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Pubbl. Mer, 26 Ago 2015

I diritti della donna nella storia italiana

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Alessandra Parrilli


Il raggiungimento dell’equità formale tra uomo e donna sembra raggiunto. Quanto dovremo aspettare invece per l’uguaglianza sostanziale tra i generi? Ripercorriamo il tragitto compiuto dalle donne per l’affermazione della propria dignità giuridica.


Sommario: 1. I diritti delle donne nella storia; 2. I diritti delle donne fino al XIX secolo; 3. I diritti delle donne a partire dal XX secolo.

I diritti delle donne nella storia

L’art. 3 della Costituzione Italiana stabilisce che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociali e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.». Il principio di uguaglianza e di parità giuridica, su cui si basa la gran parte degli ordinamenti giuridici contemporanei, è stato riconosciuto solo in tempi recenti dopo secoli di battaglie contro le discriminazioni nei confronti delle donne e delle minoranze etniche e religiose.

Il presente articolo descrive l’evoluzione della condizione e del ruolo della donna nella società in diverse fasi storiche, mostrando le conquiste principali ottenute dalle donne nel corso dei secoli, con particolare riferimento al diritto allo studio e al diritto di voto, tendendo a giungere al riconoscimento degli stessi diritti  riconosciuti al genere maschile.

I diritti delle donne fino al XIX secolo

Il diritto allo studio è uno dei diritti fondamentali della persona, riconosciuto dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo del 1948. Tuttavia, quello che oggi viene considerato un diritto inalienabile, tutelato dalle leggi di tutti i paesi civili, fino a qualche secolo fa era un privilegio del solo genere maschile. Fino al XVIII secolo sono pochissime le donne a cui era consentito ottenere un grado di istruzione superiore e portare a termini gli studi universitari.

Il motivo alla base di tale diseguaglianza e di disparità di diritti era l’idea comune, secondo la quale «le donne sono deboli per natura ed imbecilli per educazione»[1] e dunque, non adatte a svolgere determinati lavori e cariche pubbliche, di conseguenza dovevano essere «tenute lontano da tutte le magistrature, i luoghi di comando, i giudizi, le assemblee pubbliche e i consigli, così che si occupino solo delle loro faccende donnesche e domestiche[2]. Persino nel 1700 - il secolo dei Lumi, degli ideali rivoluzionari di libertà ed uguaglianza – non si verificarono progressi nell’ambito dell’emancipazione e dei diritti della donna, il cui ruolo nella società era limitato a quello di madre e moglie, soggetta prima all’autorità del padre e poi a quella del marito.

Tuttavia, verso la fine del XVIII secolo si manifestò un crescente interesse per il tema dell’educazione femminile: in Francia, in Inghilterra ed in altri paesi europei furono introdotte delle modifiche al sistema educativo nazionale, in modo da permettere alle donne di apprendere le scienze e le arti per avere una cultura laica e sostenere la conversazione maschile, poiché, come sosteneva Montesquieu «non esiste alcuna legge naturale che assoggetti le donne agli uomini e la diversità risiede nell’educazione.» [3]. Questa forma di apertura, peraltro fermamente osteggiata dai pensatori tradizionalisti e conservatori, permise ad un numero limitato di donne di poter accedere agli studi universitari, fino a quel momento privilegio degli uomini.

In Italia, che all’epoca non era ancora una nazione unita, vi furono alcuni casi sporadici di donne che poterono addottorarsi. Tra le prime si ricorda Maria Vittoria Delfini Dosi, la quale nel 1722 riuscì a conseguire la laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Bologna, ma fu osteggiata e non poté esercitare la professione di docente, in quanto avrebbe rappresentato una «sleale concorrenza» nei confronti dei colleghi uomini. Solo qualche decennio più tardi, nel 1777 fu conferita la prima laurea in utroque iure (formula latina che sta ad indicare la laurea in diritto canonico e civile) ad una donna: Maria Pellegrina Amoretti, le cui vicende rappresentano perfettamente lo status sociale della donna all’epoca. L’autodidatta ligure, dopo essere stata rifiutata dalle Università di Bologna e di Padova, conseguì la laurea presso l’Università di Pavia, senza esservi immatricolata e senza aver frequentato i corsi.

