Diritto di aiuto al suicidio e nuove prospettive. Verso la scriminante procedurale
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Federica Coppola
Il presente lavoro si pone l´obiettivo di analizzare l´iter giuridico che ha condotto all´introduzione di una nuova categoria giuridica di scriminante, la c.d. scriminante procedurale. Tale innovativo istituto è stato coniato dalla giurisprudenza costituzionale intervenuta in materia di aiuto al suicidio, in particolare in merito alla questione di legittimità costituzionale dell´art. 580 c.p. sulla quale si è espressa la Corte con l´ordinanza n. 207 del 2018 e con la sentenza n. 242 del 2019.
Sommario: 1. Premesse ricostruttive della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 580 c.p.- 1.1. L’evoluzione interpretativa dei reati di omicidio del consenziente ex art. 579 c.p. e di istigazione o aiuto al suicidio di cui all’art. 580 c.p.- 1.2. L’applicazione tradizionale delle cause di giustificazione sostanziali nelle ipotesi del c.d. fine vita all’art. 579 c.p.- 1.3 L’approdo del percorso evolutivo con la l. n. 219 del 2017.- 2. Il caso Cappato: la rilettura del reato di cui all’art. 580 c.p. con l’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale ed il venir meno del divieto “assoluto” di aiuto al suicidio.- 2.1. La scriminante procedurale delineata dalla Corte costituzionale.- 3. La sentenza n. 242 del 2019: condizioni ulteriori all’operatività della scriminante procedurale.- 4. L’enucleazione dei c.d. diritti infelici: considerazioni conclusive
1. Premesse ricostruttive della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 580 c.p.
La fattispecie di cui all’art. 580 c.p. è inserita all’interno del Capo I Titolo XII “Dei delitti contro la persona” ed è rubricata “Istigazione o aiuto al suicidio”.
Tale disposizione espressamente punisce “chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione”.
In premessa, è necessario ricostruire i connotati precipui di tale norma incriminatrice.
Trattasi di reato comune in quanto soggetto attivo del reato è “chiunque”. Sul punto, il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice si considera il bene vita, di cui si valorizza, per impostazione tradizionale e alla luce della ricostruzione storica dell’istituto, una concezione c.d. collettiva. Tale ricostruzione risulta finalizzata alla tutela dell'interesse dell'esistenza dell'individuo, ovverosia del bene vita considerato nella sua accezione di indisponibilità da parte del singolo soggetto titolare, coerentemente con una risalente visione paternalistica dello Stato[1].
La norma consta della previsione di tre diverse condotte concorsuali alternative, ovverosia della determinazione o del rafforzamento del proposito suicida (la c.d. istigazione al suicidio), nonché dell'agevolazione in termini esecutivi dell’atto suicidario (il c.d. aiuto al suicidio). Trattasi, quindi, di condotte di partecipazione, materiale o morale, all’altrui suicidio[2], atto di per sé neutro per l’ordinamento giuridico complessivo[3].
Per quanto concerne la prima forma di condotta di partecipazione c.d. morale, le ipotesi di istigazione al suicidio differiscono in quanto la determinazione realizza l’insorgere del proposito criminoso in capo al soggetto titolare del bene vita, a differenza dell’ipotesi del rafforzamento che si limita ad avallare un proposito anticonservatore già insorto in capo al soggetto passivo del reato.
Trattasi di fattispecie connotata dalla presenza di una pluralità di soggetti, ovvero il soggetto attivo del reato (istigatore o agevolatore – materiale o morale – al suicidio) e il soggetto passivo (aspirante suicida). In ragione di tale particolare connotazione della norma si ritiene che la stessa possa essere qualificata quale fattispecie «normativamente monosoggettiva ma naturalisticamente plurisoggettiva»[4], in quanto viene punito solo il soggetto attivo del reato ma non il soggetto titolare del bene giuridico protetto dalla disposizione incriminatrice.
Da una mera disamina preliminare della fattispecie si evince una potenziale applicabilità della norma incriminatrice ad ipotesi variegate ed eterogenee, con il rischio di rendere omogenee dal punto di vista del disvalore penale condotte, invece, diverse tra loro.
L’equiparazione delle condotte suindicate, connesse all’ambito applicativo esteso di tale norma penale, è tradizionalmente intesa quale punctum dolens nella ricostruzione della disposizione incriminatrice in esame.
Si evidenzia, in definitiva, l'incapacità del legislatore di differenziare, in punto di disvalore penale, le disparate ipotesi di condotte sussumibili nella fattispecie di cui all'art. 580 c.p., le quali in concreto si manifestano in fatti eterogenei e, in quanto tali, difficilmente riconducibili ad un unico trattamento sanzionatorio[5].
1.1. L’evoluzione interpretativa dei reati di omicidio del consenziente ex art. 579 c.p. e di istigazione o aiuto al suicidio di cui all’art. 580 c.p.
Le problematicità inerenti alla formulazione della fattispecie di cui all’art. 580 c.p. sono rese ancora più evidenti ponendo a raffronto tale norma penale con la disposizione attigua di cui all’art. 579 c.p., la quale ha subito un percorso evolutivo tendente a chiarirne la portata precettiva alla luce del mutamento della percezione culturale ed etica della società rispetto al fenomeno del c.d. fine vita.
L’art. 579 c.p. è rubricato “Omicidio del consenziente” e incrimina chiunque cagioni la morte di un uomo col consenso di quest’ultimo.
Secondo parte della dottrina, entrambe tali fattispecie incriminatrici sono equivalenti per il bilanciamento di diritti che attuano, ovvero l’indisponibilità del bene vita[6], inteso nella sua tradizionale accezione, e la libertà di autodeterminazione del soggetto nell’atto suicidario[7].
Rispetto a tali disposizioni, infatti, ciò che viene contestato è l'interpretazione patriarcale dell'interesse protetto della vita, non più idonea a soddisfare e corrispondere alle nuove istanze di autodeterminazione degli individui affetti da gravi malattie; in altri termini, «la lapidaria formulazione degli artt. 579 e 580 c.p. riflette una valutazione di meritevolezza della vita espressa in forma assoluta, nel quadro di un’espropriazione dell’individuo dalle scelte inerenti alla sua integrità psicofisica»[8].
Il percorso evolutivo in tema di nuove forme di tutela della libertà di autodeterminazione del soggetto nelle ipotesi del fenomeno del c.d. fine – vita ha avuto ad oggetto, in primis, la fattispecie precipua di cui all’art. 579 c.p.
È alla luce dello sviluppo delle scienze mediche che si sono verificate, nella realtà fattuale, ipotesi rispetto alle quali le disposizioni incriminatrici de qua appaiano obsolete e inidonee al soddisfacimento della tutela dei beni giuridici coinvolti nelle vicende da esse considerate.
Sotto tale profilo, occorre menzionare la mancanza di corrispondenza tra il fine perseguito dalla norma incriminatrice così come tradizionalmente intesa, ovvero la tutela della vita quale bene indisponibile per mano del soggetto titolare e le nuove esigenze di tutela che necessitano di innovativo bilanciamento, tra cui, in primis, la libertà di autodeterminazione del soggetto nella scelta terapeutica, così come declinato dal diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.
