Reato associativo mafioso: ammessa la continuazione con i reati scopo
Modifica paginaIl presente contributo analizza il dibattito giuridico, dottrinale e giurisprudenziale, che ha condotto alla recente pronuncia della Cassazione Penale n. 7452 del 2020 in materia di ammissibilità della continuazione verticale tra reato associativo di stampo mafioso e reati fine del sodalizio criminoso. Il commento dei principi di diritto elaborati ha presupposto la disamina degli istituti giuridici coinvolti per soffermarsi poi sul fondamento logico e giuridico della quaestio iuris di cui i giudici nomofilattici hanno delineato contorni e presupposti, pronunciandosi in senso favorevole alla formale ammissibilità della continuazione.
Sommario: 1. Introduzione; 2. La vicenda giudiziaria e i principi di diritto; 3. Il reato continuato e la nozione di “medesimo disegno criminoso”; 4. L’associazione di stampo mafioso ex art. 416 bis c.p.; 5. Il punctum pruriens della c.d. continuazione verticale: la differente nozione di “programma criminoso”; 5.1. Le posizioni della dottrina; 5.2. Gli orientamenti giurisprudenziali; 6. Il recente approdo della sentenza n. 7452/2020 Corte di cassazione, prima sezione penale; 7. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione
La recente sentenza della Corte di Cassazione, in commento, esaurisce la vexata quaestio in materia di applicabilità dell’istituto della continuazione dei reati, ex articolo 81, II comma, c.p., ai reati associativi e, più nello specifico, all’associazione di stampo mafioso disciplinata dall’articolo 416 bis c.p..
Gli ermellini si sono inseriti nel solco di quella non risalente giurisprudenza che ha ritenuto ammissibile la possibilità di avvincere in continuazione il reato associativo con i successivi reati scopo purchè il soggetto agente si rappresenti i singoli reati fine del reato associativo «nel medesimo contesto»[1] in cui lo stesso prende parte al sodalizio criminoso, interpretando rigorosamente la nozione di “medesimo disegno criminoso” di cui all’articolo 81, II comma, c.p., nonché stabilendo in maniera puntuale il quantum probatorio necessario, ovvero facendo riferimento a «dati significativi» e non ritenendo sufficiente il mero rapporto di strumentalità intercorrente tra reato associativo e reato fine.
L’annosa questione sorge poiché l’ordinamento giuridico italiano disciplina sia l’istituto della continuazione dei reati, quale deroga al concorso formale di reati e conseguente cumulo materiale dei trattamenti sanzionatori, sia le fattispecie associative, destinate all’aggravamento del trattamento sanzionatorio.
Il primo viene dal legislatore definito quale l’azione di chi “con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge", applicando, in tale ipotesi, la “pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo”.
Le seconde, invece, tipizzano quali penalmente rilevanti, sopra tutte e in primis, quelle condotte associative destinate alla realizzazione di un programma criminoso o alla commissione di più delitti, i cd. reati fine o reati scopo.
È evidente, come, la controversa conciliabilità dell’istituto del reato continuato con le fattispecie dei reati associativi abbia radici, innanzitutto, nelle differenti ratio che ad essi sono sottese.
Se, da un lato, la figura del reato continuato risponde alla finalità di attenuare il trattamento sanzionatorio di quel soggetto che pone in essere una pluralità di azioni penalmente rilevanti oggetto, però, di una sola deliberazione criminosa, valutando ciò alla stregua di un indice di minore gravità psicologico e di minore pericolosità sociale dello stesso[2], dall’altro le fattispecie di reato associativo aggravano la pena di colui che partecipa al sodalizio criminoso e ne realizza i reati oggetto del programma, valorizzando\attuando il legislatore una finalità meramente repressiva mediante la tipizzazione di ipotesi criminose a tutela anticipata[3].
Da tale premessa, è ben possibile comprendere che il punto di frizione fra le due discipline si realizza proprio nel tratto distintivo che le accomuna: la presenza di un programma criminoso.
Ora, è necessario premettere che tale punctum pruriens nella sentenza in commento viene in rilievo, nello specifico, non in riferimento alla deducibilità in continuazione dei singoli reati fine commessi dai partecipanti al sodalizio criminoso (c.d. continuazione orizzontale)[4], quanto piuttosto in relazione alla deducibilità in continuazione del reato associativo con i singoli reati scopo (c.d. continuazione verticale).
L’oggetto del presente elaborato è proprio quello di esaminare la nozione di “disegno criminoso” ex articolo 81, II comma, c.p. fornita dalla pronuncia in commento, nonché tratteggiare il rapporto tra il reato continuato e le fattispecie associative, nella specie quella di stampo mafioso ex art. 416 bis c.p., allo scopo di permettere un’analisi critica della recente sentenza della Corte di Cassazione.
A tal fine, a seguito dell’enuncleazione del caso di specie, non pare possibile prescindere da una breve trattazione anche degli istituti che vengono in rilievo in un’ottica di efficace commento alla pronuncia de quo.
