Pubbl. Mer, 20 Dic 2023
Il processo penale pontificio nel XIX secolo: alcune riflessioni
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Giancarlo Ruggiero
Il presente contributo intende offrire alcune riflessioni in merito all´evoluzione del processo penale vigente nello Stato della Chiesa nel XIX secolo. Dopo un breve inquadramento della materia, si procederà all´analisi delle principali novità legislative di riferimento dal pontificato di Pio VII a quello di Pio IX.
The pontifical process in the 19th century: some reflection
This contribution intends to offer some reflections on the evolution of the criminal trial in the 19th century in the State of the Church. After a brief overview of the matter, we will proceed with the analysis of the main legislative innovations from the pontificate of Pius VII to that of Pius IX.Sommario:1. Introduzione; 2.Pio VII e il Card. Ercole Consalvi; 2.1 Il Motu ProprioQuando per ammirabile disposizione; 2.2. Le riforme di Leone XII: 3.Il Pontificato di Gregorio XVI; 3.1. Il Regolamento di Procedura: 3.2 La legislazione intermedia (1832-1846); 4. Il Pontificato di Pio IX; 4.1. Gli anni delle rifome liberali (1847-1848): 5. Ulteriori sviluppi storici: l'epoca della stagnazione (1848-1870); 5. Conclusioni
1.Introduzione
Non è mai cosa semplice, per l’interprete del diritto, addentrarsi all’interno degli ordinamenti giuridici soprattutto quando lo si fa dal punto di vista della storia poiché l’operazione che si va compiendo non è mai agevole, complice una certa difficoltà tanto sostanziale quanto pratica nel ricercare e sistematizzare gli elementi di riferimento.
Tale complessità non deve, tuttavia, costituire un limite quanto una risorsa perché permette all’operatore giuridico di dotarsi di una serie di metodologie puntuali le quali, lungi dall’essere esenti da rilievi critici, permettono di ben identificare l’oggetto trattato alla luce così di contorni assai definiti.
Ciò vale per qualsiasi ricerca di natura storica che si intende compiere ma, a maggior ragione per quella giuridica per mezzo della quale è anche possibile comprendere la ratio di certi istituti ancor oggi vigenti.
Se questo è innegabile nello studio di un dato ordinamento giuridico, lo deve essere altresì per il diritto della Chiesa nella sua dimensione giuridica e societaria laddove, troppe volte, si sono levate voci critiche in ordine a qualsiasi indagine di carattere normativo anche attraverso una certa diffidenza o ostilità verso tale ordinamento giuridico che pure ha goduto, per lunghi secoli, di una rilevanza anche statutaria essendo rimasto in vigore, fino al 1870, il c.d. Stato della Chiesa, entità temporale, estesa territorialmente e dotata così di un vero e proprio corpus normativo tra cui un diritto e una procedura penale.
Questo, invero, costituisce l’oggetto della suddetta ricerca non solamente dal punto di vista delle sue origini ed evoluzione storiche, quanto in relazione alla sua evoluzione sistematica nel corso del XIX secolo che segna così l’apogeo ma anche il crollo di una istituzione antichissima dotata di peculiari e significative leggi.
Per tali motivi l’analisi in esame focalizza come periodo di riferimento proprio il XIX secolo e più dettagliatamente l’arco temporale che va dal pontificato di Papa Pio VII fino a quello di Pio IX.
Si tratta di un lungo periodo temporale (1800-1878), ricco di eventi e situazioni giuridiche che diedero modo alla legislazione penale di evolversi grazie anche al contributo di alcuni importanti pensatori dell’epoca la cui eco risulta ancora oggi ben riconosciuta.
Per tali ragioni, la ricerca si impronterà su un binario di tipo cronologico per cui si inizierà con il pontificato di Pio VII per concentrarsi sulle significative riforme di Gregorio XVI e con la “resistenza” antiliberale e la fase discendente dal 1850 in poi.
2. Pio VII il Card. Ercole Consalvi
All’inizio di questa nostra analisi storico-giuridica, il primo periodo temporale di riferimento è costituito dal pontificato di Pio VII[1] (1800-1823), al secolo Barnaba Chiaramonti eletto pontefice a seguito di un conclave, piuttosto turbolento, tenutosi a Venezia tra la fine del 1799 e l’inizio del 1800 mentre l’Europa si avviava a vivere la stagione napoleonica che, come è noto, ebbe un notevole impatto non solo dal punto di vista storico ma anche giuridico la cui eco, in verità, si manifesta ancora oggi nelle attuali legislazioni.
In effetti, per comprendere la prima fase riformatrice nello Stato pontificio occorre sottolineare come l’occupazione francese delle terre italiane, condotta a più riprese a partire dal 1796, determinò un riordino generale dell’intero sistema normativo pontificio il quale, eccettuato il pontificato di Papa Benedetto XIV, viveva un clima in cui non vi erano istanze riformatrici e il governo di Roma e dei territori di competenza era sostanzialmente retto dalle disposizioni del diritto romano e del diritto canonico privi però di una reale ed efficace codificazione[2].
E’ in questo contesto che si inseriscono le riforme volute dal Bonaparte il quale determinò così il modellamento della legislazione dei territori occupati secondo quanto previsto in Francia la cui eco maggiore è costituita dalla promulgazione del Code Napoléon del 1804 che venne, de facto, applicato anche nelle terre dello Stato pontificio soprattutto dopo l’occupazione di Roma nel 1808 e la detenzione di Pio VII dapprima a Savona e poi a Fontainebleau fino al successivo ritorno nell’Urbe in forma definitiva dopo la sconfitta di Napoleone nel 1815 e l’avvio della Restaurazione con il Congresso di Vienna in cui si ricompose l’intero territorio dello Stato pontificio da Bologna fino a Ceprano al confine cioè con il Regno delle Due Sicilie.
Va da sé che il vento della Restaurazione soffiò impetuosamente anche all’interno dello Stato della Chiesa senza però poter del tutto abbattere l’eco delle riforme napoleoniche la cui rilevanza non sfuggiva agli occhi di chi, per quanto fedele ai dettati restauratori, non ignorava come i provvedimenti emanati dal Bonaparte non potevano essere cancellati con un significativo colpo di penna d’inchiostro.
E’ in questo senso che si inserisce il genio di Ercole Consalvi, nato a Roma l’ 8 giugno 1757 e creato cardinale diacono di S. Agata dei Goti nel primo concistoro di Papa Pio VII l’11 agosto 1800.
Non è questa la sede per commentare la persona del Card. Consalvi[3]: qui infatti ci si vuole soffermare sulla sua produzione normativa – specialmente quella penale – il cui caput è costituto dal Motu Proprio del 6 luglio 1816 sul quale poniamo, ora la nostra attenzione.
2.1 Il Motu Proprio Quando per ammirabile disposizione
Varato il 6 luglio 1816 il Motu Proprio Quando per ammirabile disposizione costituisce, come accennato, il primo serio di tentativo di riforma di un sistema che, nonostante qualche tiepido tentativo riformistico, era sostanzialmente rimasto immutato da secoli.
Analizzando brevemente la struttura di tale documento, occorre dire che esso si compone di 6 titoli che trattano delle più svariate materie incominciando dalla struttura dello Stato Pontificio (titolo I) fino a trattare norme di diritto penale e processuale (titolo II e III) nonché a provvedere un’ampia e significativa riforma fiscale valevole per tutto il territorio pontificio.
Concentrandoci sulla pars penalistica e processualistica occorre precisare come, pur senza riferimenti espliciti, il suddetto Motu Proprio conferma la legislazione napoleonica cercando così di garantire uniformità e chiarezza[4]in un sistema in cui i criteri principali erano costituiti dal particolarismo e della complessità.
Più nel dettaglio, il titolo II si riferisce ai tribunali civili mentre il titolo III tratta di quelli penali.
Per quanto riguarda i primi valga qualche nota generale.
Anzitutto si precisa come giudice di primo grado è il governatore delle provincie e non già il Delegato mentre giudice di seconda istanza è il Tribunale di prima istanza delle Delegazioni (cfr. art.27).
Circa il modus procedendi si stabiliscono alcune precise regole di buon funzionamento come la necessaria decisione collegiale (cfr. art.31) con un numero minimo di tre giudici sebbene elevabile fino a cinque venendo pure stabilito come la discussione avverrà pubblicamente con un preciso obbligo ovvero quello della motivazione delle sentenze ancorché solo definitive (cfr. art.34).
Più rilevanti, ai fini della suddetta ricerca, le disposizioni in materia criminale dove il criterio principale sembra essere quello del riordino generale dell’intera materia unitamente ad una chiarezza puntuale e precisa dei contenuti di riferimento.
