Pubbl. Lun, 23 Dic 2024
Le origini storiche della codificazione: il Vicino Oriente Antico
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Gerardo Marco Bencivenga
Le origini della codificazione. il mondo del Vicino Oriente Antico. Il quadro storico: un paesaggio giuridico-normativo in evoluzione. Il codice di Ur Nammu e il Codice di Hammurapi
The origins of codification in the Ancient Near East
The origins of codification. The world of the Ancient Near East .The historical framework: an evolving legal - regulatory landscape. The code of Ur Nammu and the code of HammurapiSommario: 1. Il quadro storico della codificazione : il mondo del Vicino Oriente Antico; 2. La terminologia giuridica dell' Antico Oriente; 3. Le Legislazioni mesopotamiche come prodomi del diritto; 4. L'esercizio amministrativo: la via maestra delle codificazioni del Vicino Oriente Antico; 5. Le "codificazioni" in Mesopotamia come ordinamento del reale. Le origini storiche della codificazione: il mondo del Vicino Oriente Antico.
1 . Il quadro storico: un paesaggio giuridico normativo in evoluzione
Santi Romano, uno tra i più eminenti tra i teorici istituzionalisti, ebbe a teorizzare[1] che il diritto non è un prodotto sociale, perché è nella necessità che esso trova fondamento e, quindi, se l’istituzione è essa stessa diritto, allora ubi ius ibi societas; tale concettualizzazione ha in effetti trovato riscontro nei rinvenimenti archeologici effettuati a Nippur, antica città della Mesopotamia, che ha restituito il cosiddetto Codice di Ur-Nammu, un'antica tavola contenente scritti una raccolta/codice di leggi - i più antichi fino ad oggi conosciuti - redatto in lingua sumera verso il 2100 - 2050 a. C[2].
La prima parte del Codice, che è stata restituita da due frammenti a Nippur, fu tradotta da Samuel Kramer nel 1952. Poiché le tavolette d'argilla si sono solo parzialmente conservate, erano disponibili solo la “Prefazione” e cinque “leggi”[3]. Successivamente, sono state trovate diverse altre tavolette poi tradotte nel 1965, consentendo la ricostruzione di circa 40 delle 57 leggi[4].
Un'altra copia è stata in seguito pure trovata presso Sippar e mostra, in confronto alla precedente, delle leggere variazioni. Il Codice di UR-NAMMU si offre così come il primo testo sopravvissuto ai secoli d’una certa “codificazione” umana fissata su supporti giunti fino a noi, anticipando di molto tempo il successivo, celebre Codice di HAMMURAPI scritto solo nel XVIII sec. a.C. Un percorso come vedremo segnato da ulteriori, significative legislazioni intervenute nei territori vicino orientali, e che culmina nella grande sintesi dell’età persiana (V sec. a.C.) unificatrice di tutto il Vicino Oriente Antico.
In sostanza il codice di UR NAMMU è il primo “codice” – ancora non definibile come tale, in senso letterale comee in senso terminologico, poiché la parola «codice» discende da una tradizione d un uso posteriori - dell’umanità, redatto nel 2100 a.C. dal re sumero Ur-Nammu, che regnò sulla città di Ur.
Il Codice di UR-NAMMU è composto da 28 articoli, che regolano una vasta gamma di questioni, tra cui un’area trasversale che regola le sfere civile, penale, commerciale e religiosa. Il codice, presumibilmente, era stato preceduto da un certo numero di leggi orali e consuetudinarie che ne prepararono il terreno per secoli, ma è la prima raccolta di istituzioni normative scritta e conservata.
Esso è anche importante per la sua funzione educativa: il codice, infatti, non solo stabiliva le regole da seguire per la convivenza civile, ma serviva anche a educare i cittadini al rispetto della legge e dell'ordine sociale. In particolare, il Codice di UR NAMMU sottolineava l'importanza della giustizia e dell'uguaglianza di fronte alla legge, stabilendo che tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro classe sociale, dovevano essere sottoposti alle stesse leggi[5].
La codificazione delle leggi in Mesopotamia rappresenta un fenomeno cruciale nella storia del diritto Codice di UR-NAMMU segna una svolta nella concezione del diritto, passando da una giustizia basata su consuetudini orali a una giustizia scritta e sistematizzata: questo codice, composto da norme che regolano vari aspetti della vita sociale, dall'amministrazione della giustizia alle transazioni commerciali, riflette un avanzato livello di organizzazione sociale e giuridica.
Storicamente, su questo cammino delle codificazioni antiche troviamo quindi il cosiddetto “codice” di LIPIT-IŠTAR, prodotto dalla “legislazione” dell’ultimo sovrano della dinastia di Išin, in un periodo storico in cui tale dinastia si trovò minacciata dalle incursioni degli Amorrei.
Tale momento legislativo di LIPIT-IŠTAR come vedremo più avanti si colloca in una posizione significativa, poiché costituisce al confronto con le legislazioni di UR-NAMMU un momento di inasprimento delle pene, con una speciale attenzione di severità normativa verso i reati contro la proprietà privata. In questo quadro evolutivo troviamo poi le cosiddette Leggi «ana ittišu», una testimonianza normativa della quale, però, sono giunti a noi solo pochi paragrafi in prospettiva frammentaria, seppur rivestendo comunque alcuni aspetti di interesse, nella evoluzione delle concezioni legali.
Un momento normativo nel quale si indovina una elaborazione capace di differenziare le diverse fattispecie di reato, per esempio, così come di indicare una serie articolata di azioni “risarcitorie”. Con esso si chiude anche il ciclo più direttamente riconducibile al mondo politico e culturale sumero e poi neo sumerico.
Ulteriore corpus di indicazioni legislative giunto dall’antichità mesopotamica è il cosiddetto “Codice” di EŠNUNNA, generato dall’omonimo, alquanto fiorente regno[6], posizionato nella Mesopotamia centro-orientale. Esso, composto di circa una sessantina di Leggi, rispondeva alle esigenze di una società divisa in tre sorte di “caste” sociali, secondo un modello che arriverà fino alla Babilonia dei secoli successivi; in effetti, tale prodotto giuridico viene riportato nel contesto della “cultura babilonese”.
Il regno di Ešnunna, d’altra parte, attesta un’organizzazione sociale ed un’economia ancora prevalentemente basate sull’agricoltura, cui il “codice” dedica di fatti numerose sistemazioni normative. Una differenza in confronto alla stessa Babilonia, la quale vedrà svilupparsi una società invece piuttosto integrata di funzioni, ed in cui accanto all’agricoltura si imporrà sempre di più anche un modello allargato di economia commerciale. Va sottolineato come le leggi di EŠNUNNA appaiano essere pressoché coeve al regno di Hammurapi, generate sotto il regno di Dadausa, nel 1770 circa a. C.
Il Codice di HAMMURAPI (II millennio a.C.) è riconosciuto oggi come patrimonio giuridico della storia umana. Esso si presenta quale raccolta di leggi promulgata dal re Hammurabi di Babilonia nel corso del XVIII secolo a. C, con un'influenza significativa sullo sviluppo successivo del diritto in tutto il mondo antico. La struttura del Codice di HAMMURAPI è organizzata in 282 articoli, suddivisi in 28 sezioni: le sezioni spaziano anch’esse attraverso una vasta gamma di questioni e coprono un po’ tutte le aree della vita civile, offrendosi come un dispositivo regolatore epocale della civiltà mesopotamica, con tangibili sviluppi - “prodromi”, come vedremo più avanti - delle giurisdizioni penali, civili, commerciali.
Il Codice di HAMMURAPI è importante per diversi motivi, soprattutto in quanto sviluppo della capacità di regolazione organizzativa di una società divenuta, all’epoca del grande sovrano, oramai realmente diversificata e complessa, costituendo di fatto una testimonianza di una certa sofisticatezza giuridica e legale raggiunta nell'antichità, con innovazioni significative nel campo del diritto commerciale e delle legislazioni sulla navigazione. Il Codice di HAMMURAPI ha influenzato l’intera storia successiva delle pratiche normative tra Vicino Oriente e in seguito anche nel mondo mediterraneo, riemergendo dopo millenni di oblio a offrire alcuni modelli persino al Codice civile francese, ad esempio, basato in parte proprio sul Codice di HAMMURAPI.