In particolare, un seguito indirizzo critico ha ravvisato una rivisitazione del concetto di paternalismo giuridico[9], così come considerato alla base dell’enucleazione delle fattispecie suddette, tradizionalmente intese come finalizzate «allo scopo specifico di frenare l’individuo dal cagionare danno a sé stesso»[10] , e connotate da una visione marcatamente collettivistica del sistema penale e delle relazioni umane[11].
Nel contesto sociale e culturale attuale appare anacronistico considerare intangibili i presupposti alla base dell’enucleazione delle fattispecie che considerino i divieti assoluti, in senso lato, di aiuto al suicidio.
A tale ricostruzione ermeneutica sottende la valorizzazione del principio personalista, che alluda alla necessità di porre la persona umana al centro del sistema ordinamentale inteso nel suo complesso, superando quelle interpretazioni tendenti a degradare la persona quale oggetto del diritto e valorizzandone, invece, il ruolo di soggetto del diritto.
Nella visione più rigida e tradizionale del principio paternalistico dello Stato di diritto, rispetto al quale cioè lo Stato debba intervenire in ogni aspetto della vita degli individui appartenenti alla comunità, «volontà e responsabilità – e dunque autonomia – del soggetto sono variabili irrilevanti»[12] rispetto all’intervento regolatorio della vita degli stessi da parte dello Stato.
Si ritiene, infatti, che lo Stato non possa più spingersi nella regolamentazione dei fatti da intendere penalmente rilevanti secondo scelte di politica criminale tali da incidere nella sfera intima intangibile del singolo individuo, alla luce della preminenza accordata, nel contesto odierno, al principio personalistico[13] .
Il principio personalista anzidetto permette, quindi, di valorizzare una visione antropocentrica della Costituzione, superando una «visione sociale e indisponibile della vita»[14].
È in ragione della nuova prospettiva esegetica dei beni giuridici tutelati dalle norme incriminatrici delle condotte attinenti ai casi estremi del c.d. fine vita che ha avuto inizio il fenomeno di revisione e destrutturazione dell’area penalmente rilevante dei fatti in esse sussumibili.
In particolare, tali considerazioni sono il frutto dell’evoluzione scientifica che ha portato al verificarsi di condizioni - limite rispetto ai quali i soggetti malati, posti nelle condizioni dell’esito infausto della propria malattia, decidano consapevolmente e volontariamente di consentire alla propria morte.
Ciò che cambia, in estrema sintesi, è la rivalutazione della vita quale bene non più assolutamente indisponibile, ma parzialmente sacrificabile ad opera del soggetto titolare, nel rispetto di determinati presupposti; in altri termini, «la vita oggi è sacra solo se in parte disponibile, altrimenti risulta vilipesa e offesa nel suo valore»[15]. La stessa opzione interpretativa in ultimo evidenziata non deve però essere intesa in termini assoluti, in quanto permane l'esigenza di tutelare la vita di coloro che sono impossibilitati a realizzare una scelta libera e consapevole concernente il proprio diritto alla salute[16].
Il diritto fondamentale che emerge in questi casi da bilanciare rispetto all’impostazione tradizionalmente intesa di tutela assoluta del bene vita, è il diritto fondamentale all’autodeterminazione terapeutica di cui all’art. 32 co. 2 Cost[17].
Si deve premettere che la suddetta equiparazione tra valori di valenza costituzionali si attua in quanto si ritiene che la Costituzione, pur non menzionando espressamente il diritto alla vita, lo consideri un presupposto ontologico imprescindibile per l'esercizio di diritti esplicitamente riconosciuti nella stessa Carta fondamentale, da cui il riferimento al diritto alla salute di cui all'art. 32 Cost.[18]
Il diritto alla salute, così come emerge dalla disposizione richiamata, si intende tradizionalmente nella duplice accezione di «diritto dell’individuo e interesse della collettività», specificando, altresì, che «nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». Si aggiunge che «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana»[19].
È dal riferimento al co. 2 dell’art. 32 Cost. che ha origine la valorizzazione del diritto del singolo individuo all’autodeterminazione terapeutica, di cui oggi si apprezzano le declinazioni concrete proposte nel recente dibattito dogmatico.
Ciò che emerge dal percorso evolutivo in materia è l’esaltazione della «soggettivizzazione della salute», in quanto è necessario che qualunque diritto, incluso il diritto alla vita, non venga inteso in termini assolutistici, altrimenti vi è il rischio di degenerazioni connesse all'esasperazione di una tutela tirannica, a danno degli altri diritti che necessitano di altrettanta tutela nel bilanciamento del singolo caso concreto[20].
Orbene, è dal superamento della concezione paternalistica e collettiva della vita, connessa alla valorizzazione del diritto del singolo all' autodeterminazione terapeutica, che consegue la necessità di rifuggere dalla configurazione del diritto alla salute quale monade isolata, inflessibile ed invariabile. Emerge, in altri termini, l'esigenza di valorizzare una concezione del diritto alla salute strettamente interconnessa con l'individuo che ne risulti titolare esclusivo[21] .
In definitiva, «anche il diritto alla salute, al ricorrere di drammatiche condizioni, è suscettibile di ponderazione e la prova di tale assunto proviene direttamente dall’art. 32 comma 2 Cost., che facoltizza l’individuo a rifiutare le cure mediche, anche qualora siano essenziali per la salvaguardia della vita»[22].
Sul punto, la valorizzazione trasversale del principio personalistico nel tessuto costituzionale risulterebbe chiara in quanto dal faro fondante dell’art. 32 co. 2 Cost. segue poi un "file rouge" con altre disposizioni della Carta fondamentale da leggere in combinato disposto, con particolare riferimento agli artt. 13, 27 e 32 Cost.[23] .
1.2. L’applicazione tradizionale delle cause di giustificazione sostanziali nelle ipotesi del c.d. fine vita all’art. 579 c.p.
Nell’iter ricostruttivo per giungere alla scriminante procedurale così come descritta dall' ordinanza n. 207 del 2018 e dalla sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale è necessario preliminarmente analizzare il percorso evolutivo che ha avuto ad oggetto la fattispecie penale di cui all’art. 579 c.p.
Tale fattispecie è stata oggetto di analisi con riferimento al Caso Welby, che riguardava una sentenza di non luogo a procedere per il medico di Piergiorgio Welby, il quale aveva assecondato la volontà di quest’ultimo di porre fine alla propria vita, in quanto affetto da gravissimo stato degenerativo diagnosticato quale distrofia fascioscapolomelare.
I trattamenti sanitari adottati non erano stati idonei ad evitare una diagnosi orientata verso l’esito infausto. È in ragione di tali presupposti che Welby scelse liberamente e consapevolmente di chiedere al proprio medico da cui era assistito di interrompere le terapie salvavita adottate (nel caso di specie il distacco dell’apparecchio di ventilazione, accompagnato da sedazione).
La vicenda si concluse con la sentenza di non luogo a procedere pronunciata nei confronti del medico rispetto al reato di omicidio del consenziente di cui all’art. 579 c.p. in quanto tale condotta si reputò scriminata dall’adempimento di un dovere di cui all’art. 51 c.p., quale espressione del riconoscimento dell’esercizio del diritto di rifiutare le cure del paziente desumibile dal combinato disposto degli artt. 51 c.p. e 32 co. 2 Cost.
