichi.
La risposta affermativa al quesito appare essere obbligata, configurandosi altrimenti una responsabilità di tipo oggettivo del datore di lavoro, responsabilità che non sarebbe ammissibile dal momento che l'ordinamento giuridico italiano fonda le proprie basi sull'articolo 27 della Costituzione, ovvero sul principio di personalità e colpevolezza.
La giurisprudenza ha riempito di significato tale assunto da ultimo con il principio di diritto enunciato dalla sentenza in commento discorrendo e riflettendo sul rapporto di causalità e sulle cause sopravvenute interruttive del nesso eziologico.
L’oggetto del presente elaborato è proprio quello di affrontare tale legame, effettuando, a seguito della descrizione del caso di specie, preliminari considerazioni sulla struttura dei reati omissivi in materia di lavoro, sul rapporto di causalità e la nozione di cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento, allo scopo di permettere un’analisi critica della recente sentenza in commento anche in raffronto alle possibili applicazioni future.
2. La quaestio facti e la pronuncia della Corte di Cassazione
La vicenda giudiziaria in oggetto origina da una sentenza della Corte di appello di Venezia in cui la stessa confermava la condanna resa dal Tribunale di Treviso in relazione ad un reato di omicidio colposo ai danni del lavoratore dipendente. Secondo la ricostruzione accusatoria, gli imputati erano responsabili ex articolo 589, II comma, c.p. a titolo di colpa generica e specifica, in violazione dell’articolo 111, I comma, lett. a)[2], d.lgs. n. 81/2008, della condotta sostanziatasi nell’ordine di effettuare il taglio di una siepe alta 5 mt., senza aver fornito un’attrezzatura adeguata ed i presidi necessari per eseguire in piena sicurezza il lavoro in quota.
A seguito di tale richiesta, i lavoratori, per accedere all’altezza di 2,5 mt., avevano utilizzato un carrello elevatore sulle cui forche era stata posizionata una gabbia composta da quattro pareti in griglia metallica appoggiata su un bancale, dalla quale la persona offesa era precipitata, conseguendone il decesso.
La Corte di merito aveva ritenuto sussistente la penale responsabilità degli imputati, provata la potatura in quota e rilevante la circostanza che nel DVR (Documento di Valutazione dei Rischi[3]) non era disciplinata l’attività di potatura della siepe alta commissionata sia al giardiniere sia ai lavoratori della società dei condannati, senza una specifica valutazione del rischio che quella lavorazione in quota comportava, avendo escluso che vi fosse una “prassi” e avendo ritenuto illogica una iniziativa dei lavoratori che, incaricati di un lavoro da terra privo di pericoli, si fossero autonomamente determinati ad eseguirne uno assai più lungo e faticoso con un mezzo non sicuro e senza presidio di sicurezza.
La difesa degli imputati impugnava con distinti ricorsi la sentenza di appello, facendo valere sei motivi di appello.
Per quanto di interesse in riferimento ai principi di diritto in commento, la Corte di cassazione ha ritenuto non sussistente il vizio di motivazione denunciato dalle difese inerente sia la qualificazione del lavoro come “in quota” sia circa la assenza dei presidi di sicurezza necessari.
Gli Ermellini hanno, però, accolto le censure difensive in merito alla valutazione del comportamento dei lavoratori come «abnorme», tale da escludere il nesso di causalità tra le omissioni attribuite agli imputati e l’evento per cui era processo.
La motivazione della Corte si compone di tre assunti.
In primo luogo, il Collegio ha ripercorso la giurisprudenza consolidata in materia secondo cui «la condotta colposa del lavoratore infortunato non assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento quando sia comunque riconducibile all’area di rischio proprio della lavorazione svolta e di conseguenza il datore di lavoro è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore e le sue conseguenze presentino i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive di organizzazione ricevute»[4]. Il comportamento si è affermato essere in costante giurisprudenza “abnorme” quando la condotta è consistita in qualcosa di radicalmente ed ontologicamente lontano dalle ipotizzabili e prevedibili imprudenti scelte del lavoratore nell’esecuzione del lavoro.
È in relazione a questo assunto, che viene enuncleato il primo principio di diritto in commento secondo cui, in assenza condotte atte a prevenire il rischio di infortuni da parte del datore di lavoro, «la condotta esorbitante ed imprevedibilmente colposa del lavoratore, idonea ad escludere il nesso causale, non è solo quella che esorbita dalle mansioni affidate al lavoratore, ma anche quella che, nell’ambito delle stesse, attiva un rischio eccentrico od esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia»[5].
In secondo luogo, la Corte ha censurato la sentenza di appello in riferimento al quantum probatorio, ribadendo l’applicazione anche in materia dei principi fondanti del sistema penalprocessualistico italiano che «la regola di giudizio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio, ex art. 533, comma 1, cod. proc. pen., consente di pronunciare sentenza di condanna a condizione che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto ricostruzioni alternative costituenti eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili ‘in rerum natura’, ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana […]. Il procedimento logico conforme a tale canone legislativo – ispirato alla regola b.a.r.d. (beyond any reasonable doubt) di derivazione anglosassone – deve condurre dunque ad una conclusione caratterizzata da un alto grado di credibilità razionale e, quindi, alla ‘certezza processuale’ che, esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta sia attribuibile all’agente come fatto proprio […]»[6].
In terzo luogo, gli Ermellini non hanno ritenuto di poter qualificare il comportamento dei lavoratori alla stregua di una “prassi”, circostanza questa che qualora ritenuta, invece, presente dall’organo giudicante avrebbe comunque configurato la responsabilità del datore di lavoro, sul quale incombe anche il dovere di vigilare per impedire l’instaurazione di prassi contra legemforiere di pericoli per i lavoratori.
Alla luce di tali considerazioni, rapportate al caso di specie e al compendio probatorio raccolto dai giudici di merito, la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata e pronunciato sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste.
3. Inquadramento sistematico: la struttura omissiva impropria dei reati in materia di lavoro
La sentenza in commento opera in un’area del diritto tanto interessante quanto complessa: la responsabilità penale per infortuni occorsi nell’ambiente lavorativo.
Premettendo che la locuzione “infortunio sul lavoro” indica un evento nefasto che provoca un danno all’integrità psico-fisica di un lavoratore durante il normale svolgimento dell’attività lavorativa, le fattispecie criminose che vengono in considerazione in tali ipotesi sono, nello specifico, gli articoli 589, II comma, c.p. e 590, III comma, c.p..
Le condotte tipizzate si sostanziano nel punire chiunque cagioni per colpa la morte (art. 589, II comma, c.p.) o le lesioni (art. 590, III comma, c.p.) del soggetto passivo “con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro”.
Ora, i reati si presentano alla stregua di reati comuni, ma ordinariamente i soggetti attivi che vengono in considerazione sono quelli che rivestono una posizione di “garanzia” ex articolo 40, II comma, c.p. secondo cui il non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo.