Andranno pure nominate in questa rapida rassegna le cosiddette “leggi neo-babilonesi”, delle quali però sono state scoperti solo alcuni paragrafi residuali, relativi perlopiù a un certo diritto di regolazione civile; si parla in proposito anche di “diritto neo-babilonese”[7]. Siamo oramai giunti all’epoca di Nabucodonosor e alle successive evoluzioni che porteranno l’affermazione del cosiddetto Nuovo Regno Assiro.
Non andrà taciuto anche il ruolo in questa evoluzione giocata dallo stesso mondo assiro già definite quali in precedenza, del quale abbiamo ereditato un lotto di tavolette nell’ambito degli studiosi “Leggi Medio-Assire”, probabilmente assegnabili come redazione al periodo di regno relativo al re Tiglat-Pileser I, ma risalenti nella loro stesura originaria a copie di testi precedenti. Importanti furono anche le leggi hittite, le quali in un territorio molto più spostato verso occidente, nelle regioni dell’Asia minore, sostennero gli ordinamenti di un regno riuscito, per un certo tempo, a profilarsi con forza come una delle potenze vicino orientali più significative.
Le leggi hittite[8] in questa evoluzione mostrarono una cultura diversa all’opera, segnata da legislazioni più miti, come più avanti vedremo.
L'evoluzione del pensiero legale e giuridico nell'antico Vicino Oriente costituisce in realtà un mosaico complesso, che prefigura ma già, almeno in parte, sistema un tracciato per le codificazioni future, dimostrando l'importanza di queste prime codificazioni mesopotamiche nella storia del diritto[9].
Questi antichi testi giuridici, quindi, non solo hanno segnato il passaggio da un sistema basato su tradizioni orali a uno scritto, ma hanno anche introdotto una rivoluzionaria nozione di legge universale e codificata.
La loro esistenza dimostra che la codificazione delle leggi non è un fenomeno recente, ma un'idea che ha radici profonde nella storia umana, evolvendosi in risposta alle esigenze e alle strutture sociali di ogni epoca. Il Codice di UR-NAMMU, in particolare, con la sua enfasi su principi come giustizia e uguaglianza di fronte alla legge, rappresenta un precursore di molte delle idee giuridiche moderne, influenzando non solo la storia del diritto, ma anche la formazione di sistemi giuridici e di governo nel corso dei secoli[10].
L'eredità dei codici di UR-NAMMU e di HAMMURAPI si estende oltre i loro contesti storici e geografici, influenzando direttamente o indirettamente le tradizioni giuridiche di numerose civiltà[11].
Le leggi erano organizzate in modo sistematico, con disposizioni specifiche per ogni tipo di reato o contratto, stabilendo così un primo schema di ordine giuridico che trascendeva le decisioni individuali e arbitrarie.
Questo aspetto dei codici mesopotamici è particolarmente rilevante in quanto sembra rappresentare uno dei primi esempi di un sistema legale in grado di distanziarsi dalla semplice vendetta personale, proponendo soluzioni più meditate, non raramente segnate dall’essere eque e misurate. Oltre a ciò, la presenza di sanzioni specifiche per ogni tipo di reato dimostra un'evoluzione significativa nel pensiero giuridico.
La trasmissione di tali codici rifletteva le tecnologie e le strutture sociali dell'epoca. Tavolette di argilla incise con scrittura cuneiforme erano il supporto per diffondere le norme legali, segnando un'era in cui la scrittura svolgeva un ruolo fondamentale nella conservazione e nel trasferimento del sapere[12].
Le primordiali testimonianze di “codici” legali, come quelli della Mesopotamia, si rivelano esempi eclatanti dell'abilità umana nell'organizzare la società secondo principi di equità e ordine.
Nel Vicino Oriente Antico, d’altronde, la diffusione delle leggi era strettamente legata alla vita religiosa e politica. Leggi, spesso attribuite a divinità o al volere degli dei, venivano insegnate e interpretate in un contesto che univa credenze religiose e prassi giuridiche, in una fusione tra dimensione del sacro e sfera legale la quale conferiva alle leggi un'autorità indiscussa, rendendole colonne portanti delle società antiche.
La scrittura delle leggi incise su monumenti pubblici, come la stele di Hammurapi, dimostra non solo l’intento di codificare le norme, ma anche di renderle accessibili, in qualche modo “tangibili” di fronte a tutta la popolazione. Simile pratica serviva a diffondere la conoscenza delle leggi tra i membri della comunità, rafforzando la loro presenza costante nella vita di tutti i giorni di ogni persona. Sebbene la lettura diretta dei testi legali fosse appannaggio di pochi, la loro esposizione pubblica simboleggiava universalità e importanza per la collettività. Aspetti per così dire “didattici” nelle società antiche non erano limitati alla trasmissione formale delle leggi nei templi o nelle scuole, ma si estendevano alla vita quotidiana.
Racconti, esempi e aneddoti integravano norme e principi legali nel tessuto sociale, educando implicitamente i cittadini al rispetto e alla comprensione delle leggi. In questa dimensione, la legge diventava un elemento di coesione, un ponte tra individuo e comunità, tra ordine terreno e ordine divino.
L'intreccio tra norme legali e dimensione religiosa costituiva una caratteristica distintiva delle società del Vicino Oriente Antico. In queste culture, le leggi non erano semplicemente regole di condotta sociale, ma emanazioni della volontà divina, profondamente radicate nelle credenze religiose e nelle tradizioni spirituali.
La percezione delle leggi come estensioni del volere degli dei conferiva loro un'autorità morale e spirituale che andava oltre il mero obbligo giuridico. In Mesopotamia, ad esempio, i codici legali venivano spesso presentati come diretti da una divinità o impartiti da un re considerato rappresentante o addirittura incarnazione della divinità sulla terra.
Questa associazione tra potere legale e potere divino non solo rafforzava la legittimità delle leggi, ma infondeva anche un senso di sacralità nelle norme e nelle loro applicazioni. Nei vari regni e città-stato del Vicino Oriente Antico, era la figura del sovrano a svolgere il ruolo centrale in questo processo.
Sovrani come Hammurapi di Babilonia si proclamavano guardiani delle leggi divine, sottolineando il loro ruolo come mediatori tra gli dei e il popolo[13]; la stele di Hammurabi, per esempio, non solo elenca le leggi ma inizia con un prologo che descrive il sovrano come scelto dagli dei per portare la giustizia sulla terra.
Tale associazione non si esauriva in una rappresentazione puramente simbolica, ma si rifletteva anche profondamente nella vita quotidiana, dove le decisioni legali e i giudizi venivano percepiti come espressioni della volontà divina.
L'Antico Egitto, con la sua storia millenaria, offre un interessante contrasto con le società mesopotamiche. Mentre in Mesopotamia esistevano codici legali scritti come quello di Hammurapi, l'Egitto si distingueva per una maggiore enfasi sul diritto consuetudinario e per l'importanza cruciale della figura del faraone come fonte suprema di legge[14]- i faraoni, considerati divinità viventi, incarnavano in quanto tali la legge stessa. Non esisteva un “codice legale” formale né scritto, ma piuttosto una serie di decreti e ordini reali i quali fungevano ogni volta da direttive legali.
In questo senso, il diritto egizio appare meno codificato ma anche più fluido rispetto a quello mesopotamico, adattandosi in maniera caratteristica ai cambiamenti e alle esigenze del tempo sotto la guida del sovrano.
Le civiltà mesopotamiche, come quella sumera e quella accadica, offrono a loro volta un esempio significativo di come le lingue e le culture possano influenzarsi a vicenda. I Sumeri, con la loro scrittura cuneiforme e le loro innovazioni legali, influenzarono profondamente i popoli accadici, che adottarono e adattarono sia la lingua sumera sia diversi aspetti del suo sistema legale. Questo processo di assimilazione e adattamento linguistico - quanto culturale, sotto diversi aspetti - non solo arricchì il patrimonio giuridico accadico, ma contribuì anche a creare un terreno comune per l'interazione tra diverse comunità nella regione.
