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Pubbl. Ven, 4 Mar 2022

La storia europea tra primo e secondo costituzionalismo: due sistemi a confronto

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Americo Di Giacomo



L´articolo, ripercorrendo le più significative vicende che hanno contrassegnato la storia dei sistemi costituzionali europei a partire dal Seicento, si propone di evidenziare le caratteristiche fondamentali che distinguono l´esperienza dettata dal moderno costituzionalismo rispetto a quelle che dominano il costituzionalismo del Novecento. Da tale confronto emerge la maggiore aderenza delle Costituzioni post-moderne rispetto ai fatti ed alla complessità sociale, manifestando, con ciò, la reale essenza del fenomeno giuridico e la salvaguardia del sistema democratico.


ENG The paper aims to highligt the fundamental characteristics that distinguish the experience of the modern constitutionalism from those that dominate constitutionalism of the twentieth century. From this comparison it is possible to bring out the greater adherence of the post-modern Constitutions with facts and social complexity, demostrating the real essence of the law and the safeguarding of the democratic system.

Sommario: 1. L’avvento del costituzionalismo moderno; 1.1. Tratti distintivi del primo costituzionalismo; 2. Il costituzionalismo post-moderno; 2.1. La Costituzione italiana come espressione del Novecento giuridico; 3. Conclusioni. 

1. L’avvento del costituzionalismo moderno

Successivamente alla creazione dei moderni Stati nazionali comparsi sullo scenario politico europeo a partire dal Cinquecento, la storia giuridica europea dei secoli XVIIIXIX si distingue per essere attraversata dalla grande stagione dei diritti e delle libertà, scaturita dal proliferare delle “Carte dei diritti” che animano gli Stati nazionali del continente.

Come è noto, possedere un sistema fondato su leggi scritte è da sempre considerata una necessità per l’uomo, che fin dai tempi antichi ha fondato l’ordine sociale su un sistema giuridico capace di garantire una convivenza pacifica. Ciò comporta, essenzialmente, la previsione di divieti ed obblighi che legano i soggetti al potere costituito[1]. Tale modo di concepire l’organizzazione sociale e politica contraddistingue i lunghi secoli dell’Ancien Régime, fino a cedere il posto – con la modernità giuridica – alla grande portata innovativa innescata dalle moderne Costituzioni.

Esse si differenziano per essere concepite come “leggi fondamentali” che restringono il potere assoluto del sovrano, descrivendo le condizioni e le modalità necessarie a determinarne l’esercizio, e delimitandone conseguentemente l’area d’azione. Si attribuiscono, inoltre – ed è questa la grande novità – i diritti dei consociati nei confronti dell’autorità, prevedendo un sistema legale di garanzia, che, laddove violato dal sovrano, sanziona nell’incostituzionalità il potere illegittimamente esercitato.

Il cammino che ha condotto alla realizzazione di un sistema costituzionale così innovativo trae origine dalle concessioni dei monarchi – in particolare inglesi – rese a favore di alcune classi della società medievale. Non si può non ricordare, a tal proposito, la Magna Charta Libertatum, concessa nel 1215 dal re Giovanni d’Inghilterra (detto il Senzaterra) a favore dei sudditi dotati di censo: la possibilità di partecipare attivamente alla vita politica del Paese veniva riconosciuta quale diritto fondamentale derivante dal prelievo fiscale sopportato a beneficio del sovrano (emblematico è, in tal senso, il motto “no taxation wtihout rapresentation”, il quale riassume perfettamente le istanze e, poi, le garanzie ottenute da una fetta del popolo inglese).

Nell’Inghilterra del tempo la Magna Charta rappresenta un atto certamente rivoluzionario, giacché comprime, seppure in limitata misura, il potere assoluto del monarca nei confronti di alcuni ceti. Di qui occorre descriverlo come un sistema embrionale di organizzazione costituzionale, comunque apprezzabile per aver gettato le basi sulle quali, nei secoli a seguire, prenderà forma il costituzionalismo moderno.