Nella vicenda Welby si è resa ancor più evidente la necessità di regolamentare ipotesi estreme ma comunque astrattamente sussumibili nella norma penale di cui all’art. 579 c.p.
Per il tramite della vicenda suddetta, il diritto all’autodeterminazione terapeutica, di cui la giurisprudenza costituzionale[24] ha avallato la massima applicazione diretta dall’art. 32 co. 2 Cost., risulta declinato nel diritto di rifiutare le terapie (anche salvavita) e nel diritto di interruzione delle terapie già iniziate finalizzate a garantire la sopravvivenza del malato.
È per il tramite del riferimento alla causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p., ovvero dell’esercizio di un diritto e dell’adempimento di un dovere che si è reso lecito il comportamento del medico che ha adempiuto al dovere di consentire l’esercizio di quel diritto garantito ab origine dalla Carta fondamentale, escludendo la sussistenza del reato nell’ipotesi in esame.
In definitiva, è in virtù della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p., ovvero dell’adempimento del dovere del sanitario, che si è scriminata una condotta che, altrimenti, risulterebbe astrattamente riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 579 c.p.
La dinamica anzidetta ha reso evidente come nella materia delle condotte agevolative, da intendersi in senso lato, degli atti anticonservativi del malato, si utilizzi la categoria dogmatica delle cause di giustificazione per escludere la punibilità delle condotte tipiche riconducibili alle fattispecie incriminatrici anzidette.
Per il tramite di tali scriminanti, quindi, si elide l’antigiuridicità di fatti astrattamente tipici in ragione della funzione di bilanciamento di interessi che esse attuano, considerando preminente, nel caso di specie, il diritto all’autodeterminazione terapeutica dell’individuo rispetto ad una concezione obsoleta della vita quale bene giuridico indisponibile.
Una caratteristica tipica delle scriminanti sostanziali è la realizzazione di un accertamento dichiarativo della liceità del fatto da realizzarsi ex post rispetto alla condotta astrattamente riconducibile al tipo previsto dalla fattispecie incriminatrice.
1.3. L’approdo del percorso evolutivo con la l. n. 219 del 2017
Ciò che emerge dalla disamina effettuata è la necessità di rivalutare la sussumibilità nelle fattispecie che incriminano le condotte, in senso lato, agevolatrici dell’atto suicidario dell’individuo; occorre, quindi, «rivalutare (rectius: scriminare) il ventaglio di situazioni in cui un terzo potrebbe incorrere (…) volendo far solamente del bene (…) confortato dal suicida e dalla convinta volontà di quest’ultimo nel voler porre fine alla sua vita»25]
È in tale contesto che si introduce la legge n. 219 del 2017 contenente “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”.
L’art. 1 della menzionata normativa, rubricato “Consenso informato”, espressamente dichiara che «la presente legge, nel rispetto dei principi di cui agli articoli 2, 13, 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carte dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge».
Per il tramite di tale disposizione è espressamente consacrato nella normativa ordinaria il diritto all’autodeterminazione terapeutica così come desunto dall’art. 32 co. 2 Cost., come si legge altresì al co. 5 dell’art. 1 citato secondo cui “ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte (…) qualsiasi (…) trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha altresì diritto di revocare in qualsiasi momento (…) il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento”.
Il punctum crucis dell’innovatività della disciplina prevista in tale legge si evince al co. 6 dell’art. 1 secondo cui «il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale».
Tale ultima disposizione ha natura scriminante della condotta esecutiva del sanitario rispetto alla volontà del paziente di rinunciare o rifiutare il trattamento sanitario, rendendo lecito il fatto altrimenti astrattamente riconducibile al tipo di cui all’art. 579 c.p.
In precedenza, gli interpreti hanno ritenuto ammissibile uno spazio di liceità delle condotte anzidette dall’operatività della scriminante di cui all’art. 51 c.p.
Dalla lettura della legge del 2017 emerge la valorizzazione della relazione terapeutica medico – paziente in quanto vi è, da un lato, il diritto del paziente di autodeterminarsi nella scelta del trattamento terapeutico, e, dall'altro, il dovere del medico di conformarsi a tale volontà, anche qualora essa presupponga un intento suicidari[26].
In definitiva si ritiene che il predetto provvedimento legislativo abbia disciplinato il diritto di autodeterminazione terapeutica come desunto dal disposto dell’art. 32 co. 2 Cost., rendendo lecita e ammissibile la possibilità della c.d. eutanasia passiva consensuale.
Una breve riflessione è necessaria con riferimento alle varie forme di eutanasia elaborate dagli interpreti. La differenza principale attiene alla qualificazione dell'eutanasia attiva o passiva. Con la prima ipotesi si chiede al medico di cagionare la morte con un atto diretto, fattore causale unico o concorrente con altri dell'evento morte, ad es. tramite una iniezione mortale. Per il tramite della previsione, invece, si intende l'atto di sospensione o interruzione della terapia salvavita ad opera del medico, realizzando in tal senso la morte quale conseguenza naturale del decorso della malattia che il medico non ha impedito.
Parte della dottrina[27] ha ulteriormente distinto le ipotesi di eutanasia attiva diretta e indiretta, a seconda che si realizzi, rispettivamente, nella somministrazione di farmaci che sic et simpliciter inducano la morte o nell'utilizzo di farmaci per alleviare le sofferenze e che, indirettamente, determinino la morte del paziente. Sul punto, tale opzione ermeneutica permette, di conseguenza, di distinguere l'ipotesi di aiuto "a" morire dal concetto di aiuto "nel" morire.
Alla luce della liceità delle sole ipotesi di eutanasia attiva indiretta e passiva consensuale la suddetta ricostruzione interpretativa ritiene ammissibile la sola ipotesi dell'aiuto "nel" morire, quale contributo causale - attivo indiretto o meramente omissivo - atto ad inserirsi nel decorso eziologico della malattia ex se idoneo a determinare la morte. In questi termini si palesa una costante prudenza e cautela verso l'apertura al riconoscimento della liceità di atti determinanti un aiuto - attivo e diretto - "a morire”[28]
In definitiva, si ritiene che per il tramite della legge del 2017 il legislatore sia intervenuto sul tema in esame tramite una disciplina atta a regolamentare l'ipotesi della c.d. eutanasia passiva consensuale.
Ciò che emerge, quale tendenza interpretativa in subiecta materia, è l'evoluzione della concezione paternalistica dello Stato in termini più miti, in quanto le limitazioni all'esercizio dei diritti risultano funzionali a garantire un esercizio consapevole e volontario degli stessi, onde evitare rischi di abusi degli stessi. Per questi motivi viene meno l'esigenza tradizionalmente sottesa ad un principio paternalistico forte, ossia il controllo stricto sensu ad opera dello Stato dell'esercizio dei diritti riconosciuti ai consociati[29].
Dalla lettura di tale normativa emerge, tuttavia, un deficit di tutela per le ipotesi rispetto alle quali il diritto di rifiuto o di interruzione del trattamento sanitario non sia tale da soddisfare le eterogenee esigenze sottese all’esercizio della libertà di autodeterminazione terapeutica, quale corollario del diritto alla salute. Tale ultimo diritto, infatti, «assurge a struttura complessa, che contiene una pluralità di proiezioni sostanziali»[30].
