Pubbl. Gio, 24 Dic 2020
Il diritto e le professioni legali nell´Alto Medioevo
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Donato Lo Russo
Il presente elaborato si propone di fornire una ricostruzione storica della cultura giuridica e delle professioni legali nell´ambito altomedievale, periodo storico caratterizzato ancora da una mancata affermazione dell´autonomia del diritto nella gerarchia del sapere e da una omogeneità giuridica di fondo dell´intera Europa continentale
Sommario: 1. La cultura giuridica nel periodo altomedievale; 2. La giustizia ed i giudici dell'Alto medioevo; 3. I giudici pavesi e l'Expositio ad Librum Papiensem; 4. Verso la scuola dei glossatori e l'affermazione della dottrina
1. La cultura giuridica nel periodo altomedievale
È pacifico che nell’alto medioevo il ruolo preponderante nella formazione del diritto è stato ricoperto dalla consuetudine, regina delle fonti del diritto, e solo in seconda battuta dalle leggi dei popoli germanici e dalle leggi romane di epoca tardo antica. In questo contesto qual è stato il ruolo della cultura giuridica? Qual è stato il ruolo della dottrina giuridica e delle professioni legali? La risposta a questa domanda è relativamente semplice, nel senso che la dottrina giuridica nell’alto medioevo ha sicuramente avuto una funziona marginale, sebbene non nulla.
Nell’enciclopedia del sapere altomedievale, infatti, il diritto non aveva una propria autonomia, in quanto il suo contenuto in parte era ricondotto all’etica, e in parte alla retorica e alla dialettica, con particolare riferimento alle tecniche di esposizione del diritto stesso. Neppure la fondazione di scuole di studi superiori in Italia, disposta dall’imperatore Lotario nell’825, aveva previsto corsi di formazione specifici per i giuristi.
La conseguenza di questa ricostruzione è che le opere dottrinali e interpretative del diritto sono molto deboli, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo: un esempio è offerto dalla cosiddetta Summa Perusina, risalente all’VIII secolo, in cui, attraverso brevi proposizioni, viene semplicemente raccontato, in forma molto semplificata, il contenuto del codice giustinianeo.
Un ruolo sensibilmente più significativo, almeno dal punto di vista storico, è stato ricoperto dai notai rogatari dei negozi giuridici: compravendite, permute, livelli, donazioni mortis causa ecc. Infatti, è proprio grazie ai notai che si sono conservate fino ad oggi le formule utilizzate negli atti giuridici e negoziali del tempo. Queste formule sono raccolte nei cosiddetti formulari notarili e, per quanto riguarda la Gallia, ne sono stati tramandati in buon numero: particolarmente indicativo è il Marculfi Formularium[1], (Formulario di Marcolfo), risalente al VII secolo; per quanto riguarda invece l’Italia la raccolta di formule notarili più significativa risale all’XI secolo e corrisponde al Cartolarium Langobardicum.
Nonostante questi atti giuridici fossero scritti in un latino volgare, molto lontano dal latino colto dell’epoca romana e dal latino letterario, il loro contenuto non è comunque scontato e banale, come testimoniato da una formula, di derivazione romanistica, che qualifica il contratto di permuta come un contratto di buona fede.
Non è semplice definire la figura del notaio altomedievale, certamente si tratta di una professione che ha le sue radici nell’epoca romana tardo antica, e in particolar modo nel tabellio, ossia colui che conservava gli atti tra privati; addirittura, Cassiodoro[2] considerava questa figura, per l’appunto assimilabile al notaio, più importante rispetto a quella del giudice.
In ogni caso, le competenze di queste figure sono probabilmente limitate al saper leggere e scrivere, oltre a conoscere un certo numero di formule contrattuali, dal momento in cui, come accennato, non esisteva alcun percorso formativo specifico per i giuristi e, più in generale, per i professionisti del diritto.