L’ulteriore passo verso la nuova dimensione costituzionale lo si compie ancora una volta nel contesto inglese, nell’ambito della Gloriosa Rivoluzione (1688-1689), così denominata perché avvenuta senza spargimento di sangue. Con essa si giunge all’instaurazione di una monarchia parlamentare, determinando quell’ossatura costituzionale che ancora oggi contraddistingue la monarchia britannica. A partire da quel momento il Parlamento assurge su di un piano di pari importanza rispetto al sovrano, quest’ultimo ormai considerato soltanto come espressione del potere esecutivo.

Il nuovo sistema di organizzazione dello Stato trova, così, espressione nel Bill of rights (1689), documento elaborato dal Parlamento ed accettato dal re Guglielmo III d’Orange al momento di ricevere la corona, sancendo di fatto la costruzione di una monarchia parlamentare che pone fine all’assolutismo del re.

Sulla scia di quanto avvenuto in Inghilterra, nel corso del Settecento prendono vigore numerose altre Costituzioni, che inaugurano, per così dire, la stagione aurea del primo costituzionalismo. Tra esse bisogna annoverare la Costituzione americana del 1776 e, poi, quelle francesi susseguitesi a partire dal 1789.

La peculiarità di queste Costituzioni sta nell’essere scaturite in maniera determinante, oltre che da sanguinose rivoluzioni (specie in Francia), soprattutto dai valori illuministici diffusi dal rinnovato pensiero settecentesco. Le teorie dei grandi pensatori che fino a quel momento restavano confinate soltanto su di un piano astratto, trovano finalmente attuazione sotto la spinta rivoluzionaria, sancendo la costruzione di uno Stato nuovo e diverso, la cui peculiarità si manifesta in un potere diviso tra più autorità. Il nuovo ordine si fonda, così, sul modello di organizzazione costituzionale concepito dalle teorie di stampo illuminista, la cui sintesi può essere ricercata, in particolare, nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789[2].

La nozione di primo costituzionalismo risulta, così, fortemente intrecciata con il pensiero di matrice liberale, dominante l’Europa settecentesca.

1.1. Tratti distintivi del primo costituzionalismo

Naturalmente, questo nuovo modo di concepire lo Stato e il fenomeno giuridico manifesta tutta la sua carica dirompente all’interno della tranquilla e tradizionalista cultura giuridica occidentale, comportando un’evidente spaccatura con il passato. Ad incoraggiare il passo verso una direzione così innovativa è stato, come si è detto, il grande rinnovamento culturale proposto dalla filosofia illuminista. Una filosofia imperniata di razionalismo e che annovera al suo interno nuove correnti di riflessione ricomprese entro le forme del giusnaturalismo.

Ed è proprio il moderno giusnaturalismo a prestare il fianco alla grande rivoluzione culturale e giuridica del momento. Beninteso, esso è un diritto naturale molto distante dal diritto naturale medievale e da quello di matrice tomista, modellato, invece, ben volentieri sulle idee prodotte dal nascente capitalismo ormai dominante questo momento. Un giusnaturalismo, cioè, molto fedele al suo tempo, legato al progresso delle scienze e alla scoperta, da parte dello Stato, della possibilità di produrre e di monopolizzare il diritto. Sullo sfondo così complesso e reazionario rispetto alla tradizione, si scorgono, di conseguenza, quelle idee risalenti allo stato di natura e alle correlate teorie di libertà, di uguaglianza e di rappresentanza prontamente consacrate nelle “Carte dei diritti”.