Per ciò che concerne la condotta, essa si sostanzia nell’essersi prodotto un evento lesivo cagionato dal mancato rispetto delle norme di prevenzione, mancato rispetto che può concretizzarsi sia nella totale assenza sia nella non corretta adozione di tali mezzi e che integra, quanto ad elemento soggettivo, una colpa specifica. Tale considerazione vale a qualificare il fatto penalmente tipico come un reato omissivo di evento (dal momento che la mancata assunzione di tali misure di prevenzione senza la causazione di una lesione dell’incolumità del lavoratore è fonte di sanzione amministrativa).
Nello specifico, si tratta di reati omissivi impropri o commissivi mediante omissione[7], i quali rinvengono il proprio tratto peculiare nella tecnica di tipizzazione.
Questi consistono nel mancato impedimento doveroso di un evento materiale (elemento costitutivo della fattispecie), sostanziandosi quindi nella violazione di un comando imposto da un obbligo giuridico, e tendenzialmente difettano di espressa e diretta previsione legislativa, nascendo esso nel nostro ordinamento dal combinarsi della clausola generale contenuta nell’articolo 40 cpv c.p. con le norme di parte speciale incentrate su di un reato di azione causalmente orientato (e non, evidentemente, a condotta vincolata)[8].
La disposizione normativa dell’articolo 40, II comma, c.p., c.d. clausola di equivalenza, recita “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”, così subordinando la rilevanza penale dell’omesso impedimento di un evento alla presenza di un obbligo giuridico di impedirlo e rendendo il destinatario dell’obbligo il garante dell’integrità di uno o più beni giuridici.
Ben si comprende come, per l’operare dei reati omissivi impropri, sia necessaria la presenza di un obbligo giuridico di impedire l’evento. In dottrina ed in giurisprudenza è controverso quando e chi abbia un obbligo giuridico di agire e quali ne siano i contenuti.
A lungo si sono contrapposte due concezioni, quella formale e quella sostanzialistico funzionale.
Quella formale esige l’espressa previsione dell’obbligo giuridico di agire da parte di fonti formali, per tali intendendosi la legge sia penale che extrapenale, il contratto, che ha “forza di legge fra le parti” e la propria precedente attività pericolosa[9].
Quella sostanzialistica funzionale, partendo dall’assunto secondo il quale la presenza di una situazione di garanzia risponde alla necessità di assicurare protezione ad un bene giuridico a fronte dell’incapacità del suo titolare di proteggerli adeguatamente, sostiene che un obbligo di garanzia, oltre che derivare dalla legge o dal contratto, possa derivare anche dalla situazione fattuale in cui vi è assunzione volontaria della posizione da parte del soggetto[10].
La dottrina più recente ha elaborato una concezione mista, formale funzionale, che tenta di conseguire una sintesi secondo cui la selezione degli obblighi impeditivi va effettuata sulla base di un duplice fondamento: la previsione formale dell’obbligo di agire e la corrispondenza alla funzione di garanzia. Dunque, è necessario che il soggetto garante abbia non solo uno specifico dovere impeditivo rispetto alla situazione di pericolo, ma anche la concreta possibilità di attivarsi, rimanendo così esclusa dal novero delle fonti, la c.d. assunzione volontaria unilaterale di compiti di tutela al di fuori di ogni preesistente obbligo ex lege o ex contracto[11].
La più recente giurisprudenza sembra sposare tale concezione, apponendo alcune precisazioni; si riporta in tal senso la massima in materia espressa dalla giurisprudenza di legittimità nella nota sentenza c.d. Vannini[12] « "si delinea una posizione di garanzia a condizione che: (a) un bene giuridico necessiti di protezione, poiché il titolare da solo non è in grado di proteggerlo; (b) una fonte giuridica - anche negoziale - abbia la finalità di tutelarlo; (c) tale obbligo gravi su una o più persone specificamente individuate; (d) queste ultime siano dotate di poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito, ovvero che siano ad esse riservati mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari ad evitare che l'evento dannoso sia cagionato. (La Corte ha anche precisato che un soggetto può dirsi titolare di una posizione di garanzia, se ha la possibilità, con la sua condotta attiva, di influenzare il decorso degli eventi, indirizzandoli verso uno sviluppo atto ad impedire la lesione del bene giuridico garantito)»[13].
Le posizioni di garanzia si dividono, poi, in posizioni di controllo, il contenuto del cui obbligo è impedire che una fonte di pericolo possa ledere gli specifici interessi dei terzi e dunque il garante è tenuto a neutralizzare gli specifici pericoli che da quella fonte possono scaturire, e in posizioni di protezione che hanno ad oggetto la protezione di un bene giuridico da tutti i pericoli e da qualsiasi fonte essi provengano[14].
4. La posizione di garanzia del datore di lavoro de iure condito e de iure condendo: la categoria del «rischio»
In materia antinfortunistica, la posizione di garanzia del datore di lavoro deriva dal dettato normativo ex art. 2087 c.c. e, più nello specifico, dal Testo Unico n. 81 del 2008, il quale disciplina gli obblighi prevenzionistici cui è tenuto il datore di lavoro, o meglio, i soggetti indicati.
Nell’ambito, infatti, di tale area di regolamentazione non appare sufficiente la sola responsabilizzazione del datore di lavoro, ma appare necessaria anche quella di tutti i soggetti che svolgono attività incidenti sulla sicurezza del lavoro[15].
Occorre evidenziare, infatti, che il Testo unico offre una nozione tecnica e precisa dei ruoli dei garanti, contemperando tale esigenza di tassatività con il principio di effettività, che viene poi anche espressamente richiamato dall'art. 299 del decreto; sono rilevanti, in tal senso, sia i ruoli attribuiti a determinati soggetti all'interno dell'organizzazione di un ente, sia le funzioni dagli stessi concretamente svolte e i poteri, decisionali e di spesa, di cui materialmente dispongono[16].
Senza dilungarsi eccessivamente nelle definizioni de quo né sull’istituto della delega di funzioni[17], è da sottolineare, invece, come la giurisprudenza più recente abbia incentrato il perno risolutivo della divisione dei ruoli nel concetto di rischio, il quale permette di individuare anche nelle strutture complesse, i soggetti titolari di tale posizione.
Nel grado di prossimità del garante al rischio da gestire dovrebbe risiedere non solo la ratio dell’organizzazione aziendale, ma anche la distinta rimproverabilità dei soggetti, derivandone, altrimenti, sempre e solo una responsabilità dell’organo di vertice quale “responsabilità di posizione”[18]. In tal senso, al datore di lavoro dovrebbe competere la gestione di quel rischio propriamente organizzativo generale, al dirigente quello intermedio e ai preposti e ai lavoratori quello operativo, dal che il singolo infortunio dovrebbe configurarsi quale responsabilità dell’uno o dell’atro in base al tipo di attività svolta e al tipo di rischio governabile[19].