Con Carlo Magno, invece, si arriva a un interesse maggiore per queste figure. Il Capitulare missorum generale (802), il famoso documento che regola l’attività dei missi dominici, parla, al capitolare 303, di advocatos, notarios e scabinos. Anche in questo caso, però, non viene assegnata ai documenti da loro redatti la publica fides che hanno, invece, i provvedimenti ufficiali dell’autorità civile. Insomma, tutte queste figure non hanno l’investitura statale che sarà loro concessa a partire dal XII secolo
2. La giustizia e i giudici dell'Alto Medioevo
Dal IX all’XI secolo coesistevano diversi ordini di giudici, ciascuno con competenze e regole procedurali differenti: i giudici pubblici, e quindi i conti e i missi dominici, i giudici ecclesiastici, come il vescovo e il papa, i giudici feudali, ossia la Corte dei pari, composta dai vassalli per deliberare su questioni del diritto feudale, che ricordiamo essere consuetudinario, e poi la giustizia signorile, esercitata dai signori nei confronti dei coloni sulla base del contratto stipulato al momento della concessione del beneficio.
Per quanto riguarda i giudici pubblici, va detto che Carlo Magno emanò diverse riforme sia circa la loro composizione, prevedendo per l’appunto la presenza di missi dominici itineranti e di scabini, in qualità di giudici semi professionali, sia riguardo le regole procedurali che dovevano seguire, ad esempio obbligando i giudici ad ascoltare separatamente ciascun testimone o consentendo al giudice di scegliere autonomamente i testimoni credibili attraverso un procedimento denominato inquisitio.
Tuttavia c’erano ancora molte criticità nell’ambito dell’accertamento dei fatti dedotti in giudizio, in quanto il giudice, pur volendo chiarire la vicenda, molto spesso non era in grado di trovare prove certe, anche perché i testimoni non si trovavano o non si facevano trovare, probabilmente timorosi di ritorsioni; in questo quadro spettava al giudice, con un potere discrezionale non indifferente, il compito di attribuire il giuramento decisorio alla parte che aveva esposto le ragioni che apparentemente erano le più meritevoli. Non sono mancate poi occasioni in cui, grazie all’invio sul territorio da parte di Carlo Magno di missi imperiali, i sudditi hanno avuto la possibilità di denunciare le malefatte e le prepotenze dei conti, come accadde nell’804, in un celebre placito, il placito del Risano, dal nome della località in cui si svolse il processo.
Per quanto concerne invece il ruolo dei vescovi nella giustizia, si tratta di un tema nei confronti del quale i sovrani hanno sempre riservato una particolare attenzione, da Pipino il Breve fino a Carlo il Calvo, e questo in virtù dello strettissimo legame tra il Regno franco, che diventerà Sacro romano impero, e la Chiesa. In particolare, un forte coinvolgimento della Chiesa nella giustizia civile fu esercitato attribuendo la funzione di missi a vescovi di fiducia, tant’è che molti placiti testimoniano una corposa presenza di uomini di chiesa all’interno dei collegi giudicanti anche in qualità di presidenti, e poco importa che questa presenza sia registrata principalmente in controversie in cui almeno una delle parti apparteneva alla Chiesa, in quanto si trattava comunque di processi secolari, decisi secondo il diritto secolare.
Inoltre, alcuni sovrani deliberarono di poter intervenire in quei processi in cui fossero coinvolti i potentes, nei quali erano inclusi i vescovi e gli abati, derogando così al privilegio ecclesiastico che esisteva per quelle controversie in cui entrambe le parti, o almeno il convenuto, appartenevano alla Chiesa; alla luce di questo, l’attribuzione della presidenza della Corte a uomini di Chiesa può apparire quasi come un comportamento compensativo, se non addirittura riparatorio.
La legislazione carolingia disciplinò, inoltre, anche alcuni aspetti dell’amministrazione e della gestione dei monasteri, intervenendo contestualmente anche per garantire il rispetto della gerarchia ecclesiastica, imponendo ai chierici la sottomissione al proprio vescovo, e la sottomissione di quest’ultimo al metropolita.
Un altro aspetto essenziale di questo legame è la collaborazione tra ordine secolare e ordine ecclesiastico nell’ambito del perseguimento dei reati e della gestione dell’apparato sanzionatorio: i sovrani chiedevano ai vescovi e ai chierici collaborazione nelle denunce dei fatti illeciti, e a loro volta i vescovi chiedevano ai sovrani di irrogare nei confronti dei peccatori che si erano sottratti alle sanzioni ecclesiastiche anche sanzioni temporali.
