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Pubbl. Ven, 5 Feb 2021

La contiguità mafia-politica e l´art. 416 ter c.p.

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Tommaso Passarelli
Dottorando di ricercaUniversità degli Studi di Catanzaro Magna Græcia



Il fenomeno mafioso si caratterizza, fin dalla sua origine, per la propria capacità relazionale. Proprio gli aspetti di contiguità col mondo politico, imprenditoriale, della pubblica amministrazione e più in generale della società civile ne hanno determinato il rafforzamento ed il perpetuarsi nel corso del tempo. Il legislatore ha tentato ripetutamente di sanzionare le condotte afferenti alla ”zona grigia”, applicando in maniera diffusa l´istituto ex art. 416 bis e quello del ”concorso esterno”. A tal uopo ha, da ultimo, emanato una specifica norma rivolta al contrasto della contiguità politico-mafiosa compendiata nell´art. 416 ter c.p.


ENG The mafia phenomenon is characterized, since its genesis, for its relational capacity. It is precisely the aspects of contiguity with the political, business, public administration and more generally civil society that have determined its strengthening and perpetuation over time. The legislator has repeatdly tried to sanction the conducts refered to in the ”gray area”, applying the institution referred to in art. 416 bis c.p. and that of the ”external competition”. To this end, it has tecently issued a specific provision aimed at contrasting the political-mafia contiguity summarized in art. 416 ter c.p.

Sommario: 1.Premessa; 2. Breve excursus storico; 2.1. Due esempi concreti: il barone Turrisi Colonna e l'on. Palizzolo; 3. Le origini della fattispecie di scambio elettorale politico-mafioso; 3.1. I beni giuridici tutelati; 3.2.I principi di offensività ed extrema ratio;   4. La prima versione dell'art. 416 ter c.p.; 4.1.I problemi applicativi dell’art. 416 ter c.p. nella sua prima versione; 5. La prima riforma dell'art. 416 ter c.p. ex l. 62/2014; 6.La novella ex L. 43/2019; 7. Conclusioni

1. Premessa

Le collusioni tra organizzazioni mafiose e mondo politico affondano le radici in un lontano passato. La contiguità col mondo circostante è infatti ritenuta un tratto coevo alla genesi stessa del fenomeno mafioso, che numerosi studi hanno datato intorno alla metà del XIX secolo[1].

Lo studio e la disciplina di tale fenomeno per lungo tempo non ha rappresentato una prerogativa per la scienza giuridica, tanto che solo nella seconda metà del XX secolo l’ordinamento ha visto la prima legge cd. “antimafia”, n. 646/1982.

Dieci anni più tardi, sull’onda emotiva originata dallo stragismo mafioso, il legislatore aveva emanato una normativa, invero farraginosa ed equivoca, specificamente rivolta al contrasto della contiguità politico-mafiosa. Le pronunce della Cassazione e l’azione riformista del legislatore hanno tentato nel corso degli anni di tipizzare meglio i contorni della fattispecie di scambio elettorale politico-mafioso, non senza eccessi ed incertezze.

Il presente lavoro muove da una breve ricostruzione storica del fenomeno della contiguità politico-mafiosa, volta a metterne in evidenza la remota origine, per poi analizzare la norma sul patto di scambio elettorale politico-mafioso, dalla sua introduzione fino alle più recenti riforme.

2. Breve excursus storico

Un importante approdo nell’indagine sulle origini del fenomeno mafioso lo ha raggiunto, nei primi anni ‘60 del secolo scorso, la Commissione parlamentare d’inchiesta, che ha messo in risalto la capacità relazionale delle organizzazioni mafiose, confermando gli esiti prodotti tanti anni prima dall'indagine di Leopoldo Franchetti.

La forma di collusione più frequente tra gruppi mafiosi e potere costituito era rappresentata dal sostegno ai candidati in occasione delle elezioni politiche, mediante il procacciamento dei voti tramite l'utilizzo della violenza e dell'intimidazione, che venivano adoperati anche in danno dei candidati avversari. Proprio i legami intrattenuti col mondo politico, sul finire del secolo XIX, avevano consentito alle organizzazioni criminali di accrescere il proprio prestigio e legittimare il proprio potere[2].

La classe dirigente nazionale aveva manifestato un sostanziale disinteresse verso la popolazione contadina, preferendo occuparsi dei propri interessi elettorali. In questo settore le organizzazioni mafiose rivestivano un ruolo determinante nella macchinazione del consenso. Tale superficiale atteggiamento aveva instillato nelle popolazioni del meridione un sentimento di diffusa sfiducia nei riguardi di “lor signori”, i quali avevano riconosciuto e legittimato gli apparati criminali nel ruolo di intermediari delle dinamiche sociopolitiche.

Il dibattito parlamentare sul fenomeno mafioso era iniziato nel corso della prima legislatura e aveva registrato la contrapposizione tra chi avesse ricondotto tale fenomeno ad una manifestazione di criminalità comune, ed un diverso orientamento che ne avesse rimarcato le radicate complicità con la classe politica. In questo contesto, aveva preso forma un’importante iniziativa in seno all'A.R.S., da cui era nata la prima Commissione di studio sul fenomeno mafioso (proprio questa circostanza aveva ispirato il Parlamento nazionale) [3].

L’azione parlamentare aveva cambiato passo nel corso della terza legislatura, con l’istituzione della Commissione d’inchiesta sul fenomeno mafioso[4], la cui azione era rivolta a supportare quella della magistratura, senza entrare in conflitto con essa. Fine precipuo della Commissione era stato quello di far luce sulle protezioni politiche di cui avessero goduto gli apparati criminali, che si erano evoluti negli affari di pari passo con lo sviluppo della società civile. L'attenzione della criminalità organizzata era rivolta verso quelle attività altamente redditizie, a cui poteva accedere per mezzo di pratiche corruttive, ottenendo i permessi e le autorizzazioni necessarie[5].

2.1 Due esempi concreti: il barone Turrisi Colonna e l'on. Palizzolo

Una ricostruzione storica, seppur breve, necessita di risconti pratici. Pertanto, si farà cenno sommariamente a due casi di contiguità politico-mafiosa ottocentesca. Le vicende avevano riguardato due notabili del loro tempo, il barone Turrisi Colonna e l'onorevole Palizzolo, che a diverso titolo avevano beneficiato dei servigi offerti dalle cosche mafiose.

È possibile ricostruire le vicende del Turrisi Colonna a partire dagli anni ‘60 dell’800.

Barone di Buonvicino, già comandante della guardia nazionale palermitana (sin dal 1860, anno della sua origine), parlamentare negli anni immediatamente successivi, due volte sindaco di Palermo negli anni ’80, aveva tra l’altro dato alle stampe, nel 1864, un accurato studio sul fenomeno mafioso.

La discesa in Sicilia di due studiosi toscani, L. Franchetti e S. Sonnino, che avevano intrapreso un’approfondita indagine sul fenomeno mafioso, aveva contribuito a sollevare i primi dubbi sui rapporti tra il barone e gli esponenti locali della criminalità organizzata[6].

La buona reputazione del Turrisi Colonna lo aveva accompagnato fino ai salotti romani, ma un dato di realtà ne aveva contraddistinto l'operato: nel 1860 aveva nominato un malavitoso locale, tale Giammona, in seno alla guardia nazionale palermitana[7] e, successivamente, nei procedimenti a suo carico, quest’ultimo veniva assistito dagli avvocati del barone[8].

Lo scambio sull'asse politico-criminale era tuttavia assai più sfuggente rispetto a quanto risultasse dagli atti ufficiali. Le cosche mafiose beneficiavano della vicinanza di uomini politici e il vantaggio che ne traevano era direttamente proporzionale alla credibilità che il politico vantasse nell’opinione pubblica. Nulla quaestio se pubblicamente il politico agiva contro la mafia: in privato, poi, si consumava lo scambio di favori, che assumeva le forme più svariate.

Il secondo caso di contiguità politico-mafiosa ottocentesca aveva coinvolto l'on. Raffaele Palizzolo, che veniva indicato come il mandante del primo “omicidio eccellente” di stampo mafioso, quello del già sindaco di Palermo e direttore del Banco di Sicilia Emanuele Notarbartolo[9].

Nel corso del processo la difesa aveva dipinto un ritratto virtuoso del Palizzolo[10], ma dall'inchiesta della magistratura erano emersi altri aspetti, più reconditi e meno onorevoli[11].

L'omicidio Notarbartolo aveva segnato una svolta nella storia della mafia, in quanto aveva rappresentato una rottura del diaframma che sino ad allora aveva separato i due mondi, ovvero della valvola che aveva regolato i rapporti tra di essi. Un ruolo importante nella vicenda lo aveva assunto il questore E. Sangiorgi, dapprima con l’arresto del Palizzolo e, successivamente, con la propria testimonianza, nei processi di Milano e Bologna, sulle capacità a delinquere dello stesso Palizzolo, fornendo le prove documentali delle pressioni esercitate dal notabile in favore di numerosi mafiosi.

La contrapposizione tra il Notarbartolo e il Palizzolo era iniziata negli anni ‘70, con l'avvicendamento al Comunale di Palermo tra l’amministrazione uscente, di cui era stato esponente il Palizzolo e la subentrante, che aveva visto nel ruolo di Sindaco il Notarbartolo[12].

Le tensioni tra i due si erano acuite quando il Notarbartolo aveva rivestito il ruolo di direttore del Banco di Sicilia, dove il Palizzolo aveva assunto un ruolo nel consiglio generale[13]. Il processo si era concluso con la condanna del Palizzolo alla pena di trent’anni di reclusione, successivamente annullata dalla Cassazione a causa di vizi formali. Un nuovo processo veniva istruito a Firenze dopo qualche anno, con esito assolutorio[14].

3. Le origini della fattispecie di «Scambio elettorale politico-mafioso»

Il legislatore affrontava il problema della contiguità politico-mafiosa all’indomani delle note stragi del 1992, col d.l. n. 306/92 che modificava il terzo comma dell'art. 416 bis c.p. (tra le finalità dell'associazione mafiosa si inseriva l'alterazione del voto in occasione delle consultazioni elettorali) e, contestualmente, introduceva nel Codice penale la fattispecie di “Scambio elettorale politico-mafioso” all’art. 416 ter.