Tale orientamento è stato ulteriormente confermato dalle Sezioni Unite ThyssenKrupp[20], le quali identificano, nella materia di cui trattasi, la figura del garante alla stregua di un gestore del rischio: «Il contesto della sicurezza del lavoro fa emergere con particolare chiarezza la centralità dell'idea di rischio: tutto il sistema è conformato per governare l'immane rischio, gli indicibili pericoli, connessi al fatto che l'uomo si fa ingranaggio fragile di un apparato gravido di pericoli. Il rischio è categorialmente unico ma, naturalmente, si declina concretamente in diverse guise in relazione alle differenti situazioni lavorative. Dunque, esistono diverse aree di rischio e, parallelamente, distinte sfere di responsabilità che quel rischio sono chiamate a governare. Soprattutto nei contesti lavorativi più complessi, si è frequentemente in presenza di differenziate figure di soggetti investiti di ruoli gestionali autonomi a diversi livelli degli apparati; ed anche con riguardo alle diverse manifestazioni del rischio. Ciò suggerisce che in molti casi occorre configurare già sul piano dell'imputazione oggettiva, distinte sfere di responsabilità gestionale, separando le une dalle altre. Esse conformano e limitano l'imputazione penale dell'evento al soggetto che viene ritenuto "gestore" del rischio. Allora, si può dire in breve, garante è il soggetto che gestisce il rischio»[21].
Alla luce di ciò, in ipotesi di violazione di norme di prevenzione specifiche, dettate dal TU 81/08, o generiche, dettate dai più ampi concetti di imprudenza, imperizia e negligenza, nonché violazione di regole cautelari, il soggetto penalmente responsabile dell’eventuale evento lesivo ex art. 40, II comma, c.p. occorso sul luogo di lavoro, deve essere individuato sulla base di tali criteri (formali e funzionali).
Inoltre, la giurisprudenza di legittimità ha più volte precisato e poi ribadito che, nell’ipotesi in cui i titolari della posizione di garanzia siano più di uno, ciascun garante risulta per intero destinatario dell’obbligo di impedire l’evento, fino a che non si esaurisca il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia [22].
La gestione del rischio conferisce sia un obbligo di porre in essere le misure richieste dal caso di specie, ma anche un obbligo di vigilanza, come si vedrà, si non istaurazione di prassi contra legem.
La critica principale che viene mossa a tale “moltiplicazione” dei soggetti in concreto preposti alla gestione del rischio infortunistico è che essa appaia porsi in contrasto con il principio garantista della calcolabilità delle conseguenze penali delle proprie azioni e, dunque, del principio della personalità della responsabilità penale[23].
5. Il rapporto di causalità
Per meglio comprendere il principio di diritto della sentenza in commento circa l’atteggiarsi delle cause interruttive del nesso causale in materia antinfortunistica, nonché il rapportarsi di esse con i reati omissivi in materia di lavoro, appare opportuno brevemente trattare il tema della causalità dei reati commissivi e omissivi.
5.1. L’elemento positivo: la spiegazione dell’evento e la teoria condizionalistica
Innanzitutto, il rapporto di causalità viene in rilievo in relazione ai reati di evento (evento naturalistico), in cui il legislatore punisce la condotta non in sé, ma in quanto abbia cagionato una modificazione della realtà circostante[24] e indica il nesso che deve sussistere fra condotta ed evento affinchè quest’ultimo sia conseguenza della prima sul piano eziologico.
Il codice penale fornisce una definizione di tale elemento costitutivo del reato all’articolo 40 c.p.: il primo comma ne delinea la nozione in riferimento ai reati commissivi o omissivi propri “Nessuno può essere punito se non per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione”, il secondo comma, invece, crea una cd. causalità normativa in relazione ai reati cd. omissivi impropri “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
La previsione normativa della necessarietà di tale nesso fra la condotta del soggetto agente e l’evento lesivo tipizzato dalla fattispecie criminosa ha segnato la consacrazione del principio di colpevolezza ex art. 27, I comma, Cost. anche all’interno del codice penale, ovvero il passaggio dalla responsabilità per fatto altrui alla responsabilità per fatto proprio, fatto che deve essere attribuibile causalmente al soggetto de quo[25].
In dottrina[26], si ritiene che, per l'esistenza del rapporto di causalità, in senso giuridico, occorrano due elementi: uno positivo e l'altro negativo. Il positivo è che il soggetto agente con la sua azione o omissione abbia posto in essere una condizione dell'evento e cioè un antecedente senza il quale l'evento stesso non si sarebbe verificato. Il negativo è che il risultato non sia dovuto al concorso di fattori eccezionali i quali escludono, a norma dell'art. 41 comma 2 c.p., il nesso causale allorché siano state da sole sufficienti a determinare l'evento.
Ora, per ciò che concerne il requisito positivo, il cruciale interrogativo che ha posto il rapporto di causalità inerisce al comprendere quali siano gli elementi necessari per poter considerare e affermare che un determinato evento è conseguenza di una specifica azione (o omissione).
In materia si è affermata una teoria tradizionale, la cd. teoria condizionalistica o della causalità naturale o della equivalenza delle condizioni, la cui rigidità, però, ha comportato il delinearsi di ulteriori tre teorie cd. correttive: quella della causalità adeguata, della causalità umana e della imputazione oggettiva dell’evento[27].
La teoria condizionalistica, enunciata a partire dal XIX secolo, ritiene che la condotta del soggetto agente debba essere considerata eziologicamente causa dell’evento quando in relazione ad esso si qualifica come una condicio sine qua non, ovvero una condizione senza la quale l’evento non si sarebbe prodotto[28].
Dunque, causa dell’evento è ogni azione che non può essere mentalmente eliminata senza che l’evento concreto venga meno; l’accertamento di tale rapporto viene effettuato tramite il cd. giudizio controfattuale, il quale si sostanzia in un procedimento di eliminazione mentale della condotta del soggetto agente effettuato ex post e, quindi, con cognizione di come si sono succeduti i fenomeni[29].
Come affermato da attenta dottrina, però, «la formula della ‘eliminazione mentale’ è di per sé formula vuota […]; si tratta di una formula ‘euristica’, che indica cioè in quale direzione vanno ricercati i suoi contenuti»[30].
La giurisprudenza di legittimità a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, in particolare con la sentenza relativa al disastro Stava[31], stabilendo che il giudice non può essere produttore egli stesso di leggi di spiegazione causale, ma mero utilizzatore di esse, ha statuito che il giudizio controfattuale debba essere svolto sulla base di leggi dotate di validità scientifica, le cd. leggi di copertura.
A seguito, dunque, dell’affermazione della necessità che il giudizio debba essere effettuato tramite la sussunzione del caso di specie entro le leggi scientifiche di spiegazione causale, è sorto il problema circa il grado di probabilità che tali assunti devono possedere affinchè possano essere poste a fondamento dell’accertamento del giudice.