Questo fenomeno può solo in parte essere giustificato dal fatto che il suddito era contemporaneamente anche fedele, e quindi soggetto tanto alle sanzioni temporali quanto a quelle religiose, perché c’è qualcosa di più, in quanto questa collaborazione richiesta alla chiesa dai sovrani è sintomo del fatto che la presenza dei prelati sul territorio e il contatto con la comunità dei fedeli non aveva più solo una funzione pastorale, ma anche politica, poiché funzionale al mantenimento dell’ordine pubblico secolare[3].
Alla luce di questa ricostruzione, si può affermare che il confine tra la sfera temporale e la sfera religiosa, che continuava ad esistere quantomeno in linea di principio[4], era costantemente superato, sia da una parte che dall’altra. Non vi era ancora una piena rivendicazione della propria autonomia né da parte dei sovrani, né da parte del papato.
Per quanto riguarda invece i giudici attivi nella regione italica, questi appartenevano di norma all’aristocrazia locale, erano sicuramente giudici professionali, ed erano denominati “giudici del Sacro palazzo”, in quanto di nomina imperiale e perché collegati al Palatium di Pavia, sede del tribunale superiore del regno. Ed è proprio a Pavia che, quasi improvvisamente, intorno alla fine dell’XI secolo, ci fu una rinascita della dottrina giuridica, presagio della successiva Scuola dei Glossatori fondata a Bologna da Irnerio.
3. I giudici pavesi e l'Expositio ad Librum Papiensem
Questa nuova cultura giuridica, finalmente dedita ad uno studio approfondito e sistematico dei testi normativi, trova la sua più completa espressione nel testo denominato Expositio ad Librum Papiensem, di autore ignoto, attivo nell’Italia settentrionale, e datato intorno al 1070.
Si tratta di un commentario analitico che prende in considerazione centinaia di capitoli di Rotari[5], Liutprando[6], Carlo Magno fino all’imperatore Ottone I. La grande novità rispetto all’approccio del passato è che di ciascun capitolo l’autore non si limita a raccontarne il contenuto, ma cerca di realizzare quella che noi oggi definiremmo interpretazione sistematica, cercando di raccordare il contenuto di un capitolo con quello di un altro capitolo che tratta la medesima materia. In questa cornice, spesso l’autore si limita a dichiarare che una norma posteriore abroga (rumpit) la norma anteriore, o che la norma anteriore è abrogata (rumpitur) dalla norma posteriore, ma in molti casi le argomentazioni sono più sottili e articolate.
Ad esempio, in tema di furto, l'editto di Rotari stabiliva di punire il ladro con una pena corrispondente al nonuplo di quanto rubato, oltre al pagamento di una multa destinata alla cassa del re, mentre Carlo Magno aveva previsto una serie di pene corporali[7]; in questo caso l’autore mette a confronto la tesi sostenuta da alcuni giudici i quali ritenevano che la disciplina carolingia avesse sostituito quella longobarda, con quella sostenuta dal giurista Ugo, probabilmente giudice anch’esso, il quale sosteneva che le pene corporali dovessero essere applicate solo qualora il ladro non fosse stato in grado di pagare.
Non solo, nell’opera si trovano anche rinvii alla compilazione giustinianea: alle Istituzioni, al Codice, alle Novelle e forse anche al Digesto, il monumento assoluto, oltre che padre, del diritto occidentale; il ricorso alla legge romana avviene per far fronte a questioni che non trovano una soluzione nel vigente diritto longobardo franco.
L’aspetto veramente significativo, però, è che per la prima volta la fonte giustinianea viene considerata prioritaria rispetto alla mera argomentazione logica, per la prima volta diventa una vera e propria fonte del diritto, sebbene sussidiaria. In molte occasioni, inoltre, il rinvio al Corpus Iuris Civilis è giustificato dal fatto che la legge romana sia la lex generalis omnium - legge generale di tutti – affermazione di straordinaria importanza se consideriamo che viene attribuita a giudici e giuristi della prima metà dell’XI secolo.
4. Verso la scuola dei glossatori e l'affermazione della dottrina
Queste prime testimonianze di una rinnovata cultura giuridica si accompagnano ad alcune interessanti trasformazioni degli stessi atti negoziali redatti dai notai. Vi sono, infatti, atti di compravendita o di permuta in cui appaiono formule nuove e che denotano una cultura superiore da parte del professionista del diritto. Il notaio Pietro di Arezzo, ad esempio, inserisce costantemente nei suoi scritti formule tratte direttamente dalle Istituzioni giustinianee.