Tuttavia, come è possibile notare, il numero delle donne che riuscivano ad addottorarsi era ancora molto limitato poiché, nonostante alcune riforme del sistema educativo, in Europa predominava l’idea secondo la quale alle donne non spettasse nessun’altro compito se non quello di madre, a causa della loro completa supposta incapacità, come dimostra l’affermazione del noto giurista e politico francese Philippe-Antoine Merlin: «Le donne, per la sola ragione del loro sesso, sono incapaci di molte specie di doveri e di funzioni. […] Secondo il diritto della Francia, le donne non possono esercitare alcuna carica di magistratura […]. Possono esser nominate tutrici o curatrici de’ loro propri figli o nipoti, e talvolta ancora son nominate curatrici de’ loro mariti dementi o interdetti, ma non può loro affidarsi alcun’altra specie di tutela o cura. Le donne non possono patrocinare in giudizio, né esser testimoni in un testamento, neppure in un atto avanti notaio.»  Inoltre, il giurista francese ci informa che «secondo le leggi antiche e nuove, la donna maritata è sotto potestà di suo marito»[4], contrariamente alla donna nubile, la quale  «gode d’una piena ed intera capacità» civile[5].

Tuttavia, la discriminazione e l’ineguaglianza dei diritti erano giustificate non solo dall’idea che la donna fosse incapace di ricoprire determinati ruoli e svolgere determinate professioni, ma era avvalorata dall’asserita certezza che le donne non aspirassero a tali incarichi: «se le leggi nostre che disciplinano l’adito ai pubblici uffici non menzionano le donne, ciò accade in forza del presupposto di fatto che le donne non aspirino neppur per ombra a coprire quegli uffici, e non già, come pretende la sentenza in esame, in forza di un presupposto giuridico basato sulla pretesa coscienza universale dell’incapacità femminile, che ci sarebbe stata tramandata dai nostri padri.»[6] .

Il secolo successivo, l’Ottocento, è caratterizzato in Europa da due tendenze diametralmente opposte: quella conservatrice-tradizionale e quella dinamico-evolutiva. Sebbene in tutt’Europa si stesse diffondendo la “rivoluzione femminista”, in Italia, alla fine del secolo, il Codice civile del 1865 stabiliva che la donna non potesse ancora godere dell’indipendenza giuridica e prevedeva alcune limitazioni specifiche, tra cui:

  • l’autorizzazione maritale (art. 134) – che prevedeva che la donna domandasse al marito l’autorizzazione per l’impiego dei propri beni e per comparire in giudizio;
  • la tutela e la curatela (art. 268 e 273) – allo scopo di fornire adeguata protezione, in quanto le donne erano soggetti con ridotta capacità di agire.

Il movimento femminista per il riconoscimento dei diritti delle donne e per la loro emancipazione sociale in Italia all’epoca era molto limitato e fortemente ostacolato, rispetto agli altri paesi europei; infatti, secondo la testimonianza della contessa di Belgioso «quelle poche voci femminili che si innalzano chiedendo agli uomini il riconoscimento formale della loro uguaglianza, hanno più avversa la maggior parte delle donne che degli uomini stessi.»