L'istituto de quo si sommava a quelli utilizzati fino a quel momento per il contrasto a tale fenomeno criminoso: il concorso esterno e la corruzione elettorale aggravata dal metodo mafioso, ovvero dal fine di agevolare l'associazione, ai sensi dell'art. 416 bis.1 c.p., con la dottrina che paventava il rischio di incorrere nel concorso apparente di norme.

La riflessione sull'opportunità di introdurre una nuova fattispecie si rendeva necessaria onde offrire risposta alle «istanze di law enforcement» provenienti dalla società civile. Si avvertiva inoltre l’esigenza di prevenire una deriva giustizialista, ancorando la responsabilità penale ad una rigorosa e concreta verifica delle modalità e del livello delle collusioni politico-mafiose. Si rigettavano, invece, le argomentazioni che bollassero la nuova fattispecie come inadeguata a priori, a causa “dell’arretramento” sanzionatorio al momento del mero accordo.

3.1 I beni giuridici tutelati

L’obiettivo del legislatore era quello di colpire le collusioni politico-mafiose nel loro momento genetico. Era convinzione diffusa che i servigi resi dalla politica alle consorterie criminali rappresentassero il corrispettivo di accordi stipulati in occasione delle consultazioni elettorali, affinché le mafie si adoperassero onde procacciare voti utilizzando i loro metodi tradizionali.

Data la sua struttura causale, il concorso esterno non si prestava a disciplinare tali dinamiche criminali, mentre i reati di corruzione elettorale aggravata intercettavano condotte «di acquisto al dettaglio di singoli voti», ma non accordi a più ampio spettro[15].

Tale carenza ordinamentale apriva la strada all’introduzione di una nuova fattispecie, che tutelasse quella serie di beni giuridici potenzialmente offendibili dal patto di scambio elettorale politico-mafioso.

Sul punto, riteneva la dottrina che il catalogo di beni giuridici sottesi alla nuova disposizione normativa non si limitasse al solo ordine pubblico, ove anche il patto di scambio ledesse la libera e pacifica convivenza tra i consociati, come enucleato dalla collocazione sistemica della fattispecie, sul presupposto che un bene giuridico dalla portata tanto estesa rappresentasse solo un indicatore parziale.

Ove si fosse accolta una tale sbrigativa ricostruzione, si sarebbe dilatato il fatto di reato fino a ricomprendervi qualunque accordo politico-mafioso, a prescindere da una concreta verifica delle pattuizioni e dei rapporti intercorsi tra i soggetti interessati, avviando quella deriva giustizialista più sopra prospettata.

L'ordine pubblico, unitariamente considerato e declinato in termini di mono-lesività, assumeva inoltre quell’aspetto di genericità già disciplinato, in tali casi, dall’istituto del concorso esterno.

Il concetto di ordine pubblico in materia penale, giova precisarlo, non è mai stato di semplice interpretazione.

In chiave ideale, veniva declinato come il complesso di quei principi e/o quelle istituzioni fondamentali su cui si fonda la convivenza associata e dalla cui continuità e immutabilità dipende la sopravvivenza dell’intero ordinamento giuridico capace di tollerare l'assurdo divieto di esprimere un punto di vista critico, rispetto al regime esistente. 

In senso materiale, veniva, invece interpretato con la vecchia nozione di pubblica tranquillità già impiegata nel Codice penale Zanardelli del 1889 per classificare reati di analogo tenore. Quest'ultima interpretazione, intesa come sicurezza e incolumità delle persone, era parsa agli interpreti come la più aderente ai principi costituzionali del nostro ordinamento.

Declinato in senso oggettivo, aveva evidenziato una certa vaghezza e una scarsa attitudine nel filtrare i fatti di reato. Proprio questo limite intrinseco aveva suggerito, agli addetti ai lavori, di battere altre strade interpretative nell’opera di ricostruzione del sostrato assiologico-giuridico della nuova fattispecie di reato.

Uno di questi sentieri conduceva ai beni giuridici del diritto di voto, della libertà di autodeterminazione e del principio democratico che regge la Repubblica. La loro simultanea lesione recava, in prospettiva, quella pluri-offensività che legittimasse l’emanazione di una norma ad hoc onde garantirne la tutela.

Si proponeva di far assurgere al rango di beni giuridici anche i principi del buon andamento e dell'imparzialità della P.A., sul presupposto che il patto di scambio piegasse l'apparato amministrativo dello Stato al perseguimento di interessi criminosi, senza trascurare la lesione dell'accesso a cariche pubbliche in condizioni di uguaglianza, ai sensi dell'art. 51 Cost. Questa iniziativa, tuttavia, mal si conciliava coi principi di tassatività e determinatezza del diritto penale. Stessa sorte toccava alla proposta di includere tra i beni protetti la libertà democratica e il diritto di voto, seppure, nel secondo caso, l'interesse leso presentasse un certo grado di concretezza[16].

Il rapporto di accessorietà con la norma ex art. 416 bis c.p. (oggi superato, a seguito delle riforme degli ultimi anni) induceva a considerare, quale bene giuridico oggetto di tutela, la libertà degli elettori dai condizionamenti criminali. La riflessione si fondava attorno ai caratteri di libertà e segretezza del voto ex art. 48 Cost., ma, così enucleata, la norma appariva un mero duplicato di quelle già esistenti in materia di corruzione elettorale aggravata.

La dottrina prospettava anche un’interpretazione della fattispecie secondo lo schema del reato pluri-offensivo eventuale, che offendesse una moltitudine di beni giuridici costituzionalmente rilevanti, anche in via alternativa.

Seguendo l'ordine tracciato dalla carta costituzionale, la medesima dottrina intraprendeva una ricostruzione ermeneutica a partire dal principio democratico di cui all’art. 1 Cost., che consacrava la forma democratico-repubblicana dello Stato e, al contempo, i corollari della partecipazione democratica dei cittadini e del governo della maggioranza, nel rispetto dei diritti delle minoranze. Sul punto, giova ricordare che il popolo, detentore della sovranità, è titolare del potere costituente ed esercita, nelle forme e nei limiti della Costituzione, quello costituito.

Date le sue grandi dimensioni, lo strumento prescelto onde favorirne la partecipazione democratica è quello della democrazia rappresentativa. Con esso, i cittadini determinano l’indirizzo politico del Paese ed eleggono i loro rappresentanti in Parlamento.

Se però le elezioni difettano di libertà democratica, perdono la loro legittimazione sul piano rappresentativo. Col diritto di voto, dunque, il popolo esercita la propria sovranità, ma il metodo mafioso si caratterizza per essere l'esatto opposto del metodo democratico: esso si estrinseca tramite il ricorso alla violenza e all'intimidazione, che determinano il sorgere delle condizioni di assoggettamento ed omertà, ostative delle libertà e delle garanzie democratiche.

La ricostruzione dottrinale aveva evidenziato anche il riverbero del patto di scambio sull’attività politica del destinatario di voti mafiosi. Era avvertito il timore che quest’ultimo, infatti, potesse operare non già nell'interesse della nazione, bensì di quella ristretta cerchia di soggetti che lo avrebbe favorito durante le elezioni[17]. Declassato a mero esecutore degli accordi criminosi, compromesso ed esposto, in siffatto contesto non era ritenuto in grado di sottrarsi agli accordi pattuiti[18].

Ulteriori interessi suscettibili di lesione erano consacrati agli artt. 49 e 67 Cost.: a) il concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, tramite i partiti politici e b) il libero esercizio del mandato parlamentare.

L’assenza del vincolo di mandato, giova ribadirlo, garantisce al parlamentare la libertà e l'autonomia necessarie al perseguimento dell'interesse generale del Paese, liberandolo dai lacciuoli di partito che ne veicolino l'operato verso istanze particolari.

Egli è inoltre indipendente ed autonomo anche rispetto al suo collegio di elezione, svincolato dal perseguire in via esclusiva gli interessi del territorio d’origine, dovendo salvaguardare quello generale del Paese. Sul punto era intervenuta anche la Corte costituzionale, con la sentenza n. 14/1964, che aveva stabilito come «il divieto di mandato imperativo importa che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito, ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito».

Seguendo questa impostazione dogmatica, anche l’immunità di cui all'art. 68 Cost. poteva integrare il catalogo di beni giuridici offendibili dal patto di scambio elettorale politico-mafioso, in quanto era ritenuto che le garanzie sulle opinioni date ed i voti espressi potessero divenire la perfetta copertura legale di siffatte attività illecite. In questo senso, la norma ex art. 416 ter c.p. ne preveniva la strumentalizzazione e l’asservimento ad attività mafiose[19].

3.2 I principi di offensività ed extrema ratio

La dottrina si chiedeva se la scelta incriminatrice aderisse o meno ai principi penalistici di offensività ed extrema ratio.

In ogni campagna elettorale, infatti, vi sono promesse che i candidati distribuiscono al corpo elettorale ed appare fisiologico di una democrazia rappresentativa che in tale sede sorgano degli accordi tra candidati ed elettori. Partendo da queste premesse, non v’era certezza che un accordo politico-mafioso integrasse ex se una fattispecie delittuosa prima della sua esecuzione, per quanto riprovevole sul piano assiologico.

La prima versione dell'art. 416 ter c.p. risultava sensibile a tale schema dogmatico, sanzionando solo lo scambio voti - denaro, col quale si facesse mercimonio della rappresentanza politica. Erano escluse le altre utilità, ritenute di carattere più incerto.

Al vaglio del principio di offensività, l'incriminazione del mero accordo appariva dunque arbitraria.

La dottrina declinava tale principio in un doppio senso: a) in senso astratto, con riferimento all’attività del legislatore, che nel formulare la fattispecie penale tenesse conto della concreta lesività delle condotte; b) in senso concreto, con riferimento all'attività del giudice, che sanzionasse solo quelle condotte concretamente offensive, ovvero pericolose per la tenuta di un dato bene giuridico.

Con la fattispecie ex art. 416 ter c.p., il legislatore disciplinava condotte caratterizzate da un alto livello di “disvalore sociale”, che mettessero in concreto pericolo la moltitudine dei beni giuridici sopra elencati.

Data la sua consistenza, la fattispecie di pericolo, come formulata, appariva idonea alla loro tutela, a patto che si reggesse su un giudizio di verosimiglianza attendibile, oggettivo, ragionevole, controvertibile, fondato su basi empiriche e condiviso dalla collettività.