Nel 1076, in un processo celebratosi a Marturi, un monastero vinse una controversia contro un privato cittadino, il fiorentino Sigizo, che sosteneva la maturazione della prescrizione quarantennale a suo favore nei confronti di un appezzamento di terra, richiamando un testo del Digesto[8] che sanciva l’interruzione della prescrizione qualora un litigante non fosse stato in grado, senza sua colpa, di reperire un giudice in tempo.
Al di là della improbabilità della circostanza per cui il monastero non sia stato in grado, in quarant’anni, di avvicinarsi a un giudice del suo distretto per risolvere il diritto conteso sula terra, questo processo è essenziale in quanto per la prima volta, dopo secoli di oblio, il Digesto viene elevato a fonte del diritto. Negli anni successivi sempre più documenti, sebbene una rarità rispetto al numero totale, cominciarono a contenere formule desunte dal Corpus Iuris Civilis.
In queste prime testimonianze scritte, si può cogliere un elemento fondamentale: il ricorso alla legge romana non costituisce mero sfoggio di cultura ma, al contrario, è strettamente funzionale alla realizzazione di negozi giuridici più completi e all’ottenimento di sentenze più favorevoli. Divenne, quindi, ben presto una esigenza generalizzata di tutti i professionisti del diritto quella di imparare ad argomentare attraverso la compilazione giustinianea, ed è proprio questa la ragione principale della sua rapida fortuna e diffusione.
Detto questo, non si può non rilevare che una affermazione effettiva della fonte giustinianea come diritto vigente era tutt’altro che scontata. Se, infatti, è vero che il diritto romano non era mai scomparso del tutto, è altrettanto vero che era la tradizione teodosiana ad aver animato l’Europa altomedievale e non quella di Giustiniano; era necessario, quindi, un ulteriore tassello affinché la riesumazione di un testo normativo rimasto sopito per oltre cinque secoli venisse accettata da tutti.
In quest’ottica, estremamente significativa è la circostanza per la quale non solo i potenti e i signori, ma anche i membri dei ceti inferiori cominciarono a fare ricorso al diritto romano di matrice giustinianea, purché ovviamente in grado di pagare i servigi di un giurista professionale e qualificato. La necessità di un impianto legislativo al passo coi tempi e in grado di collimare con le esigenze della popolazione determinò l’affermazione dell’Corpus, il quale, tra l’altro, traeva la sua legittimazione dalla più alta autorità terrena, in quanto gli imperatori medievali si ritenevano i naturali successori degli imperatori romani[9]
L’utilizzo di questo testo normativo nella pratica negoziale e processuale era impensabile senza la padronanza di adeguate tecniche interpretative ottenibili solo dopo lunghi anni di studio, tanto più in considerazione del fatto che l’XI-XII secolo presenta caratteristiche molto diverse rispetto al periodo in cui il Corpus iuris Civilis ha visto la luce.
L’impresa di rendere la compilazione intellegibile e utilizzabile venne compiuta da un gruppo di giuristi operanti a Bologna, fondatori della cosiddetta Scuola dei Glossatori, capeggiata dal maestro Irnerio. Nasceva a Bologna la prima istituzione universitaria d’Europa, interamente dedita allo studio scientifico e analitico del diritto e della compilazione giustinianea.
Note
[1] contiene 89 formulae divise in due libri. Il primo tratta le c.d. cause regales, che, con buona approssimazione, possiamo ricondurre ai nostri atti pubblici, e il secondo le cause pagenses, riconducibili, invece, ai contratti tra privati
[2] Il notaio Cesare Gherardi, nel suo “Del Notaro considerato ne’ suoi rapporti colla società”, pubblicato nel 1864, traduce così il testo di Cassiodoro: “appena questa istituzione [notariato] precede quella de’ giudici. Infatti, nelle società, gli uomini chiusero in ogni tempo convenzioni tra loro, e fu necessario conservarne la memoria, al che servirono prima le note, quindi scritture degne di fede, compilate da appositi ufficiali. Finché i contratti si adempirono fedelmente, non vi fu bisogno del giudice. La creazione di questo magistrato fu un modo per riparare al male derivato dall’ingiustizia degli uomini. I giudici sono quindi i ministri della Legge nel momento in cui questa è violata dalla malafede, mentre i Notari sono organi della volontà dell’uomo che si conforma alla Legge. E siccome l’obbedienza andò avanti alla trasgressione, la quale fu ed è meno frequente di quella, così l’ufficio del Notaro è più antico e d’importanza più grande, nonché più nobile di quello del Giudice.