Se le prime pronunce successive[32] ritenevano che la probabilità dovesse essere vicina alla certezza, le cd. Sezioni unite Franzese[33] aprono alla possibilità che anche leggi con probabilità statistica medio bassa siano ritenute sufficienti, qualora, però, sia sicura l’esclusione di fattori causali alternativi e ciò sulla base dell’assunto secondo cui a probabilità statistica non equivale alla probabilità logica che consentirebbe di raggiungere la certezza processuale del nesso eziologico.
Infatti, la probabilità rilevante ai fini dell’accertamento probatorio del rapporto di causalità non è quella statistica, ma quella logica, altresì detta credibilità razionale[34], alla quale si giunge mediante l’esame dei fattori di spiegazione causale alternativi.
Alla luce di tali considerazioni, la giurisprudenza di legittimità più recente[35] ha ritenuto possibile anche fondare il giudizio controfattuale su generalizzate massime di esperienza e del senso comune, in virtù della circostanza che spesso leggi scientifiche non sono disponibili[36].
Secondo la teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento, l’evento causato dall’azione può essere ad essa oggettivamente imputato solo se ricorrono due condizioni: 1) l’agente ha, con la condotta in violazione delle regole cautelari, creato o diminuito o non aumentato il rischio del verificarsi di un evento del tipo di quello che si è verificato e 2) che l’evento sia la concretizzazione del rischio che quella regola cautelare mirava ad evitare.
5.1.1 La spiegazione del nesso causale tra omissione ed evento
Nei reati omissivi impropri, come già esposto, il nesso causale deve essere sussistente non fra azione e evento, bensì fra mancato impedimento ed evento.
Nello specifico, nella causalità attiva si imputa al soggetto di aver innescato un fattore di rischio che porta ad un evento lesivo, mentre nella causalità omissiva si rimprovera all’agente di non aver neutralizzato il fattore di rischio preesistente che porta all’evento[37].
Ciò comporta che il giudizio controfattuale che il soggetto giudicante è chiamato ad effettuare è doppiamente ipotetico: non è sufficiente valutare se il mancato impedimento è causa dell’evento eliminando tale condotta, bensì è necessario ulteriormente valutare se l’azione che il soggetto avrebbe dovuto compiere, ovvero quella dettata dalla regola cautelare, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento aggiungendola mentalmente.
Tale giudizio, che prima si occupa dell’analisi dei cd. causalità reale e successivamente di una cd. causalità ipotetica o predittiva, deve essere effettuato secondo i criteri esposti supra. Viceversa, si verrebbe a creare un’ingiustificata diversità di metro e metodo di giudizio non conforme al principio di legalità e tassatività che informa l’intera materia penale nel nostro ordinamento[38].
Il principio è stato anche ribadito dalle Sezioni Unite ThyssenKrupp: «Nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto»[39].
5.1.2. La causalità omissiva e la causalità della colpa: una diversa ipotesi ricostruttiva
A ben vedere, l’accertamento della causalità omissiva sembra sovrapporsi alla valutazione in sede di causalità della colpa. La colpa, infatti, non è solo violazione della regola cautelare, ma anche un giudizio di prevedibilità e evitabilità dell’evento; in altri termini, la colpa si compone di un elemento normativo (la violazione della regola cautelare) ed un elemento soggettivo (il giudizio di prevedibilità ed evitabilità)[40].
In tal senso l’evento, non oggetto di volizione, deve essere prevedibile dall’agente in quanto concretizzazione del rischio che la regola cautelare mirava a impedire e deve essere stato evitabile adottando il comportamento alternativo lecito richiesto dalla regola cautelare. Quest’ultima, peraltro, non ha lo scolpo di azzerare il rischio insito nella condotta, bensì di ridurlo in relazione all’attività pericolosa lecite de quo. Ora, questo giudizio è similare a quello che viene compiuto in sede di accertamento del nesso causale omissivo, così come affermato anche dalla nota sentenza Thyssenkrupp, al cui par. 27, si legge: «occorre prendere atto che la causalità omissiva segna un ambito in cui i temi dell'imputazione oggettiva e soggettiva spesso si intrecciano e si confondono».
A ragione di ciò, la giurisprudenza, a partire proprio da tale pronuncia, ha ritenuto che il discrimine fra accertamento del nesso causale e causalità della colpa sia insito nel giudizio ulteriore che quest’ultima richiede: la plausibile esigibilità del comportamento alternativo lecito alle condizioni date, circostanza che fonda il rimprovero soggettivo insito nel principio di colpevolezza[41].
Come nota attenta dottrina[42], l’esito dell’accoglimento di tale ricostruzione è quello di esaurire il giudizio di causalità nell’accertamento dell’evento e nella sussistenza di una posizione di garanzia a carico del soggetto cui l’evento viene imputato, ponendosi nel giudizio sulla causalità della colpa la valutazione circa l’eventuale efficacia salvifica della condotta omessa (condotta che deve essersi qualificata come ex ante esigibile da parte del soggetto obbligato, viceversa non verrebbe valutata nemmeno l’eventuale efficacia salvifica, stante il principio di colpevolezza).
Alla luce di ciò, è evidente come il principio di diritto enuncleato dalla sentenza in commento si ponga nell’ambito non della valutazione del mancato impedimento colposo –che, peraltro, è stato ritenuto sussistente- e, dunque, della valutazione dell’elemento soggettivo, quanto piuttosto su un piano prettamente causale oggettivo, inerendo alla verificazione dell’evento e all’interruzione del nesso causale al netto del giudizio di colpevolezza. In sintesi, il presupposto oggettivo della successiva valutazione di rimproverabilità.
Appare, quindi, utile concentrare l’esame sulla nozione di cui all’articolo 41, II comma, c.p. e, successivamente, analizzare come essa sia stata definita in relazione alla posizione di garanzia del soggetto agente.
5.2. L’elemento negativo: l’articolo 41, II comma, c.p.
Il secondo interrogativo in materia di causalità, dunque, riguarda non la valutazione della condotta come causa dell’evento, ma, posto che il processo causale si è innestato, quali sono i fattori idonei ad interromperlo. Affinchè, quindi, possa dirsi sussistere il nesso di causalità è necessario che non vi siano elementi alternativi da soli idonei a causare l’evento (elemento negativo).
A ben vedere, la teoria condizionalistica concepisce la causalità in termini naturalistici e, dunque, sulla base di ciò, è causa di un evento l’insieme delle condizioni necessarie e sufficienti a produrlo, condizioni che, in tal senso, si equivalgono.
In ragione di tale considerazione, la dottrina ha elaborato teorie correttive che intendono selezionare i fattori causali[43].