Rimanevano escluse dall'area sanzionatoria le condotte antecedenti alla stipula del patto, in quanto troppo lontane da un'offesa, anche solo potenziale, ai beni tutelati. L’arretramento della soglia di rilevanza penale, dunque, non comportava la violazione del principio di offensività[20]. Il vaglio del principio di extrema ratio si articolava, invece, sull’analisi del rapporto tra la norma ex art. 416 ter c.p. e le fattispecie di corruzione elettorale ex artt. 96-97 L. n.  361/57 e 86-87 del D.P.R. 570/60, aggravate ai sensi dell'art. 416 bis.1 c.p.

L'art. 416 ter c.p. si riteneva inizialmente superfluo, laddove le norme sulla corruzione elettorale aggravata apparissero sufficienti a coprire quello spazio giuridico.

Tuttavia, a ben vedere la norma di nuovo conio si differenziava in maniera sostanziale da quelle fattispecie corruttive che prevedessero uno scambio bilaterale, chiuso e di modico valore. Di contro, essa contemplava una contrattazione politico-mafiosa ad ampio spettro, che concernesse valori assai considerevoli.

Le fattispecie corruttive avevano disciplinato la compravendita di voti al dettaglio, mentre era opinione diffusa che «lo scambio elettorale politico-mafioso di cui all'articolo 416 ter del codice penale [fosse] invece diretto ad incriminare il ben differente fenomeno del controllo sistematico e su larga scala del consenso elettorale esercitato dalle associazioni di tipo mafioso tramite la forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo su quella parte del corpo elettorale che incide nel bacino territoriale dove opera il sodalizio». Tali differenze strutturali comportavano anche un differente quantum sanzionatorio: le corruzioni elettorali prevedevano la pena da uno a quattro anni (salva, poi, la maggiorazione derivante dall'art. 416 bis.1 c.p.) e una multa; l'art. 416 ter c.p. adottava, invece, la ben più severa pena di cui al primo comma dell’art. 416 bis c.p. Inoltre, le fattispecie corruttive avevano previsto che a stipulare il pactum dovesse essere un elettore, mentre nel reato di scambio elettorale politico-mafioso il contraente sarebbe stato un associato mafioso, privo del diritto di voto e pertanto insuscettibile di sanzione ai sensi delle fattispecie corruttive[21].

L'obiettivo che il legislatore aveva perseguito, nel configurare il nuovo reato, era stato quello di impedire il condizionamento mafioso dei rappresentanti del popolo in seno alle istituzioni repubblicane. In questo senso, oltre alla libertà di voto, aveva assunto rilievo anche la salvaguardia degli equilibri politico-istituzionali dello Stato.

Rilevate le differenze strutturali circa il livello delle prestazioni e le qualità dei "contraenti", nonché la rapida ed estemporanea consumazione delle fattispecie corruttive a dispetto di quella più duratura di cui all’art. 416 ter c.p., la conclusione era che le diverse norme disciplinassero uno "spazio penale” distinto e separato.

4. La prima versione dell'art. 416 ter c.p.

L'introduzione, nel 1982, dell’art. 416 bis c.p., non aveva risolto il problema dell’alterazione del voto in occasione delle consultazioni elettorali.

La giurisprudenza aveva tentato di rimediare a tale carenza applicando al patto di scambio, dapprima, lo stesso art. 416 bis c.p., sul presupposto che il patto potesse integrare le finalità associative degli ingiusti profitti o vantaggi per sé o per altri; in un secondo momento, era ricorsa all’istituto del concorso esterno.

Dissentiva sul questo punto l’orientamento riconducibile alla sentenza Frasca, che non condivideva una tale linea interpretativa, ritenendo il patto di scambio elettorale estraneo alle finalità tipiche delle associazioni mafiose[22].

Con la novella del 1992, il legislatore si era proposto di colmare questa lacuna ordinamentale, ma la nuova disciplina aveva palesato problemi sul piano ermeneutico. La giurisprudenza, inizialmente, aveva ritenuto inapplicabili le disposizioni della legge n. 356/92 ai fatti anteriori alla propria entrata in vigore, sostenendo che il legislatore avesse introdotto, con essa, una nuova figura di reato.

Nel 2003, tuttavia, la Cassazione aveva stabilito che la novella legislativa non avesse delineato alcuna nuova figura criminosa, ritenendo dunque il patto di scambio configurabile, già in precedenza, come fattispecie di reato, ex art. 416 bis c.p. Sul punto, la dottrina aveva precisato come all’inserimento della specifica finalità elettorale nell’elencazione degli obiettivi tipici perseguiti dall’associazione mafiosa [andava] attribuito invece intento solo esemplificativo-chiarificatore, quale segnale per richiamare l’attenzione degli organi inquirenti ed eliminare ogni dubbio interpretativo circa la diretta riconducibilità della stessa nel programma associativo mafioso, non comportando l’introduzione di una nuova fattispecie incriminatrice nell’ordinamento penale.

Rimaneva irrisolta la questione circa la punibilità del politico che avesse beneficiato dell'apporto elettorale mafioso. Il lasso temporale intercorso tra l'emanazione degli artt. 416 bis e 416 ter c.p. si era contraddistinto per una profonda crisi politica, che aveva condizionato le scelte incriminatrici del legislatore. In questo senso, aveva rappresentato un impulso, per il legislatore, la stagione stragista del 1992.

I ministri della Giustizia e dell'Interno, sull’onda emotiva degli eventi delittuosi, avevano affrettato l’emanazione del d.l. n. 306/92, recante «Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa».

Nella prima formulazione, tuttavia, il decreto non aveva apportato disposizioni sulla punibilità delle condotte di contiguità politico-mafiosa, nonostante le forti istanze provenienti dall'opinione pubblica. Era ritenuto, non senza fondamento, che la classe politica fosse intimidita dalla nuova normativa, che avrebbe incriminato quella parte di essa incauta e poco accorta alle frequentazioni con ambienti criminali.

Le prime iniziative legislative si orientavano verso l’estensione dell'art. 416 bis c.p., ma su iniziativa delle opposizioni si intraprendeva il cammino verso una nuova fattispecie incriminatrice: il patto di scambio elettorale politico-mafioso.

La nuova fattispecie veniva così strutturata: «La pena stabilita dal primo comma dell’articolo 416 bis si applica anche a chi ottiene la promessa di voti prevista dal terzo comma dell’articolo 416 bis in cambio della erogazione di denaro o della promessa di agevolare l’acquisizione di concessioni, autorizzazioni, appalti, contributi, finanziamenti, pubblici o, comunque della realizzazione dei profitti».

La situazione di emergenza e le modalità affrettate di adozione del d.l. avevano alterato il dibattito parlamentare e la dottrina aveva ravvisato, in questo tipo di procedure, una "perversione" della legislazione.

Così concepita, la norma presentava una scarsa qualità precettiva e, in prospettiva, una ridotta efficacia applicativa. L’esigenza di bilanciare le istanze repressive provenienti dalla società civile con quelle di stampo garantista provenienti della classe politica, aveva dato i natali ad una disciplina sterile, incapace di fornire un’adeguata risposta giuridica al problema della contiguità politico-mafiosa.

Anche la commissione parlamentare antimafia si era espressa in termini negativi sulla nuova fattispecie: «La promessa di voti in cambio di denaro è una ipotesi di reato la cui prova è quasi impossibile. Sarebbe necessaria una riformulazione della norma che, pur non lasciando alla magistratura eccessivi margini di discrezionalità interpretativa e applicativa, sanzionasse in modo efficace, e non soltanto declamatorio, il voto di scambio politico-mafioso».

Il nucleo della fattispecie era rappresentato da un sinallagma (quello dei voti offerti in cambio di denaro) rarefatto, più vicino ad un caso di scuola che ad una fattispecie concreta. Le promesse di voti, mafiosamente orientati, nella pratica erano ripagate, di frequente, dalle promesse di favori di diverso genere e di ingente valore economico, quali ad esempio l’assunzione clientelare a tempo indeterminato o determinato di persone indicate dalle consorterie, l’assegnazione privilegiata di gare di appalto anche per importi considerevoli, la predisposizione “fotografica” di bandi su misura per le ditte collegate ai clan, l’erogazione preferenziale di contributi o finanziamenti pubblici, il rilascio di concessioni o autorizzazioni amministrative facilitate per lo svolgimento di attività come ad esempio nel settore dell’edilizia o della raccolta di rifiuti. L’adozione del concetto di “erogazione” del denaro aveva indotto la giurisprudenza a ritenere che la fattispecie non fosse integrata dal solo scambio delle promesse, bensì dalla successiva e concreta “dazione” del denaro[23].

La dottrina, dal canto suo, aveva ritenuto che la novella legislativa fosse contraddistinta da un’eccessiva anticipazione dell’intervento penale, fino al momento dello scambio delle promesse.

Aveva individuato, inoltre, tre diverse categorie di soggetti potenzialmente in grado di attingere alle risorse elettorali di tipo mafioso: a) soggetti interni al sodalizio, b) soggetti abitualmente a contatto con esso e c) soggetti che vi erano entrati in contatto per la prima volta. Solo per questi ultimi si era posto il problema della punibilità delle condotte, in quanto le altre due categorie andavano sussunte sotto il paradigma normativo dell’art. 416 bis c.p., ovvero del combinato disposto degli artt. 110 e 416 bis c.p.[24].

Spunti interessanti erano emersi in sede di primo commento agli artt. 11 bis e 11 ter della L. 356/92, da parte di quella dottrina che aveva sostenuto come «scopo della norma in esame [fosse stato] quello di descrivere e “tipizzare”, per così dire, una particolare ipotesi di compartecipazione “eventuale” nel reato associativo (…) un contratto illecito tra potere politico e potere mafioso».[25]

La nuova norma aveva alimentato grandi aspettative nell'opinione pubblica. Essa aveva evidenziato una diretta ed immediata connessione con l'art. 416 bis c.p., sia in termini precettivi (destinatario della sanzione era divenuto il soggetto che avesse ottenuto la promessa di cui al terzo comma dell'art. 416 bis, in cambio di una somma di denaro), che sanzionatori (aveva adottato la medesima pena).

L’art. 416 bis c.p. veniva implementato al suo terzo comma, dove era previsto ora, tra le finalità dell'associazione mafiosa, il procacciamento dei voti in occasione delle consultazioni elettorali. Così concepita, la norma si era aggiunta a quelle in materia di corruzione elettorale, ampliando lo spazio di rilevanza penale in settori che, storicamente, erano riservati alla “regolamentazione” sociale e politica.