Permane, infatti, la problematicità dell’ipotesi in cui «il rifiuto o l’interruzione della terapia medica non siano immediatamente causali rispetto alla morte»[31].
In questa peculiare ipotesi, infatti, si ravvisa l’irragionevolezza del discrimen tra le ipotesi di cui agli artt. 579 e 580 c.p. Se, da un lato, alla disposizione penale dell’omicidio del consenziente risulta applicabile la scriminante di cui all’art. 1 co. 6 l. n. 219 del 2017, sotto un diverso profilo, invece, ciò non è possibile per il reato di aiuto al suicidio di cui all’art. 580 c.p., rispetto al quale permane indiscriminatamente il divieto assoluto e generale di aiuto o istigazione al suicidio.
Da ciò deriva che il legislatore «non consideri rilevante la stretta omogeneità assiologica tra l’aiuto al suicidio del morente in condizioni di sofferenza e l’omicidio del consenziente realizzato da un medico attraverso l’interruzione/astensione da ogni terapia salvavita, in esecuzione di una disposizione di trattamento del malato. Mentre il primo comportamento è fonte di responsabilità, il secondo, pur integrando il tipo dell’art. 579 c.p., è oggi scriminato»[32].
È in relazione a tale ipotesi che si è pronunciata la Corte costituzionale con l'ordinanza del 16 novembre 2018 n. 207[33].
2. Il caso Cappato: la rilettura del reato di cui all’art. 580 c.p. con l’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale ed il venir meno del divieto “assoluto” di aiuto al suicidio
Con l’ordinanza n. 207 del 2018 la Corte costituzionale si è espressa sulla vicenda di dj Fabo, malato tetraplegico e totalmente cieco a seguito di incidente stradale, il quale decise di morire, esprimendo una scelta libera, consapevole e volontaria, con il suicidio assistito in una clinica svizzera il 27 febbraio 2017.
Marco Cappato, colui che lo accompagnò fisicamente presso la clinica, è stato accusato di aiuto al suicidio di cui all’art. 580 c.p., in ragione della sua condotta sussumibile nell’ipotesi di aiuto – esecutivo – al suicidio.
L’ordinanza ha ad oggetto la questione di legittimità costituzionale rimessa dalla Corte di Assise di Milano che, con l’ordinanza del 14.2.2018, ha sollevato la questione di illegittimità dell’art. 580 c.p. nella parte in cui incrimini le condotte di aiuto e istigazione, prescindendo dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito criminoso (in violazione degli artt. 2, 13 co. 1, 117 Cost. – quest’ultimo in relazione agli art. 2 e 8 CEDU) e nella parte in cui reprima l’agevolazione dell’esecuzione, che cioè non incida sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida, al pari delle condotte di istigazione (in violazione degli artt. 3, 13, 25 co. 2 e 27 co. 3 Cost.).
I giudici rimettenti, in sintesi, lamentano l’irragionevolezza della disposizione di cui all’art. 580 c.p. «nella parte in cui presiederebbe il bene dell’autodeterminazione del suicida anche quando questi sia stato aiutato a realizzare il proposito anticonservativo liberamente e autonomamente maturato»[34].
In particolare, nell’ordinanza di rimessione si evidenzia come tale disposizione del codice del 1930 intendesse il suicidio quale condotta «contraria ai principi fondamentali della società, quello della sacralità/indisponibilità della vita in correlazione agli obblighi sociali dell’individuo, ritenuti preminenti nel corso del regime fascista»[35]. Sono i principi costituzionali «personalistico ex art. 2 Cost. e dell’inviolabilità della libertà personale ex art. 13 Cost.», ad imporre una «diversa considerazione del diritto alla vita».
Da tali principi la Corte delinea la libertà dell'individuo di decidere della propria salute, anche con atti anticonservativi del bene vita. La repressione penale delle condotte partecipative meramente attuative dell'esercizio di tale diritto risulta, alla stregua delle coordinate ermeneutiche deducibili dall'ordinanza in esame, ingiustificata.
Alla luce di tali argomentazioni i giudici rimettenti chiedono di rendere penalmente irrilevante la condotta di aiuto all’altrui suicidio che non abbia inciso sulla decisione dell’aspirante suicida, quindi di rimuovere in toto la condotta inoffensiva dalla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 580 c.p., ed in subordine di rimodulare la cornice edittale del reato in esame, differenziando le condotte di aiuto al suicidio (non rafforzative del proposito criminoso) dai comportamenti criminosi di istigazione.
In definitiva, la Corte di Assise di Milano esclude la tipicità della condotta nelle ipotesi suddette, paventando la necessità di eliminare del tutto la fattispecie incriminatrice di aiuto al suicidio meramente esecutivo di un proposito suicidario autonomamente e consapevolmente maturato dal soggetto passivo del reato.
Sulla questione di legittimità si è espressa la Corte costituzionale con l’ordinanza n. 207 del 2018, un’ordinanza sui generis, in quanto la Corte «ha adottato un modello decisorio del tutto inedito nel panorama giurisprudenziale italiano, inaugurando la strada della c.d. incostituzionalità differita»[36].
Per il tramite di tale ordinanza la Corte ha implicitamente riconosciuto la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., ma ha rinviato la trattazione della questione al 24 settembre 2019 in modo tale da dare la possibilità al legislatore di intervenire in subiecta materia sulla base delle coordinate ermeneutiche evidenziate in tale ordinanza[37].
Dal testo dell’ordinanza si pone l’accento sulla scelta della Corte costituzionale di rinunciare ad una immediata declaratoria di incostituzionalità della norma, pur riconoscendola espressamente, per dare la possibilità al legislatore di intervenire medio tempore, prima dell'udienza di rinvio del 24 settembre 2019. La strada seguita dai giudici tende ad implementare la collaborazione istituzionale tra Corte e Parlamento rispetto alle materie maggiormente sensibili all'opinione pubblica, come nel caso di specie[38] .
Sulla questione la Corte costituzionale si è espressa dichiarando la non incompatibilità del dettato dell’art. 580 c.p. con il sistema costituzionale, così come paventata dai giudici rimettenti. In particolare, la previsione «si giustifica, infatti, in un’ottica di tutela del diritto alla vita, specie delle persone più deboli e vulnerabili»[39].
La necessità di prevedere l’incriminazione delle condotte di aiuto al suicidio discende dall’esigenza di tutela delle persone particolarmente vulnerabili, così come si delinea dal combinato disposto degli artt. 2 (Diritto alla vita) e 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) CEDU, ed in ragione di ciò non può escludersi in toto l’offensività di tali condotte.
Secondo la Corte, infatti, il divieto di aiuto al suicidio non può considerarsi costituzionalmente illegittimo in quanto posto a tutela «delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili (…) le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto alla esecuzione di una loro scelta suicida magari per ragione di personale tornaconto».
Alla questione in esame sottende la necessità di evitare il c.d. "pendio scivoloso", ovverosia di eludere abusi e rischi da facilitazioni nell’accesso al suicidio[40] .