2. La terminologia giuridica dell'Antico Oriente
Quando ci si approccia alla cultura giuridica del mondo mesopotamico è necessario porsi in una prospettiva adeguata, sospendendo cioè l’idea, ereditata dalla tradizione giuridica di Roma, del diritto concepito in termini astratti, rappresentato secondo ragionamenti logici e dal forte retroterra filosofico, come avvenuto nell’epoca ellenistica e poi romana.
Nell’Oriente antico l’attitudine normativa si realizzò piuttosto attraverso una rappresentazione concreta, “gestionale” dei casi specifici, delle esperienze valoriali condivise, quali puntuali regolazioni basate su dei principi comuni di vita quotidiana. In questo senso, il Vicino Oriente Antico sul piano tecnico della codificazione si espresse spesso tramite l’ausilio e un diffuso approccio di formule ipotetiche, ossia attraverso quelle peculiari indicazioni comincianti, per esempio, secondo l’incipit “se un uomo sposa/se una donna sposa”, e simili, prospettando tanti casi di situazione ipotetica, quanto verosimile, di realizzazione d’una fattispecie; secondo la rappresentazione di situazioni concrete, o concretamente assumibili, dunque, piuttosto che procedendo da grandi principi generali.
Lo stesso uso della parola “codice”, nel caso del diritto mesopotamico, appare fondamentalmente improprio, almeno secondo il significato assunto nella tradizione giuridica romana, in quanto nell’antichità mesopotamica i procedimenti normativi avevano presupposti e profilo caratteristici, loro proprio peculiari, come bene ha spiegato l’opera a ciò dedicata di Szlechter[15].
D’altra parte, tale utilizzo estensivo del concetto di “codice” deriva dalla prima, grande stagione di riscoperta da parte della cultura europea nel corso dell’Ottocento delle civiltà Vicino Orientali, la quale riscoperta ha tendenzialmente impostato gli studi in materia successivi, peraltro strutturando nel tempo una importante scuola, in Italia, dedicata specialisticamente allo studio del diritto nelle antiche civiltà mesopotamiche[16].
Sarà allora da considerare in una maniera più focalizzata la specifica terminologia relativa ai valori del diritto o della giustizia in quelle civiltà, ossia l’insieme delle parole costitutive di tale orizzonte normativo, individuabili nel loro peculiare lessico, ossia capaci di occupare quella zona del campo semantico coperta dal medesimo ordine di senso di quel che si è poi storicamente inteso per “diritto”. Come mostra l’analisi mirata svolta da Szlechter, sono tre i termini essenziali alla base dell’universo normativo mesopotamico in grado di occupare la zona semantica del diritto-giustizia, restituitici soprattutto dal vocabolario della lingua accadica.
Essi sono individuabili nei tre seguenti lemmi: kittum, mišarum, dinum, tre parole di fondamentale importanza nella storia giuridica vicino orientale. Se mišerum valeva come rappresentazione della “equità”, in parallelo al corrispondente sumerico Niggisa, ruolo centrale si dovrà riconoscere senz’altro ricoprisse in questo antico immaginario giuridico la parola kittum, il cui significato valeva sostanzialmente per “regola di giustizia”, ed il cui plurale kinatum può realmente tradursi con “leggi”.
La coppia mišarum-kittum può essere considerata in questo senso l’asse centrale del “diritto” in Mesopotamia, inteso cioè come dispositivo sociale volto al giusto e all’equo, da cui dunque un certo “diritto giusto ed equo”.
Si distingue in questo modo un orizzonte semantico delle “regole” espresso da kittum, ed un orizzonte parallelo dei provvedimenti equi, designati da mišarum - quest’ultimi, seguiti ed eseguiti in esclusiva dal re. Il terzo lemma, dinum, era quello con cui si esprimeva la concreta esperienza del giudizio inteso come processo, il momento procedurale del giudizio processuale, sfociando nel significato di una vera e propria decisione giudiziaria; sembra possibile infatti che la locuzione spesso utilizzata, dinat mišarum, potesse esprimere esattamente questo significato, ossia quello di “sentenze avente valore di legge”.
Importante anche considerare altre due parole, sempre in accadico, kibsu e parsu: esse esprimono con kibsu l’orizzonte delle norme morali, e con parsu invece i precetti e le regole riguardanti il mondo religioso. Bisognerà a questo proposito comprendere come, nel mondo antico orientale, l’esercizio della legge non poteva concepirsi e praticarsi al di fuori d’una visione religiosa onnicomprensiva, che inglobava l’intera area della vita collettiva e quindi anche quella della sfera politica, così come di quella giuridica[17].
Tale fondamentale condizione ancor meglio si esemplifica nella concezione della legge e del diritto per come si offriva in Egitto, dove per esprimere tale ambito legale-normativo si utilizzava la parola Maat: in essa si convogliavano diverse, complesse sfumature di significato, legandosi tale parola-concetto al senso di un ordine cosmico, all’azione armonizzatrice in Terra e dunque al significato di una regolazione pensata e vissuta in un’accezione più ampia, in cui religione, natura e giusta azione tendono a compenetrarsi e fondersi.
Anche se, per questo motivo, la posizione del faraone rimarrà perlopiù separata dall’esercizio diretto della giustizia a differenza del Medio e Vicino Oriente, poiché come un vero e proprio “assioma” si collegavano tra loro in Egitto ordine della maat e condizione del faraone, di fatto assunto nell’aura della divinità, di cui egli era espressione in Terra: come riferito in un encomio riportato sulla stele di Kuban, “la tua lingua è il santuario della maat”[18].
Altra chiave d’accesso alla storia dei Codici dell’Oriente Antico è rappresentata dall’approccio di studio attraverso quella che viene nominata “nomotecnica delle fonti”: ossia, la maniera in cui essi sono organizzati sul loro piano discorsivo ed espressivo, il modo tramite cui il discorso legale si manifesta in queste codificazioni, al livello tecnico del linguaggio; la modalità, per così dire, con cui le indicazioni normative vengono a rappresentarsi e a proporsi, sul piano discorsivo, attraverso quali sue peculiari “funzioni testuali” essi si possano attivare[19].
Vediamo quindi apparire diverse “modalità stilistiche” nell’espressione giuridica mesopotamica, le quali caratterizzano in termini nomotecnici l’andamento legislativo nelle antiche civiltà vicino orientali: la prima delle quali è la situazione definita ipotetica d’una fattispecie, la seconda è quella esibita dalle formule della statuizione ipotetica, una terza si riconosce nella modalità detta della apodittica negativa. I casi definiti dalla ipotetica d’una fattispecie sono quelli in cui appare la particella ‘se’ offerta in posizione di statuizione iniziale, seguita da un soggetto indeterminato, a sua volta seguito da un verbo riferito al facere.
La seconda modalità si esprime a sua volta nella formula peculiare “un uomo che”, seguita pure in questo caso da una formula verbale al tempo ipotetico, ma già attutita, come tale, nella sua condizione di ipoteticità.
La terza formula modale è quella tipica, per esempio, dei comandamenti biblici nelle forme del “non avrai”, offerta nei termini di una negazione apodittica. Si registra infine un ulteriore tipo di “stile” delle forme giuridiche nel Medio e Vicino Oriente Antico, e cioè quello che possiamo definire, a differenza dello stile precedente, come della apodittica positiva: si tratta di tutti quei casi in cui il legislatore si esprime attraverso una statuizione determinata, decisa e perciò apodittica ma al positivo, del tipo “la ricompensa è”.
3. Le Legislazioni mesopotamiche come prodromi del Diritto
Sembra necessario, per penetrare nella maniera più adeguata nella storia delle codificazioni, comprendere come il mondo antico, sotto molti aspetti, abbia chiaramente già predisposto diversi percorsi in tal senso, ma riconoscendo anche come esso abbia affrontato tali percorsi secondo le proprie visuali peculiari e specifiche percezioni, ed attraverso una propria logica d’intervento, però anch’essa per così dire “giuridica”.