Nel dettaglio, si ricordi l’istituzione presso ognuna delle 17 Delegazioni di Tribunali di primo grado formati da cinque giudici di nomina pontificia competenti per i reati maggiori e per l’appello dei delitti minori giudicati, in prima istanza, dai governatori[5].
Inoltre vengono dettate disposizioni peculiari per quanto riguarda l’amministrazione penale della città di Roma come particolarmente interessante è il disposto del n.91 in cui, per la prima volta da secoli, vengono abrogate le c.d. giurisdizioni di privilegio al fine così di garantire, come accennato, piena uniformità e garanzia procedurale.
2.2 Le riforme di Leone XII
I primi timidi segnali di riforma nel settore penalistico subiranno, tuttavia, una prima battuta di arresto con il pontificato di Leone XII eletto il 28 settembre 1823 e morto il 10 febbraio 1829.
Con il pontificato di Annibale della Genga, lo Stato Pontificio vive una stagione di ristagno rispetto al pontificato precedente complice, tra l’altro, il passaggio di consegne tra Consalvi e il nuovo segretario di Stato Cardinale Della Somaglia.
A ciò vanno associati i problemi concreti che affliggevano l’amministrazione (anche penale) della giustizia nei territori del Patrimonii Petri connessi, in primo luogo, alla retribuzione economica dei giudici e, in secondo, alla corretta declinazione della tutela penale.
Particolarmente rilevante a tal proposito è il Motu Proprio Sulla riforma dell’Amministrazione pubblica, della procedura civile e tasse dei giudizi del 5 ottobre 1824 in cui il Pontefice, “per maggiore spieditezza nell’amministrazione di giustizia”, attribuisce la competenza a trattare dei delitti minori ai governatori attribuendo la competenza in appello e in prima istanza per i delitti maggiori al tribunale sito nel capoluogo della delegazione e formato da un numero fisso di quattro giudici e non più cinque.
Vengono inoltre adottate specifiche procedure vòlte a garantire una maggiore economia dell’intero sistema processuale come ad esempio l’accorpamento di alcuni tribunali d’appello come quello di Macerata nonché il ritorno ad una procedura totalmente in lingua latina capovolgendo così la riforma di Pio VII che aveva introdotto, nei giudizi criminali, l’utilizzo della lingua italiana.
Tutto ciò, seppur a grandi linee, dimostra una sostanziale involuzione rispetto all’impiatto di Consalvi ma appare figlio dei tempi e del modus regendi dello stesso Pontefice piuttosto sensibile alle istanze conservatrici rimaste, per lo più sopite, nel pontificato precedente.
Ciò nonostante, ad una lettura più attenta dell’intero Motu Proprio non sembra che l’impianto delle riforme del 1816 sia stato completamente soverchiato dal momento che parve opportuno discostarsi del tutto rispetto l’assetto del 1816, quasi da ripristinare il sistema, piuttosto convulsivo, anteriore al 1789.
Ad un esame più approfondito emerge altresì un altro dato che appare connesso all’andamento oscillante dell’intera amministrazione pontificia di quegli anni poiché il sistema normativo varato nel 1824 subì un’ulteriore modifica con un altro Motu proprio del 21 dicembre 1827 che tratta, ancora una volta, dell’Amministrazione pubblica il cui capo III contiene, per l’appunto, specifiche disposizioni per il giudizio criminale.
Commentando brevemente il testo vediamo come il “nocciolo duro” della riforma del 1824 rimase, per lo più intatto, con la riserva del giudizio in prima istanza ai Governatori e l’appello previsto nei capoluoghi di provincia di ciascuna delegazione in cui, tuttavia, si ritorna alla disciplina precedente dal momento che il numero dei giudici passa di nuovo a cinque confermando così l’assetto voluto da Consalvi nel 1816.
Si dà comunque risalto al ruolo della S. Consulta che, assieme a quella di Bologna, giudica in appello per le cause penali aventi per oggetto delitti più gravi puniti così con pene superiori a cinque anni.
D’altra parte emerge anche la giurisdizione peculiare della città di Roma, in cui, nel caso di delitti commessi, tribunale competente sarà o Tribunale del Governo o quello del Campidoglio mentre per i misfatti compiuti nella Comarca di Roma, il cui regime sanzionatorio supera un anno di pena , tribunale competente, in prima istanza, è il Tribunale del Governo di Roma che giudica pure in seconda istanza nelle cause giudicate dai Governatori.
Valga un rapido commento.
Le riforme varate da Leone XII sono, come già detto, da inquadrare nel clima che si respirava in quegli anni in cui il vento della Restaurazione soffiava impetuoso e di cui risentì tutta la legislazione di quegli anni.
Se, invero, tali provvedimenti sembrano agli occhi dell’interprete moderno, caratterizzati da una sostanziale lettura rigida, tutta legata a schemi di per sé rilevanti storicamente ma comunque affetti da una certa difficoltà d’attualizzazione.
Tali rilevi non sono del tutto errati ma, come dicevamo, sono da leggere all’interno del contesto dell’epoca e nella politica assolutista impressa dopo il 1823[6].
3. Il pontificato di Gregorio XVI
L’elezione al soglio pontificio di Mauro Cappellari, il 2 febbraio 1831, segna l’inizio di un turbolento periodo storico ancora oggi oggetto di discussioni tra gli storici[7], la cui eco si riflette anche per quanto riguarda l’assetto normativo penale di riferimento.
Eletto a seguito di uno dei conclavi più lunghi del XIX secolo, Gregorio XVI apparteneva alla c.d. corrente degli Zelanti e, sebbene di orientamento più mite rispetto a Leone XII, dimostrò subito polso mediante la repressione delle provincie romagnole che il 4 marzo 1831 si erano ribellate al potere temporale varando un proprio Statuto normativo piuttosto moderno nei suoi contenuti.
Ciò nonostante è merito di questo Pontefice se finalmente lo Stato Pontificio si dotò di uno strumento la cui diffusione si andava sempre più estendendo negli Stati moderni ovvero il Codice.
In effetti, proprio nel 1831 viene promulgato il Regolamento organico e sulla procedura penale seguito dal primo codice penale ovvero il Regolamento sui delitti e sulle pene promulgato l’anno successivo.
Si tratta, a tutti gli effetti, di una vera e propria frattura con il passato a motivo della modernità che tali documenti portano con sé.
Difatti non è possibile liquidare tali Regolamenti come espressione di un semplice riordino delle norme del passato o un tentativo pur lodevole di aggiornamento e di consolidazione, ma costituiscono, al contrario, veri e propri codici seppur legati alla mentalità del tempo.
Certo si può discutere in ordine ai loro contenuti come anche alla loro attualità ma ciò non toglie che essi costituiscono un vero e proprio punto di non ritorno ovvero una sorta di punto fisso dal quale non sarebbe, in alcun modo, possibile, riavvolgere il nastro quasi da ritornare all’assetto istituzionale anteriore al 1816.
Per questo motivo, nonostante qualche difficoltà in merito, i due Regolamenti costituiscono la principale novità legislativa dello Stato Pontificio della prima metà del XIX secolo[8].
3.1 Il Regolamento di Procedura
Varato il 5 novembre 1831 il Regolamento di Procedura penale costituisce una delle fonti più rilevanti dell’intera riforma gregoriana.
Si tratta di un testo piuttosto corposo ed ampio comprendente ben otto libri il cui obiettivo principale era quello di garantire, una volta per tutte, uniformità ad una legislazione che, nonostante i buoni tentativi precedenti, presentava aspetti lacunosi dalle difficoltà piuttosto evidenti.
Non si potrà, per ovvie ragioni, concentrarsi su ogni singolo aspetto: qui è sufficiente richiamare alcune linee interpretative cercando così di cogliere alcuni aspetti singolari che permettono di comprendere così quale sia la ratio del presente Regolamento[9].
Il primo libro tratta dei giudici e dei tribunali nelle provincie.
Per ciò che concerne l’amministrazione della giustizia criminale, il n.26 stabilisce come essa venga amministrata, in primo grado, dai governatori ed assessori nei capoluoghi di delegazione mentre per quanto riguarda i delitti maggiori saranno competenti i governatori ed assessori nelle città capoluogo di provincia i quali estenderanno la loro competenza anche per quanto riguarda le decisioni prese nei tribunali di delegazione.
A questo assetto generale fa eccezione la Comarca di Roma i cui governatori eserciteranno la funzione giurisdizionale in primo grado avverso la quale, l’art. 54 dispone che è ammesso appello presso il Tribunale del Governo di Roma di cui si offre, all’art. 58, anche la composizione.