[3] Padoa Schioppa A. Storia del diritto in Europa, Dal medioevo all’età contemporanea, pp. 59-62
[4] Nel 494 papa Gelasio I scrive all’imperatore di Costantinopoli Atanasio I una lettera nella quale fa riferimento al papato e all’impero come due “dignità distinte”, entrambe volute da Dio per assolvere ai due compiti fondamentali: condurre gli uomini verso la salvezza e governare il mondo sotto l’unica legge romana. In particolare, scrive: duo quippe sunt, imperatur auguste, quibus principaliter mundus hic regitur: auctoritas sacrata pontificium et regalis potestas.
[5] L’Editto di Rotari del 643 rappresenta il primo esempio di codificazione longobarda, in quanto fino ad allora le consuetudini non avevano mai visto la forma scritta. La lingua utilizzata fu il latino e, in coerenza con il principio della personalità della legge, si applicava solo alla popolazione germanica, non anche ai romani, per i quali valeva ancora il diritto tardo antico.
[6] Liutprando, autore di numerosi e variegati editti, fu re dal 712 al 744. Si convertì dall’arianesimo al cristianesimo e, in effetti, l’influenza della Chiesa è evidente in numerose disposizioni, come quella che garantisce la manomissione del servo davanti all’altare e quella che recepisce alcuni impedimenti matrimoniali tipici del diritto canonico. Inoltre, a testimonianza della crisi del principio della personalità della legge, a differenza di Rotari intese disciplinare per tutti i suoi sudditi, non solo i longobardi.
[7] Capitulare Haristallense
[8] Il progetto di costruzione del Digesto ebbe inizio nel dicembre del 530, con lo scopo di sostituire la vecchia e anacronistica legge delle citazioni di Valentiniano III con una nuova e selezionata raccolta di brani giurisprudenziali. Con queste premesse, il Digesto vede la luce tre anni più tardi, nel dicembre del 533, suddiviso in 50 libri. Al suo interno sono contenuti gran parte degli scritti dei massimi giuristi della Roma antica: da Salvo Giuliano a Labeone, da Paolo a Ulpiano, da Pomponio a Callistrato, da Papiniano a Modestino e numerosi altri. Si può dire, senza timore di smentita, che il Digesto rappresenta un vero e proprio monumento della cultura giuridica universale: senza di esso, infatti, non saremmo venuti a conoscenza del frutto più maturo della civiltà giuridica romana. Ed è curioso che la sua gestazione abbia avuto luogo lontano da Roma, in quanto alla sua stesura parteciparono i più abili tecnici di Costantinopoli, capeggiati da Triboniano; ma non solo, anche i suoi effetti furono dispiegati in Oriente più che in Occidente, anche dopo la Pragmatica sanctio pro petitione Vigilii con la quale Giustiniano estendeva la validità della compilazione in Italia: bisognerà attendere il XII secolo affinché il Digesto e la compilazione giustinianea tornino in vita per una seconda volta.
Sono conservati due manoscritti fondamentali del Digesto: la litera fiorentina, molto vicina, cronologicamente, alla stesura originale, conservata nella Biblioteca Laurenziana di Firenze, e la litera Bononiensis, detta anche Vulgata, della fine dell’XI secolo, utilizzata dagli studiosi della scuola di Bologna.
[9] Padoa Schioppa A. Storia del diritto in Europa, Dall’alto Medioevo all’età contemporanea, p. 89
Bibliografia
Caravale M., Ordinamenti giuridici dell'Europa medievale, Bologna, 1994.
Cortese E. Il diritto nella storia medievale, voll. 2, Roma, 1995.
Grossi P. L'ordine giuridico medievale, Roma-Bari, 1995.
Padoa Schioppa A. Storia del diritto in Europa: dal Medioevo all'età conmporanea, Bologna, 2016.