Lo possiamo vedere a proposito, per esempio, delle concezioni “penali” sviluppate da queste civiltà, nel loro percorso progressivo di definizione, come anche nelle loro differenze e mutevolezze e storiche.
Osservando difatti le concezioni del reato/pena sviluppate dal Vicino Oriente e dall’antica Mesopotamia[20], l’approccio richiesto passa attraverso una attenta ricognizione dei significati in quelle civiltà assunti dall’asse oppositivo “giusto”/”sbagliato”, ossia dalla individuazione di quei comportamenti riconosciuti in esse come “sanzionabili”: tale indicazione di fondo appare certamente presente e ben riscontrata nella documentazione di quelle epoche trasmessa dalla storia.
Da questo sembra ridursi come l’antica percezione mesopotamica dell’area del diritto e della giustizia sembra collocabile in una posizione diremmo “intermedia” tra morale, organizzazione materiale e diritto - secondo le nostre concezioni - traducendo, assumendo in sé, contemporaneamente, l’orizzonte del potere giudiziario e quello delle tematiche penalistiche, come sono intesi oggi; e dei quali orizzonti giudiziari, penali, legali può altresì costituirsi quale concreta fonte storica e modello giuridico di anticipazione, sulla via delle diverse, successive civiltà.
I cosiddetti Codici Mesopotamici sono in effetti configurati come tali nella determinazione di questo orizzonte morale-giudiziario, cui hanno di fatto dedicato e trasmesso i loro articoli/paragrafi, costituendo in questo modo un percorso diremmo “protogiudiziario-penalistico”, applicato nei confronti di determinate condotte critiche, così come in relazione ai casi di “danno ingiustamente cagionato” - collocato ancora a metà, in questo contesto antico vicino orientale, tra il “delitto” e la “responsabilità civile”.
Non solo, ma in tali ordinamenti è possibile ritrovare anche un’attenzione alle situazioni della “responsabilità professionale”, estesa fino a una speciale elaborazione delle “norme giustificatrici” di determinati comportamenti, sulla via dunque d’una attività legislativa piuttosto ricca e piena di livelli d’azione.
Tutto questo panorama complesso sembra essere riportabile al di sotto della categoria dei “prodromi” del diritto, in questo caso dello ius poenale. È giusto, allora, osservare e riassumere alcuni aspetti fondamentali di tale “preordinante” azione legislativa, da intendersi appunto come prodromo del diritto penale[21], nell’analisi che seguirà.
Vediamo per esempio il quadro di tale visuale normativo-penale per come sembra emergere, all’inizio, nel Codice UR NAMMU (CUN), nel quale si riscontra come si potessero alternare in esso diverse prospettive e concezioni della pena, che da quelle più dure potevano però anche passare, in molti casi, a tipi di pene detentive, così come pure in ulteriori altri casi a delle pene pecuniarie, intese ed applicate cioè nelle forme differenziate del risarcimento.
Se ne osserva prima di tutto una divisione delle pene a seconda delle posizioni personali degli individui e delle classi sociali di appartenenza, in genere più lievi se, per esempio, il danno fosse stato arrecato verso individui collocati nella posizione di schiavi, secondo modelli di gerarchia sociale in realtà, spesso, alla base delle società antiche.
L’utilizzo di pene pecuniarie in funzione risarcitoria, a loro volta, appaiono invece applicate soprattutto a tutta una serie di controversie legate alla terra, definibili in qualche maniera quali “reati agricoli” (CUN § 29, 30, 31); da annotare, altresì, il riferimento puntuale che in tali normative viene dedicato all’argento, quale strumento prescelto di valutazione per la quantificazione del danno ed elemento stabile di riferimento, per la valutazione e la realizzazione del risarcimento stesso[22].
Con il cosiddetto Codice di LIPIT-IŠTAR (CLI) si registra un inasprimento più generale delle pene, con l’uso della “pena capitis” anche per i reati contro il patrimonio e la proprietà privata. Ritroviamo pure nel CLI l’opzione delle pene pecuniarie, specie quando si fossero verificati casi di “imperizia”, segnati cioè da negligenza ed impreparazione; cioè, da una mancata, adeguata attenzione nei confronti della proprietà, una fattispecie parallelamente emergente anche in tanti casi di quella zona normativa specifica, che possiamo chiamare quale prodromo del “diritto della navigazione”. Emerge ancora una volta la precisa distinzione tra azione risarcitoria - quale pena identica al fatto commesso, comminata al reo - e risarcimento pecuniario, in quanto tale attinente a un giudizio di colpa minore, nella sua percezione e consequenziale traduzione di pena.
Dai pochi articoli rimasti delle leggi «ana ittišu» sembra riconfermarsi la fattispecie di condotte scorrette o di azioni colpose punite con differenti gradazioni risarcitorie, commisurate nel “peso” - nel letterale senso di peso dell’argento, più o meno pesante nelle diverse monete chiamate in causa dagli articoli normativi: e dunque, più o meno grave, cioè di peso maggiore, a seconda della parallela gravità del reato in causa.
Passando quindi al Codice di Ešnunna (CE), degnamente annotabile in merito è il fatto che in tale corpus normativo si distingua, a seconda della gravità del reato, se esso possa essere giudicato da un “tribunale” diremmo “ordinario”, o debba passare invece al diretto giudizio del sovrano: una distinzione che ha fatto ipotizzare l’entrata in gioco, in tal caso, di un presupposto diremmo di “procedura penale”, piuttosto che semplicemente di “diritto penale”[23].
Altra situazione degna d’interesse è quella in cui pare di poter individuare nelle norme di CE la dinamica del “possesso ingiustificato”, il quale chiamava in causa, in questo modo, una maniera della presumptio juris, come si vede riportato al paragrafo 40; una situazione, in quel preciso paragrafo, valutata evidentemente come di “appropriazione indebita” ed ingiustificata. Nelle vicende di aggressioni e dei conseguenti “danni biologici” occorsi, nelle CE sembra applicarsi perlopiù il ricorso a risarcimenti pecuniari, che sul piano specifico si distinguevano in sicli d’argento, più piccoli, e mine d’argento, molto più pesanti e, dunque, di valore, in vista di una funzione risarcitoria.
Entra in gioco, infine, nell’ultimo articolo-paragrafo delle CE qualcosa che prefigura la “responsabilità civile”, seppur ancora in parte sovrapposta a quella penale - o almeno non così rigorosamente distinta da essa - in anticipo quindi sulle successive elaborazioni svolte dagli ordinamenti classici e moderni.
Il celebre Codice di HAMMURAPI ha lasciato, nella sua nodale posizione storica, anche una corposa produzione di paragrafi relativi a una certa, disegnata zona di procedura penale: ma, a una notevole estensione quantitativa di casi e fattispecie, fa riscontro una piuttosto schematica ripartizione diremmo tipologica di essi, su di un piano “qualitativo”[24].
Una distinzione emblematicamente riassunta nella doppia declinazione altamente richiamata ed alternata in tale codice di pena capitis e di pena compensativa. Sulla scia dei lavori di Saporetti, una riflessione mirata da parte di Ceccarelli Morolli si è recentemente focalizzata in maniera piuttosto dettagliata verso questo orizzonte d’applicazione penale dei casi in CH, attraverso un’analisi dalla quale emerge dalle leggi del CH un clima di notevole, aumentata durezza delle pene, in confronto agli esempi storici delle codificazioni precedenti.