Era ritenuto, infatti, che una democrazia ben strutturata potesse produrre ex se i propri anticorpi contro simili patologie (le ingerenze criminose nella costruzione democratica della società), pertanto la diffusa penalizzazione di tali dinamiche era vista con diffidenza[26].

Secondo la dottrina, la fattispecie ex art. 416 ter c.p. aveva tipizzato una figura di reato autonoma rispetto a quella di cui all’art. 416 bis c.p. La ratio della scelta era rintracciata nel fatto di penalizzare, in astratto, un singolo patto di scambio, che si fosse perfezionato nel momento dell'accettazione della promessa e della dazione del denaro. Tale ricostruzione ermeneutica lasciava ad altri paradigmi normativi la disciplina di rapporti maggiormente protratti nel tempo e nello spazio.

Problematico era parso, da subito, l’approssimativo richiamo alla promessa di voti di cui al comma terzo dell'art. 416 bis c.p., col quale il legislatore aveva richiamato il metodo mafioso.

Così formulata, la norma non aveva agevolato l’individuazione del momento esatto di consumazione del reato. La dottrina aveva avanzato la proposta di valorizzare il principio civilistico secondo cui il contratto si conclude al momento in cui il proponente ha conoscenza dell'accettazione del destinatario della proposta.

Questo orientamento aveva sostenuto, tra l’altro, che il reato fosse consumato col "perfezionamento verbale del patto di scambio", divenendo la concreta erogazione del denaro un mero post factum. In questo senso, l'adozione del verbo “erogare”, in luogo del più esplicito “somministrare”, sottendeva la rilevanza penale della sola obbligazione pecuniaria. Era esclusa, in ogni caso, l’eventualità di una doppia incriminazione del politico ai sensi degli artt. 416 bis e 416 ter c.p., sulla considerazione che se colui che ha somministrato denaro detiene un ruolo in ambito associativo, lo scambio non sembra poter avere un autonomo disvalore penale poiché esso è ricompreso nei meccanismi interni di funzionamento dell’organizzazione.[27]

Il legislatore del 1992 aveva tentato di replicare il forte grado di specificità della legge “Rognoni-La Torre”, con l’intento di soddisfare in toto i requisiti di tassatività e determinatezza, specie laddove si fosse arretrata la soglia di rilevanza penale, riducendo al minimo lo spazio di discrezionalità per il giudice in sede applicativa. Norme tanto specificamente delineate avevano l’obiettivo di soddisfare quelle esigenze di prevenzione avvertite in settori, come quello politico, di rado immuni da condizionamenti criminali[28].

4.1 I problemi applicativi dell’art. 416 ter c.p. nella sua prima versione

I limiti strutturali della nuova fattispecie erano emersi al momento della sua applicazione.

La giurisprudenza cercava soluzioni ermeneutiche che incriminassero quelle condotte non rientranti nel patto di scambio politico-mafioso, come licenziato dal legislatore, ma in ogni caso contraddistinte da un elevato grado di disvalore sociale. In questo senso, si riconduceva all’alveo del concorso esterno anche il patto di scambio e sul punto si esprimeva favorevolmente anche una parte della dottrina.

Si versava, inoltre, in una fase di incertezza circa gli esatti contorni del “concorso esterno”, cui soccorreva la sentenza Demitry del 1994. Con essa, le Sezioni Unite stabilivano che il contributo apportato ab externo ad un’organizzazione mafiosa rilevasse, sul piano eziologico, in quanto strumentale alla sopravvivenza, ovvero al rafforzamento del sodalizio.

Anche il patto di scambio, dunque, poteva integrare il concorso esterno[29], ma era diffusa l’opinione che non potesse configurarsi un concorso di tipo materiale. Lo scambio delle promesse, infatti, non integrava quei parametri causali, influenti sulla vita associativa, indicati dalla sentenza Demitry.

Di contro, lo scambio sottendeva una serie di condotte prive, nel loro momento genetico, di consistenza giuridica. Una parte della dottrina, contraria sul punto, riteneva invece che l’accordo integrasse il contributo alla vita associativa, secondo i parametri indicati dalle Sezioni Unite, sostenendo che questa integrazione dipendesse da fattori contestuali, come la qualità della promessa e lo spessore del politico promittente. Inoltre, alla luce della grande disponibilità di denaro che caratterizzava le associazioni mafiose, si riteneva che una singola dazione non rappresentasse quel contributo eziologicamente rilevante ai fini del rafforzamento del sodalizio, rilevando, a tal uopo, solo contributi apprestati in serie.

Pertanto, le condotte afferenti al patto di scambio andavano espunte dallo spazio giuridico riservato al concorso esterno. In termini probatori, inoltre, la dimostrazione dell’incidenza causale del patto di scambio era impresa ardua. Ad avvisto della dottrina, tuttavia, questo dato non escludeva da principio la configurabilità della fattispecie concorsuale in tali circostanze.

Maggiori possibilità palesava un concorso di tipo morale, sul presupposto che l'istigazione a commettere un dato reato fosse cosa differente dal concorrere nel reato associativo. Aveva ritenuto la dottrina che i politici, istigatori della mafia durante le campagne elettorali, non andassero perseguiti a titolo di “concorso esterno” in associazione mafiosa, bensì a titolo di «concorso eventuale in un ipotetico delitto di procacciamento di voti a mezzo di forza intimidatrice»[30].

Questo aveva sostenuto l’orientamento meno possibilista sulla riconducibilità del patto di scambio all’alveo del concorso esterno, rinvenendo nell’art. 416 ter c.p. la norma di riferimento sul patto di scambio. Si era osservato, inoltre, che se l'istituto concorsuale fosse stato idoneo a disciplinare gli accordi politico-mafiosi, il legislatore non avrebbe introdotto la nuova fattispecie[31]. Il carattere assai duttile dell’istituto concorsuale suggeriva, in ogni caso, un suo utilizzo ponderato. Non era poi del tutto chiaro se il criterio causale, con cui la giurisprudenza valutava l'incidenza dei contributi ab externo alle associazioni mafiose, fosse da declinare in senso stretto, ovvero in senso lato, fino a ricomprendervi altri e diversi criteri, come l’idoneità ex ante.

I limiti evidenziati dalla nuova norma, in particolare l’aver circoscritto le controprestazioni politiche al solo denaro, avevano avviato la diffusa applicazione del concorso esterno, ma il rigoroso criterio probatorio che dal 2005 le Sezioni Unite Mannino avevano imposto in termini di accertamento causale, aveva suggerito la rivalutazione, per via giurisprudenziale, dell’istituto ex art. 416 ter c.p. Iniziava così la stagione dell’ “ermeneutica estensiva” sulla materia, che investiva innanzitutto il concetto di “denaro”: la giurisprudenza ricomprendeva in tale concetto anche quelle “altre utilità” apprezzabili sul piano economico. Rimanevano escluse solo le “altre utilità” valutabili, sul piano economico, in via mediata.

Tale orientamento aveva ricompreso, nel novero delle controprestazioni politiche, anche i posti di lavoro elargiti in cambio del sostegno elettorale, rasentando il conflitto col principio del divieto di analogia in materia penale, sul presupposto che la nozione di “denaro” non andasse rappresentata con caratteri diversi da quelli monetari.

Simili interpretazioni investivano anche il concetto di erogazione, ritenendo che, ai fini della configurazione della fattispecie ex art. 416 ter c.p., bastasse la mera promessa del futuro pagamento. In taluni casi, poi, per il politico rilevava la mera disponibilità a venire a patti con la consorteria mafiosa, in vista del futuro e concreto adempimento dell’impegno assunto in cambio dell’appoggio elettorale, importando il pagamento in concreto del denaro pattuito solo ai fini della consumazione del reato, quale elemento probatorio del patto ad esso sotteso.

In altri casi, le future prestazioni connesse al pactum sceleris rilevavano, sul piano probatorio, soltanto ai fini dell’individuazione del titolo di reato (ex art. 416 ter c.p., ovvero ai sensi dell’art. 416 bis c.p., oppure del combinato disposto degli artt. 110 e 416 bis c.p., sicché l'esigenza avvertita era quella che si stabilisse un confine tra le diverse figure delittuose e i diversi ambiti di operatività delle fattispecie penali), senza incidere sulla sua consumazione.

Nel 2013, poi, la Cassazione aveva esteso la punibilità ex art. 416 ter c.p. anche al mafioso che avesse promesso il sostegno elettorale, per mezzo dell'art. 110 c.p., contravvenendo all’espressa disposizione legislativa che aveva ricondotto la punibilità di tale soggetto all'art. 416 bis c.p., ritenendo che questa condotta potesse integrare una delle classiche forme di partecipazione penalmente rilevante.

Sul punto, la dottrina aveva sottolineato come il concorso eventuale nei reati associativi fosse consentito solo quando sarebbe stata una condotta atipica, non espressamente disciplinata in una fattispecie di parte speciale, ad integrare la disposizione normativa dell’art. 110 c.p.

Ad una parte della giurisprudenza che aveva dato al reato ex art. 416 ter c.p. la forma del reato-contratto, ritenendo sufficiente ai fini della sua configurazione il mero accordo delle parti, si era contrapposto un orientamento che aveva richiesto un'attività materiale del mafioso, anche successiva all’erogazione del denaro da parte del politico.

Un ulteriore orientamento aveva richiesto, ai fini della configurazione del reato, l’indicazione, da parte dell’associazione, del candidato prescelto, alla luce della forte e radicata influenza sociale delle mafie, percepibile a prescindere dal compimento di attività empiriche. Interpretazioni di questo tenore avevano trasceso il precetto normativo, incidendo sulla natura del reato, che aveva perso i connotati del pericolo astratto, assumendo quelli della fattispecie d’evento. Le forzature ermeneutiche arricchivano la fattispecie «di elementi ad essa estranei»[32] . Questo spingeva una parte della dottrina a chiedersi se l'art. 416 ter c.p. avesse, ex se, un’autonoma portata incriminatrice, ovvero se fosse una mera sotto fattispecie del delitto di cui all'art. 416 bis.

5. La prima riforma dell'art. 416 ter c.p. ex l. 62/2014

I limiti mostrati dall'art. 416 ter c.p. nella sua prima formulazione e le ardimentose interpretazioni della giurisprudenza che avevano tentato di adattare la norma alla realtà di fatto, onde restringere il campo applicativo del “concorso esterno”, avevano palesato la necessità di riformare l’istituto[33].