Secondo la teoria della causalità adeguata, per la sussistenza del rapporto di causalità non è sufficiente che l’azione sia condizione necessaria dell’evento, ma occorre che l’evento sia conseguenza normale o non improbabile dell’azione secondo l’id quod plerumque accidit.
Secondo la teoria della causalità umana, la condotta del soggetto agente è causa dell’evento prodottosi solo se lo sviluppo eziologico era dallo stesso prevedibile e conseguentemente dominabile, in base ai suoi poteri conoscitivi e volitivi.
Ad oggi, tali teorie appaiono superate, partendo le recenti analisi dal dato normativo[44].
Infatti, il legislatore all’articolo 41 c.p. ha disciplinato l’eventuale presenza di concause rispetto alla condotta del soggetto agente, prevedendo che esse possano escludere il nesso causale instauratosi qualora siano sopravvenute e da sole sufficienti a determinare l’evento. A contrario, quindi, affinchè il rapporto di causalità tra condotta ed evento sussista è necessario che tali fattori eccezionali non vi siano.
Al primo comma, ha stabilito che il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti rispetto all’agire del soggetto, non esclude di per sé il nesso di causalità[45].
Al secondo comma, ha ulteriormente precisato che “le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono da sole sufficienti a determinare l’evento”.
La sopravvenienza non desta particolari problematiche, in quanto si ritiene pacifico che la causa debba essere sopraggiunta rispetto alla condotta del soggetto agente per poter causalmente incidere sugli effetti di essa, e, a parere dello scrivente, è tale elemento a determinarne la qualificazione alla stregua di “causa” e non “concausa”.
L’interpretazione, però, dell’inciso “da sole sufficienti a determinare l’evento” ha aperto un annoso dibattito, vedendo la contrapposizione di due differenti orientamenti.
Un primo ritiene che tale locuzione faccia riferimento all’innestarsi di una serie causale autonoma, che ha prodotto l’evento in modo del tutto indipendente[46]; un secondo, invece, qualifica i fattori causali come concorrenti e non autonomi, benchè esorbitanti ed eccezionali, ovvero fattori che, pur inserendosi nella serie causale dipendente dalla condotta dell’imputato, agiscono per esclusiva forza propria nella determinazione dell’evento.
La nota sentenza Thyssenkrupp[47] pare avallare tale seconda teoria, evocando la c.d. teoria del rischio: il rapporto causale è interrotto solo quando l’intervento di un’ulteriore causa abbia prodotto un rischio nuovo, esorbitante rispetto a quello creato dalla prima condotta illecita[48]e, per valutare ciò, è opportuno delineare il tipo di rischio creato dalla prima azione o omissione criminosa.
Valutando tale prospettiva nella dinamica omissiva, la condotta sopravvenuta è interruttiva quando è eccentrica rispetto al rischio che il soggetto gravato dalla posizione di garanzia era chiamato a governare.
Ben si comprende, quindi, che la categoria di «rischio» è dirimente, coinvolgendo essa sia il giudizio causale, sia il giudizio inerente alla posizione di garanzia.
6. Il compromesso raggiunto dalla Corte: l’area del rischio e la definizione di comportamento abnorme del lavoratore
Tutto ciò premesso, è necessario brevemente analizzare il ruolo che l’altro protagonista della normativa dell’infortunio sul lavoro, il lavoratore, può giocare in materia.
Sebbene sia evidente come il lavoratore risulti il primo destinatario della prestazione prevenzionistica in primis ex art. 2087 c.c., l’articolo 59 del TU 81/08, statuisce che ciascun lavoratore “deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni”, collaborando con i soggetti onerati della prestazione di garanzia[49].
La legislazione in materia sembrerebbe aprire la strada all’applicazione del principio di autoresponsabilità e affidamento anche in materia infortunistica in ipotesi di lesioni del lavoratore, ma la dottrina ne lamenta una scarsa applicazione giurisprudenziale[50], sostenendo che la condotta colposa del lavoratore verrebbe ad assumere, sotto il profilo causale, la qualifica di mera occasione o modalità di produzione dell’evento e potendo incidere solamente sul quantum di pena da irrogare in concreto.
Infatti, l’articolo 59 cit. è stato interpretato nel senso dell’introduzione di un obbligo cautelare specifico nei confronti di terzi, potendosi così configurare una posizione di garanzia nei confronti di questi ultimi e, quindi, rinvenendo la possibilità di integrare un addebito a titolo di colpa specifica in caso di danno alle persone ai sensi degli articoli 589, II comma, e 590, III comma, c.p. ed in eventuale concorso con gli altri soggetti obbligati[51].
Ad onor del vero, la lesione del principio di affidamento del superiore, in riferimento ad una condotta colposa del lavoratore ed in presenza di una condotta datoriale già negligente o colposa, non è invocabile ipso iure, posto che, in tal caso, il non rispetto delle regole cautelari da parte del lavoratore si innesta sull’inosservanza di una regola precauzionale proprio da parte di chi invoca il principio. Dunque, «per l’effetto, per andare esente da responsabilità, il datore di lavoro “in colpa” non potrebbe invocare la “legittima aspettativa” riposta nella doverosa diligenza del lavoratore, giacché questa non rileva allorché chi la invoca versi in re illecita, per non avere, per negligenza, impedito l’evento lesivo, che è conseguito dall’avere l’infortunato operato sul luogo di lavoro»[52].
Viceversa, dunque, il principio di affidamento potrebbe essere invocato da quel datore di lavoro che non versi in colpa e che abbia, quindi, rispettato e posto in essere tutte le condotte richieste dalle regole cautelari generiche e specifiche (incluso quelle imposte dal dovere di vigilanza) e abbia adempiuto agli obblighi ad esse connessi; di tal che, però, lo stesso non sarebbe chiamato a rispondere dei reati in materia di infortuni sul lavoro.
Dunque, escluso in materia la possibilità di invocare, nella pratica, un principio di affidamento del datore di lavoro nei confronti del lavoratore, la giurisprudenza ha ricondotto l’analisi sull’elemento oggettivo della fattispecie e l’unica deroga ammessa è quella della valutazione della condotta del lavoratore quale causa interruttiva del nesso di causalità[53].
A partire, poi, dalla giurisprudenza immediatamente successiva all’emanazione del TU 81/2008, il comportamento del lavoratore idoneo ad escludere il nesso causale è quello definito come “abnorme”[54].
La definizione di “abnorme” è strettamente correlata alle mansioni affidate al lavoratore e all’area di rischio governata dalla posizione di garanzia del soggetto obbligato, richiamando con ciò quasi la teoria della causalità umana[55].
Per ciò che concerne il primo aspetto, in giurisprudenza, si erano delineati due orientamenti: un filone, maggioritario, che riteneva che la condotta anomala, esorbitante, non potesse rientrare per definizione tra quelle mansioni attribuite al lavoratore[56], ed un secondo filone, minoritario, che ha ritenuto potesse essere considerato abnorme anche un comportamento riconducibile alle mansioni del lavoratore[57].