Nonostante tale dominante di durezza in CH, si riscontrano però anche, in esso, diversi casi di applicazioni di tipo risarcitorio, specialmente nei confronti di danni arrecati per via “preterintenzionale”. Il ricorso alquanto allargato e frequente, in tanti casi, della pena capitis nel CH ha in questo senso posto un importante interrogativo tematico agli studiosi: perché, in questa fase storica della normativa penale, essa veniva tanto spesso chiamata in causa? Tale domanda ha indotto un dibattito, nel quale alcuni storici hanno sottolineato il possibile, fondamentale carattere di “deterrenza” svolto da simile ordinamento penale, da intendersi perlopiù quale “indicazione” illustrativa, che non nel senso di una reale, concreta applicazione letterale di queste pene. Ma proprio il citato intervento di Ceccarelli Morolli ha provato nel merito a ricalibrare la questione, laddove sembrerebbe emergere, per lo studioso, una riconoscibile e significativa “linea di demarcazione” nel CH la quale corre in profondità attraverso i suoi 282 paragrafi, e che sembra delineare una decisiva differenziazione creatasi tra situazione del damnum e situazione del crimen[25].
La severità delle pene, infatti, appare sempre riconducibile in CH alle precise situazioni individuate dal “crimen”, cioè a tutte quelle azioni concepite nel segno d’una speciale gravità - per la mentalità di allora - mentre pare altrettanto evidente come, nei casi di semplice “damnum”, entri in gioco la possibilità delle pene puramente risarcitorie.
L’ipotesi fondamentale è che cominci proprio qui a delinearsi quella essenziale distinzione poi maturata nel diritto romano, nelle forme cioè poi distinte dello Ius Civile e dello Ius Penalis. Ipotesi parallela, è che il CH abbia voluto riformulare l’intera vita civile di Babilonia divenuta ormai un grande centro coordinatore politico, religioso ed economico esteso in una vastità di regioni, dunque ampliando a tutto campo la sua azione normativa e regolativa, a differenza delle precedenti legislazioni sumeriche, che lo studioso riporta piuttosto a una concezione civile nell’ordine d’una certa “Common Law”.
Rimane comunque ancora aperta, fondamentalmente, la questione se nel Vicino Oriente Antico tali legislazioni fossero davvero “effettuali” e letterali oppure, come sopra s’accennava, funzionassero piuttosto come messaggi deterrenti, più illustrativi che applicativi. In realtà, il forte utilizzo della pena capitis, in parallelo con la pena talionis, può essere senz’altro inteso come una reale pratica di potere, nella quale attraverso la durezza delle pene si imponeva, al contempo, una forte rappresentazione delle gerarchie sociali, e con ciò l’affermazione perentoria d’un comando verticale, d’un potere superiore al vertice della piramide sociale.
La lex talionis si conferma a sua volta come uno strumento cardine nelle successive operazioni legislative, registrato per esempio nelle Leggi Medio-Assire (LMA) dove esso però convive anche con diverse, parallele misure invece di tipo risarcitorio del danno. In queste stesse LMA è però presente pure un preciso, significativo paragrafo, il §2, nel quale si profila un principio poi divenuto essenziale nel futuro sistema del diritto, ossia la responsabilità personale del reo: si precisa infatti in esse come la responsabilità della colpa ricada sulla persona che l’ha compiuta, e non su eventuali figli, o su altri membri del clan o della famiglia.
Importante anche, nelle LMA, la specificazione spesso sottolineata e chiamata in causa relativa alla identità/identificazione femminile del reato, per esempio nel caso degli aborti volontari, o riguardo all’uso del velo: in realtà, si vede come le LMA de facto concepiscano una visuale paritaria del reato, sviluppando una sostanziale visione paritetica della possibilità dell’uomo o della donna di delinquere. Da notare, in questo stesso ordinamento storico, anche l’emergere del delitto contro la religione, o di “magia”.
Importanti da considerare in questo percorso pure le leggi hittite: un contesto dove si afferma una notevole, sostanziale mitigazione delle pene, con l’interessante innovazione sul piano penale del ricorso, in determinati casi, a un “miglioramento della pena”, indicato attraverso l’originale formula “ora faccia…”. Ma, ancor più, le leggi hittite cominciano a distinguere tra le differenti tipologie di omicidio, proprio secondo la ripartizione poi riconosciuta storicamente tra omicidio volontario, preterintenzionale e colposo; da osservare anche il trattamento riservato al furto, mai sancito con la pena capitale, ma sempre con un risarcimento del bene sottratto, e solo nei casi massimi rimandando il suo giudizio alla Corte del Re, cioè quando il furto oltrepassava un certo limite-standard.
Punto essenziale è che si afferma già durante quest’epoca specialmente una distinzione essenziale tra le diverse tipologie del crimine - anche se non è ancora ben definita la ulteriore, più sottile separazione fra reati e contravvenzioni, né sviluppata una teoria del reato. L’orizzonte concettuale dove inquadrare tale evoluzione è specialmente quella della omologazione delle condotte, “riconducendo tutto a fattispecie produttrici di un danno o di un delitto cui corrisponde sempre una pena certa”[26], dalla pena capitis al risarcimento del danno, fino alla pena pecuniaria.
Reato, danno di condotta, reato di danno in realtà si fondono all’interno d’una unica, più ampia categoria penale, nella rappresentazione e sensibilità del Vicino Oriente Antico. Si impone però, in questa stessa evoluzione ‘protogiuridica’ mesopotamica, un primo, essenziale principio in merito alla rappresentazione del reato e del danno, definibile quale scriminante[27]: e cioè, quel principio relativo ai due fattori scriminanti fondamentali, corrispondenti alla cosiddetta “mancanza di volontà” ed intenzionalità originarie nell’effetto di danno sulle persone, in primo luogo, e in secondo luogo al potersi estendere dell’evento dannoso sopra differenti tipologie di individui, a seconda se essi siano riconosciuti liberi, muskenum o schiavi, nella gerarchia della loro collocazione sociale.
Nell’Oriente mesopotamico antico viene, in più, a fissarsi la cosiddetta negatività della condotta, la responsabilità di fronte a dei comportamenti recanti un possibile danno, anticipando quella che sarà uno dei fondamenti della civiltà giuridica romana.
Tutta questa ricognizione mostra come nel Vicino Oriente Antico si sia costituito un reale antecedente del successivo ius poenale, nelle forme diremmo d’un prodromo nella storia del diritto, e da considerarsi perciò quale passaggio storico fondamentale prima della fondamentale, successiva sistemazione romana. Un reale prodromo, in definitiva, dei successivi e poi moderni concetti di ordinamento giuridico, capace di esprimere l’idea e soprattutto la prassi d’un diritto.
Altro aspetto fondamentale da determinare è la reale natura dei Codici: essi sarebbero essenzialmente un “prodotto di scuola” attraverso cui esercitare l’opera degli scribi, quale “training” per la loro formazione, oppure essi sarebbero da considerare e comprendere come “codificazione delle pratiche esistenti” in grado di attivare dei precedenti ad uso dei tribunali e delle amministrazioni? O, ancora, essi avrebbero avuto un ruolo essenzialmente apologetico, legato alle “gesta del sovrano”? Tre linee d’interpretazione sviluppate nel tempo dagli studiosi e che si sono confrontate con diversi schieramenti d’argomentazioni.
Sul preciso ruolo, funzione storica sostenuti dal corpus dei codici mesopotamici andrà prima di tutto loro riconosciuto un valore peculiare e fisiologico, ossia quale fontes cognoscendi: attraverso questo talvolta frastagliato corpo di testi infatti si è trasmessa, se non una “codificazione” intesa in termini letterali, senz’altro una certa “tradizione legale” e giuridica; perciò, andrà loro attribuito indubbiamente un valore di conoscenza storica, quale fonte di teorizzazione e rappresentazione di un orizzonte legato a quello che la sociologia chiama “sfera del diritto”. Ma proprio per questo, allora, essi possono costituire e valere pure quale credibile fonte di conoscenza giuridica.
Si tratta però soprattutto, per adeguatamente comprendere la reale funzione di questi ordinamenti giuridici lontani, di ritrovare le adeguate coordinate socio-antropologiche di simile mondo antico, uscendo da una visione di esso, per esempio, in termini “classisti” moderni, o secondo la visuale dello “sfruttamento della forza lavoro”, non di rado utilizzata da certa storiografia contemporanea.