La novella apportata dalla legge n. 62/2014 aveva fatto propria l’elaborazione giurisprudenziale sulla materia, tipizzando meglio i contorni della fattispecie. Ad avviso della dottrina, la prima, equivoca, versione della norma aveva innervato una giurisprudenza oscillante, ora estensiva e ora restrittiva, a seconda che avessero prevalso istanze garantiste, ovvero di stampo repressivo. L’orientamento più restrittivo poggiava le basi sull'uso effettivo del metodo mafioso da parte del promissario e spostava in avanti il momento di consumazione del reato; al contrario, l'orientamento maggiormente estensivo, che era anche il più diffuso, arretrava la consumazione del reato fino alla stipula del patto. In talune sentenze, poi, si richiedeva che il metodo mafioso fosse oggetto specifico del pactum sceleris.

La nuova norma era articolata in due commi e aveva assunto la veste del reato plurisoggettivo proprio (a differenza della precedente, che aveva previsto una fattispecie plurisoggettiva impropria, assoggettando a pena anche il promittente mafioso.

Quest’ultimo, dunque, oltre alla penalizzazione ex art. 416 bis c.p. per la partecipazione associativa, subiva anche quella connessa al patto di scambio. Una parte della dottrina aveva avanzato dubbi su questa scelta sanzionatoria, alla luce del superiore principio del ne bis in idem sostanziale, sostenendo che il legislatore fosse “influenzato” da istanze simbolico-repressive.

Già il comma 3° dell'art. 416 bis c.p., infatti, sanzionava l’iniziativa del mafioso al fine di procurare voti a sé o ad altri nelle campagne elettorali. Data la ratio della norma, pareva inverosimile che il soggetto destinatario della richiesta del politico non avesse spessore criminale.

Inoltre, il procacciamento dei voti con metodo mafioso non poteva dirsi sconosciuto al politico, fondandosi la sua richiesta sulle note capacità intimidatorie e prevaricatrici delle mafie[34].

Una parte della dottrina, contraria sul punto, aveva sostenuto che il legislatore della riforma avesse eliminato un’anomalia: la previsione di un reato-contratto, a prestazioni sinallagmatiche, che aveva sanzionato soltanto uno dei contraenti, indirizzando l'altro verso l'alveo dell'art. 416 bis c.p.

La stipula dell'accordo costituiva, secondo questo orientamento, il prodromo del procacciamento dei voti mafiosi, pertanto la previsione del novellato art. 416 ter c.p. risultava complementare a quella dell'art. 416 bis c.p. La portata sanzionatoria della nuova disciplina normativa, in questo senso, veniva attenuata in sede applicativa, operando le disposizioni sul reato continuato ex art. 81 c.p.[35] 

Un diverso orientamento dottrinale sosteneva, su questo punto, come non sempre la condotta di cui al reato associativo fosse prodromica al patto di scambio, alla luce del fatto che l'associarsi non dava luogo, sempre e comunque, al tipo di attività previste dal patto di scambio. Inoltre, non era garantita l’operabilità dell’art. 81 c.p., in virtù del fatto che il reato associativo fosse sanzionato per ciò solo. Non andava esclusa, dunque, una valutazione separata in merito alla punibilità del patto di scambio[36].

La riforma de qua non aveva alterato le figure del promissario e del promittente, col reato che era rimasto di tipo comune. Sul piano delle condotte, veniva incriminata l’accettazione della promessa di procurare voti.

Si era prospettata, nel corso dei lavori preparatori, la possibilità di arretrare ulteriormente la soglia di rilevanza penale, fino a ricomprendervi anche le condotte finalizzate ad ottenere la promessa, ma questa scelta avrebbe messo in "fibrillazione” i principi di tassatività e determinatezza dei precetti penali, nonché le finalità preventive della pena[37].

La riforma aveva caratterizzato il procacciamento dei voti per l'utilizzo del metodo mafioso di cui all'art. 416 bis, terzo comma c.p., superando i dubbi e le contraddizioni che avevano attanagliato la prima formulazione della fattispecie, che aveva rinviato alla promessa di voti di cui al comma terzo dell'art. 416 bis.

Tale locuzione normativa, per quanto imprecisa sul piano semantico, richiamava il metodo mafioso, considerandolo dunque, ab origine, un elemento indefettibile della fattispecie.

La riforma del 2014, dunque, aveva specificato il richiamo al metodo mafioso e proprio questo aspetto aveva causato un contrasto giurisprudenziale in merito alla successione di leggi penali nel tempo. Inizialmente, la giurisprudenza aveva sostenuto l’abolitio criminis operata dalla riforma, ai sensi dell’art. 2, comma 2° c.p.

La sentenza Antinoro del 2014 aveva espresso tale orientamento: con essa, la Cassazione aveva declinato il richiamo al metodo mafioso di cui all'art. 416 bis, comma terzo c.p., come nuovo elemento della (riformata) fattispecie, richiedendo che fosse specificato il suo impiego nel pactum sceleris.

In seguito, la Cassazione aveva mutato il proprio orientamento e aveva interpretato la nuova formulazione normativa come mera specificazione lessicale, inerente ad un elemento ab initio presente in seno alla fattispecie, integrando dunque un caso di Abrogatio sine abolitio, ex art. 2, comma 4° c.p.

La Cassazione esprimeva questo orientamento dapprima con la sentenza n. 37374/2014, da cui la dottrina enucleava che «se anche la ratio dell’incriminazione consiste[va] nello specifico rischio di alterazione del processo democratico che si determina[va] quando il voto [veniva] sollecitato da un’organizzazione mafiosa, il suo riflesso sul piano degli elementi di fattispecie si esauri[va] nella logica del comportamento di chi, per proprie esigenze elettorali, promette[sse] denaro a un’organizzazione criminale siffatta, ovviamente consapevole della natura e dei metodi che la connotano». Si escludeva, dunque, dagli elementi tipici della fattispecie, la previsione circa l’utilizzo del metodo mafioso in seno al pactum sceleris. Successivamente, con la sentenza n. 9442/19, la Cassazione evidenziava la necessità di accertare tale previsione pattizia solo nel caso in cui il promittente non fosse organico all’associazione mafiosa, ovvero quando, pur essendolo, agisse uti singulus[38].

Come auspicato dalla giurisprudenza, la riforma aveva ampliato l'oggetto della promessa: oltre al "denaro”, veniva tipizzata anche “l’altra utilità”. La previsione normativa del solo denaro aveva rappresentato uno dei grandi limiti della precedente normativa e questo aveva condotto la giurisprudenza ad emanare quelle interpretazioni iper-estensive che avevano sfiorato il conflitto col principio di legalità[39]. Una parte della dottrina aveva criticato questo aspetto, osservando come questa scelta legislativa avesse arretrato molto l'intervento penale, col rischio di ricomprendervi anche normali dinamiche da campagna elettorale, demandando ad una prudente politica giudiziaria il compito di individuare le utilità penalmente rilevanti nel caso concreto[40].

Come accennato, la riforma aveva allargato la rilevanza penale della condotta del politico fino alla mera promessa dell’erogazione, seguendo il solco tracciato dall’elaborazione giurisprudenziale sulla materia, che aveva interpretato in maniera estensiva il concetto di “erogazione”, ricomprendendovi anche la semplice promessa.

Nessuna novità aveva riguardato l’elemento soggettivo, nonostante si fosse avanzata la proposta, in seno al dibattito parlamentare, di inserire l'avverbio “consapevolmente”. L’aver emanato un reato di tipo doloso aveva reso superflua tale specificazione, che avrebbe escluso dall'ambito sanzionatorio solo le condotte contraddistinte da dolo eventuale[41]. Su questo punto, la dottrina aveva specificato come «il soggetto punibile ex art. 416 ter non dovrà comunque voler divenire un referente più o meno duraturo delle richieste avanzate dal sodalizio criminale», in quanto un rapporto stabile e protratto nel tempo avrebbe integrato il paradigma normativo ex art. 416 bis c.p.[42]

Il momento consumativo del reato era individuato nello scambio delle promesse, con le prestazioni successive relegate a meri fatti posteriori.  Queste ultime rilevavano solo laddove una loro esecuzione frazionata nel tempo spostasse in avanti la consumazione del reato. Una fattispecie, dunque, a “schema duplice”, con la possibilità di delinearne la consumazione sulla base del materiale probatorio disponibile.

Lo schema principale prevedeva che, in presenza delle prove sul patto e sull’erogazione, il reato si consumasse con l'erogazione; seguendo uno schema secondario, in presenza delle sole prove sull’accordo, quest’ultimo assurgeva a momento consumativo. La giurisprudenza aveva dunque tutto l’interesse ad integrare il quadro probatorio, spostando in avanti la consumazione del reato e, di conseguenza, i termini di prescrizione.

La riforma, inoltre, aveva declinato meglio il rapporto tra l'art. 416 ter c.p. e il concorso esterno. Fissando la punibilità del patto al momento dello scambio delle promesse, aveva introdotto un reato di mera condotta, che potesse prescindere dalla prova del nesso eziologico tra condotta ed evento di rafforzamento.

La prova del nesso eziologico riguardava, pertanto, solo le ipotesi concorsuali[43]. Sul punto, attenta dottrina aveva osservato come l’occasionalità del contributo apprestato potesse accomunare entrambe le condotte, concorsuali e pattizie. L'evento del rafforzamento, successivo al fatto di reato, risultava dunque dirimente, presupponendo il perpetuarsi dei rapporti politico-mafiosi, che non si consumassero col pactum sceleris, innervando una stabile “messa a disposizione” del politico verso il sodalizio criminale[44].

In ordine ai rapporti con le fattispecie di corruzione elettorale, il novellato art. 416 ter c.p. aveva diversificato in maniera sostanziale la posizione del politico, sanzionando, come visto, il mero accordo e non l'effettivo procacciamento dei voti, che invece era perseguito dalle fattispecie corruttive ex artt. 96-97 T.U. 361/1957 e 86-87 D.P.R. 750/1960. Di contro, la posizione del mafioso risultava sovrapponibile. Dopo la stipula del pactum sceleris, infatti, quest’ultimo ben poteva attivarsi onde procacciare i voti pattuiti e l'espletamento delle attività procacciatrici poteva integrare le fattispecie corruttive (all’interno, in ogni caso, del medesimo disegno criminoso ex art. 81 c.p.) [45].