Per quanto riguarda il diritto allo studio, solo nel 1859 fu compiuta una piccola riforma: con la legge Casati sulla pubblica istruzione n. 3725 (artt. 315-327), infatti, fu resa obbligatoria l’istruzione elementare per garantire il diritto all’istruzione ad entrambi i sessi e per combattere il dilagante analfabetismo. Grazie a questa riforma, era concesso alle donne anche il diritto di frequentare i licei e accedere all’istruzione superiore. Pochi anni dopo, nel 1876, si compì un considerevole passo in avanti nel riconoscimento dei diritti delle donne, in quanto con il regolamento universitario dell’8 ottobre 1876 si stabilì che anche le donne potessero «attendere agli studi universitari ed addottorarsi in giurisprudenza»[7]. Nonostante ciò, alle donne non era ancora possibile accedere alle cariche professionali e meno che mai a quelle politiche, poiché infatti la popolazione femminile all’epoca non godeva nemmeno del diritto di voto. Inoltre, pur essendo stata approvata la legge Casati e pur essendo stata data l’opportunità alle donne di conseguire la laurea, il numero di laureate fino ai primi anni del Novecento è irrisorio, ed occorre considerare che, una vota terminati gli studi, trovavano molte difficoltà nell’esercitare la loro professione a causa dei pregiudizi secondo cui la donna non fosse degna di svolgere le stesse attività dell’uomo.

Un esempio significativo che rappresenta perfettamente la difficoltà delle neo-laureate di quegli anni a far valere i loro diritti è quello di Lidia Pöet, la quale, dopo aver conseguito la laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Torino nel 1881 e dopo aver presentato la richiesta di iscrizione all’albo degli avvocati nel 1883, non poté praticare la professione: il procuratore generale sporse denuncia presso la Corte d’Appello di Torino, che accolse la richiesta del procuratore, pronunciandosi contraria in quanto, per riconoscere la possibilità alle donne di intraprendere la carriera di avvocato, occorreva «recare innanzi una disposizione di legge che espressamente le ammetta» all’esercizio «dell’avvocheria», oppure un’altra, di portata più generale, che le dichiari «capaci in genere di tutti gli uffici pubblici o civili»[8]. La decisione presa dalla Corte d’Appello di Torino suscitò critiche, generò dibattiti e divise l’opinione pubblica, creando un caso mai verificato in precedenza. Era evidente, infatti, che il sistema italiano permetteva alle donne di intraprendere gli studi universitari, ma le ostacolava una volta conseguita la laurea. Tuttavia, sebbene la vicenda Pöet avesse mostrato le contraddizioni del sistema italiano e nonostante la presentazione di alcune proposte e disegni di legge, per molti anni le posizioni dei giudici di Cassazione furono irremovibili.  Ben rappresentativa è la dichiarazione tradizionalista e conservatrice del Ministro della Giustizia Giuseppe Zanardelli: «La donna è diversa dall'uomo; essa non è chiamata agli stessi uffici, non è chiamata alla vita pubblica militante; il suo posto è la famiglia, la sua vita è domestica, le sue caratteristiche sono gli affetti del cuore che non si convengono coi doveri della vita civile; la forza della donna non è nei comizi, ma nell’impero del cuore e del sentimento sul freddo calcolo e sulla ragione crudele[9].

I diritti delle donne a partire dal XX secolo

Nei primi decenni del Novecento furono avanzate alcune proposte legislative a favore dell’estensione del diritto di voto alle donne e circa «l’eguaglianza dei due sessi nell’esercizio delle professioni», tra cui il progetto Socci; tuttavia, dominava ancora l’idea secondo la quale alla donna dovessero essere precluse alcune professioni a causa della sua minore intelligenza, del suo ruolo insostituibile nella famiglia, della sua instabilità e incostanza, del suo disinteresse per le questioni politiche e sociali. È nei primi anni del Novecento che il movimento femminista comincia a crescere e a far sentire la sua voce nel panorama politico e sociale dell’epoca, in nome della rivendicazione dei diritti sociali, civili e politici, nonostante l’ostilità dei partiti politici conservatori e dei socialisti.