Le rivoluzionarie riflessioni sullo stato di natura connotano la speculazione filosofica del momento, favorendo l’articolazione di progetti politici e giuridici che domineranno – per lungo tempo – la scena culturale e giuridica europea. Le nuove teorie, propongono, tuttavia, una dimensione puramente ideale, avulsa da qualsiasi contatto con il mondo reale ed esprimente una mai esistita condizione umana. Si descrive, in tal modo, una dimensione di individui perfettamente astratti: perfetti nel loro essere uguali, e ancor più perfetti nell’essere liberi dalle interferenze altrui. Altrimenti detto, si propone un’immagine di uomo collocata fuori dal mondo e dalla storia; un uomo che ignora il tempo e che non possiede bisogni; un uomo sradicato dalla comunità e privato di ogni forma di rapporto sociale. Si è di fronte ad un modello di uomo la cui virtualità può essere perfettamente combaciata sulla stessa virtualità insita al moderno diritto naturale.

Ed è in questo contesto – senza alcun dubbio metastorico che si pretende di costruire la nuova società, una società individualista, nella quale campeggia un irriducibile egoismo. Il moderno giusnaturalismo, offre, per questo, le fondamenta sulle quali innalzare il nuovo ordine borghese, giacché, insieme ai nuovi diritti riconosciuti a tutela dell’integrità morale e materiale dell’individuo, vi si affiancano la nuova prospettiva individualistica e l’annullamento di ogni dicotomia tra essere e avere: presupposti, questi, assai vantaggiosi per chi è proprietario[3].

Le teorie giusnaturalistiche consentono, di conseguenza, la costruzione di uno Stato unitario e compatto, ma di indubbio orientamento elitario. La prima esperienza costituzionalistica, la cui trama è lentamente intessuta nelle vicende giuridiche americane e poi francesi tra il Seicento e il Settecento, esprime un nobilissimo catalogo di diritti, che –seguendo l’impostazione astratta del diritto naturale – non sono in grado, tuttavia, di avvantaggiare gli emarginati del quarto stato, che non sono neppure lontanamente sfiorati nella loro indigenza[4]. È, questa, l’impostazione tipica di una metastoria profondamente diversa dalla vita vissuta ogni giorno, che è data da una dinamica di forze in lotta.

Il puro astrattismo dominante l’esperienza segnata dal primo costituzionalismo è stato approfondito, in particolare, dagli studi compiuti da Grossi nell’ambito della storia del diritto. Analizzando nel dettaglio il periodo influenzato dalle idee prima descritte, l’Autore ravvisa nell’uguaglianza giuridica, nella rappresentanza politica e nella legalità i tre elementi espressivi della forte dimensione virtuale che pervade le teorie proposte dall’illuminismo giuridico. 

Innanzitutto, riconoscere l’uguaglianza tra i cittadini è sicuramente l’importante traguardo raggiunto dalla cultura giuridica settecentesca, che ha favorito, di certo, un primo passo verso la costruzione di una nuova civiltà non più fondata sugli antichi privilegi feudali. Tuttavia, accanto a questo primo passo non si è avuto il coraggio – se non la volontà – di compierne un altro, orientato verso una direzione in grado di favorire un’uguaglianza fattuale e concreta. Ciò non è avvenuto, non perché fosse impossibile da realizzare, ma perché il nuovo assetto di potere lo ha impedito, per ovvie ragioni politiche e, soprattutto, economiche.

Scrive Grossi: «La disuguaglianza delle fortune, perno dell’assetto economico-giuridico borghese, doveva permanere intoccata. E all’indigente rimase nulla più che una decorazione. Con questa aggravante: se, nel nuovo clima di libertà, non gli fosse riuscito di arricchirsi, un simile risultato negativo, non più ascrivibile agli sbarramenti cetuali, gli sarebbe stato addossato come a personaggio pigro ed ozioso»[5].

La tanto conclamata uguaglianza giuridica, che si pone a servizio di interessi elitari e avente significato stricto sensu politico resterà, per quasi duecento anni, protagonista della cultura giuridica europea, fino all’avvento del costituzionalismo postmoderno, il solo in grado di riconoscere un’uguaglianza sostanziale tra i cittadini.