Perspicua dottrina, inoltre, aveva osservato come la mancata disponibilità del promittente, ovvero l'eventuale diniego del promissario, potessero condurre ad un’ulteriore anticipazione sanzionatoria, a titolo di delitto tentato ex art. 56 c.p.[46]

Data la nuova struttura della fattispecie di pericolo astratto, che si consumava con lo scambio delle promesse, prescindendo da un accertamento eziologico, il legislatore prevedeva una cornice edittale da quattro a dieci anni di reclusione, ferma la possibilità di applicare l'aggravante ex art. 416 bis.1 c.p., ma solo nella sua parte agevolativa, essendo inapplicabile quella sul metodo mafioso, già elemento intrinseco della fattispecie. Si riduceva quindi, rispetto alla precedente formulazione (che adottava la medesima pena dell’art. 416 bis, comma primo, c.p.), la dosimetria sanzionatoria di tali condotte, ritenendole meno pregne, in termini di disvalore, sul piano della politica criminale[47].

6. La novella ex L. 43/2019

Con la legge n. 43/2019, il legislatore ha nuovamente riformato la fattispecie ex art. 416 ter c.p., inasprendo il trattamento della contiguità politico-mafiosa.

La novella ha suscitato diverse perplessità in dottrina[48], a partire dal novero dei soggetti attivi del reato, ove sono tipizzati, ora, anche i c.d. “intermediari”. Questa è parsa una superfetazione sul piano semantico, in quanto già la precedente formulazione della norma aveva previsto tra i soggetti attivi del reato «chiunque» avesse realizzato il fatto tipico.

Inoltre, il legislatore della riforma ha specificato come il procacciatore di voti possa essere un soggetto appartenente all’associazione di cui all’art. 416 bis c.p. Anche in questo caso, tuttavia, la norma precedente aveva disciplinato le condotte di tali soggetti, senza distinzioni problematiche[49].

Sul piano delle condotte, il politico viene ora penalizzato per la mera disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell'associazione mafiosa. Tale scelta incriminatrice, come visto in precedenza, veniva espunta dal novero delle soluzioni nel corso dei lavori preparatori della precedente riforma.

È parso evidente come il legislatore abbia privilegiato, su questo punto, il contributo dell’elaborazione giurisprudenziale[50]. A parere della dottrina, sarebbe stata più opportuna la previsione di una figura delittuosa autonoma, con un regime sanzionatorio attenuato, parametrato al minor disvalore della condotta di semplice disponibilità[51].

In sede di commento alla riforma de qua, attenti studi hanno evidenziato come la stessa abbia modificato soltanto le modalità delle condotte e non il novero dei soggetti attivi, adottando i paradigmi civilistici del contratto di mandato ex artt. 1703 ss. c.c., sulla conclusione di accordi per mezzo di soggetti intermediari. Non appare, invero, condivisibile l’osservazione promossa in tale sede circa la non punibilità del promissario mafioso che si avvalga dell’intermediario, alla luce del dato semantico di cui al secondo comma della norma, che così recita: «La stessa pena si applica a chi promette, direttamente o a mezzo di intermediari, di procurare voti nei casi di cui al primo comma»[52].

Sul piano sanzionatorio il legislatore ha riproposto la medesima pena di cui al comma primo dell'art. 416 bis c.p., rigettando l’idea del minor disvalore delle condotte finalizzate all’accordo elettorale, rispetto a quelle associative.

È ora prevista inoltre una circostanza aggravante, nella misura fissa della metà della pena, per l’eventualità in cui il politico venga eletto col sostegno mafioso. Quest’ultima sembra difficilmente dimostrabile sul piano probatorio, alla luce del carattere di segretezza del voto e dell’onere di provare, oltre ogni ragionevole dubbio, l'effettiva incidenza del sostegno mafioso sul risultato elettorale conseguito dal politico. Inoltre, la pena così aggravata supera nel massimo anche quella prevista dall’art. 416 bis c.p.

Sul punto, la dottrina osserva come una previsione tanto irrigidita risulti ostativa della commisurazione della pena nel caso concreto, escludendo la possibilità di individualizzarla ai sensi del principio rieducativo e questo aspetto suscita condivisibili dubbi di legittimità costituzionale, in ordine agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.[53]

Meno problematica è sembrata la pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici, di cui al novellato comma quarto. Essa presenta un certo grado di ragionevolezza, dal momento che accompagna la pena prevista per un reato che sanziona l’asservimento delle pubbliche funzioni ad associazioni mafiose. Il carattere perpetuo dell'interdizione, in ogni caso, si innesta nel solco di non graduabilità della pena che caratterizza la circostanza aggravante[54].

7. Conclusioni

La disciplina giuridica dei rapporti di contiguità politico-mafiosa ha subito numerosi travagli, fin dalla sua genesi. Le norme che il legislatore ha prodotto nel corso degli anni si sono caratterizzate per le difficili gestazioni parlamentari, che ne hanno reso difficoltosa l’applicazione.

I problemi connessi all’espansione del “concorso esterno” avevano indotto il legislatore a rivedere la struttura della fattispecie, valorizzando al massimo grado le elaborazioni giurisprudenziali sulla materia. Le risposte fornite in sede legislativa hanno in parte soddisfatto e in parte disatteso le aspettative degli addetti ai lavori. In particolare, l’ultima riforma ha esacerbato il trattamento sanzionatorio e arretrato la soglia di rilevanza penale, sanzionando la mera “messa a disposizione” del politico.

Come osservato nel corso dei paragrafi precedenti, l’ampio catalogo di beni giuridici sottesi aveva legittimato una normativa ad hoc per la loro tutela, ma era diffusa l’opinione che questa andasse strutturata in ossequio ai principi di offensività e materialità in materia penale. Il legislatore ha abbracciato, invece, le pulsioni repressive provenienti dalla società civile, sovente forti ed esigenti quando si sia trattato di reprimere le corruttele e le collusioni della classe politica, ma talvolta esasperate ed obnubilate dal fare propagandistico e demagogico proprio delle forze populiste.

Come osservato, la pena per il politico eletto col sostegno mafioso, ove si dimostri una tale dinamica d’elezione “al di là di ogni ragionevole dubbio”, supera nel massimo quella prevista per gli appartenenti alle associazioni di cui all’art. 416 bis c.p., per effetto della nuova circostanza aggravante.

Nella fase iniziale di questo lavoro si evidenziava come il tratto distintivo delle mafie, il loro valore aggiunto, fosse da sempre la capacità relazionale col mondo ad esse circostante, in particolare con quella parte della classe dirigente del Paese sensibile a ogni beneficio elettorale, anche di tipo mafioso.

La sanzione per tale orrido connubio deve, senza dubbio, essere di elevato tenore, ma pur sempre aderente al principio, costituzionalmente garantito, di proporzionalità. Pertanto, l’elevato carico sanzionatorio di cui la norma si fa portatrice, con l’intento di reprimere in maniera efficace tale fenomeno criminoso, rischia invece di collocare la fattispecie nell'alveo delle “norme manifesto”, destinate ad avere scarsa applicazione a causa delle proprie distonie e contraddizioni strutturali.

In questo senso, è auspicabile da parte del legislatore un correttivo che possa meglio calibrare la dosimetria sanzionatoria delle condotte, prevedendo una circostanza attenuante per la mera “messa a disposizione” del politico. Sul piano sanzionatorio, appare ineludibile anche la riforma della circostanza aggravante di cui al terzo comma della nuova norma, pretenziosa sul piano della politica criminale e difficilmente dimostrabile su quello probatorio.


Note e riferimenti bibliografici

[1]Particolarmente incisiva è stata l’azione della Commissione parlamentare antimafia del 1962, di cui si possono apprezzare i contenuti sul sito istituzionale della Camera; sul punto si veda anche il contributo di S. LUPO, Storia della mafia, Donzelli, Roma, 2004.

[2]Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno mafioso, 1962-1976, cap. 1, “La genesi della mafia”, in archiviopiolatorre.camera.it, pp. 108-111, ove si legge che “Era assolutamente impossibile a chi entrava nella gara delle ambizioni politiche locali sottrarsi a contatti con persone che debbono la loro influenza al delitto”. Scriveva così F. S. Merlino: “La clientela, ecco la forma originaria della mafia. I gruppi di clienti hanno il loro protettore nel paese o nella città, difendono la sua persona e il suo patrimonio, fanno le sue vendette, sono sociale strumento dei suoi capricci e delle sue ambizioni, ma nello stesso tempo commettono delitti per conto loro, con la quasi certezza dell’impunità. Il feudo è il rifugio, la causa dei delitti più gravi”. Rilevano sul punto le osservazioni fatte nei primi anni del XX secolo dal commissario Giovanni Lorenzoni, nella relazione che chiudeva i lavori della commissione di inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e in Sicilia. La relazione rimaneva tuttavia lettera morta, fino all’istituzione della commissione parlamentare di inchiesta nel 1962.

[3]Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno mafioso, 1962-1976 “I dibattiti parlamentari sul fenomeno della mafia in Sicilia e l'istituzione della commissione di inchiesta”, in archiviopiolatorre.camera.it, pp. 2-6.

Nel 1948, il ministro dell'interno Scelba affermava che «certamente la mafia trova protezione in sfere molto elevate che essa protegge a sua volta». Un anno più tardi, una mozione presentata al Senato dall'on. Casadei, oltre a ricostruire i tratti tipici del fenomeno criminale (la commissione di delitti e il rendere servigio di mediazione sociale) metteva in risalto il trait d'union rappresentato da «quel groviglio di interessi economici, amministrativi e politici».

Nel 1950, il senatore Sacco e il deputato Failla puntavano i riflettori sul ruolo giocato in Sicilia dalla criminalità organizzata, sulle tradizionali relazioni intrattenute con le autorità e con gli uomini politici e sulla necessità di riforme strutturali da affiancare alle azioni repressive di polizia. Aveva obiettato sul punto il ministro Scelba, ritenendo che la situazione siciliana fosse tornata “normale” a seguito della morte del bandito Giuliano. Non erano, dunque, necessarie ulteriori misure straordinarie, come l'istituzione di una commissione d’inchiesta.

Nel corso della seconda legislatura, il dibattito parlamentare riprendeva vigore, ormai scevro dal retaggio culturale che vedesse la mafia equiparata al banditismo e relegata al rango di criminalità comune, da fronteggiare con ordinarie misure di polizia. Illustrava l'on. Li Causi come: «la commissione di inchiesta parlamentare avrebbe avuto altre possibilità di mettere in luce proprio gli alti favoreggiatori e i misteriosi mandanti: cioè si sarebbe dovuto andare a pescare l’uomo politico, il ministro, l’assessore regionale, gli ex ministri e presidenti del governo regionale e, insomma, i personaggi della vita politica siciliana, chiamati a rispondere ad uno ad uno dei loro delitti (…) essendo la mafia uno degli elementi costitutivi dell'equilibrio sociale e politico di determinate zone»; le sole azioni di polizia non avrebbero mai estirpato le sue radici, nel permanere «immutata la sua base, il tessuto attraverso cui questo cancro si rinnova».