Ad essi si affianca l’importantissimo munus del Tribunale della Consulta che giudica, in seconda istanza, le sentenze dei tribunali romani già citati ma estende la sua competenza anche per quelle cause decise da alcuni tribunali locali che prevedono, tuttavia, la pena capitale.
Vengono inoltre stabilite precise disposizioni in merito alla regolamentazione della competenza ovvero dell’ambito concreto in cui i giudici possono esercitare il loro munus. Interessanti a tal proposito l’indicazione di quelli che possono essere definiti come veri e propri “titoli” di competenza come quello del luogo in cui fu catturato il reo (art.61) ovvero, nel caso di concorso di più delitti, prevale il tribunale nel cui circondario fu commesso il suddetto delitto (art.62).
Commentando brevemente il libro I emerge come la funzione giurisdizionale in capo ai giudici appare, de facto, ridotta a quella di meri funzionari legati a stretto giro con la Segreteria di Stato tanto che, come si vedrà, non è ancora possibile parlare di indipendenza dei giudici né di libero convincimento in merito alla definizione di una causa[10].
Procedendo oltre, il libro II si occupa invece dei principi generali del processo offrendo una sorta di definizione dello stesso che appare così come la raccolta degli atti che «[…] guidano alla cognizione non meno del delitto che della reità o innocenza di chiunque sia imputato» (art.109): ciò costituisce la base del processo criminale i quali dovranno poi essere vagliati in contradditorio (art. 110) prima della emanazione della sentenza che costituisce la parte finale del processo (art.122)[11].
Si disciplinano anche le fonti di cognizione di un delitto mettendo in luce il ruolo della denuncia (art.155) di cui si prescrive l’assenza del giuramento in capo al denunciante (art.141). Alla denuncia segue la querela esclusa nei casi in cui vi è un legame di sangue (art.146) la quale potrà essere o orale o anche scritta nonché generica o specifica (art.151).
Particolarmente rilevante il libro III che tratta invece delle prove in cui il legislatore adopera una minuzia piuttosto rilevante: vengono infatti disciplinate, in modo alquanto particolareggiato, tutte le possibili forme di ispezioni e cioè di documenti, oggetti, indumenti indicando, con precisione, il luogo del ritrovamento, la loro composizione, l’appartenenza etc.
La precisione quasi matematica che si estende anche a casi di specie[12], permette di considerare la natura marcatamente inquisitoria che tale processo intende porre in essere.
Le ispezioni, unitamente alle perquisizioni (titolo IV) e agli accessi giudiziali (titolo V) vengono disposte in modo altrettanto puntuale svelando così l’importanza che il Regolamento attribuisce a tali mezzi.
Si deduce infatti una linea ben precisa ovvero quella di accertare, in ogni caso, il corpo del reato mostrando così una certa preferenza verso di esso piuttosto che concentrarsi sulla figura del presunto reo.
Il IV libro si occupa di una prova peculiarissima ovvero quella testimoniale la cui funzione principale è descritta dall’art. 242 per il quale tale mezzo probatorio «è diretto tanto a provare e coadiuvare la sussistenza del delitto, quanto a scoprire in specie chi ne sia stato l’autore o responsabile, in qualunque modo non che a convalidare gl’indizi e gli argomenti che vengono dedotti come mezzi conducenti ed efficaci alla manifestazione della verità».
Dalla fraseologia utilizzata è evidente l’”egemonia” di questa prova e la sua centralità nel corso del processo.
In effetti ciascun teste, se chiamato, dovrà testimoniare sub iuramento ,purché in possesso di alcuni requisiti (artt.256-259) e a condizione che si rispettino alcune precise condizioni previste dal Regolamento.
Infatti ciascun teste verrà esaminato singolarmente alla presenza dei soli giudici del tribunale, mediante un rigoroso esame che, a tutti gli effetti evidenzia una fondata volontà intimidatoria nei loro confronti al fine così di concludere, con maggiore certezza, la causa oggetto d’esame[13].
Il libro V entra più nel “vivo” della procedura trattando dell’arresto e del carcere preventivo ed aprendosi con una disposizione dal carattere “rassicurante”[14] dal momento che nessuno può essere arrestato se non con un preciso ordine dato per iscritto da parte del capo del tribunale evitando così forme arbitrarie di lesione alla libertà di una persona ad eccezione della sorpresa in caso di flagranza di delitto.
Arrestato, l’individuo dovrà essere condotto in un luogo sicuro da cui verrà poi condotto in carcere mentre, al contempo, si formalizzerà l’accusa e si avvierà la fase della costituzione dell’imputato nel corso di un regolare processo.
Anche in questo caso emerge la grande cura nel precisare il modus operandi da parte dell’organo processante il quale, in questa fase, agisce in modo puntuale attraverso la somministrazione di domande chiare e semplice, in nessun modo suggestive (art.348) con la conseguenza che le risposte dovranno essere dello stesso tenore (art.349).
Emerge così una procedura del tutto lineare e compatta cosicché sembra del tutto escludersi un andamento di tipo ondivago in cui il processo segue una dimensione sinusoide: occorre cioè garantire un iter processuale che si sviluppi in linea retta che alla domanda puntuale del giudice segua una risposta “secca” e precisa senza cioè impaludarsi in situazioni incerte dalla non facile soluzione.
Altrettanto chiara risulta la normativa per quanto concerne il modo di costituzione degli inquisiti: si prevede infatti che quest’ultimi espongano le loro generalità davanti all’autorità di riferimento (art.337), dovendo altresì rispondere alle singole domande formulate e che appaiono, come già accennato, estremamente dettagliate, quasi invasive ma espressamente legate alla logica processuale di cui già si è detto in precedenza ovvero accertare la sussistenza del delitto senza un’attenzione più specifica verso il soggetto[15].
Espletato l’interrogatorio, si procede alla contestazione del reato. Qui il Regolamento appare molto attento a distinguere le diverse ipotesi di riferimento prevedendo il caso in cui la contestazione sia negativa (titolo IV) e anche quando il reo sia confesso (titolo V).
Proprio a tal punto si segnala che la confessione del reo non esclude un suo possibile riesame (art-576) sebbene, all’interno dello stesso articolo si segnala come sia del tutto ammissibile il suo ascolto qualora ne faccia richiesta.
La disposizione può sembrare di per sé contradditoria ma tenta, seppur al ribasso, di garantire un equilibrio tra le esigenze processuali stricto sensu e la necessità di proteggere l’imputato rispetto ad uso arbitrario della stessa procedura.
Procedendo oltre, il libro VI disciplina la procedura da utilizzare per la pubblicazione del processo e del giudizio.
Il primo capo di questo libro si occupa, per l’appunto, della pubblicazione del processo il cui scopo principale è, a norma dell’art.383, di far conoscere all’imputato le prove nella loro integrità al fine così di fargli preparare apposita difesa.
Si tratta, va detto, di un principio importante perché da un lato testimonia l’assoluta centralità delle prove come unica “base” per la costruzione della sentenza e dall’altro esprime, seppur velatamente, una sorta di favor rei anche se, come accennato, l’intero processo appare schiacciato quasi completamente verso la ricerca della verità del fatto più che intorno alla figura del reo.
Segue così la fase della proposizione e della discussione della causa (libro IV) che si svolge in forma pubblica e con l’imputato «libero e sciolto» (art.408): è questo uno dei momenti più rilevanti dell’intero processo perché prevede un effettivo contradditorio tra le parti in cui però emerge, in modo preponderante, la centralità del giudice, vero e proprio “primo attore del processo” il cui munus si manifesta, in maniera piuttosto netta, in questa fase, dirigendo gli interrogatori e cercando – così sembra – di provocare la confessione dell’imputato[16] nonostante le (apparenti) garanzie in merito già precedentemente citate.
Alla discussio causae si affianca, al titolo V, la regolamentazione del modo di procedere nella decisione della causa criminale in cui compaiono alcuni principi particolarmente rilevanti.
In primis da sottolineare l’esercizio collegiale attorno alla decisione perché il n. 438 assicura la presenza di più giudii per l’emanazione di quest’ultima..
In secundis non si può trascurare l’inciso di cui al n.442 in cui si afferma che per la soluzione del caso il giudice risponda secondo «l’intima convinzione della propria coscienza, e secondo l’impressione ricevuta dalla sua ragione presso le prove o gl’indizi».
Ciò costituisce un passaggio decisivo perché il Regolamento del 1831 abbandona definitivamente un modello processuale in cui la sentenza rimaneva frutto di un esercizio discrezionale, di natura marcatamente arbitraria spesso oggetto di sotterfugi politici e di varia natura mentre ora la formazione del giudizio appare come il risultato di un giudizio razionale, ponderato sulle prove e pertanto incapace di prestare il fianco ad una lettura di carattere illecito o comunque affetta da problemi sostanziali.