Venendo, ora, alla rappresentanza politica, essa si ricollega ad un concetto ideale di popolo, un concetto assai vago, che si propone il solo scopo di rafforzare la legittimazione della Rivoluzione. Sullo sfondo di tale valore, si intravedono quelle immancabili costruzioni giusnaturaliste, con le loro fondamenta individualiste e con le astratte idee di generalità e di uguaglianza. Essa si declina, dunque, come la più fedele espressione delle elitarie formulazioni compiute dagli intellettuali settecenteschi.

Continua, in tal senso, Grossi: «essi [gli intellettuali] appartengono prevalentemente alla parte più intelligente e più aperta del ceto aristocratico, ma aristocratici sono; sono personaggi coltissimi ma consapevoli della superiorità che la profonda cultura conferisce. Senza contare che spesso appartengono a logge massoniche o a circoli esclusivi e si sentono – come illuminati – depositari di un sapere compatibile solo all’interno di una consorteria di eletti»[6]. Da questo stato di cose, si può facilmente comprendere la difficoltà, per i moderni intellettuali, di possedere un’idea di diritto nascente spontaneamente dalla società, che risponde ai suoi bisogni concreti, un’idea di diritto, cioè, proveniente dal basso.

Nella loro prospettiva il diritto è sempre concepito come realtà creata dall’alto e da effondere sul popolo, con quell’atteggiamento di colui che detiene la verità e la offre per il bene dei deboli. Si comprende, per questo, l’enorme distanza che, da questo momento, separa la dimensione del diritto da quella dei fatti. La rappresentanza politica, così come elaborata nel contesto illuminista, si traduce inevitabilmente in una grande finzione, in un insieme di artifici sottoposti ad un articolato progetto di dominio della società.

L’ultimo pilastro sul quale poggiano le idee illuministiche è rappresentato da un vero e proprio culto della legge, concepita come unica ed infallibile fonte del diritto. Essa ha il merito di essere generale ed astratta, favorendo, così, l’unità giuridica dello Stato. Accanto a questi caratteri, sicuramente apprezzabili, si scorge quell’aspetto poco favorevole che rimanda ad un innaturale riduzionismo del fenomeno giuridico: la legge si trasforma, così, in un enorme vaso vuoto «che il potere supremo può riempire a suo piacimento dei contenuti più vari, perché non saranno questi a conferirle venerabilità ma soltanto il fatto di essere legge»[7].

Vi è, ancora un a volta, l’enorme conseguenza che vede trasformare il diritto come realtà imposta dall’alto, sopprimendo, in tal modo, l’innata capacità auto-organizzativa della società ed il naturale pluralismo che la anima. Il nuovo assetto costituzionale, formulato dall’avveduta intellighenzia illuminista, cerca di ovviare all’autoritarismo della legge e alla sua capacità di appiattire la pluralità del sistema giuridico, per il tramite della predicazione di questo dogma: la legge è espressione della volontà generale ed è superiore al potere esecutivo e a quello giudiziario.

Attraverso questa più che vincente strategia politica si impedisce quel pericoloso rigetto da parte della società di una simile impostazione che tende ad annullare la genuinità del fenomeno giuridico e il protagonismo del corpo sociale. La legolatria, ormai instaurata, consente più facilmente la monopolizzazione della produzione giuridica e il rafforzamento del potere politico sostenuto attorno ad essa. Il diritto, dunque, è trasformato in strumento di esclusivo appannaggio dei detentori del potere politico.