Dalla lettura dell’ordinanza, quindi, si evince che «l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione. Occorre, tuttavia, considerare specificamente situazioni come quella del giudizio a quo: situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta».
Il riferimento, in maniera precipua, è «alle ipotesi in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona a) affetta da una patologia irreversibile b) fonte di sofferenza psichica e fisica che trova assolutamente intollerabili, che sia c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale d) ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
Tale individuo, secondo la giurisprudenza costituzionale, ha diritto di rifiutare il mantenimento artificiale in vita ex art. 32 co. 2 Cost., al pari di quanto espressamente riconosciuto in precedenza dal co. 6 art. 1 l. n. 219 del 2017 con riferimento all’art. 579 c.p.
In particolare, si richiamano i principi personalista ex art. 2 Cost. e di inviolabilità personale affermato dall’art. 13 Cost., così come evidenziato dall’ordinanza dei giudici rimettenti, alla luce dei quali il bene giuridico della vita non può essere concepito «in funzione di un fine eteronomo rispetto al suo titolare».
Ciò che si esclude è che da un generico diritto all’autodeterminazione individuale di cui all’art. 13 Cost., anche se riferito al bene – vita, si possa desumere una generale inoffensività della condotta di aiuto al suicidio[41].
Per questi motivi le coordinate ermeneutiche dettate dalla Corte costituzionale sono incentrate sul diritto di rifiuto alle cure così come cristallizzato all’art. 32 co.2 Cost.
Il bene tutelato dall’art. 580 c.p. deve essere ad oggi individuato, alla luce delle considerazioni su evidenziate, «non già nel diritto alla vita, ma nella libertà e consapevolezza della decisione del soggetto passivo di porvi fine, evitando influssi che alterino la sua scelta».
In definitiva, quindi, «la punizione di condotte di aiuto al suicidio che non abbiano inciso sul percorso deliberativo della vittima risulterebbe ingiustificata e lesiva degli artt. 2, 13 co. 1, e 117 Cost; in tale ipotesi, infatti, la condotta dell’agevolatore rappresenterebbe lo strumento per la realizzazione di quanto deciso da un soggetto che esercita una libertà costituzionale, risultando quindi inoffensiva».
La irragionevolezza della previsione assoluta dell’art. 580 c.p., paventata dalla Corte costituzionale nel caso specifico del soggetto che si trovi nelle quattro condizioni ivi indicate, viene in evidenza in relazione all’ipotesi, invece, scriminata rispetto all’art. 579 c.p., del medico che adempia al dovere di consentire l’esercizio del diritto di rifiuto delle cure o di interruzione del trattamento sanitario ai sensi del co. 6 dell’art. 1 l. 219 del 2017.
Orbene, secondo la Corte è necessario, nella valorizzazione della similarità ontologica delle condotte riconducibili agli artt. 579 e 580 c.p., escludere la sussistenza di un ostacolo assoluto all'aiuto al suicidio del malato nel porre fine alle proprie sofferenze, garantendo un tal modo il diritto del paziente ad una morte percepita soggettivamente come più dignitosa, quale espressione della propria libertà di autodeterminazione terapeutica.
Non emerge, infatti, alcuna ragione giustificativa, secondo le coordinate ermeneutiche così delineate, nella differenziazione della punibilità delle condotte dal medico a seconda che si traducano nella interruzione delle terapie o in altre forme di aiuto che possano portare in un lasso di tempo minore alla morte.
Il differente decorso eziologico che porta all'evento morte non può ritenersi valido argomento atto a legittimare un trattamento penalmente rilevante differente dei fatti astrattamente riconducibili alle ipotesi di cui agli artt. 579 e 580 c.p.
In definitiva, «la legislazione oggi non consente (…) al medico che ne sia richiesto di metter a disposizione del paziente trattamenti diretti a determinarne la morte (…) in tal modo, si costringe il paziente a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità del morire e più carico di sofferenza per le persone che gli sono care».
È in questi termini che la Corte conclude affermando che «entro lo specifico ambito considerato – ovvero del paziente che si trovi nelle condizioni esplicitamente indicate dalla Corte – il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalla sofferenza, scaturente dagli artt. 2, 13, 32 co. 2 Cost.».
Il punctum dolens della disciplina in tema di rifiuto alle cure o interruzione delle terapie concerne le ipotesi in cui all’atto del sanitario non corrisponda un concetto di c.d. morte dignitosa per l’aspirante suicida, costringendo il paziente «a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione di dignità nel morire»[42].
È rispetto alle ipotesi di lungo decorso per giungere alla morte che il principio di autodeterminazione «garantirebbe ai pazienti legittimati a rinunciare alle cure (non un diritto a morire, ma più ragionevolmente) un diritto a morire con dignità». La Corte costituzionale ha così valorizzato il riconoscimento di «un diritto fine – attraverso un diritto – mezzo»[43], ovvero il diritto di rifiuto alle cure ex art. 32 co. 2 Cost.
Il suicidio assistito, rectius aiuto al suicidio, assurge in questi casi a ragionevole e giustificata alternativa alla sedazione palliativa profonda per evitare un decesso lungo e sofferente, avvertito dal soggetto aspirante suicida come non dignitoso.
Orbene, il suicidio si considera quale corollario del diritto di rifiutare le cure salvavita qualora quest'ultimo risulti in concreto insufficiente alla tutela prioritaria del diritto alla salute della persona. Tale ultimo diritto, infatti, include il diritto ad una morte dignitosa secondo la percezione del singolo individuo[44] .
La problematicità della questione, in estrema sintesi, risiede nell’assolutezza del divieto di aiuto al suicidio, tesi incapace di risolvere l’eterogeneità delle ipotesi astrattamente riconducibili a tale norma penale, e che comporta un vulnus di tutela per i soggetti ai quali non resta, nella propria condizione di salute, «che invocare una morte liberatrice da sofferenze come risultato dell’esercizio libero e consapevole del diritto all’autodeterminazione terapeutica»[45].
L’intervento di terzi può rappresentare per il malato «come unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, ad un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha diritto di rifiutare in base all’art. 32 co.2 Cost.»[46]; quest’ultimo articolo rappresenta il punto focale della questione così come valorizzato dalla Corte costituzionale.
2.1. La scriminante procedurale delineata dalla Corte costituzionale
Dalla lettura dell’ordinanza n. 207 del 2018 gli interpreti hanno evidenziato l’introduzione nel nostro ordinamento di una nuova categoria dogmatica, sconosciuta alla parte generale del nostro diritto penale, ovvero di una nuova ipotesi di scriminante, la c.d. causa di giustificazione procedurale[47]
Tale scriminante procedurale, differentemente dall' operatività delle cause di giustificazioni sostanziali, delinea ex ante le condizioni e i presupposti per rendere lecita la condotta dell’aiuto al suicidio così come considerato nell’ipotesi specifica delineata.
Trattasi di «indicatori legali tassativamente predeterminati» che realizzano «controlli pubblicistici» sulla condotta del soggetto agente. È in questi termini che l’offesa al bene giuridico della vita realizzata dal soggetto terzo diventa «proceduralmente non vietata»[48].