Traslando ciò, dunque, in termini di area di rischio, la condotta del lavoratore idonea ad escludere la responsabilità datoriale sarebbe quella esorbitante le mansioni affidatagli o comunque, anche se nei suoi compiti, dovrebbe potersi qualificare come “un qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro”. Di tal guisa, quindi, la sfera di rischio cui il datore di lavoro è garante si identifica con le mansioni del lavoratore e, più nel dettaglio, con quello specifico procedimento di svolgimento[58].
Ora, la sentenza in commento, sposando questi assunti e ponendosi nel solco di tale giurisprudenza[59], parzialmente ne ridefinisce la nozione rapportandola unicamente alla sfera di rischio e definendo il comportamento “abnorme” quello che, indipendentemente dal fatto che si ponga o meno nelle mansioni affidate al lavoratore, è tale da attivare «un rischio eccentrico od esorbitante la sfera di rischio» non ponendosi in un rapporto di consequenzialità con le inadempienze del datore di lavoro[60].
Ecco, dunque, che anche in materia infortunistica, alla stregua delle altre condotte omissive improprie, la categoria del “rischio” assume rilevanza sia in punto di posizione di garanzia sia in punto di causalità e ancor più è da considerare che esse paiono sovrapporsi, considerando quale rischio eccentrico ai fini della causalità quello non rientrante nel “rischio” governato dal soggetto agente.
Da ciò deriva, quindi, che l’attivazione del “rischio eccentrico” esclude la penale responsabilità del datore di lavoro in termini di tipicità, ovvero non solo opera come fattore interruttivo del nesso causale, ma come mancata configurabilità della stessa posizione di garanzia ex art. 40, II comma, c.p.; da qui, l’assoluzione nella sentenza in commento con la formula ampiamente liberatoria perché il fatto non sussiste.
Si assiste dunque ad uno spostamento della valutazione dal piano di colpevolezza e, dunque, prevedibilità legato alle mansioni del lavoratore al piano oggettivo e prioritario del rapporto di causalità: il primo, infatti, a seguito delle SS. UU ThyssenKrupp attiene al giudizio circa l’elemento soggettivo della colpa, giudizio che avviene anche nella pratica in un momento successivo rispetto alla valutazione dell’elemento oggettivo della causalità.
Estendendo l’analisi ad una pronuncia pressoché contestuale a quella in commento, il Collegio giudicante ha statuito che, in punto di limiti negativi, la sfera di rischio da gestire include il rispetto della normativa prevenzionale che si impone ai lavoratori, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l’instaurarsi di prassi di lavoro non corrette e foriere di ulteriori pericoli. Dunque, occorre, da un punto di vista di onus probandi, provare la non instaurazione di prassi scorrette dal datore di lavoro conosciute, posto che, altrimenti, il rischio attivato dal lavoratore non sarebbe eccentrico, ma insito nella modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e, dunque, quest’ultima si configurerebbe come mera occasione dell’infortunio[61].
Occorre comunque segnalare che una parte delle precedenti decisioni di legittimità non sono del tutto aderenti a tali principi di diritto, rinvenendo una sorte di “responsabilità da posizione” del datore di lavoro ogni qualvolta lo stesso non abbia rispettato gli obblighi cui è tenuto dal TU 81/08 e statuendo, nello specifico, che, «se il sistema di sicurezza approntato dal datore di lavoro pone criticità, non può essere ammessa la responsabilità del lavoratore»[62].
Di siffatto orientamento dà conto anche parte della dottrina, secondo la quale le aperture giurisprudenziali al riconoscimento di una condotta abnorme del lavoratore sono circoscritte, perché «l’efficacia escludente è limitata alle sole ipotesi in cui il datore di lavoro abbia precedentemente predisposto tutte le misure di cautela e gli sia addebitabile solo un’omessa vigilanza»[63].
La principale critica mossa a tale teoria è quella di spingere la tutela prevenzionistica verso un modello iperprotettivo, in cui il datore di lavoro risponde sempre e solo per il fatto di ricoprire una posizione di garanzia forte[64], definendolo quasi alla stregua di un «nume tutelare della sicurezza fisica del lavoratore in azienda»[65].
V’è da dire, comunque, che la sentenza in commento ribadisce, in seconda battuta, che la responsabilità del datore di lavoro, pur in presenza di condotte contrarie agli obblighi cui è tenuto, non può essere ritenuta per ciò stesso sussistente, ma deve essere provata oltre ogni ragionevole dubbio anche escludendo fattori causali alternativi, ciò a confermare ulteriormente la doverosa assenza, in virtù del principio di colpevolezza, di una responsabilità meramente oggettiva in materia[66] ed in coerenza, quindi, con l’orientamento affermato con il primo principio di diritto.
7. Considerazioni conclusive
In conclusione, ad opinione dello scrivente, le statuizioni di diritto di cui alla sentenza de quo appaiono essere sicuramente più coerente con i principi della responsabilità penale personale nel nostro ordinamento, incentrando l’esame sull’elemento oggettivo della fattispecie criminosa di volta in volta coinvolta e non configurando una responsabilità da posizione.
Si potrebbe commentare in tal senso che, però, la definizione di area di rischio e di conseguente comportamento abnorme sia così sfumata da non essere conforme al principio di tassatività di cui l’intera disciplina penalistica debba essere informata.
A ben vedere, il giudizio sulla penale responsabilità del datore di lavoro e, contestualmente, sulla valenza della condotta colposa del lavoratore si compone di due differenti momenti; il primo destinato alla ricostruzione del decorso causale effettivo ed il secondo valutativo della cd. causalità della colpa, in riferimento alla concreta prevedibilità ed evitabilità dell’evento intese come rimproverabilità soggettiva.
Il principio di diritto in commento si innesta nel primo momento ed in tal senso appare pregevole il ricorrere ad una valutazione prettamente oggettiva, al netto dei profili che integrano o meno il rimprovero soggettivo. Tale spostamento di giudizio nella sede oggettiva di valutazione della sussumibilità del fatto concreto nel fatto tipizzato dalla fattispecie incriminatrice allontana il pericolo di una commistione del piano della causalità omissiva e della causalità della colpa, evitando il configurarsi di un “diritto penale del rischio”, dovendosi comunque in un secondo momento valutare in concreto la colpa del datore di lavoro.
Di conseguenza, una volta compiuta con esito favorevole l’indagine causale (la condotta del lavoratore non è stata interruttiva del nesso causale), si dovrà addivenire a tale secondo giudizio, il quale si occupa di stabilire se il datore di lavoro avrebbe potuto nel caso concreto prevedere l’evento lesivo verificatosi con quelle specifiche modalità pure in presenza dei necessari presidi antinfortunistici o se, invece, si sia concretizzato un rischio differente, che non sarebbe stato evitabile con tutta la diligenza, prudenza e perizia richiesta.