2. Il costituzionalismo post-moderno

Il Novecento – tempo della post-modernità – è caratterizzato dalla riscoperta della complessità giuridica. Complessità che ottiene, dunque, una rivincita, dopo l’insopportabile riduzionismo determinato dalla fusione tra potere politico e diritto. Il nuovo modo di concepire la giuridicità è espresso, in modo particolare, dalle Costituzioni democratiche, vere protagoniste degli ordinamenti europei del Novecento. Esse si differenziano, tuttavia, rispetto alle “Carte dei diritti” di costruzione sei-settecentesca. Queste ultime, come si è visto, sono il frutto dello strategico progetto di dominio preparato dallo Stato borghese, abilmente attuato attraverso la virtualità disegnata dal moderno giusnaturalismo. Lo Stato, in tal modo, ricavava un nobilissimo elenco di diritti, che venivano attributi ad ogni soggetto. In questo paesaggio così artificioso, l’individuo non poteva che essere contemplato in tutta la sua astrattezza, sprovvisto di storia e di socialità.

Il costituzionalismo novecentesco, si dimostra, al contrario, fedele ai fermenti sociali ed economici che animano la società post-moderna, garantendo un rinnovamento capace di cogliere la complessità sociale. Infatti, la caratteristica tipica delle Costituzioni democratiche è quella di fondarsi su un necessario pluralismo, condizione atta a conferire vero significato alla nuova esperienza giuridica. La prima Costituzione democratica, espressione della post-modernità, è quella di Weimar, nata nel 1919 sulle macerie provocate dalla Grande Guerra, tragedia, quest’ultima, da considerare non solo per l’immane spargimento di sangue e per le difficoltà economiche che ha generato, ma anche per avere demolito le astrattezze dello Stato moderno.

L’esperienza di Weimar segna, per questo, il primo importante passo verso la nuova dimensione giuridica. Una dimensione giuridica i cui contorni appaiono più accentuati nel periodo più avanzato della post-modernità, rappresentato dal secondo dopoguerra. In questo periodo si scorge, infatti, un assetto largamente democratico, abbondantemente animato da quelle novità che allontanano sempre più il nuovo ordine dall’elitaria esperienza moderna. In particolare, la Costituzione italiana del 1948 rispecchia fedelmente la società italiana reduce della tragedia bellica. Una società traboccante di entusiasmo nella costruzione del proprio futuro, pronta ad «ordinare il presente quale esperimento non effimero ma destinato a proiettarsi in un futuro amplissimo, indefinito»[8] .

E il risultato sembra essere stato raggiunto, tanto che i “Princìpi fondamentali” e la “prima parte” sono valori ancora oggi vivi e perfettamente operanti nell’ordinamento.

2.1. La Costituzione italiana come espressione del Novecento giuridico

La caratteristica fondamentale della nostra Costituzione risiede, innanzitutto, nella modalità con la quale è stata elaborata. I Padri costituenti, infatti, non organizzarono sterili dibattiti tra intellettuali, ma vollero superare ogni sorta di formulazione astratta ed autoreferenziale per dare voce ai valori e ai fatti viventi nella società. Il vero interlocutore dell’Assemblea costituente fu, per questo, la persona, soggetto di relazione immerso in una fitta rete di rapporti sociali, economici e culturali. Come persona, poi, è inserita nei vari corpi intermedi che arricchiscono la sua individualità e che la rendono preziosa ed irripetibile. L’attenzione ai corpi sociali comporta la salvaguardia degli spazi di pluralismo necessari a garantire il benessere della società e dell’ordinamento.

Di questa tutela i Costituenti si dimostrarono abili intenditori, assumendo, così, una veduta lungimirante. Una delle relazioni che più testimonia il nuovo ruolo della persona nel democratico assetto costituzionale è quella proveniente dalla voce di Giorgio La Pira – membro di orientamento cattolico nell’Assemblea Costituente – il quale ebbe modo di sostenere con risolutezza che «lo Stato deve costruirsi in vista della persona e non viceversa»[9], perché esistono dei diritti dell’uomo che preesistono allo Stato, avendo l’uomo «valore di fine e non di mezzo»[10] .