Un altro caso che dimostra l’ostilità nei confronti dell’emancipazione femminile e dei diritti delle donne è quello che interessò Teresa Labriola, prima laureata in Giurisprudenza presso l’Università di Roma e autrice di alcuni saggi dedicati alla condizione giuridica e sociale della donna (tra cui alcuni dedicati al diritto di voto), la quale, a causa del pregiudizio culturale e dell’ostilità all’interno dell’ambiente accademico fu costretta a rinunciare alla carriera universitaria, motivo per cui nel 1913 intraprese una battaglia legale per esercitare la professione di avvocato. Sebbene la Cassazione di Roma si fosse pronunciata a sfavore della richiesta dell’aspirante avvocato donna, la vicenda di Teresa Labriola divenne un caso nazionale e suscitò l’interesse della stampa, che contribuì ancora di più alla valorizzazione della “questione femminile”.[10]

Bisognerà aspettare il 1919 per assistere ad un considerevole passo in avanti: con la  legge n. 1176 del 1919 finalmente, fu abolito l’istituto dell’autorizzazione maritale, cosicchè le donne ottennero l’emancipazione giuridica; inoltre si stabilì che: «Le donne sono ammesse, a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionari o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato secondo la specificazione che sarà fatta con apposito regolamento». Dunque, non era ancora concesso alle donne di accedere ad alcune cariche, come quelle giuridiche e militari.[11]   

Nel ventennio fascista, il movimento femminista subì diversi “rallentamenti” nella corsa ai diritti sociali e politici: l’Associazione per la donna fu sciolta e solo i movimenti femminili allineati al fascismo e alla religione cattolica sopravvissero; inoltre, sebbene il diritto di voto fosse stato esteso ad alcune categorie di donne (tra cui le madri di caduti di guerra e le donne con la licenza elementare), in realtà, durante il governo Mussolini alla popolazione femminile furono negati molti diritti, tra cui quello all’insegnamento delle discipline umanistiche nei licei e di alcune discipline negli istituti tecnici. Come conseguenza di quanto appena detto, il tasso di occupazione femminile in questi anni calò drasticamente e si ebbe un ritorno della donna nella condizione di dipendenza dal marito: nella famiglia italiana bisognava considerare «da una parte la superiorità del marito sopra la moglie e i figli, dall’altro la pronta soggezione e ubbidienza della moglie»[12]. La donna dunque doveva essere relegata al ruolo di madre di famiglia e padrona di casa, in quanto doveva «ritornare sotto alla sudditanza assoluta dell’uomo; padre o marito, sudditanza e, quindi, inferiorità spirituale, culturale ed economica».[13]

Solo con la fine della dittatura fascista la popolazione femminile riesce ad ottenere alcuni diritti civili: il primo dei quali è il riconoscimento del diritto di voto, concesso nel 1945 su proposta di De Gasperi e Togliatti. Tuttavia, è solo a partire dalla seconda metà degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 che il movimento femminista italiano ottiene grandi progressi, tra cui l’abolizione dello sfruttamento statale della prostituzione (Legge Merlin, 1958) e l’accesso alle cariche giuridiche e diplomatiche a partire dal 1961.

Tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70, nonostante il raggiungimento di alcuni traguardi sociali e giuridici, la condizione e il ruolo della donna nella società europea era ancora inferiore rispetto a quello dell’uomo. In questi anni, in particolare nel 1967, l’ONU adottò una Dichiarazione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna e contemporaneamente la Comunità Europea realizzò uno studio per evidenziare le problematiche della popolazione femminile europea nel mondo del lavoro. Da questo studio risultò che, sebbene la partecipazione delle donne al mondo del lavoro fosse quantitativamente importante, non era qualitativamente significativa: alle donne non venivano attribuiti ruoli gestionali, le disparità salariali erano ancora molto significative, il tasso di occupazione femminile era ancora molto più basso rispetto a quello maschile e le lavoratrici madri non erano tutelate[14]. Di conseguenza, a partire dal 1975 la CE promosse cinque direttive per la parità di trattamento nel lavoro e la sicurezza sociale.