2. La vicenda giudiziaria e i principi di diritto
Il caso di specie in oggetto origina da un’ordinanza della Corte di Appello di Bari, la quale, in qualità di giudice dell’esecuzione, aveva ritenuto avvinti dal vincolo della continuazione due condanne, per reati di estorsione continuata e aggravata commessi dall’inizio dell’anno 2013 al mese di ottobre 2014, e di partecipazione a sodalizio di stampo mafioso e ad associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, commessi dal 1.11.2007 fino all’attualità, rilevando che le condotte estorsive erano state finalizzate ad agevolare il sodalizio mafioso in quanto esse costituivano lo strumento per raccogliere denaro da destinare ai sodali.
Il Procuratore generale presentava ricorso per cassazione, denunciando i vizi di violazione di legge e di difetto di motivazione dal momento che l’ordinanza impugnata aveva, da un lato, escluso la qualificazione delle condotte estorsive quali reati fine del sodalizio criminoso e, dall’altro, ritenuto che le stesse erano state poste in essere con il cd. metodo mafioso ed erano finalizzate ad agevolare l’operatività dei clan, essendone il profitto destinato alle famiglie degli associati detenuti.
La difesa dell’imputato presentava a sua volta ricorso, facendo valere la violazione di legge nella determinazione del quantum della pena applicata per il reato base di estorsione, rispetto al quale non risulterebbe applicata la diminuzione di pena per il rito abbreviato, nonché chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso del Procuratore generale, evidenziando che l’imputato era stato ritenuto il mandante delle condotte estorsive e beneficiario, in quanto all’epoca detenuto, del profitto del reato. Dalla stessa difesa era stato prospettata anche l’utilizzabilità ex art. 238 bis c.p.p. di altro provvedimento che aveva riconosciuto la continuazione a favore di un soggetto co-imputato
La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso del Procuratore generale e ha annullato con rinvio l’ordinanza della Corte di Appello di Bari, stabilendo i seguenti principi di diritto, oggetto di commento:
«La nozione di medesimo disegno criminoso, di cui all’art. 81 c.p., comma 2, presuppone che il soggetto si sia, nel medesimo contesto, rappresentato, almeno nelle loro linee essenziali, la commissione di una pluralità di fatti - reato, e quindi va distinta da una generica ed astratta deliberazione criminosa, priva di riferimento a specifici dati fattuali concernenti l’oggettività del reato»;
«Nel caso di commissione di reati aggravati ai sensi dell’art. 416 - bis c.p., comma 1, il mero dato della strumentalità del reato rispetto al delitto associativo non è sufficiente a giustificare la sussistenza di un comune disegno criminoso, ravvisabile solo ove, con riferimento all’epoca di iniziale consumazione del delitto associativo, emergano dati significativi di una contestuale rappresentazione, nelle linee essenziali, dell’ulteriore reato».
3. Il reato continuato e la nozione di medesimo disegno criminoso
L’istituto del reato continuato o, ancor meglio, della continuazione di reati è disciplinato dall’articolo 81, II comma, c.p. e consiste in una deroga al concorso materiale di reati motivato dalla necessità di mitigarne la severità del trattamento sanzionatorio quando le azioni criminose, consistenti in violazioni di una (medesima o differente[5]) disposizione di legge, sono realizzate in esecuzione di un medesimo disegno criminoso e, quindi, quando il soggetto agente «cede ai motivi del delinquere una sola volta»[6], generando, così, un giudizio di minore riprovevolezza consistendo in un unico atteggiamento antidoveroso iniziale.
Orbene, stanti gli altri elementi costitutivi del reato continuato (da identificare in 1 - pluralità di azioni od omissioni; 2 - più violazioni di legge), è evidente che il centro della figura è il “medesimo disegno criminoso” del quale i singoli reati rappresentano l’esecuzione.
Tale concetto è stato oggetto di differenti interpretazioni dottrinali e, nello specifico, si contrappongono tre orientamenti[7].
Un primo, c.d. intellettivo, ritiene che esso si sostanzi in una mera rappresentazione mentale unitaria e anticipata delle singole condotte criminose; in tal senso, sarebbe necessario un programma delittuoso iniziale delineante i diversi reati nei loro elementi essenziali e ciò con tutte le difficoltà di accertamento probatorio che ne conseguono[8].
Un secondo, c.d. volitivo, secondo cui non è sufficiente la mera rappresentazione unitaria, ma essa deve essere contestuale alla deliberazione criminosa, ovvero deve esservi anche il volgere della volontà alla realizzazione di tale programma rappresentatosi[9].
Un terzo, c.d. teleologico, maggioritario e preferibile, ritiene necessario, oltre al momento rappresentativo unitario, anche un elemento finalistico, ovvero l’unicità dello scopo; lo scopo delle condotte criminose deve essere unico e unitario e ciò sarebbe l’elemento qualificante la medesimezza del disegno criminoso[10]. La continuazione, dunque, ricorrerebbe soltanto fra reati funzionalmente interdipendenti orientati alla realizzazione dello scopo.
Quest’ultima tesi è stata sposata dalla giurisprudenza più recente, in primis dalla Corte Costituzionale[11] secondo cui «La verifica della sussistenza di un medesimo disegno criminoso – l’accertamento, cioè, che l’interessato, prima di dare inizio alla serie criminosa, abbia avuto una rappresentazione, almeno sommaria, dei reati che si accingeva a commettere e che detti reati siano stati ispirati ad una finalità unitaria – implica, in effetti, valutazioni tecnico-giuridiche attinenti al fatto, tanto sul piano teorico che su quello operativo, avuto riguardo al materiale probatorio da scrutinare»[12].