Le società antiche, il mondo del Medio e Vicino Oriente vanno piuttosto visti come spazi di vita sociale e collettiva coordinati prima di tutto da una visione religiosa permeante ogni ragione d’essere della vita politica, legislativa, relazionale, una guida “metafisica” del tutto centrale nella formazione stessa delle proprie istituzioni, sia sul piano “culturale” che sul piano più direttamente materiale.
Come appunta allora lo stesso Ceccarelli Morozzi, l’ordine delle attività produttive va fatto rientrare, più che nelle categorie dello “sfruttamento di classe”, nella logica delle necessità pubbliche, comunitarie e condivise[28]: tali, per esempio, vanno considerate le numerose, impegnative opere realizzate sul territorio mesopotamico, come canalizzazioni, o irrigazioni, bonifiche, eccetera, discese come decisioni da una stretta logica di necessità collettiva, propriamente a “vantaggio di tutti”, come “conquiste” condivise sulla via della civilizzazione materiale.
4. L’esercizio amministrativo: la via maestra delle codificazioni nel Vicino Oriente Antico
Appare in proposito da ben comprendere perciò la centralità dell’esercizio amministrativo e della sua necessaria estensione organizzativa, nel vasto contesto storico dell’antica Mesopotamia: l’azione stessa della esecuzione tributaria costrinse a sviluppare un complesso ordito di competenze e responsabilità, sempre collocate in una linea gerarchica di funzioni, alla cui sommità si poneva ogni volta la figura del re, quale supremo amministratore in carica. In questa precisa posizione si colloca il ruolo centrale, nodale degli scribi, i quali costituivano il corpo di funzionari attraverso cui si organizzava il flusso di tale, sempre più estesa, rete amministrativa.
L'educazione giuridica in queste società era prerogativa di una élite composta da scribi e sacerdoti, detentori della conoscenza e competenza per interpretare e applicare le leggi. Attraverso un processo di apprendimento rigoroso, venivano formati ai misteri delle norme legali, imparando non solo a trascriverle ma anche a comprenderne il significato e le implicazioni pratiche. L'istruzione giuridica non era quindi solo memorizzazione di norme, ma un cammino di formazione intellettuale e morale.
Il ruolo degli scribi, nella società antica, andrebbe probabilmente studiato più approfonditamente anche a livello di funzione legislativa, poiché nello scriba, in realtà, viene all’esistenza il potere stesso della scrittura[29], e se ne declina così la sua diffusione, la sua utilità e la sua funzione stessa.
A tale, influente posizione degli scribi nella società mesopotamica, egizia ed anche egea, successivamente, sono stati dedicati diversi approfondimenti di studio, e oltre al citato volume dedicato alla scuola nell’Oriente antico, di Bucci, va segnalata la suggestiva sintesi in materia proposta da Godart[30], con diversi spunti possibili approfondibili nel merito.
Una riflessione senz’altro qui da accennare è quella che collega la scrittura, nel mondo antico, a una concezione in qualche modo “magica” di essa, capace di ricollocare l’intera esperienza dello scrivere, del fissare su supporto e perciò anche dell’“indicare norme” a un orizzonte ben diverso da quello “laico” moderno, dalle ristrette spesso visuali materialistico-razionali della modernità; nell’antica Mesopotamia, d’altronde, la scrittura era vista pure come un dono, direttamente offerto agli uomini dal tramite degli dei.
Proprio in quanto tramite fondamentale della scrittura e del suo ruolo sempre più centrale in quelle società, lo scriba dunque è una figura diremmo “strutturale” di esse e del loro sistema di pianificazione normativa, della complessa rete organizzativa e al contempo legislativa che tali stati riuscirono a sviluppare per lunghi secoli.
Va sottolineato in questo quadro il difficile lavoro di apprendistato di queste figure di mediatori “scritturali”, poiché le forme di scrittura cuneiforme avvicendatesi nel corso dei secoli nel Vicino Oriente Antico spesso accumulavano un numero piuttosto alto di segni, nonché differenti serie di utilizzi e convenzioni dei segni stessi; un percorso lungo, che selezionando le personalità in grado di accedere al ruolo di scriba, restituisce altresì il valore speciale rappresentato nell’antichità dalla scrittura, dall’atto dello scrivere in quanto tale, al prodotto stesso creato da tale atto.
Gli ordinamenti giuridici di queste epoche sono dunque da percepire anche all’interno di questa loro “aura scritturale” dentro cui furono composti, e che probabilmente emanava attorno alla loro presenza diffusa nell’ambiente sociale, come anche attorno a coloro che ne detenevano l’attivazione e lo strumento.
Come dice Godart, gli scribi assunsero spesso al ruolo di una “élite intermediaria” della società antica - come avvenne in Egitto - avvolti dal prestigio di offrirsi quali “custodi della memoria”: un patrimonio riconosciuto come altamente prezioso nei secoli in cui la scrittura ancora si affacciava parzialmente nell’esistenza della vita collettiva, uno strumento attraverso il quale, ancor di più, si poteva trasmettere il sapere, ed uscire sempre maggiormente dall’ignoranza. In questo senso, lo scriba mesopotamico del Louvre, dalle gambe incrociate e dallo sguardo rivolto verso un indefinito futuro, sembra offrirsi quale autentica rappresentazione simbolica di questa speciale identità antica rivestita da simili, alti dignitari “maestri di scrittura” di fronte ai secoli.
Oltre a queste brevi considerazioni più ampiamente antropologiche, andrà peraltro anche ipotizzato come la frequentazione dei Codici da parte degli scribi, se da una parte potesse implicare un certo “esercizio pedagogico”[31], dall’altra sembra far comprendere come l’operazione di scrittura si situasse in un territorio inevitabilmente aperto su di un patrimonio condiviso di “conoscenze di giustizia”, cioè di saperi realmente operativi nella propria tradizione, e spesso tramandati, nel tempo, dalla tradizione orale. Tale tradizione, evidentemente, ha elaborato nei secoli come dei modelli, degli “schemi di regola” i quali, via via, si sono fissati in un corpo di indicazioni normative, fino ai cosiddetti “Codici”.
Importante quindi diventa distinguere l’evolversi di questo sistema amministrativo secondo due linee d’azione, seguendo cioè una duplice “amministrazione parallela”: un’amministrazione di palazzo, “palatina”, e un’amministrazione tramite la casta sacerdotale, “templare”. La quale organizzazione amministrativa, se attraverso queste due ripartizioni risponde al sovrano oppure al tempio, dall’altra deve anche rendersi credibile, propriamente funzionale di fronte al resto della popolazione, in una “terza relazione” e “soggetto” sociale cui dar conto. Qui, dunque, su questa materia viva dell’organizzazione amministrativa e della sua necessaria funzionalità civile va innestata, in buona parte, la logica normativa del Vicino Oriente Antico.
Ciò sembra dimostrato più dettagliatamente dalla grande sintesi realizzata dall’impero Persiano - nato e cresciuto, sviluppandosi ed arricchendosi di funzioni, sui sistemi già imperiali ereditati dalla Mesopotamia precedente - nel quale l’organizzazione amministrativa si costituisce attraverso una serie di “controlli costituzionali” integrati, articolati tra le differenti posizioni e rapporti di fatto giuridici tra sovrano, satrapi e i vari altri funzionari via via collocati nei livelli inferiori.
Riconosciamo, così, come già nell’antichità Vicino Orientale, seppur non svolta e teorizzata come lo sarà nei tempi soprattutto quelli moderni, si sviluppi una reale, evolutiva esperienza di diritto amministrativo, inteso quale prassi amministrativa; ma, in più, andrà sottolineato pure come sia proprio questa fondamentale cornice d’organizzazione effettuale sul territorio alla base dell’intero impianto presentato da tali ordinamenti codificatori mesopotamici. Simile “protodiritto amministrativo” emerso nella storia tra Vicino Oriente, Egitto e la sintesi persiana successiva costituisce l’alveo di sviluppo dell’intera impresa storica del diritto, la concreta via a fondamento dell’opera di codificazione.