Pochi anni dopo, nel 1979, l’Assemblea Generale dell’ONU adottò la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, in cui si dichiara l’uguaglianza economica, sociale, civile e politica della donna e si evidenzia che ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne è una violazione dei principi di dell’eguaglianza dei diritti e del rispetto della dignità dell’uomo. La Convenzione, inoltre, stabiliva che «tutti gli Stati parti prendono tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti delle donne nella vita politica e pubblica del paese, ed assicurano loro il diritto a) di votare, b) di prendere parte all’elaborazione della politica dello Stato, […]; gli Stati parti prendono tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti delle donne al fine di assicurare loro gli stessi diritti degli uomini per quanto concerne l’educazione […]; gli Stati parti riconoscono alla donna la parità con l’uomo di fronte alla legge […]

Nei decenni successivi, le donne hanno cominciato a rivestire ruoli sempre più importanti nella politica, nel mondo del lavoro, grazie al riconoscimento di maggiori diritti. Grazie all’acquisizione dell’emancipazione femminile, la società occidentale è profondamente cambiata e anche l’idea di famiglia ha subito dei cambiamenti significativi: la donna non ha più un ruolo subalterno e gode della potestà, alla pari del marito, e dunque ha gli stessi diritti e doveri del coniuge nell’educazione e controllo dei figli. (art. 316 cod. civ.); inoltre, non essendo più considerata come proprietà del marito, la donna non ha più l’obbligo di avere lo stesso domicilio (art. 45 cod. civ.) e la stessa residenza del coniuge (art. 144 cod. civ.) ed infine, alla morte del marito, le spetta la metà del patrimonio. (art. 540 cod. civ.)

Oggi giorno, grazie alle battaglie combattute dai movimenti femministi e dalle donne in nome della parità, in gran parte dei paesi del mondo alle donne è riconosciuta l’uguaglianza sostanziale con gli uomini sotto tutti i profili. Infatti, secondo quanto affermato dall’articolo 7 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, proclamata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1948 «Tutti sono uguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad un’uguale tutela da parte della legge».

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] G. M. Galanti - Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, Napoli, 1969, 286
[2] J.Bodin - De Republica libri sex. 1586
[3] Lettere Persiane,1721. cit., lettera XXXVIII, 111 ss.
[4] Dizionario universale ossia repertorio ragionato di giurisprudenza e questioni di diritto di Merlin1, versione italiana di una società di avvocati sotto la direzione di F. Carillo, voce Donna-Femme, IV, Venezia, 1836, , 1031
[5] R. Cubain, Dei diritti, cit., 56 ss. Per le questioni relative alla donna maritata commerciante cfr. 353 ss.
[6] M. Siotto Pintor, nella nota alla sentenza App. Roma 31 ottobre 1912, in Foro it., 1913, I, 45
[7] Tale disposizione è citata in Cass. Roma 24 giugno 1913, cit., 1047 Sul diritto allo studio riconosciuto alle donne cfr. anche M. Fioravanzo, Sull’autorizzazione, cit., 701 e nt. 244.
[8]  Vedi App. Torino 11 novembre 1883, in Giur. it., 1884, II, 10 ss.
[9] Raccolta cit. Legislatura XIV, 1a sessione 1880. Documento 38. A.
[10] M. De Giorgio, Le italiane, cit., nt. 79, 523
[11] Un elenco preciso delle precedenti esclusioni disposte in vari settori con sentenze e con disposizioni ministeriali è fornito da G. Molle, nota a App. Roma 8 aprile 1914, cit., 1138 s.
[12] Enclicica Casta Connubi
[13] Loffredo -  Politica della Famiglia
[14] Deshormes F. – Diritti umani e cittadinanza delle donne; il ruolo della Comunità Europea; in AA. VV. - I diritti umani a 40 anni dalla Dichiarazione Universale, Cedam, Padova 1989, pp. 176-183