Per garantire la coerenza del sistema giuridico rispetto alla normativa di cui alla l. n. 219 del 2017, richiamata in sede di ordinanza di rimessione e dell’ordinanza della Corte Cost., tale giustificazione procedurale si inserisce nel processo c.d. medicalizzato, ovvero nel contesto relazionale medico – paziente che renda lecite le condotte di aiuto al suicidio in relazione all’operatività dei principi di cui agli artt. 2, 3, 13, 32 co.2 Cost. Tale scriminante procedurale, infatti, assurge a nuovo strumento di protezione primaria dei beni su indicati.
Evidente è la differenza rispetto alle ipotesi tradizionali e tipiche di cause di giustificazione sostanziali, così come prescritte dagli art. 50 e ss. c.p.
Se, da un lato, le scriminanti c.d. sostanziali comportano un accertamento dichiarativo della mancanza di antigiuridicità del fatto tipico, ad opera del giudice e quindi ex post rispetto alla realizzazione della condotta, dall’altro lato, invece, le scriminanti procedurali delineano un accertamento della liceità della condotta ex ante, in concomitanza con la realizzazione del fatto, che ove corrisponda alle condizioni procedurali predeterminate, sarà considerato lecito ab origine.
Le scriminanti procedurali, infatti, operano ex lege al momento della verificazione della condotta e di sussistenza dei presupposti predeterminati, ed il loro accertamento non è affidato alla pronuncia dichiarativa di un giudice.
Dalla disamina effettuata emerge il vantaggio delle scriminanti procedurali, in quanto evitano di incorrere nel rischio «dell’incertezza di accertamenti giudiziari ex post» per il soggetto che «abbia deciso di agire nel rispetto di una disciplina normativa di controlli pubblicistici»[49].
Si considera attinente alla dinamica delle scriminanti procedurali la concezione di un c.d. spazio di diritto libero, differente rispetto all’ipotesi del c.d. spazio libero dal diritto. Con tale ultima espressione si intende la scelta dello Stato di astenersi tout court dalla regolamentazione di un determinato ambito della vita relazionale della comunità, nel senso di sottendere una scelta di indifferenza e neutralità dell’ordinamento giuridico rispetto al fenomeno del c.d. fine vita.
Nella concezione di uno spazio libero dal diritto, quindi, vi è una precisa scelta di politica criminale di lasciare volutamente una lacuna normativa, ovvero «astensione dalla punizione e al contempo della tutela degli attori che in quel contesto si muovono»[50].
Nella visione di uno spazio di diritto libero, invece, le scriminanti procedurali realizzano un controllo pubblicistico dei fatti penalmente rilevanti in funzione di garanzia e di ordine delle relazioni sociali. In altri termini, per il tramite delle giustificazioni procedurali «si scorge una completa giustificazione del fatto e non semplicemente una sua irrilevanza giuridica»[51].
Senza il rispetto della procedura così stigmatizzata, costitutiva della liceità del fatto altrimenti penalmente rilevante, la condotta non sarebbe consentita. Orbene, l’inedita causa di giustificazione procedurale così delineata «affida la complessa risoluzione del conflitto tra inviolabilità del bene vita, salute e dignità della persona ad una procedura (…) costitutiva di uno spazio di diritto libero»[52].
La procedura indicata nella scriminante, in definitiva, «consente di legittimare fatti altrimenti vietati»[53].
In questi termini si evidenzia un parallelismo rispetto a quanto previsto con riferimento alla scriminante procedurale concernente la disciplina sull’aborto di cui all’art. 5 l. n. 78 del 1978, quale limite scriminante e presupposto di liceità della condotta di aborto, altrimenti penalmente vietata.
La differenza tra le ipotesi di scriminante sostanziale e procedurale si ravvisa altresì per quanto concerne la formula assolutoria da adottare nel processo penale.
La scriminante sostanziale comporta il venir meno dell’antigiuridicità del fatto tipico, ed in ragione di ciò la formula assolutoria corrisponde alla dichiarazione de “il fatto non costituisce reato”.
Per quanto concerne l’accertamento della sussistenza della scriminante procedurale, invece, il fatto risulta scriminato ex ante al momento della realizzazione della condotta, non sussumibile ab origine nel fatto tipico in quanto scriminato in base ad una scelta di politica criminale tradotta nelle condizioni predeterminate dettate ex lege. In tal senso, infatti, si adotta la formula assolutoria secondo cui “il fatto non sussiste”[54].
In sintesi, si ritiene che le scriminanti sostanziali escludano l’antigiuridicità del fatto, mentre le cause di giustificazioni procedurali elidano ab origine la tipicità di un fatto altrimenti penalmente rilevante, tant’è che «il bilanciamento tra interessi tutelati e interessi sacrificati non è in concreto per il giudice (…) ma è in astratto per l’offensività della condotta nelle scelte di incriminazione»[55].
Sul punto vi è da evidenziare come la scelta della formula assolutoria dipenda altresì dalla teoria della struttura del reato cui si accede. In particolare, l'esclusione della tipicità del fatto in ragione della sussistenza di una causa di giustificazione procedurale concerne la tipica struttura bipartita del reato, la quale si dirama nelle categorie dogmatica della tipicità e della colpevolezza. In quest'ultimo caso, infatti, l'antigiuridicità si atteggia quale elemento negativo del fatto tipico, la cui sussistenza comporta il venir meno della tipicità del fatto, e, di conseguenza, la formula assolutoria consiste ne "il fatto non sussiste".
Ove, invece, si valorizzi la concezione c.d. tripartita del reato, la quale si declina nelle figure della tipicità - antigiuridicità - colpevolezza, la formula assolutoria più affine a tale ricostruzione risulta "perché il fatto non costituisce reato", in quanto l'antigiuridicità assurge a categoria autonoma nella struttura del reato, e la cui sussistenza non elide la tipicità del fatto[56]
In definitiva, non può non evidenziarsi come, a latere delle distinzioni sottese alle ipotesi di scriminanti c.d. procedurali e sostanziali, «nelle fasi di etica sociale disomogenea, la legittimazione delle norme incriminatrici a tutela di valori più condivisi decresce drasticamente, ed è allora che le giustificazione diventa strumento elettivo di gestione del conflitto normativo tra diritti e doveri collidenti e ontologicamente controversi perché a forte connotazione ideologica» [57].
3. La sentenza n. 242 del 2019: condizioni ulteriori all’operatività della scriminante procedurale
La sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019 è intervenuta per dichiarare definitivamente l' illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. «nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) (…) agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente».
Dalla lettura del principio di diritto statuito nella sentenza si evince la riproposizione delle quattro condizioni predeterminate di legittimità dell’aiuto al suicidio costituenti la scriminante c.d. procedurale ed attinenti alla persona del malato, ovvero la patologia irreversibile dell’aspirante suicida, quale fonte di sofferenze fisiche e psichiche ritenute intollerabili dallo stesso, il quale deve essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitali, e deve essere pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
A tali presupposti legittimanti, già delineati dalla Corte costituzionale nell' ordinanza n. 207 del 2018, la Corte ne ha aggiunti due ulteriori di carattere più strettamente procedurale, per evitare ulteriormente rischi di degenerazione nell’attuazione dei propositi anticonservativi dei soggetti malati vulnerabili.