In secundis la stessa è stata seguita dalla Giurisprudenza di legittimità; infatti, da ultimo, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 749 del 2018, ha affermato che l’agente deve essersi previamente rappresentato e deve aver unitariamente deliberto una serie di condotte criminose volte alla realizzazione di un unico scopo; l’accertamento della sussistenza di tale identità deve avvenire sulla base della presenza di elementi significativi (c.d. indicatori), quali, a titolo esemplificativo e non esaustivo, la distanza cronologica tra i fatti, le modalità della condotta, la tipologia dei reati, il bene tutelato, la causale, le condizioni di tempo e di luogo[13].
Alla luce di tali considerazioni risulta anche evidente come, essendo necessaria una netta deliberazione criminosa, possano essere dedotti in continuazione reati sorretti dal dolo quale elemento soggettivo, ritenendo la giurisprudenza da escluderne l’applicazione anche in presenza di dolo d’impeto o di occasionalità della condotta[14].
Stante, quindi, la necessaria rappresentazione ex ante del disegno criminoso finalisticamente orientato, così come definito, quid sul grado di dettaglio e di precisione di esso?
La sentenza in commento delinea i confini e gli estremi del disegno criminoso, per poi giungere alla affermazione secondo la quale il soggetto deve essersi rappresentato “almeno nelle linee essenziali” la commissione di una pluralità di fatti.
Da un lato, dunque, specifica che il definito disegno criminoso non è integrato né da un generico programma di attività delinquenziale, né da un semplice impulso a delinquere (quale potrebbe essere la necessità di procurarsi mezzi di sussistenza o lo stato di tossicodipendenza del soggetto agente), né tantomeno in presenza di una scelta di vita fondata sul delitto, non dirimente è infatti la sola caratteristica del soggetto dell’essere avvezzo al delinquere, essendo tale peculiarità rilevante ai fini degli articoli 102-108 c.p..
Dall’altro lato, osserva che la nozione di continuazione non può nemmeno delimitare la sua applicazione alle ipotesi in cui il soggetto abbia specificamente progettato e previsto tutti i singoli reati e ciò è sostenuto anche dal Collegio sulla base di tre elementi.
In primo luogo, il dato letterale della disposizione normativa, dal momento che lo stesso articolo 81, II comma, c.p. parla soltanto di “disegno” criminoso.
In secondo luogo, tale interpretazione non parrebbe conforme alla ratio della figura del reato continuato sull’assunto che un giudizio di colpevolezza attenuato non richiede un grado elevato di determinazione, ma soltanto tale da mitigare il giudizio di antidoverosità.
In terzo luogo, assume la Corte che un siffatto grado di precisione risulterebbe meramente astratto e difficilmente ricorrente nella realtà dei fatti, poiché non considererebbe la variabilità delle situazioni e la loro prevedibilità solamente in via di approssimazione.
Ecco, quindi, che la pronuncia in oggetto con l’elaborazione del primo principio di diritto[15] si inserisce nel solco della giurisprudenza costante, precisando che, ai fini del riconoscimento dell’istituto della continuazione fra reati, è necessario che il soggetto si sia rappresentato almeno in maniera sommaria o nelle linee essenziali il fatto – reato oggetto di deliberazione e successiva realizzazione, non essendo, però, sufficiente la rappresentazione di un’astratta categoria di reati.
Alla luce di ciò, la Corte introduce un elemento rilevante ai fini dell’onus probandi, ovvero che la deliberazione criminosa avvenga con riferimento a dati fattuali concernenti l’oggettività del reato, da accertare sulla base di elementi rilevanti, con apprezzamento sia analitico che complessivo e unitario, secondo le regole della prova indiziaria.
4. L’associazione di stampo mafioso ex art. 416 bis c.p.
I reati associativi, definiti alla stregua di “associazioni per delinquere”, sono, nel nostro ordinamento, tipizzati dagli articoli 416 e 416 bis c.p. e mirano a reprimere i fenomeni inerenti alla criminalità organizzata, intesa quale attività illecita programmata e plurisoggettiva caratterizzata da «una suddivisione di compiti al fine di collaborare al raggiungimento di un medesimo obiettivo antigiuridico»[16].
Infatti, le citate condotte si sostanziano in un accordo fra più persone destinato alla commissione di reati o anche, in caso di associazioni di stampo mafioso, alla realizzazione di attività lecite mediante modalità illecite, accordo che deve essere tale da dar vita ad una nuova entità dotata di una forza che trascende le singole persone che la compongono e in grado di operare anche se alcuni soggetti cambiano nel tempo o mutano di ruolo[17]. Alla luce di tale considerazione, i reati associativi si caratterizzano, quindi, in genere quali fattispecie plurisoggettive a concorso necessario i cui sodali diventano parti di un tutto e la cui azione è orientata alla realizzazione di un generico programma criminoso.
Ora, il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso ex articolo 416 bis c.p., di cui la sentenza in commento tratta, è stato previsto nell’ordinamento giuridico italiano con la legge n. 646/1982 con l’intento sia di evidenziare il particolare disvalore della fenomenologia mafiosa sia di fronteggiare obiettivi di politica criminale, ovvero per porre rimedio alla inadeguatezza della tradizionale associazione per delinquere a reprimere la criminalità mafiosa.