Consacrando, anche per il processo penale, il principio del libero convincimento del giudice , lo Stato Pontificio si inseriva nel solco delle legislazioni europee le quali, spinte dalle sollecitazioni illuministe, avevano completamente modificato la comprensione e il ruolo del giudice garante di un giudizio equo e sistematico[17].
Ciò detto occorre ora verificare le tipologie decisionali previste.
La prima di esse può essere definita, a tutti gli effetti, come la testimonianza della sopravvivenza della absolutio ab instantia o ab observatione iudicii, dalla lunga tradizione giuridica[18]che veniva emanata tutte le volte in cui le prove addotte non fossero idonee alla formazione del verdetto di condanna con la conseguenza che il processo veniva, in qualche modo, sospeso potendo riaprirsi dopo sei mesi con un possibile giudizio di condanna o di sottoposizione alla sorveglianza della polizia.
Segue poi la pronuncia di condanna e quella di assoluzione in cui dovranno esseri indicati il fatto, l’elemento giuridico, le circostanze, le dichiarazioni del giudice ovvero una succinta motivazione (art.450).
Avverso la sentenza di condanna è ammesso appello sebbene il titolo VI di detto libro si occupi soltanto di quello relativo alle cause capitali il cui legittimato è ovviamente il condannato presso il tribunale indicato.
Da precisare come in tale procedura sembri regnare una certa celerità nel risolvere la questione: in particolare il presidente di detto tribunale dovrà nominare un giudice relatore con il compito di raccogliere tutti i documenti previsti a cui segue, entro dieci giorni, la proposizione della causa e la celebrazione di una sorta di istruttoria in cui, però, non possono essere proposte nuove prove né nuovi testimoni[19].
Si ricordi infine la previsione dell’art.464 in cui si specificano, in modo dettagliato, i limiti del giudizio d’appello poiché in detto tribunale non si dovrà riesaminare la causa ma giudicare quanto emerso in primo grado cosicché la sentenza di riferimento sarà o di conferma o di revoca o di diminuzione rispetto alla prima pronuncia.
Infine un cenno anche alla regolamentazione del libro VII dedicato ai giudizi speciali divisi cioè per la diversa qualità dei delitti e degli inquisiti.
In particolare si prevede anzitutto la disciplina per i c.d. delitti minori in cui il regime previsto, pur uniformandosi alle norme generali, prevede una maggiore velocità nella fase della raccolta delle prove e nell’esame dei testi nonché per quanto riguarda le procedure d’appello il cui terminus appare estremamente ridotto essendo prescritto ad appena tre giorni dall’intimazione della sentenza (art.483).
Di seguito il Regolamento descrive i delitti di natura patrimoniale contro l’erario (titolo II) e la procedura da impiegarsi nel caso di un arrestato o condannato fuggiasco (titolo III) ovvero allorché sia comminata la sentenza di esilio (titolo IV).
Ci si occupa altresì di regolare l’ordo procedendi nei casi di calunnia (titolo VI), per denegata giustizia (titolo VII) o per questioni attinenti alla giusta celebrazione del processo (titolo VIII e IX).
Il titolo X concerne invece i delitti di lesa maestà e cospirazione in cui emerge una sostanziale linea interpretativa vòlta così a punire coloro che si fossero macchiati di simile misfatto unitamente ad una volontà ben precisa di evitare che tali delitti possano sussistere.
Infatti la pena prevista è quella capitale sebbene essa possa essere comminata unicamente nel caso in cui ci sia stata unanimità dei voti dei giudici competenti perché, nel caso in cui ciò non fosse avvenuto, l’art.665 prevede la revisione della sentenza in esame con l’intervento dei giudici del secondo turno. È evidente la ragione di questo disposto: si tratta cioè di evitare la pena più grave che possa mai essere adottata ma allo stesso tempo si chiede di intervenire, in modo puntuale, avverso quei comportamenti ritenuti lesivi dell’autonomia e dell’indipendenza di uno Stato sovrano come era ancora quello pontificio.
Infine il libro VIII si occupa di offrire qualche spunto di regolamentazione su diversi elementi come, per esempio, l’azione civile, l’immunità ecclesiastica[20], i salvacondotti concetto al contumace che offre di presentarsi (art.632) concessi dai soli capi del tribunale a condizione che esso sia temporaneo e limitato al solo bisogno della causa non potendo così essere di portata generale o comunque sine die (art.633).
Il titolo XI si occupa, invece, dell’esecuzione delle sentenze: particolare, in questo senso il disposto dell’art.694 in cui si manifesta una sorta di favor matris poiché, nel caso in cui soggetto di un delitto sia una donna incinta, l’esecuzione del provvedimento sanzionatorio è sospesa fino a quando costei non partorisce,come dettagliata appare la procedura inerente alla comminazione della pena di morte.
Più in particolare la sentenza contenente tale provvedimento dovrà essere stampata e affisa nel luogo dove avverrà l’esecuzione per cui appare legittimo, senza comunque avere una risposta univoca in merito, domandarsi se tale scelta obbedisce ad alcune scelte garantistiche o rimane invece oggetto di un retaggio inquisitorio[13].
3.2 La legislazione intermedia (1832-1846)
Il Regolamento del 1831 segna, a tutti gli effetti, l’inizio di una nuova stagione per quanto riguarda la legislazione penale vigente nell’allora Stato Pontificio sebbene il punto debba essere chiarito per evitare così letture che non tengano conto né della ricaduta pratica del suddetto provvedimento né delle trasformazioni sociopolitiche durante il pontificato di Gregorio XVI.
Certo è che la promulgazione del Regolamento non può essere considerata come un passo accidentale dall’importanza minima perché, come accennato, le novità sono piuttosto evidenti: si può discutere ovviamente sull’originalità o sulle innovazioni introdotte come del resto la critica può soffermarsi su alcuni punti piuttosto che su altri ma un dato risulta chiaro ovvero che occorreva percorrere la strada della codificazione pur con le difficoltà che essa avrebbe comportato.
In effetti, già l’anno successivo cominciarono a manifestarsi i primi segnali di criticità rispetto al predetto Regolamento allorché la S. Congregazione delle Immunità sollevò alcune perplessità attorno a nove articoli della suddetta normativa evidenziandosi così una certa linea – espressa dalla Curia– di chiara ispirazione conservatrice[14].
A ciò devono essere altresì associate le significative modifiche varate, negli anni trenta, circa il funzionamento della Curia Romana mediante una importante riforma del munus della Segreteria di Stato[15] dalla quale promana – è il 1834– una Minuta del codice sui delitti e sulle pene dove, nonostante il tono conciliante, si sferra un primo “attacco” rispetto alla legislazione del 1831 e a quella del 1816 già ricordata in precedenza.
Soffermandoci su detta Minuta[16] occorre sottolineare un interessante passaggio da una dimensione prettamente “regolativa” ad una di carattere più “solido” dal momento che l’oggetto di tale documento riguarda un codice e dunque uno strumento giuridico più rilevante e soprattutto innovativo in una legislazione, come quella pontificia che, come detto, versava in un mare magnum di totale incertezza e confusione.
Va altresì sottolineato come mediante questo provvedimento la legislazione pontificia si orientò verso una più marcata tendenza conservatrice precisando al meglio la definizione di delitto nonché offrendo pure alcune indicazioni più specifiche in merito ad esempio al quasi delitto ovvero a quello doloso, distinto tra massimo, medio ed infimo come anche una maggiore attenzione in merito alla corresponsabilità penale (titolo VI) e inoltre per alcune tipologie di delitti il cui trattamento sanzionatorio viene, de facto, reso più duro come nel caso di un omicidio e del ferimento di una persona[17].
Tuttavia, al di là del suo contenuto, la Minuta del 1834 costituisce un primo segnale importante perché dimostra, come accennato, uno spostamento della legislazione verso un orientamento più pregnante in un clima di crescente tensione all’interno delle legazioni pontificie.
Ciò nonostante, la Minuta ebbe un esito travagliato: infatti, dopo essere stata varata, essa fu inviata a tutti i presidenti dei tribunali delle legazioni nonché al Collegio degli avvocati concistoriali i quali, tuttavia, manifestarono pareri fortemente critici intorno a questo documento.
Iniziava così un periodo di “stallo” caratterizzato dalla produzione di schemi e di provvedimenti transitori che avrebbero condizionato la legislazione successiva.