È espressamente richiesto, infatti, che le modalità di esecuzione della procedura siano controllate dalla struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Dalla descrizione della scriminante procedurale, così come delineata dalla Corte costituzionale, si evince come la stessa «non consegua semplicemente ad una procedura amministrativa fatta di autorizzazioni e controlli ma essenzialmente ad una relazione di cura: è nella sostanza una scriminante relazionale»[58]; in questi termini si valorizza ancor di più la necessità di garantire che la non punibilità della condotta di aiuto al suicidio si estrinsechi quale corollario del diritto all' autodeterminazione terapeutica nel rapporto medico – paziente ex art. 32 co. 2 Cost.
Rimane latente e trasversale alla disciplina prospettata l’esigenza di evitare una operatività eccessiva della giustificazione procedurale, altrimenti si rischierebbe di incorrere nel c.d. pendio scivoloso, ossia nell' ingiustificato e indiscriminato riconoscimento di un diritto di morire, invece escluso ab origine dalla giurisprudenza costituzionale che si è espressa sulle questioni del c.d. fine vita.
Spetterà allo Stato, in definitiva, stabilire se la tutela del bene vita, così come declinato nella sua configurazione attuale, debba realizzarsi per il tramite di un divieto assoluto penalmente sanzionato di aiuto al suicidio, oppure risulti meglio garantito per mezzo di un modello procedurale che realizzi un bilanciamento di interessi tra il diritto all’autodeterminazione terapeutica “nel morire” e tutela del bene – vita.
Rispetto a tale prospettiva evolutiva non può non tenersi conto di sviluppi dogmatici che si inseriscono nella tendenza a preservare, sic et simpliciter, il bene vita. In particolare, permangono orientamenti dottrinali che sottolineano come l'apertura verso la soggettivizzazione del bene salute non possa estendersi al punto tale da giustificare logiche di disponibilità del bene vita. La problematicità è insita nella necessità di stabilire i limiti al ricorso degli strumenti terapeutici oggi disponibili ai fini della verificazione dell'evento morte[59].
4. L’enucleazione dei c.d. diritti infelici: considerazioni conclusive
È in ragione della valorizzazione dei diritti di rifiuto alle cure e di interruzione dei trattamenti terapeutici che emerge la enucleazione di nuove ipotesi di diritti, ovverosia i c.d. diritti infelici.
Trattasi di quei diritti che sono garantiti, alla luce della suddetta interpretazione evolutiva in materia, al soggetto malato che, in ragione del diritto all’autodeterminazione terapeutica la cui fonte si ravvisa nel disposto dell’art. 32 Cost. co. 2, necessiti di regolamentazione in concreto.
Al riconoscimento dei diritti anzidetti deve corrispondere, in punto di legislazione ordinaria, una rivisitazione di quelle fattispecie che incriminino le condotte che, in astratto, risulterebbero sussumibili nelle ipotesi di aiuto e istigazione al suicidio o di omicidio del consenziente ma che, in concreto, partecipino all’esercizio di un diritto riconosciuto alla persona.
Con l’espressione “diritti infelici” si intendono comunemente i diritti fondamentali del malato, enucleabili nelle ipotesi di diritto di rifiutare le cure e di raggiungere così un esito terminale (art. 32 co. 2 Cost., art. 1 co. 5 l. 219 del 2017), il diritto di essere aiutato nel morire mediante tecniche di sedazione profonda continua anche capaci di accelerare il processo terminale (art. 2 co. 2 l. 219 del 2017), nonché il diritto ad un aiuto attivo a raggiungere la morte direttamente per mano propria (di nuovo conio, ad opera della Corte costituzionale sentenza n. 242 del 2019)[60].
Ai diritti infelici garantiti direttamente al malato dovrebbe evidenziarsi, corrispondentemente, la sussistenza di altrettanti diritti c.d. infelici che siano mediati e raggiunti mediante la sfera del soggetto coinvolto nella vicenda suicidaria, quale agevolatore dell’esercizio del diritto da parte dell’aspirante autore dell’atto.
Alla luce della disamina effettuata può dirsi che ad oggi si legittimi, a determinate condizioni, un diritto di aiuto nel morire quale corollario della “libertà di autodeterminazione della persona” di cui agli artt. 2 e 13 Cost.
Tale libertà assume oggi le connotazioni di “diritto all’autodeterminazione terapeutica” in virtù del combinato disposto degli artt. 2, 3, 13 e 32 Cost.
Al riconoscimento di tale diritto corrisponde, in via complementare, l’enucleazione di un diritto di nuovo conio, ovvero del suddetto diritto di aiuto al suicido, il cui riconoscimento però necessiterebbe del rispetto di condizioni predeterminate così come prescritte dall' inedita scriminante procedurale delineata dalla Corte costituzionale.
In altri termini «la presenza necessaria, in questi casi, di un apparato sanitario, che operi in modo attivo o omissivo, trasforma l’esercizio di questi diritti in scriminanti procedurali, benché siano disciplinate solo in modo sommario o carente dalla legge e siano state concretizzate soprattutto dalla giurisprudenza»[61]. Tali diritti, quindi, possono essere esercitati esclusivamente attraverso la procedura stigmatizzata nella causa di giustificazione descritta.
La tematica concernente la scriminante procedurale ivi descritta non è oggetto di opinione concorde degli interpreti. In particolare, permane l'orientamento dogmatico teso a neutralizzare l'autonomia della scriminante procedurale così delineata, da considerarsi una sorta di inutile doppione creato per supplire all'inerzia legislativa in subiecta materia.
A tali considerazioni si giunge valorizzando lo stesso fondamento ontologico della scriminante procedurale e sostanziale, in quanto il bilanciamento è operato dal legislatore che ha attribuito prevalenza ad un diritto a determinate condizioni tipizzate. In altri termini, «la proceduralizzazione non modifica la natura sostanziale della scriminante»[62], la quale permane soggetta al controllo ex post operato dal giudice sulla vicenda in concreto oggetto del suo sindacato.
De iure condendo, si auspica la l'introduzione della causa di giustificazione procedurale, così come stigmatizzata dalla giurisprudenza costituzionale, nel dettato normativo, al pari di quanto precedentemente avvenuto con riferimento alla scriminante di cui al co. 6 art. 1 l. n. 219 del 2017[63].
[1] Sul punto, si veda la ricostruzione di D. PULITANO’, Il diritto penale di fronte al suicidio, in Dir. pen. cont., n. 7/2018, p. 70, il quale valorizza l’art. 580 c.p. e la sua formulazione quale modalità «di tutela indirettamente paternalistica della vita».
[2] V. sul punto A. MASSARO, L’omicidio del consenziente e l’istigazione o aiuto al suicidio, la rilevanza penale del fine vita, in www.giurisprudenzapenale.com, n. 10/2018, p. 12.
[3] V. F. CONSULICH – C. GENONI, Intervento penale e decisioni di fine vita, alla ricerca di un diritto contemporaneo, in www.giurisprudenzapenale.com, n. 1 bis, 2019“Questioni di fine vita”, p. 3, secondo cui «il legislatore penale non disciplina, dunque, l’atto del suicidio, purché il processo che conduce il soggetto a porre fine alla propria esistenza sia da questi interamente governato e, in quanto tale, libero da interferenze esterne tanto sul piano volitivo quanto esecutivo».