La disposizione così come tipizzata nel 1982 fornisce una nozione di associazione mafiosa elaborata sulla scorta delle massime giurisprudenziali in materia di applicazione dell’articolo 416 c.p. a tali dimensioni fattuali e il fulcro di incriminazione è da rinvenire nel metodo utilizzato dai sodali.
Come infatti notato da attenta dottrina, la principale differenza tra l’associazione a delinquere comune e quella di stampo mafioso risiede nelle modalità attraverso le quali l’associazione stessa si manifesta concretamente, ovvero i sodali conseguono il fine prefissato attraverso quella forza intimidatrice capace di generare una situazione di omertà nei terzi, omertà che, ad onor del vero, puo’ sorgere anche dalla mera conoscenza della pericolosità del sodalizio[18]. Tale circostanza determina un ampliamento della sfera del penalmente rilevante, dal momento che rende ipso iure illecite anche condotte astrattamente lecite qualora esse siano poste in essere con tali modalità.
È, quindi, necessario, ai fini della qualificazione di una condotta criminosa alla stregua dell’articolo 416 bis c.p., un quid pluris rispetto alla organizzazione plurisoggettiva e al programma criminoso, sufficienti per il reato associativo disciplinato dall’articolo 416 c.p., il che fa sorgere un rapporto di genus a species fra le due fattispecie.
Infatti, l’articolo 416 bis c.p. si configura anch’esso quale una fattispecie plurisoggettiva a concorso necessario i cui sodali perseguono un programma comune, caratterizzata dal quid pluris delle modalità d’azione tipizzate; si parla, in tal senso, di reato a struttura mista[19].
L’elemento costitutivo della plurisoggettività ed il suo atteggiarsi in concreto non crea problematiche particolari, dal momento che giurisprudenza e dottrina sono concordi nel ritenere che per la sussistenza di un’“associazione” non sia necessaria una elaborata organizzazione di mezzi, quanto piuttosto un accordo associativo dotato dei caratteri di stabilità e permanenza che abbia conseguito nell’ambiente in cui opera un’effettiva capacità di intimidazione[20].
Mutando prospettiva, e, dunque, valutando i requisiti che devono essere integrati perché il soggetto venga ritenuto partecipe del sodalizio criminoso, la giurisprudenza ha qualificato come presupposti necessari l’adesione del soggetto ai vincoli e agli scopi derivanti dall’associazione, il contributo stabile al mantenimento in vita dell’associazione, il riconoscimento da parte degli altri componenti che il soggetto fornisca effettivamente un contributo stabile per la sussistenza in vita dell’associazione[21].
Per ciò che concerne il programma delinquenziale, la definizione evoca una nozione indeterminata dello stesso, ovvero non sembra essere necessaria una programmazione specifica ed aprioristica di ogni singolo delitto da commettere. L’articolo 416 bis, III comma, c.p. cita fra le finalità, infatti, il generico “commettere delitti”, analogamente all’articolo precedente.
In tal senso, una definizione più pregnante del concetto è desumibile a contrario da quella giurisprudenza che delinea la linea di discrimine fra reati associativi a concorso necessario e concorso di persone ex art. 110 c.p. in ipotesi di concorso di reati.
La più recente pronuncia[22] individua quale elemento distintivo tra il delitto di associazione per delinquere (in essa ricomprendendo anche quella di stampo mafioso) e il concorso di persone nella commissione di più reati, il carattere dell’accordo criminoso. Esso, infatti, nel concorso si concretizza in un accordo meramente occasionale e accidentale (salvo poi l’unificazione a titolo di reato continuato qualora posto in essere con univocità di fine[23]) accordo che si esaurisce con la realizzazione dei reati, mentre nel reato associativo risulta diretto all’attuazione di un più vasto programma criminoso per la commissione di una serie indeterminata di delitti[24], sempre permanendo il vincolo associativo tra i partecipanti, anche indipendentemente e al di fuori dell’effettiva commissione di essi[25]. Ad ulteriore conferma di tale ultimo assunto, vi è da notare che il reato associativo mafioso si consuma nel momento in cui il soggetto prende parte al sodalizio criminoso, senza che sia necessario il compimento di alcun atto esecutivo della condotta programmata[26], e, dunque, l’associato è punito a titolo di 416 bis c.p. a prescindere dalla realizzazione di reati scopo.
Quanto all’aspetto probatorio, il giudice può legittimamente dedurre i caratteri della stabilità del vincolo associativo, nonchè dell’indeterminatezza del programma criminoso, dal susseguirsi ininterrotto, per un apprezzabile lasso di tempo, delle condotte integranti detti reati a opera di soggetti stabilmente collegati[27].
Allo stesso modo, la sentenza in commento al par. 2.3 ribadisce tale principio e aggiunge un ulteriore linea di confine in materia di concorso in ciascun singolo reato « […] la fattispecie associativa richiede l’elemento del fine di commettere più delitti, ed è stato precisato che si deve trattare di un programma criminoso indeterminato, mentre l’accordo per compiere una serie determinata di specifici delitti integra condotta di concorso morale in ciascun reato».