Ciò spiega la convocazione di numerose commissioni, di cui la prima è del 24 novembre 1834, mediante le quali si cercò di mettere ordine alla giurisdizione penale non solo per garantire una uniformità penale particolarmente capillare in questo settore ma anche per armonizzare lo spirito delle diverse “anime” componenti dette commissioni in cui, come si può intuire facilmente, convivevano diverse esigenze a cavaliere tra alcune di carattere più conservatore ed altre più sensibili ad istanze liberali[18].
Non va certo dimenticato come l’”involuzione” successiva al 1833 sia da inquadrare, come accennato, nel clima sempre più incandescente che si respirava nei territori dello Stato pontificio soprattutto in alcune regioni, come la Romagna, in cui i movimenti carbonari e di altre associazioni segrete, cominciavano a infiltrarsi in questi territori con l’accrescimento di una politica più repressiva caratterizzata da una cultura di sospetto e di tensioni ben radicate.
In altre parole, la c.d. “legislazione intermedia” si caratterizza per la sua dimensione quasi crepuscolare ed attendista: predominano infatti, come suggerito, provvedimenti dalla chiara natura provvisoria emanati in commissioni che venivano istituite e sciolte con sorprendente vitalità: ne è prova quella istituita dal Papa nel 1841 con il precipuo compito di rispondere a venticinque dubbi presentati su articoli del Regolamento di Procedura e presentare così un nuovo progetto di riforma[19].
Detta commissione- si dice – tenne quattro lunghe sessioni da cui promanò uno schema generale presentato ed approvato da Gregorio XVI che costituisce, invero, un documento prezioso perché testimonia la mutata sensibilità giuridica dei primi anni 40 del XIX secolo orientata così ad una politica più marcatamente assolutistica.
Ciò è dimostrato dalla re-introduzione delle pene corporali, di un maggiore trattamento sanzionatorio nella fattispecie del furto ma lo stesso Pontefice preferì non introdurre tali riforme favorendo così una linea di attesa finché non si fossero verificati, nell’Urbe, episodi tanto significativi da comportare l’adozione di questi nuovi provvedimenti[20] tanto che la suddetta commissione continuò le sue adunanze fino al 1845 sebbene senza un’effettiva produzione significativa di nuovi principi e nuove norme.
In sintesi, il periodo 1832-1845 può essere visto come un “intermezzo normativo”: non mancarono certo alcune proposte interessanti e significative anche ammantate da una volontà riformistica ma, dopo il Regolamento del 1831, l’emanazione della Minuta e i successivi progetti elaborati dalle diverse commissioni convocate in quegli anni, dimostrano, ad ogni modo, la difficoltà di procedere ad un effettivo svecchiamento della normativa precedente non solo dal punto di vista prettamente pratico o procedurale ma principalmente a livello sostanziale[21].
4. Il Pontificato di Pio IX
Il 1° giugno 1846, nel palazzo del Quirinale, spirava Gregorio XVI dopo una lunga agonia: la morte del pontefice bellunese sancì, a tutti gli effetti, la fine di un’epoca e di un ideale politico che non si sarebbe più ripresentato nella sua forma completa.
In un clima relativamente tranquillo, la sera del 14 giugno 1846, 50 elettori parteciparono al conclave – l’ultimo che si tenne al Quirinale.
Al quarto scrutino risultò eletto il Card. Giovanni Maria Mastai Ferretti, arcivescovo di Imola, nato a Senigaglia il 13 maggio 1792.
Si trattò di una elezione a sorpresa sia per l’Urbe sia per l’Europa dal momento che il Card. Ferretti era considerato di simpatie liberali come dimostrato durante gli anni di episcopato prima a Spoleto e poi nella città romagnola.
Iniziava così il più lungo pontificato della storia dopo quello dell’Apostolo Pietro che avrebbe così coperto un lungo periodo dal 1846 al 1878 in cui le trasformazioni sociali e politiche avrebbero dato un nuovo e significativo assetto all’Europa e all’Italia.
Non è questa la sede per affrontare, in modo sistematico, l’opera di Pio IX ancora oggi oggetto di un particolare e vivo dibattito tra gli storici[22] ma è indubbio il ruolo assunto dal pontefice per la storia italiana preunitaria.
A noi interessa soprattutto concentrarci sulla produzione normativa in ambito penale e processuale che, grazie ad una tipizzazione che gode ancora di una certa rilevanza, può essere divisa tra il biennio 1846-1848 e tra il 1850 e il 1870.
Così intesa è chiaro che lo spartiacque decisivo, non solo dal punto di vista storico, è costituito dal 1848 e dalle rivoluzioni europee che avrebbero avuto il loro eco anche nello Stato Pontificio.
4.1 Gli anni delle riforme liberali (1846-1848)
L’elezione di Pio IX, come suggerito, suscitò sentimenti contrastanti tra le diverse potenze europee complice il loro mai sopito interessamento per le vicende dello Stato della Chiesa.
Già ad un mese dalla sua ascesa al trono, il pontefice promulgò il 16 luglio 1846 un’apposita amnistia con cui, di fatto, si allentava il regime del papato precedente provvedendo alla scarcerazione di tutti coloro che erano sottoposti ad un regime detentivo per i reati politici[23]. Il provvedimento, lungi dall’essere considerato una delegittimazione del potere sovrano, ebbe una risonanza straordinaria in tutte le provincie e città dello Stato pontificio e non solo.
Iniziava così la stagione delle riforme caratterizzate da una chiara volontà di svecchiamento che comportarono ad esempio, l’allentamento delle censure ecclesiastiche in materia di stampa (15 marzo 1847), l’istituzione di un consiglio di ministri (12 giugno 1847) e soprattutto la creazione di una Consulta di Stato (14 ottobre 1847) composta da 24 membri con funzioni marcatamente consultive[24] ma comunque innovativa in quanto sancì, per la prima volta, l’ingresso di alcuni laici nella gestione della res pubblica pontificia.
Sono anni di grandi progetti riformistici alcuni dei quali risultarono attuati, altri meno complice altresì un clima politico animato da innumerevoli tensioni in cui i fermenti rivoluzionari, assopiti, in parte nel pontificato precedente, ripresero vigore.
Ciò si intensificò allorché nell’estate del 1847 le truppe austriache, provenienti dai territori del Lombardo -Veneto invasero la città di Ferrara suscitando le reazioni di tutti i monarchi italiani in difesa di Pio IX considerato ormai il Papa delle riforme dando così avvio ad una vera e propria mobilitazione generale che comportò il ritiro del contingente austriaco e il ripristino della sovranità pontificia sulla città estense.
Quasi a suggello di questa alleanza, nel novembre dello stesso anno fu istituita una Lega doganale il cui progetto iniziale, poi naufragato, prevedeva un’effettiva unificazione dell’intero territorio italiano per la crescita economica e il libero commercio delle merci.
A tali novità – perché di novità occorre sicuramente parlare– occorre affiancare i progetti di riforma della materia penale e processuale rimasti, de facto, ancora legati al 1831 sebbene “appesantiti” dai correttivi delle riforme gregoriane di cui già si è detto.
È in questo clima di mutato orientamento politico che nel 1847 viene varato il progetto di un nuovo codice penale sotto l’egira di alcuni tra i più importanti giuristi dell’epoca, come Silvani, Ruffini e principalmente Giuseppe Giuliani che, assieme a Giovanni Carmignani, costituiscono le voci più eminenti della dottrina penalista di quei tempi.
Più in particolare, il progetto del 1847 concernente il solo diritto penale fu elaborato, per lo più da Giuliani in senso riformistico certo ma questa volta non frutto della volontà del solo autore ma sotto gli impulsi del sovrano.
Si tratta di un’opera alquanto significativa composta da 400 articoli e suddivisa tra una parte generale ed una speciale in cui, pur difettando dei caratteri di generalità e di astrattezza relativi ad un moderno codice, si evidenziano alcune spinte riformatrici ben precise.
Soffermandoci in breve sul testo, occorre precisare come la pars generalis si apra con alcune disposizioni generali a cui seguono diversi titoli dedicati tanto al delitto tentato (titolo II) e al concorso (titolo IV) tanto all’estinzione dello stesso (titolo VII) così come ad una puntuale descrizione delle tipologie di pene (titolo VIII) in cui Giuliani modella le sanzioni in senso più mitigato rispetto alla precedente normativa favorendo così una pena maggiormente calibrata intorno alla fattispecie suddetta.
Mentre, per quanto riguarda la pars specialis, Giuliani si orienta verso una classificazione connessa all’entità del reato compiuto secondo un ordine decrescente che, incominciando dai delitti contro la religione, arriva a quelli minori passando per l’omicidio, la rapina e al furto[25].