Quid, quindi, del comportamento imprudente del lavoratore non interruttivo del nesso causale: quale ruolo gioca nell’accertamento dell’elemento soggettivo colposo?
A tale interrogativo, la Corte si è pronunciata in tal senso « La colpa va accertata in concreto, nel senso che va individuata la regola di condotta generica o specifica che si assume violata e, rispetto a tale norma, in ossequio ai principi generali vigenti in materia va verificata la sussistenza dei presupposti della prevedibilità e della evitabilità del fatto dannoso verificatosi»[67] . Qui, vi è, a parere di molti, il pericolo della configurazione di una seconda responsabilità oggettiva.
Sicuramente, il bilanciamento delle esigenze in materia antinfortunistica e di prevenzione è fra i più complessi nel panorama giuridico e giurisprudenziale, alla stregua delle altre questioni che ineriscono le attività pericolose, ma consentite dall’ordinamento perché utili socialmente.
Il problema del governo dell’area di rischio cd. consentito pone esigenze di compromesso che risultano, come spesso accade, o avvertite come insoddisfacenti dalla pletora di potenziali persone offese e, dunque, in relazione alle finalità del diritto penale quale “deterrente” di condotte illecite -situazione che si verrebbe a creare ampliando l’area delle condotte definite “abnormi”-, o percepite eccessivamente rigide dal lato dei soggetti garanti di tale rischio, nei confronti dei quali si verrebbe a sostanziare una responsabilità oggettiva e, come tale, contraria alle finalità rieducative e special preventive della pena.
[1] Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 29584/2020; Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 28726/2020; Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 26618/2020.
[2] Si riporta l’enunciato normativo de quo: Art. 111. Obblighi del datore di lavoro nell'uso di attrezzature per lavori in quota 1. Il datore di lavoro, nei casi in cui i lavori temporanei in quota non possono essere eseguiti in condizioni di sicurezza e in condizioni ergonomiche adeguate a partire da un luogo adatto allo scopo, sceglie le attrezzature di lavoro più idonee a garantire e mantenere condizioni di lavoro sicure, in conformità ai seguenti criteri: a) priorità alle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale; b) dimensioni delle attrezzature di lavoro confacenti alla natura dei lavori da eseguire, alle sollecitazioni prevedibili e ad una circolazione priva di rischi.
[3] Il Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) è il documento che individua i possibili rischi presenti in un luogo di lavoro e serve ad analizzare, valutare e cercare di prevenire le situazioni di pericolo per i lavoratori. A seguito della valutazione dei rischi, infatti, viene attuato un preciso piano di prevenzione e protezione con l’obiettivo di eliminare, o quantomeno ridurre, le probabilità di situazioni pericolose. Il responsabile del DVR è il datore di lavoro, che può, in ogni caso, anche affidarsi ad un tecnico specializzato per la redazione.
[4] Par. 4, sentenza in commento.
[5] Par. 4, sentenza in commento.
[6] Par. 6, sentenza in commento.
[7] Si distinguono dai reati omissivi cd. propri, i quali consistono nel mancato compimento di un’azione che la legge penale comanda di realizzare; il rimprovero è quindi quello di non aver posto in essere l’azione doverosa in quanto tale e non come mancato impedimento di risultati dannosi (es. fattispecie di omissione di soccorso, art. 593 c.p.); si veda funditus G. MARINUCCI, E. DOLCINI, G.L. GATTA, Manuale di diritto penale – parte generale, Milano, 2019, pg. 259.
[8] G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2019, pg. 619 ss.
[9] Tale teoria ha l’indubbio aspetto positivo di rispettare il principio di tassatività, ma presenta, come è evidente, rilievi critici per quanto riguarda la “propria precedente attività pericolosa”. Si v. F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Vicenza, 2017, pg. 156; F. BASILE, Su alcune questioni controverse intorno all’omissione di soccorso (art. 593 c.p.). Un reato in cerca d’autore, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, pp. 643-689, in particolare, p. 676 nota 114: «Nessun dubbio dovrebbe, invece, sussistere sul fatto che colui che cagiona lo stato di pericolo per la vita o l’incolumità altrui e poi omette ogni soccorso, non possa rispondere per ciò solo - nel caso in cui il pericolo si trasformi in danno, ad esempio nell’evento lesioni o morte - di tale evento di danno a titolo di reato omissivo improprio: la sua precedente attività pericolosa non è, infatti, idonea fonte di un obbligo giuridico (ex art. 40 cpv.) di impedire l’evento».
[10] G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2019, pg. 640.
[11] F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Vicenza, 2017, pg. 156.
[12] Cass. pen., Sez. I, n. 9049/2020.
[13] In tal senso anche Cass. pen., sent. n. 38991/2010.
[14] S.D. MESSINA, G. SPINNATO, manuale breve diritto penale, Milano, 2020, pg. 112.
[15] C. BERNASCONI, La problematica latitudine del debito di sicurezza sui luoghi di lavoro, in G. CASAROLI, F. GIUNTA, R. GUERCINI, A. MELCHIONDA (a cura di), La tutela penale della sicurezza del lavoro, luci ed ombre del diritto vivente, Pisa, 2015, pg. 19.
[16] M. RANDON, le posizioni di garanzia in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro tra criterio formalistico e principio di effettività, in Cass. Pen., fasc. 7-8 del 2018, pg. 2637.
[17] L’istituto è oggi espressamente disciplinato dall’articolo 16 del d.lgs. 81 del 2008, residuando, secondo la giurisprudenza (cfr. Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 10702/2012), una responsabilità del delegante eventualmente per culpa in eligendo o culpa in vigilando. Si v. funditus, S.D. MESSINA, G. SPINNATO, Manuale breve diritto penale, Milano, 2020, pg. 82 e 83.
[18]Cfr. Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 37738/2013; Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 49821/2012.
[19] V. BLAIOTTA, Causalità giuridica, Torino, 2010, p. 197.
[20] Cass. sezioni unite cd. ThyssenKrupp, sent. n. 38343/2014.
[21] Cass. sezioni unite cd. ThyssenKrupp, sent. n. 38343/2014.
[22] Cfr. Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 25385/2012
[23] D. MICHELETTI, La posizione di garanzia nel diritto penale del lavoro, in Riv. Trim. dir. Pen. Econ., 2011, pg. 174.
[24] R. GIOVAGNOLI, Manuale di diritto penale – parte generale, Torino, 2019, pg. 289.
[25] F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Vicenza, 2017, pg. 136.
[26] F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 1994, pg. 220.
[27] G. MARINUCCI, E. DOLCINI, G.L. GATTA, Manuale di diritto penale – parte generale, Milano, 2019, pg. 232.
[28] F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Vicenza, 2017, pg. 138.
[29] G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2019, pg. 238.
[30] G. MARINUCCI, E. DOLCINI, G.L. GATTA, Manuale di diritto penale – parte generale, Milano, 2019, pg. 234.