5. Il punctum pruriens della c.d. continuazione verticale: la differente nozione di “programma criminoso”
La quaestio iuris, che viene in rilievo in relazione alla sentenza in commento (oltre al primo principio di diritto già esaminato), inerisce alla ammissibilità della continuazione tra il reato associativo di stampo mafioso e i singoli delitti scopo attuativi del programma criminoso, ovvero alla c.d. continuazione verticale.
Alla luce delle considerazioni svolte, è evidente come il punctum pruriens sia, principalmente e oltre la differente ratio delle due disposizioni, la (in)determinatezza del programma criminoso: il reato continuato richiede un programma criminoso unitario e determinato allo scopo di fondare un giudizio di minore rimproverabilità sociale, di contro, invece, il reato associativo non necessita per la sua sussistenza di un programma criminoso dettagliato.
La dottrina e la giurisprudenza sono state partecipi di un annoso dibattito in materia con soluzioni di esito differente e contrastante, per giungere ad oggi all’accoglimento costante della teoria favorevole all’ammissione della continuazione tra articolo 416 bis c.p. e reati scopo.
A tal fine, appare opportuno ripercorrere brevemente le tappe che hanno condotto alla recente pronuncia in commento.
5.1. Le posizioni della dottrina
In dottrina, si sono contrapposti due orientamenti; l’uno favorevole all’ammissibilità della continuazione verticale e l’uno contrario.
Il dibattito inizialmente traeva le proprie premesse dalle diverse finalità cui le due figure normative rispondono: il reato associativo ad una ratio accentuatamente repressiva e il reato continuato ad una riduzione del carico sanzionatorio.
Una prima tesi ne trae quale conseguenza l’inapplicabilità della figura del reato continuato alle fattispecie associative sulla base della considerazione che il reato associativo diverrebbe funzione dei reati fine creando una relazione inversamente proporzionale alla gravità dei delitti commessi; più semplicemente, il reato associativo, nel giudizio di gravità attuato in sede di applicazione dell’articolo 81, II comma, c.p., finirebbe per essere considerato alla stregua di un mero aumento, poiché, qualora concorresse con reati più gravi, inciderebbe in misura minore rimanendone quasi assorbito[28].
L’argomentazione non pare convincere, dal momento che questo è il risultato comune dell’applicazione del reato continuato a fattispecie eterogenee e diverse fra loro; si sostanzia sempre, infatti, in una riduzione del trattamento sanzionatorio e in una differente valutazione di gravità basata sulla cornice edittale e non sull’allarme sociale che da ciascuna condotta delittuosa deriva.
Una seconda tesi, invece, muove le proprie considerazioni dall’assunto che la necessarietà di un programma criminoso quantomeno indeterminato ex articolo 416 e 416 bis c.p. non escluda aprioristicamente la possibilità che anche l’associazione a delinquere si sia formata con un programma delinquenziale preciso secondo i criteri ex articolo 81, II comma, c.p. e ritiene quindi che la valutazione circa la effettiva compatibilità fra i due istituti debba essere affrontata in concreto, non rinvenendo spazio per affermazioni aprioristiche e avulse dal contesto fattuale in cui le condotte criminose sono state poste in essere: una mera quaestio facti[29] in virtù dell’applicazione tecnica e puntuale del dettato normativo.
Un orientamento minoritario interno sostiene, poi, che «i casi di effettiva rispondenza tra un piano ab initio concepito e le realizzazioni esteriori sono rarissimi e di difficile accertamento. Sicché nella pratica del diritto il piano criminoso originario viene senz’altro presunto sulla base di una connessione obiettiva delle condotte»[30].
5.2. Gli orientamenti giurisprudenziali
Le posizioni della giurisprudenza sono mutate nel tempo; inizialmente, l’orientamento più risalente sposava la teoria della non ammissibilità dell’applicazione della continuazione a reato associativo e reati fine, successivamente, invece, le argomentazioni più recenti sono nel senso di una possibile configurabilità sebbene con delle limitazioni, come enunciato anche dalla sentenza in commento.
La Giurisprudenza di legittimità aveva, infatti, escluso la possibilità della continuazione verticale ritenendo che i reati fine fossero del tutto autonomi rispetto al reato associativo, anche a livello sanzionatorio, e che l’applicazione della continuazione avrebbe condotto a ridurre la sanzione per il delitto di associazione a mero fattore accessorio di aumento della pena base prevista per il reato più grave[31].
A seguito dell’affermazione di tale principio di diritto, nel 1987 gli ermellini hanno mutato significativamente orientamento ritenendo che l’unificazione per continuazione del reato associativo con i reati fine possa sussistere quando la «partecipazione alla societas sceleris e la perpetrazione dei delitti programmati siano ricompresi fin dall’inizio all’interno di un unico progetto criminoso e che la determinazione sia riportabile, in concreto, all’attività dell’associazione criminosa»[32].
Il contrasto è culminato, se così si può dire, in due sentenze di legittimità del 1997 ad opera della medesima sezione della Corte di Cassazione: l’una ammette la possibilità della continuazione verticale, l’altra la esclude.