Si comprende, in questo modo, il grande divario che separa il costituzionalismo post-moderno da quello moderno: la Carta fondamentale, nata in seguito ai disastri della Seconda guerra mondiale, non attribuisce diritti, ma li riconosce. Si pensi all’articolo 2, straordinario esempio di civiltà giuridica e democratica. La Costituzione repubblicana è, dunque, una Costituzione personalista, che pone al centro del cosmo giuridico la persona, considerata con il suo carico di bisogni, di interessi e di desideri. Essa non offre soltanto un mero elenco di diritti – caratteristica tipica del primo costituzionalismo, tanto da portare Romano a descrivere le “Carte dei diritti” come dei “catechismi” – ma accanto ad essi, vuole prevedere molteplici situazioni di dovere.

È il dovere, infatti, che responsabilizza il soggetto e che, soprattutto, lo inserisce in un contesto sociale che lo storicizza. Il grande valore del costituzionalismo post-moderno, risiede, dunque, nel fatto di non essere frutto di una concessione dello Stato (come era avvenuto con lo Statuto Albertino del 1848, espressione di quella mentalità potestativa atta a concepire il diritto come un qualcosa di ottriato), ma è, al contrario, manifestazione di una realtà che preesiste ad esso. Attraverso di essa, la società si emancipa dalla condizione di irrilevanza e di staticità, per collocarsi in un rapporto di dialogo con il nuovo ordinamento giuridico incarnato nell’ordinamento repubblicano. È la Repubblica ad esprimere la grande novità del Novecento italiano, una novità portatrice di quel necessario pluralismo che informa ogni esperienza giuridica, genuinamente considerata.

La portata democratica, plurale e concreta della Costituzione è testimoniata, soprattutto, dal principio di uguaglianza. In realtà, esso non viene valorizzato per la prima volta nel Novecento: l’uguaglianza era stata già consacrata – come si è visto – nelle “Carte dei diritti” sfoggiate dalla propaganda illuministica. In esse si riconosceva, tuttavia, soltanto un’uguaglianza formale, priva di significato concreto e diretta soltanto a raggiungere obiettivi strategicamente indirizzati verso la conservazione dello status elitario.

Tutto restava confinato su di un piano astratto, con il quale si elaboravano perlopiù discorsi filosofici e politici, piuttosto che risposte concrete alle esigenze della vita. Ciò non accade nel Novecento. Il tratto distintivo del secondo costituzionalismo, infatti, riposa in quel passo rivoluzionario compiuto dai Padri costituenti, in forza del quale, accanto all’uguaglianza formale – espressa dal primo comma dall’articolo 3 – si riconosce, al secondo comma, un’uguaglianza sostanziale[11]: significativa è l’espressione “limitando di fatto”, con la quale si fa stretto riferimento al mondo fattuale. Si opera, in tal modo, il ricongiungimento tra diritto e fatti, tra diritto e società.

Da ciò si comprende come il costituzionalismo post-moderno non si proponga di teorizzare una società ideale, bensì tenda a prestare attenzione ai movimenti della società, avvicinandosi ad essa con l’intenzione di rispondere alle esigenze concrete. Non volendo progettare un mondo virtuale – gravato, di conseguenza, da un innaturale immobilismo – la stessa Costituzione è destinata a conoscere una naturale evoluzione. I valori letti dai Padri costituenti nella pullulante realtà sociale sono sicuramente destinati a durare, ma non in eterno.

Ed è grazie alla pluralità dei valori colti dai Costituenti – valori espressi e, non si dimentichi, anche inespressi – che la Carta fondamentale è in grado di sprigionare quel salvifico dinamismo vocato a ricavare, in maniera permanente, nuove forme di regolamentazione della vita associata[12]. Ciò è testimoniato, in particolar modo, dal formidabile lavoro compiuto dalla Corte costituzionale, organo innovativo rispetto alle precedenti esperienze costituzionali e perfettamente inserito nella vita sociale e fattuale del quotidiano. Essa, individuando sempre nuovi diritti non espressamente contemplati, «ha fatto sì che quella cognitiva lettura della società fatta dai Costituenti continuasse ad essere ossigenata e arricchita, […] collocandosi più nella posizione di organo della comunità, piuttosto che dello Stato»[13].