5. Le “codificazioni” in Mesopotamia come ordinamento del reale
Da questa breve rassegna di punti attinenti la storia evolutiva del diritto, nelle codificazioni del mondo antico mesopotamico, se ne dovrà in definitiva dedurre come, a ben vedere, esse si pongano quale reale esempio di ordinamento orientale antico[32], poiché essi seppero realmente “mettere in ordine” la realtà, cioè agendo propriamente nel solco del significato essenziale di “diritto”, che è quello di ordinare, e non semplicemente di imperare.
Tali corpi codificatori seppero essere come degli “atti ordinatori della realtà”, ed in questa peculiare maniera, perciò, andranno colti, quali momenti normativi in costante trasformazione, ma al loro fondo mossi da un concreto, autentico intento ordinatore. Il passaggio a una vera e propria prassi quale “diritto” su questa linea sembra poi realmente attuarsi nel tempo, con le leggi hittite per esempio, laddove esse vengono a presentarsi come un autentico “atto di modifica delle regole”, sancendosi in diversi loro paragrafi il passaggio da un certo facere a un altro, ritenuto più corretto, facere.
D’altra parte, si conferma il ruolo storico significativo delle civiltà mesopotamiche anche quando si osservi la vicenda delle cosiddette tutele giurisdizionali dei diritti, con l’importante ruolo rivestito in esse da figure molto simili a quelle che poi saranno i giudici, identificabili in figure collocate in certa “posizione equidistante” per garantire imparzialità al giudizio stesso.
Simile tutela avveniva attraverso diverse modalità e sviluppandosi tramite delle differenziate specie di strutture giudiziarie: ossia attraverso giuramento, oppure seguendo la via giudiziaria vera e propria coram iudice, appellandosi cioè a un elemento terzo giudicante, o anche, talvolta, appellandosi con “ricorso” al sovrano[33].
L’effettualità di simili promulgazioni, la loro capacità cioè di ricadere sulla vita civile stessa, di essere applicate, può essere dimostrata, esemplarmente, dagli editti dei sovrani, ai quali si attribuiva infatti una “esecutività” immediata - quanto mai urgente, e quindi concreta, nel caso attestato ed emblematico degli sgravi debitori.
Si conferma così, a un confronto attento, il profilo già ordinatorio di questi percorsi di codificazione, da vedere quindi non solo nella formula minoritaria di fragmenta juris. Il corpus documentario mesopotamico va riconosciuto piuttosto quale parziale ordinamento giuridico, seguendo le indicazioni di Guarino a proposito dell’essenza stessa di “ordinamento”, definita dalle seguenti considerazioni: “ogni società umana plica l’esistenza di un corrispondente ordinamento sociale (…) Ogni società sovrana implica un ordinamento autoritativo (…) Ogni ordinamento autoritativo è, almeno in parte, un ordinamento giuridico”[34].
L’intento regio, con le codificazioni, fu essenzialmente quello di dare le coordinate generali, di “far notare ciò che è giusto e dunque ciò che si sarebbe dovuto attuare per rendere giustizia”. Il re va riconosciuto come il fulcro di tale grande sforzo organizzativo ed amministrativo: come viene scritto nel Codice di HAMMURAPI, il re “stabilisce la giustizia e la rettitudine, e rende prospere le genti”, assicurando così la “buona direzione”[35]. In questo senso la ‘direzione’/’andamento’ si coniuga coerentemente con una certa visuale generale, del “buon andamento” amministrativo, gestionale in quanto tale della cosa pubblica.
Tutto questo conferma l’orizzonte dei codici mesopotamici nei loro intenti fondamentali, secondo cioè una loro peculiare ottica “ordinatrice della realtà”. Il re, nel mondo mesopotamico, costituisce il primo soggetto della scala gerarchica a poter “pronunciare giudizi”, anche se tale pronunciamento poi poteva trasmettersi in questa gerarchia anche a dei soggetti delegati, in quanto funzionari, osservanti la posizione di giudici; in ogni modo, il re poteva emanare decisioni, e talvolta dirimere le controversie più complesse. T
utte situazioni dove il sovrano, in qualche modo, si pone come il “garante” sociale per definizione e funzione, al vertice d’una comunità però già complessa ed urbanizzata[36].
L’effettività delle norme appare dunque tratta, nel contesto vicino orientale antico, da un certo sentire della società, attraverso cui si determina, poi, la loro fissazione successiva; simile sentimento sociale dunque precede la fattispecie normativa, creando così una effettività della norma però da intendersi in un senso inverso a quello abituale - dove, cioè, è la norma a seguire, diremmo a “registrare” la realtà, e non viceversa; la norma ritenuta “giusta” da un sentire sociale condiviso[37], come per esempio emerge dalla “legislazione” assiro-babilonese relativa al diritto della navigazione.
Il Vicino Oriente Antico ha dunque saputo creare una serie di normative capaci, in definitiva, di generare diritto, di fungere da norme produttrici di un senso nella direzione del diritto. I “codici” mesopotamici, pur non essendo un atto di legge promulgata nell’intesa moderna, hanno comunque svolto una funzione essenziale, valendo da “riferimento” fondamentale ed orientativo per la prassi giudiziale, poi realizzata sul campo a diverso titolo dai giudici chiamati in causa, ed attivi nei loro giudizi seguendo l’alveo dei principi di “buon senso e giustizia”, nel segno d’un esercizio di equità.
Un ponte storico alquanto significativo capace di collegare l’antico oriente mesopotamico alla cultura ellenistica mediterranea fino a quella romana, quasi come un fiume sotterraneo, potrebbe infine essere dimostrato sul piano di una certa, ancestrale eredità linguistica che ricollegherebbe, in realtà, il mondo accadico-mesopotamico a quello creduto, fondamentalmente, “indoeuropeo”, e dunque pure a quello greco e romano.
I lavori[38] in questo senso di Giovanni Semerano, filologo delle lingue antiche, stanno aprendo in anni recenti delle suggestive visuali, dalle quali emergerebbe - il dibattito in qualche modo è aperto, la questione sembra solo all’inizio, e va perciò mantenuto il condizionale in merito - una forte dipendenza, se non vera e propria più o meno diretta discendenza di gran parte del vocabolario sia greco che latino da quello delle lingue antico mesopotamiche, specialmente sintetizzate dall’accadico.
In questo quadro, un certo nucleo essenziale dell’immaginario antico Mediterraneo altri non sarebbe che uno sviluppo storico di rappresentazioni e concettualizzazioni già elaborate molto tempo prima nel contesto mesopotamico e, in genere, di derivazione e tramite orientale.
Nel quale immaginario, evidentemente, si inserisce anche l’ordito concettuale attinente lo spazio delle leggi e della giustizia, i cui termini fondamentali espressi dalle lingue greca e latina sarebbero, secondo Semerano, palesemente riconducibili a termini originariamente diffusi dalle culture mesopotamiche.
Sotto molti aspetti gli esempi appaiono piuttosto stringenti: l’etimologia della parola latina lex, ad esempio, sembrerebbe derivare dall’accadico lehu, il cui significato in lingua accadica era propriamente quello di “tavola della legge”; mentre l’etimologia della parola ius la riporterebbe sempre all’accadico, cioè alla parola ussu/usu, poi in babilonese wussu/wusu, dal preciso significato di “ordine”, ed anche “linea di demarcazione”. Emblematiche ricostruzioni etimologiche, cui può affiancarsi anche la stessa origine del greco nomos, discendente possibile dal lemma anch’esso in lingua accadica nahim, che significava “parlare”, ma nel senso più sottile di “decretare”, e a cui si ricollega la parola naba, attinente al mondo della “parola profetica”, poi giunta fino all’immaginario arabo ed islamico successivo.
Anche la parola latina codex, secondo Semerano, sembra credibile far derivare da una formazione linguistica originariamente accadica, da hattu= “ramo”/”sostegno” con la terminazione in ex- derivante da issu/essu, significante sempre in accadico “albero”, il “codice” essendo all’inizio espresso del mondo latino dal suo originario supporto.