In sintesi il progetto del 1847 costituisce, a tutti gli effetti, un’effettiva punta di diamante per la legislazione del tempo per il carattere innovativo delle disposizioni in esso presenti le quali, pur non rappresentando una rottura tout court con la normativa precedente, permettono di comprendere la maggiore attenzione ai “segni dei tempi” e al vento riformistico la cui eco cominciava a manifestarsi anche nei territori del Patrimonium Sancti Petri.
4.1 Il progetto di Editto criminale del 1847
Quasi a compimento delle significative novità legislative varate all’indomani dell’inizio del pontificato di Papa Ferretti, si situa il progetto di un Editto criminale il cui maggior esponente è, ancora una volta, Giuseppe Giuliani.
Sulla genesi di tale progetto occorre precisare come esso sia stato redatto, in prima battuta, già nel 1846 e presentato, assieme al già citato progetto di codice penale nel 1847 all’interno di una commissione istituita dal Papa proprio per procedere ad una riforma del Regolamento gregoriano di procedura del 1831[26].
Si tratta di un testo corposo ma di importanza notevole che segna, come suggerito, uno dei punti più rilevanti del biennio riformistico 1846-1848.
Scendendo nel dettaglio, il progetto si compone di dieci titoli così suddivisi: gradi di giurisdizione (titolo I), rimedi contro le sentenze (titolo II), i diritti dell’aderente al fisco (titolo III), il mandato di arresto (titolo IV), i delitti di azione privata (titolo V), l’abilitazione a star fuori dal carcere durante la procedura (titolo VI), disposizioni speciali per diverse competenze giurisdizionali (titolo VII), regole comuni disciplinanti le cause di concorrenza e sul modo di procedere circa la definizione della causa (titolo VIII), le impugnazioni (titolo IX) e le attribuzioni ai procuratori fiscali (titolo X).
Soffermandoci sul testo emergono alcuni elementi di novità, frutto della sensibilità giuridica dell’estensore e come tali innovativi rispetto alla legislazione precedente.
Ad esempio vengono riformati i gradi della giurisdizione ordinaria la quale viene così divisa: giurisdizione pretorile per i delitti con pena minore di un anno di prigionia, correzionale con reclusione non inferiore ad anni cinque e criminale per tutti i delitti con pene superiori.
Altro aspetto particolare è costituito dal c.d. ricorso in Cassazione, già in parte previsto dal Regolamento del 1831 e profondamente rinnovato sia per la sua migliore distinzione rispetto all’appello sia per le tipologie di sentenze ricorribili tramite questa impugnazione ovvero sia se si tratta di un giudizio di condanna o se la pronuncia da parte del giudice di secondo grado abbia confermato quanto già disposto in primo grado[27].
Tra le altre originalità va segnalata una maggiore regolamentazione delle procedure d’arresto attraverso un’ottica più garantista e più declinata verso la tutela di alcune categorie di persone, come i vagabondi, intorno ai quali la legislazione pontificia rimase sempre piuttosto critica.
Sempre a proposito dell’arresto si manifesta una certa curvatura verso una procedura maggiormente snella e più garantista: si pensi ad esempio alla norma che prevede l’interrogatorio passate le 24 ore dall’arresto così come per ciò che riguarda i principi afferenti alla determinazione del mandato d’arresto il quale dovrà essere chiaro e puntuale evitando così qualsivoglia esito arbitrario o incerto.
Vengono altresì innovate le disposizioni in materia di diritto di difesa mediante una più precisa regolamentazione dei munera del difensore pubblico come si concede all’imputato la facoltà di richiedere altri testimoni benché a sue spese.
L’impronta riformistica si avverte pure per quanto concerne la regolamentazione del dibattimento perché, per la prima volta, questo si svolge in forma pubblica con la partecipazione dell’imputato e del suo difensore ma aperto a chiunque voglia parteciparvi.
Tale fase mira a formalizzare, in modo definitivo, il materiale probatorio sul quale si stillerà la pronuncia giudiziale sul quale il Progetto si sofferma dettagliatamente.
Infatti vengono stabilite alcune norme circa i criteri da esaminare prima dell’emanazione di qualsiasi sentenza e cioè l’esistenza generica del delitto, la colpevolezza dell’imputato, le circostanze, le norme di legge afferenti: tutto ciò dovrà essere vagliato in forma critica in quanto ogni giudice è chiamato a rispondere al caso con un suo specifico votum frutto della propria coscienza: si delineava così, seppur in forma implicita, la necessaria formazione della certezza morale come criterio decisivo per la definizione di qualsiasi pronuncia giudiziale[28].
In ultima analisi, il Progetto del 1847 costituisce una “tappa” alquanto rilevante del biennio di riforma complice la portata sostanzialmente innovativa che, a tutti gli effetti, incornicia tale normativa. Non mancarono, è vero, pareri critici[29] ma è innegabile il profondo tocco riformistico da esso deducibile ben costituito dall’introduzione della pubblicità e dalla divulgazione dei processi fino a quel momento segreti e sconosciuti.
4.2 Il Progetto del Codice di Procedura penale del 1848
L’indole riformistica del biennio 1846-1848 trova nella redazione del Progetto del Codice di Procedura penale il suo maggior culmine tanto che pare quasi di voler suggellare i provvedimenti emanati in quegli anni.
Anche in questo caso, tale Progetto è frutto della penna di Giuseppe Giuliani che, spinto dal sostegno manifestato attorno al codice penale, comincia ad interessarsi anche della procedura di riferimento elaborando un testo i cui contorni richiedono qualche nota specifica in merito.
In primo luogo Giuliani accetta la distinzione tra i delitti di azione pubblica e quelli di azione privata differenti tra di loro poiché, mentre per i primi l’azione penale risulta essere obbligatoria, per i secondi ciò non sussiste richiedendosi infatti apposita querela.
Vengono inoltre riformate le giurisdizioni che, dalle tre vigenti nel Regolamento del 1831, si riducono solamente a due ovvero quella collegiale (criminale) e quella monocratica (pretorile).
Si introduce, altresì, oramai in forma definitiva, il requisito della pubblicità: il processo si struttura così come una sequenza di atti che si sviluppano su due assi ben precisi ovvero l’oralità e la già accennata pubblicità per evitare qualsiasi andamento illegittimo che possa comportare invalidità alla sentenza.
Per ciò che riguarda la competenza essa rimane ancorata al luogo di commissione del delitto ma – ed è questa un’altra novità significativa– il giudice deve essere già precostituito dalla legge al fine di garantire una giustizia di qualità segnata dalla oggettività e dall’imparzialità rispetto al caso delittuoso.
Particolarmente dettagliata risulta la regolamentazione della fase introduttiva al processo e di quella istruttoria.
Qui il riformismo di Giuliani si fa piuttosto notevole nella puntuale descrizione dei mezzi di riferimento atti a promuovere un processo penale ovvero la querela e la denuncia la quale non dovrà essere, in nessun modo, né segreta né anonima dovendo così contenere una serie di elementi che permettano, seppur in forma sommaria, di determinare il fumus delicti così da poter promuovere una significativa fase istruttoria.
Emerge anche in questo caso la centralità assoluta della prova principalmente di quella testimoniale a cui il Progetto dedica ampio respiro[30]: vengono infatti descritte le condizioni per poter essere considerato teste ovvero la descrizione dell’interrogatorio da svolgere in forma orale e sotto forma di dialogo di domanda e risposta.
Ovviamente vengono dettate norme specifiche anche per la fase dibattimentale e di quella decisoria da cui si deduce l’importanza del diritto di difesa, de facto, non sussistente nella riforma del 1831.
Giuliani infatti si concentra sulla figura del difensore che può domandare non solo di accedere agli atti del processo ma anche disporre l’ammissione di nuovi testi ma, allo stesso tempo egli raccomanda che l’imputato sia presente nel corso del dibattimento dovendo in ogni caso intervenire per tutelare la sua posizione.
Tale affermazione può risultare, per alcuni versi, quasi lesiva del ruolo del patrono ma deve essere letta in relazione alla natura del processo penale pontificio piuttosto legato, nei suoi fondamenta, al diritto canonico nel quale il diritto di difesa è stato sempre riconosciuto in capo all’avente diritto ovvero l’imputato senza che ciò possa comportare uno svilimento della missio e degli iura dell’avvocato difensore.
Procedendo oltre, il Progetto del 1848 si occupa della fase decisoria: la sentenza può essere di tre tipologie ovvero assolutoria, condannatoria o “condizionata” ovvero data per insufficienza o per mancanza di prove.
Avverso tali provvedimenti, è sempre ammesso appello al tribunale di secondo grado mentre per le sentenze emanate da quest’ultimo si ricorre, come già visto, in Cassazione.