Ed è proprio questo faticoso e nobilissimo lavoro di lettura del sociale operato dalla Consulta ad esprimere quel trait d’union tra mondo fattuale e ordinamento giuridico, tra vita vissuta tra le strade del quotidiano e quella contemplata nei palazzi delle Istituzioni. Da ciò si evince che la Costituzione italiana, così come tutte quelle post-moderne nate nella seconda metà del Novecento, non si propone di difendere le prerogative di un particolare ceto, ma di affermare quelle dell’intera società.

L’altra importante caratteristica che contraddistingue la Costituzione del 1948 è la sua vocazione universalistica. Questa si ricollega all’innato personalismo prima descritto e connota l’architettura democratica del sistema repubblicano. Ciò è desumibile, infatti, dall’intero impianto costituzionale, oltre che da specifiche ed espresse disposizioni nelle quali ricorre il termine “tutti”. Tali princìpi sono volti a tutelare la persona umana in quanto tale e prescindono da particolari legami di cittadinanza.

Si pensi, a tal riguardo, non soltanto alle disposizioni consacrate nell’articolo 2, ma, tra le tante, anche a quelle riguardanti la tutela giuridica dello straniero (art. 10) e il libero accesso ai servizi erogati dal sistema d’istruzione (art. 34) e da quello sanitario (art. 32). Simili valori testimoniano una grande conquista raggiunta sul piano giuridico e sociale e, soprattutto, dimostrano l’alto livello di civiltà democratica faticosamente realizzato, che merita di essere perennemente salvaguardato. 

3. Conclusioni

Dal sommario confronto operato tra le due esperienze costituzionali descritte, si possono ricavare talune riflessioni. Innanzitutto, il sistema costituzionale costruito tra Seicento e Settecento dimostra, indubbiamente, il coraggio di allontanarsi dagli schemi cetuali dominanti fino a quel momento. Parlare, infatti, di uguaglianza tra i consociati rappresenta, di certo, la più grande innovazione compiuta dagli ordinamenti giuridici del tempo, che consacrano, per la prima volta sul piano giuridico, tale mirabile valore.

Pur essendo riconosciuta sul piano formale l’uguaglianza tra i cittadini, tuttavia, questa non riesce a concretizzarsi nella vita sociale, restando confinata perlopiù nei nobilissimi discorsi sparsi all’interno dei salotti di filosofi e politici. Ciò dimostra che il prevalente astrattismo che pervade la prima esperienza costituzionale sia dettato soltanto da ragioni politiche e di controllo sociale, piuttosto che da reali presidi di tutela delle classi più deboli. Per queste ultime, infatti, la grande rivoluzione compiuta sul piano giuridico e filosofico non è riuscita ad investire il quotidiano, impedendo di raggiungere quel reale riscatto dalle precarie condizioni di vita.

Una simile impostazione comporta, di conseguenza, un diverso modo di concepire il fenomeno giuridico, ridotto ormai a strumento di potere nelle mani del sovrano. Infatti, in questo momento si annulla l’intrinseco pluralismo che esprime in sé l’ordinamento, per dare voce soltanto alla volontà del potere politico, una volontà che cade dall’alto e che monopolizza, a proprio vantaggio, il diritto.

Al contrario di quanto avvenuto nella modernità giuridica, l’esperienza segnata dal costituzionalismo del secondo Novecento è il frutto di un grande cambio di rotta. Le Costituzioni democratiche, protagoniste di questo momento, si pongono, infatti, ben oltre la semplice uguaglianza formale, prefiggendosi l’obiettivo di approdare all’uguaglianza sostanziale tra i consociati.