[31] Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 4793/1990.
[32] Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 1688/2000, Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 14006/2000, Cass. pen. Sez. IV, sent. n. 2139/2000.
[33] Cass. sezioni unite, sent. n. 30328/2002, citata e confermata dalle Sezioni unite cd. ThyssenKrupp, sent. n. 38343/2014, par. 9.
[34] E. Di Salvo, Nesso di causalità e giudizio controfattuale, in Cass. Pen. Fasc. 12, 2003, pg. 1081
[35] Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 29889/2013; Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 44400/2019
[36] In materia si rileva comunque un dibattito, si veda funditus R. GIOVAGNOLI, Manuale di diritto penale – parte generale, Torino, 2019, pg. 293 ss.
[37] R. GIOVAGNOLI, Manuale di diritto penale – parte generale, Torino, 2019, pg. 308.
[38] G. MARINUCCI, E. DOLCINI, G.L. GATTA, Manuale di diritto penale – parte generale, Milano, 2019, pg. 271.
[39] K. SUMMERER, La pronuncia delle Sezioni Unite sul caso Thyssen Krupp. Profili di tipicità e colpevolezza al confine tra dolo e colpa, in Cass. Pen. Fasc. 2, 2015, pg. 490.
[40] F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Vicenza, 2017, pg.328.
[41] Sentenza Thyssenkrupp cit., par. 27: «Naturalmente, la sovrapposizione tra causalità e colpa non è completa. La colpa richiede, come si è tentato di mostrare sopra, anche un apprezzamento ulteriore, di contenuto squisitamente soggettivo che implica la considerazione delle peculiarità del caso concreto, della plausibile esigibilità della condotta nelle condizioni date. E' la dimensione più propriamente soggettiva della colpa, che rivela l'autonomia del profilo soggettivo del reato ed il suo fondamentale ed ancora non pienamente riconosciuto ruolo nell'ambito del giudizio di colpevolezza».
[42] R. GIOVAGNOLI, Manuale di diritto penale – parte generale, Torino, 2019, pg. 314.
[43] V. F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Vicenza, 2017, pg. 139.
[44] G. MARINUCCI, E. DOLCINI, G.L. GATTA, Manuale di diritto penale – parte generale, Milano, 2019, pg. 242.
[45] F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Vicenza, 2017, pg. 148.
[46] In tal senso, G. MARINUCCI, E. DOLCINI, G.L. GATTA, Manuale di diritto penale – parte generale, Milano, 2019, pg. 242; in senso critico F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Vicenza, 2017, pg. 149.
[47] Cass. sezioni unite, sent. n. 38343/2014, par. 13.
[48] S.D. MESSINA, G. SPINNATO, manuale breve diritto penale, Milano, 2020, pg. 106 – 107.
[49] G. AMATO, La corretta rilevanza dell’«imprudenza» del lavoratore nella responsabilità del datore di lavoro, in Foro it., fasc. II/2009, pg. 198.
[50] A. ROIATI, rilevanza del concorso colposo del lavoratore nell’infortunio sul lavoro, in Cass. Pen., 2008, pg. 2869.
[51] P. PICCIALLI, Qualche riflessione sul debito di sicurezza in materia antinfortunistica, in G. CASAROLI, F. GIUNTA, R. GUERCINI, A. MELCHIONDA (a cura di), La tutela penale della sicurezza del lavoro, luci ed ombre del diritto vivente, Pisa, 2015, pg. 101.
[52] P. PICCIALLI, Qualche riflessione sul debito di sicurezza in materia antinfortunistica, in G. CASAROLI, F. GIUNTA, R. GUERCINI, A. MELCHIONDA (a cura di), La tutela penale della sicurezza del lavoro, luci ed ombre del diritto vivente, Pisa, 2015, pg. 107; cfr. Cass. pen., Sez. IV, 2012, Feraboli, rv. 252544.
[53] M. GROTTO, L’accertamento della causalità nell’ambito degli infortuni sul lavoro, in G. CASAROLI, F. GIUNTA, R. GUERCINI, A. MELCHIONDA (a cura di), La tutela penale della sicurezza del lavoro, luci ed ombre del diritto vivente, Pisa, 2015, pg. 296.
[54] Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 5005/2010, Cass pen., Sez. IV, sent. n. 15009/2009, Cass. Pen, Sez. IV, sent. n. 48573/2009.
[55] A parere dello scrivente, infatti, il governo del rischio e la valutazione alla stregua di esso di una causa interruttiva del nesso eziologico sembrerebbe richiamare la sfera di dominabilità umana delineata dai sostenitori della causalità umana. In tal senso, anche G. VOLPE, Infortuni sul lavoro e principio di affidamento, in Riv. Trim. dir. Pen. ec., 1995, pg. 102 ss.
[56] Cfr. e multis, Cass. pen., Sez. Iv, sent. n. 22044/2012.
[57] Cfr. Cass. pen, Sez. IV, sent. n. 7267/2010.
[58] M. TELESCA, Sicurezza sul lavoro: comportamento abnorme del lavoratore ed interruzione del nesso causale. Il rischio (im)prevedibile, in Dir. pen. proc. Fasc. 11/2018, pg. 1420.
[59] Nello specifico, Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 15124/2016.
[60] In tal senso, già precedentemente, S. GENTILE, Il datore di lavoro va mandato assolto se il comportamento del lavoratore si qualifica come abnorme, nota a Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 24139/2016, in Dir. & Giust. Fasc. 28/2016, pg. 3: «Nessuna efficacia può essere attribuita al lavoratore negligente, che abbia dato egli stesso origine all'evento infausto quando questo sia da ricondurre comunque all'insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare il rischio derivante dal comportamento imprudente. In definitiva, la responsabilità del datore di lavoro può essere esclusa solo in conseguenza di un comportamento del lavoratore avente i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità e dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile».
[61] Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 282726/2020, in conformità con Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 278608/2020.
[62] P. DELLA NOCE, Infortunio per comportamento abnorme del lavoratore: il datore di lavoro non è mai esente da colpa se il suo sistema di sicurezza presenta criticità, nota a sentenza Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 16228/2019, in Dir. & Giust. Fasc. 71/2019, pg. 15; Cfr. con la più recente Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 26618/2020.
[63] V. FERRO, Responsabilità per infortuni sul lavoro e rilevanza del comportamento del lavoratore, in Dir. Pen. proc., fasc. 11/2011, pg. 1319.
[64] V. FERRO, Responsabilità per infortuni sul lavoro e rilevanza del comportamento del lavoratore, in Dir. Pen. proc., fasc. 11/2011, pg. 1317.
[65] O. DI GIOVINE, Il contributo della vittima nel delitto colposo, Torino, 2003, pg. 75.
[66] Si veda supra par. 2.
[67] Cass. pen., Sez. IV, sent. n. 40821/2008.