Un passaggio dunque avvenuto in profondità tra le antiche civiltà, sorta di trasmissione sotterranea, per molti aspetti dimenticata ma senz’altro possibile, e che ricollegherebbe molto più intimamente tra di loro le rappresentazioni più lontane del Vicino Oriente Antico e quelle più recenti del mondo classico greco e romano. Un riferimento, altresì, in qualche modo suggestivo per trasferire ora il nostro discorso a questo stesso orizzonte giuridico romano.
[1] S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, Sansoni, Firenze 1946; oggi ripubblicato dalle edizioni Quodlibet, Macerata 2018
[2] Una ricognizione ampia delle legislazioni antico mesopotamiche si può trovare in M. T. ROTH, Raccolte di diritto della Mesopotamia e dell'Asia Minore. Scritti dal mondo antico, Society of Biblical Literature, 1995
[3] S. N. KRAMER, I Sumeri alle origini della storia, Newton Compton editore, Roma 1979 (1958), pp. 52-55
[4] O. R. GURNEY; S. N. KRAMER, Two fragments of Sumerian laws, in Studies in honor of Benno Landsberger on his seventy-fifth birthday, April 21 (1965), 13-19
[5] Sulla civiltà sumerica più ampiamente considerata, G. PETTINATO, I Sumeri, Rusconi, Milano 1992
[6] E. SZLECHTER, Les lois d’Ešnunna. Transcription, traduction, commentaire, Recueil Sirey, Paris 1954
[7] Utile rassegna storica è quella presentata da C. SIMONETTI, Diritti mesopotamici, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2016
[8] Un testo storico rilevabile in materia è F. IMPARATI, Le leggi ittite, edizioni dell'Ateneo, Roma 1964
[9] Interessante la recente sintesi di respiro millenario proposta in F. PIRIE, The Rule of Laws: A 4,000-Year Quest to Order the World, Profile Books Ltd 2021
[10] K. TSUJIMURA; M. TSUJIMURA, Roman law in the national accounting perspective: Usus, fructus and abusus. Statistical Journal of the IAOS, 2021, Vol. 37.2, pp. 613-628.
[11] E. A. SPEISER, Early Law and Civilization, Can. B. Rev., 1953, Vol. 31, p. 863
[12] M. PUCHNER, The Written World: How Literature Shaped History, Granta Books, 2017
[13] A. BLACK, A World History of Ancient Political Thought: Its Significance and Consequences. Oxford University Press, 2016
[14] R. C. ELLICKSON; C. D. THORLAND, Ancient Land Law: Mesopotamia, Egypt, Israel, Chi.-Kent L. Rev., 1995, Vol. 71
[15] E. SZLECHTER, La "loi" dans la Mésopotamie ancienne, in RIDA 12 (1965), 58
[16] Un excursus storico su ciò è stato offerto da A. VERGLER, Il contributo italiano alla conoscenza dei diritti del Vicino Oriente Antico, estratto da "cultura e scuola" 19, luglio-settembre, 1966. Vanno almeno in proposito ricordati, di questo percorso nazionale, i nomi di personalità come Volterra, Pagliaro, Nallino, Carusi, fino a Bucci, Marazzi e diversi altri lustri studiosi, tra cui diversi che vedremo, nelle prossime pagine, citati.
[17] Tra le sintesi dedicate al mondo mesopotamico, L'alba della civiltà, a cura di S. MOSCATI, I-III, Utet, Torino 1976. Tra le monografie più note, J. BOTTERO, La Mesopotamia, la scrittura, la mentalità, gli dei, Einaudi, Torino 1991
[18] Riportata in F. PINTORE, La struttura giuridica, ne L'alba della civiltà,op. cit.
[19] Materia soprattutto studiata da M. T. ROTH, per esempio in Law Collections from Mesopotamia and Asia Minor, Society of Biblical Literature, 2007
[20] Tra i più penetranti osservatori della storia giuridica vicino orientale, C. SAPORETTI, con lo studio fondamentale Le Leggi della Mesopotamia, Le Lettere, Firenze 1984. Ma anche, tra altri contributi, il più recente C. SAPORETTI, La nascita del diritto: studi sulle leggi della Mesopotamia antica, Aracne, Roma 2010, nel quale sono raccolti tanti preziosi saggi ed articoli compilati dallo studioso nel corso di quarant'anni di ricerche. Fondamentale il contributo di Saporetti, anche per la sua presentazione degli articoli di legge mesopotamici in traduzione italiana.
[21] Ha specialmente focalizzato in tal senso la visione storica sui Codici mesopotamici il saggio di D. CECCARELLI MOROLLI, Prodromi di ius penale nell'antica Mesopotamia, in IURA ORIENTALIA III (2007), 1-13
[22] In materia, R. CAPLICE, Introduction to Akkadian, Rome Biblical Institute 1988, ma anche lo stesso Ceccarelli Morolli, nel suo approfondimento D. CECCARELLI MOROLLI, Intorno alla regolamentazione dell'uso ‘giuridico’ dell'argento nel mondo mesopotamico, in Apollinaris LXIII (2000),
[23] D. CECCARELLI MOROLLI, Prodromi …, op. cit., p.4
[24] Sul codice di Hammurapi si è sviluppata una ricca bibliografia di studi, tra cui possiamo segnalare E. SZLECHTER, Codex Hammurapi, Pontificium Institutum Utriusque Iuris, Roma 1977, oppure V. KOROSEC, Le Code de Hammurapi et les droits antérieurs, in RIDA 8 (1961),11-28, o ancora J. BOTTERO, The Code of Hammurapi, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa 12 (1982), 409-444
[25] D. CECCARELLI MOROLLI, Prodromi, op. cit., p. 9
[26] Ibidem, p.12
[27] Sul concetto di "scriminante", si veda R. RIZ, Lineamenti di diritto penale. Parte generale, CEDAM, Padova 2001
[28] D. CECCARELLI MOROLLI, Note sul "diritto" nel Vicino Oriente Antico, ovvero i "codici" mesopotamici tra "fragmenta Joris" e "ordinamento", IURA ORIENTALIA I/1 (2005),45-67, pp. 55-56
[29] P. AMIET, La naissance de l’Ecriture ou vrai Révolution, in Revue Biblique 4 (1990), 525-541, o anche L. GODART, L'invenzione della scrittura. Dal Nilo alla Grecia, Einaudi, Torino 1992
[30] L. GODART, I custodi della memoria. Lo scriba tra Mesopotamia, Egitto ed Egeo, Einaudi, Torino 2023
[31] In relazione a ciò, O. BUCCI, La scuola nell'antichità. L'Oriente Mediterraneo, Euroma la Goliardica, Roma 1996
[32] D CECCARELLI MOROLLI, Note sul "diritto" nel Vicino Oriente Antico, op. cit, p.66
[33] D. CECCARELLI MOROLLI, Note per un primo studio sui prodromi del "ius processuale" nel Vicino Oriente Antico con particolare riferimento ai "Codici" mesopotamici, IURA ORIENTALIA II (2006), 1-12
[34] A. GUARINO, L'Ordinamento giuridico romano, Jovene edizioni, Napoli 1990, p.58
[35] D. CECCARELLI MOROLLI, Note sul "diritto", op. cit. p. 63
[36] G. MAROTTI, Origine e esercizio del potere legislativo nell'antica Mesopotamia, in AA.VV, Il diritto romano-canonico quale diritto proprio delle comunità cristiane dell'Oriente Mediterraneo, Roma 1994
[37] D. CECCARELLI MOROLLI, Prodromi di "diritto della navigazione" nel Vicino Oriente Antico con particolare riferimento ai "Codici" mesopotamici, in IURA ORIENTALIA V (2009), p.8
[38] Testo divulgativo delle proposte e delle ricerche di Semerano è stato prima di tutto G. SEMERANO, L’infinito: un equivoco millenario. Le antiche civiltà del vicino oriente e le origini del pensiero greco, Bruno Mondadori, Milano 2001. Ma lo studioso ha anche saputo comporre dei suggestivi dizionari etimologici comparati, tra cui segnaliamo G. SEMERANO, Le origini della futura europea. Rivelazioni della linguistica storica, Leo Olschki Editore, Firenze 1984-1994