La prima, la sentenza n. 1474 del 1997[33], chiarisce che il problema della configurabilità della continuazione fra reato associativo e delitti scopo non debba essere impostato in termini di compatibilità strutturale, poiché nulla si oppone alla circostanza per cui, sin dal principio, nel programma criminoso dell’associazione, si concepiscano reati fine determinati nelle loro linee essenziali, così che vi si possa ravvisare un’identità di disegno criminoso ex articolo 81, II comma, c.p.. Tale programmazione deve essere accertata, secondo il Collegio, di volta in volta secondo il prudente apprezzamento del giudice di merito e in relazione al contesto fattuale di riferimento e non deve essere ritenuta aprioristicamente presente o assente.
La seconda[34], al contrario, sostiene che non sia possibile ammettere la continuazione verticale poiché, mentre l’associazione per delinquere, anche di stampo mafioso, ha ad oggetto un programma delinquenziale generico e programmatico per una serie indeterminata di delitti, il reato continuato è contraddistinto da un accordo criminoso che viene sin dall’inizio ideato e rappresentato, almeno nei suoi aspetti fondanti.
Orbene, è in tempi più recenti che sembra essersi formato un orientamento costante della giurisprudenza di legittimità a favore dell’ammissibilità in astratto della continuazione verticale, da accertare in concreto.
In primis, è da considerare degna di nota la sentenza n. 24750 del 2007[35] nella quale si legge «Va preliminarmente ribadita l'ormai consolidata giurisprudenza secondo cui la continuazione presuppone l'anticipata ed unitaria ideazione di più violazioni della legge penale, già insieme presenti alla mente del reo nella loro specificità, almeno a grandi linee, situazione ben diversa da una mera inclinazione a reiterare violazioni della stessa specie, anche se dovuta ad un bisogno persistente nel tempo, ad una scelta di vita o ad un programma generico di attività delittuosa da sviluppare in futuro secondo contingenti opportunità, qual è quello che generalmente connota le associazioni per delinquere. Pertanto, la continuazione fra il reato associativo e quelli che vengono posti in essere in attuazione delle finalità perseguite dall'organizzazione criminale è ravvisabile solo quando risulti che l'autore abbia già previsto in origine, al momento della sua adesione al sodalizio, l'iter criminoso da percorrere ed i singoli delitti attraverso i quali si snoda; ne consegue che la partecipazione ad un'associazione per delinquere non può costituire, di per sè sola, prova dell'identità di disegno criminoso fra i reati commessi per il perseguimento degli scopi dell'associazione».
Tale principio è stato, poi, ulteriormente specificato da Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 54509/2018, secondo la quale tale continuazione astrattamente configurabile non è in concreto ravvisabile nei confronti di quei reati fine che, pur essendo destinati all’attuazione del programma associativo e al rafforzamento del sodalizio, non erano programmabili ab origine perché legati a circostanze ed eventi contingenti e occasionali, non immaginabili al momento iniziale dell’associazione.
6. Il recente approdo della sentenza n. 7452/2020 Corte di Cassazione, prima sezione penale
Riassumendo, quindi, sembra che la vexata quaestio abbia avuto origine poiché i due istituti venivano considerati incompatibili sia ontologicamente (l’uno aggrava, l’altro attenua il trattamento sanzionatorio), sia strutturalmente in virtù , prima, della differente ratio delle normative e, poi, della enozione di programma criminoso, in questo ultimo modo operando, però, una sovrapposizione fra due livelli valutativi differenti.
Nello specifico, il dibattito può essere riassunto in questi termini: si riteneva che la presenza di un programma delinquenziale indeterminato e generico fosse elemento costitutivo di un’associazione a delinquere, anche di stampo mafioso, e che, a contrario, ciò escludesse la possibilità dell’ammissibilità della continuazione. Viceversa, un programma criminoso determinato necessario ai sensi dell’articolo 81, II comma, c.p. non poteva far sorgere la responsabilità ex articolo 416 e 416 bis c.p. poiché la fattispecie richiedeva quale elemento costitutivo una serie indeterminata di delitti.
A ben vedere, tale teoria opera una commistione fra due differenti livelli di tipicità: l’uno inerente alla sussumibilità di una condotta nella fattispecie associativa e l’altro rilevante ai fini di un giudizio complessivo inerente al reato associativo - reati fine, giudizio che, anche processualmente, avviene all’esito della valutazione circa la sussistenza o meno di tali condotte nel caso concreto.
È evidente, però, che tale esame deve essere condotto secondo i criteri e gli elementi tipici della continuazione dei reati, il cui riconoscimento necessita, affinché il reato associativo e il reato fine possano essere ritenuti avvinti da tale vincolo, di un’ideazione contestuale ed unitaria degli stessi.
Pare, quindi, allo scrivente che il giudizio debba spostarsi, se possibile, ad un momento precedente dal punto di vista fattuale a quello della ideazione e commissione non solo dei reati scopo, ma anche del reato associativo, dato che quest’ultimo si configura alla stregua di un reato permanente e come tale già perfetto e consumato con il primo realizzarsi degli elementi costitutivi.
In tal senso, nella sentenza in commento si legge testualmente «il giudizio sulla continuazione va rapportato al momento deliberativo del primo reato, che, nel caso di reato associativo, coincide con il momento in cui il soggetto inizia a partecipare al sodalizio, mentre la successiva condotta partecipativa, che si protrae nel tempo trattandosi di fattispecie di reato permanente, riguarda ancora la consumazione del reato, ma non il momento deliberativo[36]».