[4]Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno mafioso, 1962-1976. “I dibattiti parlamentari sul fenomeno della mafia in Sicilia e l'istituzione della commissione di inchiesta” op. cit., pp. 21-24.

Il senatore Gatto aveva denunciato come la mafia fosse diventata «in armonia coi tempi, mafia dei consorzi di bonifica, degli appalti, delle organizzazioni economiche e di categoria», la quale «tende irresistibilmente a farsi alleata dei governi, dei partiti di maggioranza, degli stessi organi dello Stato. Tende a configurarsi e valorizzarsi come elemento del sistema di conservazione politica ed economica, così da porre alla società non già un comune problema di sicurezza pubblica, ma un problema di moralità politica ed amministrativa, un problema di alte connivenze da smascherare e recidere; un problema, infine, di arcaiche strutture economiche da rinnovare radicalmente». Dello stesso avviso era il deputato Pajetta, che rilevava nel fenomeno mafioso una forma di criminalità che si alimentasse di «complicità e connivenze» con gli organi statuali. Nell'occhio del ciclone finiva nuovamente il ministro Scelba insieme ai suoi prefetti, accusati di usufruire dell'appoggio delle cosche mafiose locali nella gestione dei pubblici poteri. Contrario sul punto era l’on. Zotta, secondo cui la mafia era la somma di “fattori etnici, storici, economici”.

[5]Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno mafioso, 1962-1976 “I dibattiti parlamentari sul fenomeno della mafia in Sicilia e l'istituzione della commissione di inchiesta” op. cit., pp. 25-35. Lo sottolineava nella sua relazione l’on. Gaudioso: “...e così, tra le antiquate e meno cruente lotte per l'accaparramento dei feudi, si passa al controllo dei mercati urbani, al contrabbando delle sigarette, agli appalti di lavori pubblici, alla tratta delle bianche e anche al traffico di droga”. Una simile evoluzione non sarebbe stata possibile, prosegue Gaudioso, “senza l'incontro tra mafia e politica”; arrivavano puntuali anche le osservazioni dell’on. Caruso: “far luce su quel legame delittuoso che, prima nelle campagne e poi nelle città siciliane, si costituisce tra gli uomini politici e i grossi elettori. In quel legame era la vera origine del fenomeno mafioso, che non poteva essere limitato a un dramma della miseria”(…)“Soltanto una commissione parlamentare di inchiesta può rompere il muro di silenzio, può penetrare ed incidere nelle sfere molto elevate che proteggono la mafia dalla quale, a sua volta, sono protette”; sul punto l’on. Malagoldi rilevava come (comparando l'esperienza degli U.S.A.) lo sviluppo economico non rappresentasse un argine all’avanzare delle mafie, trattandosi di un fenomeno che si alimentava proprio della prosperità economica. Da ultimo, la mafia veniva indicata come «forma estrema di corruzione», che dava luogo ad una forma di intensa collusione tra amministratori, mafiosi ed operatori economici.

[6]J. DICKIE, Cosa nostra, storia della mafia siciliana, Laterza, Bari, 2008, pp. 26-31. Il Sonnino aveva chiesto una lettera di presentazione presso il Barone, ritenendolo vicino ad ambienti criminali. Alla sua interlocutrice aveva raccomandato «di non dire a nessuno a proposito del Barone Turrisi quello che le dico più sopra intorno ai supposti suoi legami colla maffia. Qualche suo amico potrebbe scriverglielo, e questo ci farebbe un brutto servizio».

[7]J. DICKIE, Cosa nostra, storia della mafia siciliana, op. cit., pp. 12 ss. Il Giammona era stato protagonista di una vicenda estorsiva, di chiaro stampo mafioso, ai danni del dottor Galati, che aveva fatto molto clamore, divenendo un caso nazionale.

[8]J. DICKIE, Cosa nostra, storia della mafia siciliana, op. cit., pp. 32-33. Lo stesso Barone aveva perorato la causa di quattro suoi uomini, tratti in arresto all'interno di una sua tenuta, in località Cefalù. Lo aveva fatto nel corso di una serie di interviste rilasciate a L. Franchetti e S. Sonnino, ove aveva rimarcato l'innocenza dei suoi adepti e posto l'accento sul ruolo dei proprietari terrieri, quali vittime delle prevaricazioni criminali. Le ambiguità intorno alla sua persona non si fermavano qui, venendo rimarcate dal questore di Palermo dell'epoca, che sempre nel corso di una intervista rilasciata ai due giovani studiosi toscani, si mostrava scettico circa l'eventualità di un processo a carico dei quattro criminali tratti in arresto, sul presupposto che l'influenza politica esercitata dal Turrisi Colonna ne rendesse difficoltoso lo svolgimento. Le indagini condotte avevano accertato che i rituali di iniziazione alla mafia venivano eseguiti nel feudo dello stesso Barone.

[9]S. LUPO, Storia della mafia, op. cit., pp. 121-124. Lo aveva scritto nella sua relazione il procuratore generale Sighele e lo aveva confermato cinque anni più tardi il questore di Messina Peruzy. Se inizialmente non s’erano mosse accuse formali nei riguardi del Palizzolo, successivamente (sotto l'impulso della parte civile, rappresentata dal figlio L. Notarbartolo) egli era accusato pubblicamente dall'ispettore Cervia, che aveva arrestato anche il collega Di Blasi, ritenuto vicino al Palizzolo, con l'accusa di aver insabbiato le indagini: «La di lui intima relazione col comm. Palizzolo dà motivo di dubitare che non sia stato estraneo in lui l’interesse di avere in mano le fila della matassa per salvare il suo amico e protettore». Il generale Mirri e il questore Lucchesi avevano lanciato pesanti accuse nei confronti del sistema giustizia e avevano testimoniato sulle collusioni del Palizzolo con ambienti mafiosi. In un clima reso particolarmente ostile dai moti di Milano del 1898 e dalle leggi liberticide di Pelloux dell'anno seguente, nel dicembre del 1899 la Camera aveva votato per l'arresto dell’on. Palizzolo, pur in mancanza di un atto ufficiale della magistratura. Il procuratore Cosenza aveva emesso il rinvio a giudizio del Palizzolo e ciò aveva avviato il successivo processo che si era svolto a Bologna. Veniva arrestato anche il G. Fontana, indicato come il killer del Notarbartolo; cfr. sull’argomento L. STURZO, La mafia, in La croce di Costantino del 21 gennaio 1900, p.1, ove emerge una mafia «che stringe nei suoi tentacoli giustizia, polizia, amministrazione, politica; di quella mafia che oggi serve per domani esser servita, protegge per esser protetta, ha i suoi piedi in Sicilia ma afferra anche Roma, penetra nei gabinetti ministeriali, nei corridoi di Montecitorio, (…) costringe uomini creduti fior di onestà ad atti disonorati e violenti».

[10]S. LUPO, Storia della mafia, op. cit., p. 130, ove emerge l’immagine di uomo «mite, buono, affettuoso, poeta a tempo perso, un po’ vanesio, molto ciarliero, incapace di mantenere un segreto, e quindi incapace di affidare altrui un mandato per un’opera di sangue». Incontrava poi il favore di quella classe intellettuale sensibile ai richiami della politica, come G. Mosca, che così distingueva la figura dell’onorevole: «era popolarissimo se la popolarità consiste nell' essere facilmente accessibile a persone di ogni classe, di ogni ceto, di ogni moralità. La sua casa era indistintamente aperta ai galantuomini e ai bricconi. Egli accoglieva tutti, prometteva a tutti, stringeva a tutti la mano, chiacchierava infaticabilmente con tutti; a tutti leggeva i suoi versi, narrava i successi oratori riportati alla camera e, con abili allusioni, faceva capire quante e quali aderenze potentissime avesse».

[11]S. LUPO, Storia della mafia, op. cit., p. 131-135. Il Palizzolo veniva accusato del sequestro del Notarbartolo, avvenuto nel 1882. Si riteneva che avesse fornito appoggi logistici ed equipaggiamenti ai rapitori, nonché il nascondiglio successivo alla liberazione, nel territorio di Villabate. Nela zona tra Caccamo e Villabate v’era, infatti, una forte influenza del Palizzolo. L'ispettore Di Blasi aveva sgomberato la banda dei rapitori (era ipotizzata, su questo avvenimento, la collaborazione dello stesso Palizzolo, messo alle strette). Tra i rapitori v’era anche un altro G. Fontana, omonimo cugino del presunto assassino del Notarbartolo. Durante gli anni di prigionia a Ventotene, quest’ultimo aveva ricevuto diverse visite dal Palizzolo, che si era mosso in prima persona per ottenerne la liberazione; veniva accusato anche dell'omicidio Miceli, maturato sul fondo Gentile per motivi di interessi. La vittima intendeva contrastarne le mire speculative su un fondo in cui esercitava la propria attività lavorativa. Anche nella conduzione degli affari il Palizzolo aveva dimostrato scarse capacità: affari e politica aveva rappresentato lo strumento ideale onde intrattenere rapporti “promiscui” con le consorterie criminali, tanto che gli organi di polizia lo avevano indicato quale «mecenate della mafia nell’agro palermitano».

[12]S. LUPO, Storia della mafia, op. cit., pp. 147-149. Appena insediato, il neoeletto sindaco aveva chiesto al Palizzolo la cifra di lire 3.625, a titolo di risarcimento nei confronti dell'amministrazione per l'acquisto di farine.

[13]S. LUPO, Storia della mafia, op. cit., pp. 150-153. Le frizioni erano divenute sempre più aspre nel corso del tempo e l'ostruzionismo del Palizzolo aveva messo in crisi la gestione dell'istituto di credito. Coadiuvato dal ministro dell'agricoltura Miceli, il Notarbartolo aveva tentato di riformare l’organo consiliare, soprattutto per impedirne l'accesso a soggetti ritenuti “impresentabili”. Il Palizzolo aveva ostacolato tale azione riformatrice, grazie alle sue entrature “altolocate”. Era riuscito anche a promuovere una mozione di sfiducia nei confronti del direttore, che non veniva accolta grazie all'intervento del ministero. Sulle sovvenzioni pubbliche alla Navigazione generale italiana v’era stato un ulteriore scontro tra il Notarbartolo e il Palizzolo (il venir meno delle sovvenzioni pubbliche aveva rappresentato una delle cause del fallimento della Ngi, a cui erano interessate le più potenti famiglie locali, tra cui i Florio). Pochi anni dopo, preso atto delle gravi difficoltà in cui versava l’istituto, il capo del Governo Crispi ne aveva decretato lo scioglimento.