Accanto a tali mezzi di impugnazione il Progetto del 1848 menziona il rimedio canonico della restitutio in integrum il quale opera nei casi di palese ingiustizia della decisione permettendo così il ripristino della situazione giuridica prima del processo.
Particolarmente corposa, come si diceva, la legislazione in merito al ricorso in Cassazione poiché vengono stabiliti, in modo puntuale, i casi in cui ciò può avvenire come ad esempio per la dichiarazione di un delitto che non è avvenuto secondo la legge o per un elemento che non sussisteva né per i fatti né per la legge ovvero il dibattimento non si sia svolto correttamente ed infine nel caso di difetto di giurisdizione[31].
Si tratta, come si intuisce, di fattispecie piuttosto estese che, pur assicurando un effettivo rimedio giurisdizionale rispetto a casi di illegittimità, si limitano ad intervenire solo sui vizi in decernendo o in procedendo di una sentenza dal momento che è precluso per il giudizio in Cassazione entrare nel merito della controversia per cui l’intervento del giudice supremo dovrà verificare la fondatezza dell’ordo procedendi assegnando ad un altro tribunale la decisione de merito.
5. Ulteriori sviluppi storici: l’epoca della stagnazione (1848-1870)
Il 1848 segna, per lo Stato Pontificio ma più in generale per tutta l’Europa un anno fondamentale: il 12 gennaio Palermo si sollevò contro il governo borbonico dando così avvio a quella che sarebbe stata definita, la “primavera dei popoli” ovvero l’insieme delle rivoluzioni che cambiarono radicalmente l’assetto istituzionale del vecchio continente
Anche la città eterna non fu esente dal movimento rivoluzionario tanto che il 14 marzo 1848 Pio IX promulgò uno Statuto Fondamentale pel governo temporale degli Stati della Chiesa cioè una vera e propria costituzione in cui, fermo restando alcuni principi assolutistici in materia di religione, si procedeva ad una incisiva riforma dello Stato attraverso il pieno riconoscimento dei diritti del cittadino e alla libera partecipazione dello stesso alla vita pubblica e politica mediante l’introduzione di un Parlamento e con la celebrazione di elezioni pur con qualche limitazioni in merito[32].
Tale Statuto ebbe però breve vita complice il clima sempre più incandescente acutizzato dallo scoppio della prima guerra d’indipendenza e dall’allocuzione concistoriale del 29 aprile in cui il pontefice dichiarò l’impossibilità che le truppe pontificie potessero compiere azioni bellicose contro un’altra potenza cattolica rappresentata dall’Austria.
Terminava così il “mito” del papa liberale mentre a Roma le istanze riformistiche salite al governo spingevano per riforme ancor più significative.
La tensione raggiunse il culmine il 15 novembre allorché il conte Pellegrino Rossi venne ucciso mentre si recava al palazzo della Cancelleria nel giorno di inizio dei lavori della Camera bassa.
Ciò comportò, come è noto, la fuga di Pio IX a Gaeta (24 novembre) e l’inizio della Repubblica romana.
Fuggito nella città laziale ma in territorio borbonico, Pio IX non smise di interessarsi agli affari dei territori pontifici, tanto che il 12 settembre 1849 dalla cittadina campana di Portici, dove si trovava, egli emanò un apposito Motu Proprio con il compito precipuo di delineare un nuovo assetto dell’amministrazione pontificia secondo un’impostazione più assolutistica non per questo eliminando completamente quanto disposto nei due anni precedenti seppure la svolta liberale si andava, in ogni caso, sempre più diradandosi.
Ciò comportò, de facto, la necessità di predisporre una legislazione più capillare a determinare, in buona sostanza, la caratura assolutistica del nuovo regime implicando, quasi in senso paradossale, la necessità di un aggiornamento del sistema penalistico e processuale rimasto ancorato alla legislazione “liberale” degli anni precedenti.
Cominciano così a passare sotto la lente critica del rinnovato Consiglio di Stato, tutti quei provvedimenti e progetti redatti a partire dal 1846 ed in particolare il progetto giuliani sia quello del 1847 inerente al codice penale sia quello di procedura del 1848.
La nuova classe governativa giudicò questi testi inservibili e comunque non conformi al nuovo ideale politico che si voleva costituire dopo il ritorno a Roma del pontefice avvenuto nella primavera del 1850.
Non ci è dato conoscere il lavoro compiuto dal suddetto Consiglio ma è possibile dedurlo dall’amarezza di alcune lettere di Giuseppe Giuliani che pure continuava il suo incessante lavoro di codificazione penale tanto che nel 1857 egli presentò la compilazione di un Progetto di codice penale in riforma del regolamento sui delitti e sulle pene del 1831 nonché un Editto sulla riforma dell’organico e della procedura penale che, tuttavia, verranno liquidati in senso negativo dalle commissioni incaricate di fornire una nuova legislazione in materia penale e processuali per i sudditi dello Stato pontificio.
Nel luglio del 1858 viene elaborato un nuovo Progetto di edito sulla procedura criminale di cui l’estensore principale risulta, in ogni caso, il card. Giacomo Antonelli[33], Segretario di Stato ed autentico testimone della restaurazione pontificia il quale, presentando tale editto all’Autorità superiore, annunciava la prossima pubblicazione di un codice in materia criminale che, tuttavia, non avrà mai luce.
Limitandoci a qualche osservazione, occorre precisare come il Progetto del 1858 non deve essere inteso in senso totalmente negativo ovvero come espressione di una vera e propria “involuzione” dal momento che presenta alcune disposizioni particolarmente interessanti.
Tra le riforme più rilevanti quella relativa alle competenze della S. Consulta (titolo I), sull’esame dei testi (titolo II) concedendo all’inquisito «[…] per i reati capitali la possibilità di scegliere tra il confronto dei testimoni e quella di esperire il giudizio d’appello»[34] .
Obbiettivo principale è quello così di garantire una uniformità dell’intera procedura in materia criminale cercando altresì di fornire delle garanzie all’imputato sia dal punto di vista sostanziale sia dal punto di vista procedurale superando alcune difficoltà in materia d’appello tra alcuni tribunali dello Stato proprio per una corretta ed efficace amministrazione della giustizia.
Ciò che tuttavia colpisce è la totale assenza di interventi specifici da parte dei commissari: sembra infatti registrarsi una vera e propria regressione quasi a voler cancellare, in forma definitiva, quelle novità che pure essi avevano alimentato con i loro pareri.
Con l’avvento degli anni sessanta del XIX secolo, i progetti di codificazione incominciarono la loro parabola discendente complice la sempre più complessa situazione italiana e l’inizio delle proposte di codificazione del diritto canonico il quale era ancora legato ad una normativa dettagliata e caotica.
Il 20 settembre 1870, con la breccia di Porta Pia, lo Stato pontificio cessava dopo secoli: si apriva così una nuova fase per la Chiesa Cattolica seguitata, per lunghi anni, fino alla stesura e alla emanazione del Concordato del 1929 in tempi e condizioni radicalmente diverse rispetto al secolo precedente.
6. Conclusioni
L’esteso excursus storico-giuridico ha permesso di sottolineare come il XIX secolo segni, per quanto concerne la legislazione penale e processuale nello Stato Pontificio, una stagione particolarmente rilevante.
Nel cercare di tratteggiare una linea conclusiva, occorre sottolineare come non sia possibile, in alcun modo, separare il dato normativo da quello storico poiché il secondo influenzò radicalmente il primo come appare testimoniato sia nelle modifiche volute dal Card. Consalvi sia in quelle del card. Antonelli.
Il dato storico così inteso determinò svolte significative in cui la riflessione penale e processuale ne costituisce una delle sue manifestazioni più sensibili proprio perché la legislazione penale rappresenta un termometro significativo della comprensione di uno Stato rispetto alla storia.
In altre parole, l’evoluzione, dall’andamento piuttosto ondivago, che può essere registrata per quanto attiene al processo pontificio deve essere letta in relazione al quadro politico europeo del XIX secolo caratterizzato da grandi e significativi eventi che ebbero ricadute su ciascuno degli Stati allora sussistenti.
Perciò non occorre stupirsi delle difficoltà a cui ci si può imbattere nella ricerca del processo penale pontificio ma ciò testimonia, in ogni caso, l’importanza che questo ramo del diritto ha rivestito e riveste ancora all’interno di ogni ordinamento giuridico.
Si è passati perciò da una legislazione confusa, particolareggiata, affetta da divere criticità, ad una più netta, completa, tipica, influenzata dal pensiero penalistico del tempo che dunque si manifestò anche nei territori pontifici sotto l’egira del Card. Consalvi vero e proprio protagonista della prima e significativa riforma penale ecclesiale.