Dunque, fatte queste premesse, il Collegio afferma, con il secondo principio di diritto[37], che la continuazione verticale deve essere ritenuta sussistente solo quando si accerti che, nel momento della condivisione da parte del partecipe del generale programma criminoso del sodalizio (momento di consumazione del reato associativo), sia precisato e noto al partecipe non un programma criminoso indeterminato, ma anche la futura commissione di reati determinati in relazione ad uno specifico dato fattuale idoneo a caratterizzare l’oggettività del fatto.
Inserendosi, quindi, nel solco delle linee già tracciate dalla precedente giurisprudenza, la sentenza si dichiara favorevole alla ammissibilità del giudizio di continuazione fra reato associativo, nello specifico associazione a delinquere di stampo mafioso, e reato fine. La motivazione aggiunge, però, un elemento ulteriore dal momento che non solo stabilisce che la valutazione circa la determinatezza dei singoli reati scopo debba essere effettuata ex ante e ab origine, ma anche che essa debba essere effettuata avendo riguardo di “specifici dati fattuali idonei a caratterizzare l’oggettività del fatto”, con ciò aggravando l’onus probandi.
In linea con tale affermazione, il Collegio precisa che non può ritenersi tale la mera qualità di reato fine dell’associazione ovvero la strumentalità del reato fine all’operare dell’associazione criminale, poiché tale circostanza può solo consentire di ritenere sussistente il reato associativo, dal momento che il legame strumentale permette di dedurre che al momento dell’adesione al sodalizio il soggetto abbia previsto la commissione di ulteriori reati, ma niente dice in relazione alla rappresentazione specifica di essi.
Dunque, il giudizio di continuazione, che richiede la determinatezza del progetto criminoso, non può ritenersi sussistente per il fatto solo che il soggetto agente, aderendo al sodalizio criminoso, si sia rappresentato e abbia voluto la commissione di alcuni reati, ma deve, specificamente, essersi raffigurato, nel momento di consumazione del reato associativo, quei reati successivamente commessi e tale dato deve essere accertato in relazione ad elementi concreti e fattuali.
7. Considerazioni conclusive
In conclusione, la continuazione fra reato associativo e reato fine è configurabile solo nel caso in cui reato associativo e reati fine siano stati oggetto di una deliberazione coeva. Tale impostazione formalistica porta, invero, ad una prettamente formale ammissibilità della continuazione verticale, dal momento che un eventuale lasso di tempo intercorrente tra costituzione dell’associazione e momento consumativo del reato fine potrebbe escludere l’applicazione dell’articolo 81, II comma, c.p.. È ben possibile, però, che, nella pratica, i reati scopo vengano delineati in un momento successivo alla deliberazione di partecipazione all’associazione e, dunque, per ciò solo essi sarebbero, alla luce della sentenza in commento, non avvinti dal vincolo della continuazione[38].
Il Supremo Collegio, quindi, delineando i contorni e i presupposti della continuazione verticale sembra porsi in un’ottica di compromesso fra le differenti ratio che sono a fondamento dei due istituti: l’esigenza repressiva dell’articolo 416 bis c.p. può parzialmente soccombere al favor rei solo nel caso in cui i reati fine di cui trattasi siano stati deliberati nelle loro linee essenziali e sulla base di dati fattuali specifici non estrinsecantisi solo nel mero vincolo di strumentalità, contestualmente alla condotta associativa.
L’esito interpretativo cui sono pervenuti gli ermellini evidenzia ulteriormente l’impossibilità di fornire una soluzione generale alla quaestio iuris in commento, confermando la necessità di valutare caso per caso se la continuazione verticale possa essere riconosciuta e se i programmi delinquenziali di volta in volta adottati siano fra loro compatibili a tal fine.
[1] Cass. pen., Sez. I, sent. n. 7452/2020.
[2] F. MANTOVANI, Diritto Penale, Vicenza, 2017, 495.
[3] Relazione del senatore Leone al d.d.l. approvato dal senato il 2 Luglio 1971, in Riv.it.dir.proc.pen., 1971, 863 e ss.
[4] L’ammissibilità di tale continuazione appare oggi essere pacifica, si veda, in tal senso e ex multis, Cass. pen., Sez. I, sent. n. 4119/2019.
[5] In tal senso, si distingue il reato continuato c.d. omogeneo, quando le singole condotte criminose violano la medesima disposizione di legge, e reato continuato c.d. eterogeneo, quando le azioni delittuose violano differenti disposizioni normative; si veda funditus F. MANTOVANI, Diritto Penale, Vicenza, 2017, 489-490.
[6] G. MARINUCCI, E. DOLCINI, G.L. GATTA, Manuale di diritto penale – parte generale, Milano, 2019, 589.
[7] Prima della riforma del 1974, che ha disciplinato il reato continuato nella odierna formulazione, vi era anche un quarto orientamento, cd. cronologico, il quale riteneva necessaria anche un’unicità temporale della commissione delle varie azioni criminose. Il codice vigente, inserendo l’inciso “anche in tempi diversi”, sembra rigettare tale interpretazione, sebbene, in verità, la continuità (se non unità) temporale debba ritenersi comunque un limite ontologico e logico del medesimo disegno criminoso; si v. F. MANTOVANI, Diritto Penale, Vicenza, 2017, 485.