La grande rivoluzione consiste nell’attivarsi per rimuovere quelle situazioni di fatto che impediscono di superare l’ipocrita uguaglianza di facciata e che minano l’intero assetto democratico. A presidio di questi grandi valori si pone la Corte Costituzionale, organo tendente ad ascoltare la vita concreta della società e che si presta a vero baluardo del pluralismo dell’ordinamento. La sopravvivenza della Repubblica è dettata, infatti, dalla linfa che scaturisce da una società plurale, specchio di un ordinamento anch’esso plurale; e la missione della Corte non può che dirigersi decisamente in questa direzione. Il faticoso percorso che ha condotto all’instaurazione dell’assetto democratico, espresso nei valori scaturenti dalla Costituzione e nella giurisprudenza della Consulta, mira a ricordare, non solo al legislatore, la necessità di una perenne salvaguardia.

È compito, dunque, della società civile – vera protagonista del sistema democratico – affiancata dal prezioso contributo del singolo operatore del diritto, quello di concretizzare quotidianamente le garanzie sulle quali poggia il nostro ordinamento, garanzie dalle quali sgorga quel sistema valoriale che consente di orientare il cammino nella complessa realtà contemporanea, e che impediscono di cedere nuovamente alle tragiche esperienze che hanno segnato la storia europea fino al 1945.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Cfr. V. ONIDA, La Costituzione, il Mulino, Bologna, 2017, p. 7. L’Autore ricorda, inoltre, come «il termine stesso “soggetti” (subjecti), […] indica gli individui cui si riconosce giuridica esistenza (una soggettività), ma esprime [anche] la subordinazione (la soggezione) all’autorità sociale», ivi, p. 8. 

[2] L’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino stabilisce solennemente che “un popolo che non riconosce i diritti dell’uomo e non attua la divisione dei poteri, non ha Costituzione”. Meritevole di essere riportata è, a tal riguardo, la riflessione proposta da Onida, secondo la quale questa formulazione non esprime soltanto una semplice definizione limitata a disciplinare l’ossatura costituzionale del nuovo Stato costruito in seguito ai moti rivoluzionari del 1789 (esprimendo, cioè, «un concetto neutro» per dirla secondo l’Autore), ma i rivoluzionari francesi «volevano proprio affermare i diritti degli individui verso le autorità e stabilire le regole in base alle quali le autorità avrebbero dovuto esercitare il loro potere». Cfr. Ibidem

[3]  Cfr. P. GROSSI, Mitologie giuridiche della modernità, Giuffrè, Milano, 2006, p. 182.

[4]  Magistrali, a tal riguardo, sono le parole del grande intellettuale francese Anatole France, attento osservatore della società del tempo, capace di sintetizzare perfettamente la realtà della questione: «La legge, nella sua maestosa equità, proibisce ai ricchi così come ai poveri di dormire sotto i ponti, di mendicare per le strade e di rubare il pane. [...] Essa ha costruito, sotto il nome dell’uguaglianza, l’impero della ricchezza». Cfr. Le lys rouge, cap. VIII.

[5]  Ivi, p. 199.

[6]  Ivi, p. 203.

[7]  Ivi, p. 212.

[8]  P. GROSSI, Ritorno al diritto, Laterza, Roma-Bari, 2015, p. 13.

[9]  GIORGIO LA PIRA, Relazione sui principii relativi ai rapporti civili, presentata in I Sottocommissione, 1946.  

[10]  Ibidem.

[11] Il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione espressamente recita: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

[12] Cfr. P. GROSSI, L’invenzione del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2017, p. 15.

[13] Ivi, p. 59

Bibliografia

GROSSI, Paolo, Il diritto in una società che cambia, il Mulino, Bologna, 2018

-           L’invenzione del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2017

-           Mitologie giuridiche della modernità, Giuffrè, Milano, 2006

-           Ritorno al diritto, Laterza, Roma-Bari, 2015

-           Società, diritto, stato, Giuffrè, Milano, 2006

LA PIRA, Giorgio, Relazione sui principii relativi ai rapporti civili, I Sottocommissione, 1946

ONIDA, Valerio, La Costituzione, il Mulino, Bologna, 2017