Dopo un tentennamento desumibile dai provvedimenti di Leone XII, ancora una volta il movimento riformatore si manifestò dapprima sotto Gregorio XVI, nonostante una politica assolutistica incominciata a partire dal 1824, che trovò la sua manifestazione più rilevante nel biennio 1846-1848 ovvero nei primi anni del regno di Pio IX per poi stagnarsi dopo il 1850 sebbene, come già accennato, non sembra assolutamente possibile parlare di una totale assenza di interventi normativi capaci così di razionalizzare e rendere più efficiente il processo penale.
In sintesi possiamo affermare come il diritto penale e il diritto processuale penale abbiano costituito, nel XIX secolo, uno dei “terreni” più fertili in cui si manifestò l’interesse normativo dei pontifici: ciò è interessante e rilevante non solo per quanto riguarda il dato marcatamente giuridico ma anche per osservare, come già suggerito, l’evoluzione storica dello Stato pontificio che, proprio nell’Ottocento, si avviava verso la sua dissoluzione.
Tali riflessioni, in altre parole, acquistano così un significato trasversale perché, da un lato, permettono di essere comprese in una logica squisitamente giudica volendo rispondere alla domanda sulla caratura del sistema penale pontificio nel XIX secolo ma dall’altro possono essere affrontare dallo storico proprio perché da esse è possibile comprendere la natura e la struttura dello Stato della Chiesa in alcuni dei suoi elementi più specifici e tipici.
[1] Ampia la bibliografia in merito a Pio VII. Tra queste segnaliamo J. Leflon, Pie VII: Des abbayes benedictines a la papaute, Plon 1958 come anche M. L. Gazzano, L. Arnello, M. Ghione, Pio VII, primo papa moderno, Savona, 2019.
[2] Cfr. F. Bertini, Buon governo e comunità nello Stato Pontificio del Settecento, Roma, 1995.
[3] Cfr. R. Regoli, Ercole Consalvi. Le scelte per la Chiesa, Roma, 2006.
[4] Sul punto vi è uniformità: sul punto M. R. Di Simone, Istituzioni e fonti normative in Italia dall’antico Regime al Fascismo, Torino, 2007, 229-231. G. Santoncini, Sovranità e giustizia nella Restaurazione pontificia. La riforma dell’amministrazione della giustizia criminale nei lavori preparatori del Motu Proprio del 1816, Torino, 1996.
[5] Cfr. M. Mombelli Castracane, Fonti e metodologia per uno studio sulle riforme del sistema penale pontificio del XIX secolo, in Nuovi annali della scuola speciale per archivisti e bibliotecari, Prato, 1993, 177.208.
[6] Cfr. N. Contigiani, Il processo penale pontificio tra ancoraggi inquisitori e spettro riformista, in Rivista di Storia del Diritto, 80, 2007,189-314.
[7] Sull’opera di Gregorio XVI si segnala, per tutti, G. Martina, Gregorio XVI, in Dizionario bibliografico degli italiani, 59, Roma, 2002, 229-242.
[8] Cfr. N. Contigiani, Il processo penale, 202-207.
[9] Cfr. L. Londei, La funzione giudiziaria nello Stato pontificio di antico regime, in Pro Tribunali sedentes ,IV, 1991, 13-29.
[10] Cfr. N. Contigiani, Il processo penale, 207-211 dove l’A. ricorda altresì il complesso iter studiorum per poter accedere alla magistratura con ampia bibliografia in merito.
[11] Ibid, 209-210.
[12] Se si tratta ad esempio di sospetto di omicidio o nei casi di ferimento nonché di moneta falsa o adulterata.
[13] Leggendo infatti le disposizioni di riferimento suscita qualche meraviglia l’apparato davvero minuzioso con il quale si compie l’esame dei testimoni. Ad esempio, dopo il giuramento, al teste è chiesto se egli conosca il motivo di tale convocazione ed osservando il tenore delle sue risposte dalle quali è possibile agire in diverso modo.
[14] Cfr. N. Contigiani, Il processo penale, 212-213.
[15] Cfr. art. 338 del Regolamento in cui si dice che l’esame verterà sul tenore di vita, le spese, i bisogni, i lucri, il vino, i passatempi etc.
[16] Cfr. N. Contigiani, Il processo penale, 217-232.
[17] Ibid., 236-243.
[18] Cfr. M. Schmoeckel. L’absolutio ab instantia. Son développement en Europe et ses implications constitutionnelles, in Revue d'histoire des facultés de droit et de la culture juridique, du monde des juristes et du livre juridique, 1998,171-187. Va precisato come tale figura assolutoria sopravviva ancora oggi nel diritto processuale canonico sotto la dicitura sentenza dimissoria.
[19] Per il resto le regole procedurali appaiono del tutto analoghe a quelle previste in prima istanza pur con qualche adattamento in merito come emerge dalla lettura degli articoli 465-468.
[20] Anche in questo caso la ratio sottesa è quella di modulare esigenze tra di loro possibili di conflitto. Infatti a nessuno è concesso di essere estratto dal luogo ove trovarsi il suo beneficio se non nei casi e nei limiti previsti dalle costituzioni e dai canoni (art.602) da cui discendono tutta una serie di garanzie vòlte a proteggere l’ecclesiastico senza che ciò comporti un minor esercizio della giustizia e dell’accertamento dei fatti. Non si dimentichi che, ancora nel 1831, era del tutto operativa la Congregazione per l’immunità ecclesiastica istituita da Papa Urbano VIII nel 1626 e scomparsa già alla fine del XIX secolo.
[21] Completano la novella del 1831 alcune altre disposizioni tra cui la possibilità di esperire il rimedio della querela di nullità contro atti o provvedimenti emanati dal giudice nonché un’appendice sistematica che descrive, in modo schematico, alcuni punti di procedura inerenti a diverse fattispecie già citate.
[22] Cfr. N.Contigiani, Il processo penale pontificio, 246.
[23] Cfr. L. Pasztor, La Segreteria di Stato di Gregorio XVI: 1833-1846, in Archivum Historiae Pontificiae 15 (1977), 295-322.
[24] Cf. M. R. De Simone, Progetti di Codici Penali nello Stato pontificio della Restaurazione, in Quaderni fiorentini, 36 (2007), 347-390.
[25] Ibid., 370.
[26] Cfr. Ibid, 381-390. L’A. segnala il progetto di Agatone de Luca Tronchet, governatore di Vetralla il quale redasse un progetto di Codice Penale in cui, al di là della buona impostazione concettuale, si registrava una crescente inquietudine conservatrice rivolta su più ambiti come dimostrano, ad esempio, le norme sulla funzione della pena, le tipologie di delitti e le sanzioni da comminare non esclusa la pena capitale.
[27] Ibid, 386.
[28] Ibid, 388.
[29] Ibid. 389-390.
[30] Fondamentale è la trilogia di G. Martina pubblicata a partire dal 1974 che copre tutto l’arco del pontificato di Ferretti. Tra le opere più recenti A. Tornielli, Pio IX, l’ultimo Papa re, Milano, 2011.
[31]Cfr. A. Mercati, In margine all’amnistia concessa da Pio IX, in Rassegna di scienze storiche, linguistiche e filologiche, 1950, 24, 103-132.
[32] Cfr. M. R. De Simone, Istituzioni e fonti normative in Italia: dall’antico regime al fascismo, Torino, 2007, 234.
[33] Per uno sguardo più completo cfr. N. Contigiani, Il processo penale pontificio, 280-288.
[34] Cf. M. Sbriccoli, Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti (1972-2007), Milano, 2009, 17.
[35] Cfr. N. Contigiani, Il processo penale, 288-289.
[36] Ibid.,292-293. Il riferimento alla certezza morale ci pare del tutto legittimo sebbene, come suggerito, si tratti ancora di una forma implicita dal momento che l’introduzione di detto principio, ancora oggi vigente, risale al Codice di Diritto Canonico del 1917.
[37] Cfr. N. Contigiani, Il processo penale,294.
[38]Vi sono infatti ben cinquantuno articoli dedicati esclusivamente alla prova testimoniale, segno dell’importanza che detta prova riveste per l’autore marchigiano.
[39] Cfr. N. Contigiani, Il processo penale, 301.
[40] Cfr. A. Ara, Lo statuto fondamentale dello Stato della Chiesa (14 marzo 1848). Contributo ad uno studio delle idee costituzionali nello Stato pontificio nel periodo delle riforme di Pio IX, Milano, 1966.
[41] Per tutti cfr. C.Falconi, Il cardinale Antonelli. Vita e carriera di un Richelieu italiano nella Chiesa di Pio IX, Milano, 1983.
[42]Così N. Contigiani, Il processo pontificio, 312.
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