[8] F. COPPI, Reato continuato, in Dig. d. pen., 1996, vol. XI, 227.
[9] G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2019, 670 e ss.
[10] F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2003, 516 e ss.
[11] Corte cost., sent. n. 183/2013.
[12] Corte cost., sent. n. 183/2013, par. 6.
[13] Cfr. Cass. pen., Sez. I, sent. n. 15955/2016; Cass. pen., Sez. I, sent. n. 11564/2012.
[14] Cfr. Cass. pen., Sez. I, sent. n. 35639/2013; Cass. pen., Sez. I, sent. n. 896/2916.
[15] v. supra par. 2.
[16] D. MANZIONE, Una normativa di emergenza per la lotta alla criminalità organizzata e in trasparenza e il buon andamento dell’attività amministrativa (d.l. n. 152 del 1991 e l. n. 203 del 1991): uno sguardo d’insieme, in Leg. Pen., 1992, 852.
[17]G. TONA, I reati associativi e di contiguità, in “Trattato di diritto penale - Parte speciale”, vol. III, a cura di Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa, Milano, 2008, 1068.
[18] R. GIOVAGNOLI, Manuale di diritto penale- parte speciali, Torino, 2019, 217; ex multis e in primis Cass. pen., sent. n. 38412/2003 secondo cui, essendo l’associazione di stampo mafiosa un reato di pericolo, è da ritenersi sufficiente per l’integrazione della fattispecie che il gruppo criminale sia potenzialmente capace di esercitare intimidazione, non essendo necessario il compimento di atti specifici in tal senso.
[19] G. SPAGNOLO, Dai reati meramente associativi ai reati a struttura mista, in Beni e tecniche della tutela penale, Milano, 1987, 156.
[20] Si veda G. TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, cit., 126 e 148, ove in tema di forza intimidatrice parla di «una capacità ricollegabile alla “pubblica memoria” della sua pregressa attività sopraffattrice, e quindi ad una geniale percezione della sua terribile efficienza nell’esercizio della coercizione fisica, o comunque della sua consolidata consuetudine di violenza e prevaricazione».
[21] Cfr. Cass. pen., Sez. I, sent. n. 11346/2019.
[22] Cass. pen., Sez. III, sent. n. 11570/2020.
[23] supra
[24] Si veda Cass. pen., Sez. V, sent. n. 41720/2019; Cass. pen., Sez. II, sent. n. 44854/2019.
[25] Cfr. Cass. pen., Sez. III, sent. n. 1964/2019.
[26] Sulle teorie in materia di condotta di partecipazione all’associazione, si veda funditus [26] R. GIOVAGNOLI, Manuale di diritto penale- parte speciali, Torino, 2019, 231; I. MERENDA, C. VISCONTI, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’art. 416 bis tra teoria e diritto vivente, in www.penalecontemporaneo.it; nonché Cass. Pen. Sez. I, sent. n. 19778/2015.
[27] Cfr. Cass. pen., Sez. II, sent. n. 44854/2019.
[28] S. DEL CORSO, I nebulosi confini tra l’associazione per delinquere e concorso di persone nel reato continuato, in Cass. Pen. 1985, 625.
[29] G. SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1993, 154.
[30] G. INSOLERA, L’associazione per delinquere, Padova, 1983, 114.
[31] Cass. pen., Sez. V, 24.9.1985, in Cass. pen. 1986, 879.
[32] Cass. pen., Sez. I, 3.12.1987, in Cass. Pen. 1989; in tal senso anche Cass. pen., Sez. I, 19.2.1987, in Cass. Pen. 1988.
[33] Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 1474/1997.
[34] Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 3650/1997.
[35] Cass. pen., Sez. I, sent. n. 24750/2007; in tal senso anche Cass. pen., Sez. II, sent. n. 41727/2014.
[36] par. 2.3.
[37] Si ripete: «Nel caso di commissione di reati aggravati ai sensi dell’art. 416 - bis c.p., comma 1, il mero dato della strumentalità del reato rispetto al delitto associativo non è sufficiente a giustificare la sussistenza di un comune disegno criminoso, ravvisabile solo ove, con riferimento all’epoca di iniziale consumazione del delitto associativo, emergano dati significativi di una contestuale rappresentazione, nelle linee essenziali, dell’ulteriore reato».
[38] Si veda in tal senso A. DE FRANCESCO, Non sussiste continuazione, se i reati “fine”non sono stati “disegnati” al momento della costituzione del sodalizio, in Diritto&Giustizia, fasc. 41, 2020, 12, secondo cui «Un atteggiamento formalistico ed estremamente rigoroso, peraltro, porterebbe all'assurda conclusione che reati 'fine' di recente compiuti non avrebbero, laddove non vi sia stata alcuna contestazione specifica sul punto, collegamento con l'associazione, il che a rigor di logica dovrebbe portare all'assurda conseguenza che vi sarebbe solo 'mera' partecipazione non attiva all'associazione e che pertanto i reati commessi, essendo assai risalente nel tempo la data di ingresso nell'associazione, non potrebbero essere considerati come espressione attuale della partecipazione al consorzio criminale».