[14]S. LUPO, Storia della mafia, op. cit., pp. 156-157. Veniva citato un nuovo testimone, tale Filippello. Ritenuto esecutore del delitto, successivamente era entrato in conflitto con gli altri membri del sodalizio a causa di divergenze sulla spartizione del ricavato. Veniva tuttavia ucciso prima che potesse deporre. Così il caso Notarbartolo era terminato nel 1904, con una serie di assoluzioni, tra cui quella del Palizzolo.

[15]G. AMARELLI, La contiguità politico-mafiosa. Profilo politico-criminali, dommatica ed applicativi, DIKE giuridica editrice, Roma, 2016, p. 116-121.

[16]G. AMARELLI, La contiguità politico-mafiosa. Profilo politico-criminali, dommatica ed applicativi, op. cit., pp. 125-133.

[17]G. AMARELLI, La contiguità politico-mafiosa. Profilo politico-criminali, dommatica ed applicativi, op. cit., pp. 134-141.

[18]G. AMARELLI, La contiguità politico-mafiosa. Profilo politico-criminali, dommatica ed applicativi, op. cit., pp. 142-148, ove si evidenzia come entrino in gioco altri fattori assai condizionanti, che coinvolgono la sua sfera personale.

[19]G. AMARELLI, La contiguità politico-mafiosa. Profilo politico-criminali, dommatica ed applicativi, op. cit., pp. 155-156.

[20]G. AMARELLI, La contiguità politico-mafiosa. Profilo politico-criminali, dommatica ed applicativi, op. cit., pp. 165-178.

[21]G. AMARELLI, La contiguità politico-mafiosa. Profilo politico-criminali, dommatica ed applicativi, op. cit., pp. 186-188.

[22]G. AMARELLI, La contiguità politico-mafiosa. Profilo politico-criminali, dommatica ed applicativi, op. cit., pp. 213-214, cfr. Cass. Pen., sez. I, n. 21356/2002.

[23]G. AMARELLI, La contiguità politico-mafiosa. Profilo politico-criminali, dommatica ed applicativi, op. cit., pp.215-226; nello stesso senso C. VISCONTI, Il patto di scambio elettorale politico-mafioso, in Ind. Pen. 1993, pp. 276-285 e G. FIANDACA, Riflessi penalistici del rapporto mafia-politica, in Foro It. 5/1993, pp. 137-146.

[24]G. FIANDACA, Riflessi penalistici del rapporto mafia-politica, op. cit., pp. 137-141, il quale sosteneva che «il nuovo 416 ter è caratterizzato da un impatto simbolico inversamente proporzionale alla sua efficacia repressiva», a causa della “particolare” gestazione parlamentare che la norma aveva attraversato.

[25]G. DE FRANCESCO, Commento agli artt. 11-bis e 11-ter d.l. 306/92, in Leg. Pen. 1993, pp. 122-135; cfr. sul punto anche il poderoso contributo di C. VISCONTI, Il patto di scambio elettorale politico-mafioso, op. cit.

[26]C. VISCONTI, Il patto di scambio elettorale politico-mafioso, op. cit. pp. 273-275. Cfr. sul punto la più approfondita analisi del M. DONINI, Il diritto penale come etica pubblica, Mucchi editore, Modena, 2014.

[27]C. VISCONTI, Il patto di scambio elettorale politico-mafioso, op. cit., pp. 293-298, ove si evidenzia che con l'introduzione della novella del ‘92 sono stati rivisti anche i margini edittali di pena per il reato di corruzione elettorale e che, di contro, l'art. 417 c.p. (recante la misura di sicurezza per i condannati di reato associativo) non è stato rivisto dalla riforma de qua.

[28]C. VISCONTI, Il patto di scambio elettorale politico-mafioso, op. cit., pp. 306-310.

[29]In questi termini G. AMARELLI, La contiguità politico-mafiosa, op. cit., pp. 237-239.

[30]C. F. GROSSO, Accordo elettorale politico-mafioso e concorso esterno in associazione mafiosa, una configurazione possibile, in Foro It. 1996, pp. 121-125.

[31]G. FIANDACA, Una espansione incontrollata del concorso criminoso, in Foro It., 1996, pp. 127-129, ove si sostiene che «il soccorso repressivo prestato dalla categoria del concorso esterno comporterebbe infatti, come inevitabile costo, un aggiramento dei precisi confini entro i quali lo stesso legislatore ha considerato penalmente rilevante un accordo elettorale politico-mafioso (cioè voti/denaro ex art. 416 ter c.p.) con conseguente palese violazione del principio di stretta legalità».

[32]G. AMARELLI, La contiguità politico-mafiosa, op. cit., pp. 248-258, dove vediamo come «Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit». Già in altre norme codicistiche era previsto il duplice schema rivolto all’incriminazione tanto della dazione di denaro, quanto della sua promessa (è il caso dell'art. 319 c.p.).

[33]G. AMARELLI, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, in DPC 2/2014, pp. 4 ss.; cfr. F. RIPPA, La Cassazione scopre il vero volto del nuovo scambio elettorale politico-mafioso, in Cass. Pen. 4/2016, p. 1616. La legge veniva pubblicata nel mese di aprile e le imminenti scadenze elettorali previste per il successivo mese di maggio (elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo e di diversi enti locali) avevano indotto il legislatore a derogare alla vacatio legis, facendo entrare in vigore le nuove norme il giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta ufficiale. La scelta del legislatore aveva destato dubbi in dottrina con riguardo alla legittimità di una simile procedura, che si avvicinava molto alla decretazione d'urgenza e al contempo si allontanava dal rispetto dei canoni di conoscibilità dei precetti, direttamente connessi alla pretesa di obbligatorietà dei precetti penali.

[34]G. AMARELLI, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, op. cit., pp.10-11; cfr. G. FIANDACA, Scambio elettorale politico-mafioso: un reato dal destino legislativo e giurisprudenziale avverso?, in Foro It., 2015, pp. 522-527.

[35]G. AMARELLI, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, op. cit., p. 12.

[36]G. DE FRANCESCO, Il delitto di scambio politico-mafioso fra tradizione e innovazione, in Leg. Pen. 2014, pp. 219-232.

[37]G. AMARELLI, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, op. cit., p. 14.

[38]G. FIANDACA, Scambio elettorale politico-mafioso: un reato dal destino legislativo e giurisprudenziale avverso?, op.cit., pp. 528-529; cfr. sul punto B. ROSSI, Osservazioni a Cass. Pen., Sez. Sez. I, data udienza Ud. 10 maggio 2016, data deposito (dep. 31 agosto 2016), n. 36079, in Cass. Pen. 4/2017, p. 1504 e V. MAIELLO, Il nuovo art. 416-ter c.p. approda in Cassazione, in Giur. it., 2014, p. 2829.

[39]G. AMARELLI, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, op. cit., pp. 15-17.

[40]G. DE FRANCESCO, Il delitto di scambio politico-mafioso fra tradizione e innovazione, op. cit., p. 232.

[41]G. AMARELLI, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, op. cit., pp. 17-18.

[42]G. DE FRANCESCO, Il delitto di scambio politico-mafioso fra tradizione e innovazione, op. cit., p. 231.

[43]G. AMARELLI, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, op. cit., p. 19.

[44]G. DE FRANCESCO, Il delitto di scambio politico-mafioso fra tradizione e innovazione, op. cit., p. 227.

[45]G. AMARELLI, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, op. cit., p. 20; negli stessi termini G. DE FRANCESCO, Il delitto di scambio politico-mafioso fra tradizione e innovazione, op. cit., pp. 229-230.

[46]G. DE FRANCESCO, Il delitto di scambio politico-mafioso fra tradizione e innovazione, in Leg. Pen. 2014, op. cit., Ibid. p. 229.

[47]G. AMARELLI, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, op. cit., p. 21.

[48]G. AMARELLI, La riforma dello scambio elettorale, in DPC 4 giugno 2019.; G. AMARELLI, L’ennesima riforma dello scambio elettorale politico-mafioso tra molte ombre e nessuna luce, in Dir. pen. proc., 2019; A. CORVAGLIA, Il reato di scambio elettorale politico-mafioso nella legge n. 43 del 2019, in www.camminodiritto.it; F. PALUMBO, R. PETRELLI, Scambio elettorale politico–mafioso. Una prima lettura dell'art. 416-ter c.p. come modificato dalla legge 43/2019, in ilpenalista.it, 10 giugno 2019.

[49]G. AMARELLI, La riforma dello scambio elettorale, op.cit., p. 1; condividono tali perplessità F. PALUMBO, R. PETRELLI, Scambio elettorale politico–mafioso. Una prima lettura dell'art. 416-ter c.p. come modificato dalla legge 43/2019, op. cit., p. 5.

[50]In questo senso F. PALUMBO, R. PETRELLI, Scambio elettorale politico–mafioso. Una prima lettura dell'art. 416-ter c.p. come modificato dalla legge 43/2019, op. cit., p. 4.

[51]G. AMARELLI, La riforma dello scambio elettorale, op.cit., pp. 2-3.

[52]A. CORVAGLIA, Il reato di scambio elettorale politico-mafioso nella legge n. 43 del 2019, op. cit., pp. 8-9.

[53]G. AMARELLI, La riforma dello scambio elettorale, op. cit., pp. 4-5; nello stesso senso A. CORVAGLIA, Il reato di scambio elettorale politico-mafioso nella legge n. 43 del 2019, op. cit., pp. 11-12 e F. PALUMBO, R. PETRELLI, Scambio elettorale politico–mafioso. Una prima lettura dell'art. 416-ter c.p. come modificato dalla legge 43/2019, op. cit., p. 6 e G. DE VERO, L'ambigua connotazione nemicale della criminalità di stampo mafioso, in Riv. It. Dir. Proc. Pen, 2/2020, pp. 1032 ss.

[54]G. AMARELLI, La riforma dello scambio elettorale, op. cit., Ibid., p. 4.