[4] V. sul punto A. SESSA, Fondamento e limiti del divieto di aiuto al suicidio: un nuovo statuto penale delle scriminanti nell’ordinanza della Consulta n. 207/2018, in www.penalecontemporaneo.it, 6. 5. 2019, p. 3.
[5] V. sul punto F. CONSULICH – C. GENONI, Intervento penale e decisioni di fine vita, op. cit., p. 5, secondo cui «emerge in tutta la sua evidenza un primo momento di inadeguatezza del diritto penale in materia di fine vita, che risulta incapace di riconoscere il diverso disvalore connesso alle condotte di istigazione e rafforzamento al suicidio e di agevolazione dell’esecuzione del suicidio: un conto è incidere sulla determinazione del soggetto, facendo sorgere o rafforzando un proposito già esistente, un conto è aiutare chi si è già determinato in piena autonomia, agevolandone i voleri».
[6] La indisponibilità del bene vita quale bene giuridico tutelato nelle fattispecie di cui agli artt. 579 e 580 c.p. si valorizza nella stessa Relazione al Codice penale, Lavori Preparatori V – II Roma 1929, 365, quale «supremo interesse dello Stato allo sviluppo progressivo della razza».
[7] Opzione interpretativa avallata da D. PULITANO’, Il diritto penale di fronte al suicidio, op. cit., p. 71.
[8] In questi termini F. CONSULICH – C. GENONI, Intervento penale e decisioni di fine vita, op. cit., p. 21.
[9] Sul punto A. SPENA, Esiste un paternalismo penale? un contributo al dibattito sui principi di criminalizzazione, in Riv. it. dir. proc. pen. n. 3/2014, pp. 1215 e ss., analizza la differenza tra «paternalismo dispotico» e «paternalismo tutorio», in particolare sottolineando come il paternalismo tutorio tenda ad evitare che la persona vulnerabile possa arrecarsi un danno se impossibilitato a scelte consapevoli e responsabili, mentre il paternalismo dispotico è indifferente alla contingente situazione individuale, nel senso che «vi è indifferente che il soggetto paternalizzato sia o meno capace, responsabile delle proprie scelte, consapevole di ciò che fa, e che dunque voglia o meno tenere la condotta autolesionistica». Sulla valorizzazione dell’autonomia e responsabilità dell’individuo G.M. FLICK, A proposito di testamento biologico: spunti per una discussione, in Politica del diritto, n. 4/2009, pp. 517 - 518, secondo cui «quando l’autodeterminazione del soggetto si risolve in una rinuncia alla vita (…) il legislatore non può che ritirarsi di fronte ad una scelta personalissima, che il soggetto ha la possibilità e il diritto di compiere, nella propria autonomia e responsabilità».
[10] In questi termini A. SPENA, Esiste il paternalismo penale? contributo al dibattito sui principi di criminalizzazione, op. cit., pp. 1210 e ss.
[11] V. sul punto R. E. OMODEI, La problematica incriminazione dell’istigazione e aiuto al suicidio. Possibilità e limiti del principio di solidarietà, in G. DODATO – E. MANCUSO (a cura di), Uguaglianza, proporzionalità e solidarietà nel costituzionalismo penale contemporaneo, Diplap editor, 2019, p. 61.
[12] V. sul punto A. SPENA, Esiste un paternalismo penale? op. cit., pp. 1215 e ss.
[13] V. sul punto R. E. OMODEI, L’istigazione e l’aiuto al suicidio tra utilitarismo e paternalismo: una visione costituzionalmente orientata dell’art. 580 c.p., Dir. pen. cont., n. 10/2017, p. 155, secondo cui il legislatore non possa intervenire al punto tale da limitare «il singolo in scelte attinenti esclusivamente la sua sfera intima», altrimenti rischierebbe di «ledere il principio personalista oggi imperante»
[14] V. A. SESSA, Il processo all’art. 580 del Codice penale nella più recente giurisprudenza costituzionale: alle origini di una nuova idea di giustificazione, in www.lalegislazionepenale.eu, 11. 10. 2019, p. 13.
[15] In questi termini M. DONINI, Libera nos a malo. I diritti di disporre della propria vita per la neutralizzazione del male, in www.sistemapenale.it, 10. 2. 2020, p. 3.
[16] In questi termini M. DONINI, Libera nos a malo. I diritti di disporre della propria vita per la neutralizzazione del male, in www.sistemapenale.it, 10. 2. 2020, p. 3.
[17] V. sul punto C. ROXIN, Sul consenso presumibile, in Antigiuridicità e cause di giustificazione, C. ROXIN, A cura di, ESI, Napoli 1996, p. 154, secondo cui ogni sistema laico, liberale e personalista «si fonda (…) sul diritto all’autodeterminazione, che esclude un’autorità di terzi sulle decisioni di uomini adulti e sani dal punto di vista psichico».
[18] In questi termini G. DOSSETTI, La Costituzione, le radici, i valori, le riforme, edizioni lavoro, Roma 1996, pp. 263 – 264, secondo cui il bilanciamento tra valori costituzionali si attua in quanto «nel campo dei diritti e dei relativi principi immutabili, viene anzitutto quello alla vita (…) il nostro testo costituzionale non ne parla in recto, ma è certo un prius ontologico che si può presumere implicito in molte disposizioni».
[19] V. art. 32 Cost.
[20] Sul punto v. S. GIANELLO, Sulla legittimità costituzionale (a determinate condizioni) dell’aiuto al suicidio e sulla via più consona al suo riconoscimento, in www.federalismi.it, 3 luglio 2019 (n. 13/2019), pp. 21 e ss., secondo cui «qualunque diritto, compreso quello alla vita, ove portato alle estreme conseguenze, rischia di divenire tiranno e produrre effetti contrapposti rispetto agli interessi che mira a proteggere»
[21] Sul punto v, A. PIOGGIA, Il disegno di legge in materia di dichiarazioni anticipate di trattamento: esempi di fallimenti e di molte occasioni perdute nell’attuazione della Costituzione, in www.costituzionalismo.it, n. 1/2009, p. 3, secondo cui vi è «la difficoltà, se non una vera impossibilità, per la legge di imporre un contenuto del diritto alla salute unico e rigido, valido per tutti; se, infatti, il bene salute è strumento di realizzazione dell’individuo, il singolo non può restare escluso dalla definizione del bene al quale aspira»
[22] V. S. GIANELLO, Sulla legittimità costituzionale (a determinate condizioni) dell’aiuto al suicidio e sulla via più consona al suo riconoscimento, op. cit., p. 26.
[23] In questi termini R. E. OMODEI, La problematica incriminazione dell’istigazione e aiuto al suicidio. Possibilità e limiti del principio di solidarietà, op. cit., pp. 54 e ss., secondo cui «la persona assume (…) un ruolo preminente nell’odierno assetto costituzionale, in virtù della pervasività del principio personalista che (…) non può essere racchiuso in un unico enunciato, ma si rinviene nella totalità del tessuto costituzionale, lungo un filo rosso che origina dalla previsione dell’art. 2 Cost., e che percorre tutto il perimetro della Carta fondamentale, individuando, tra gli altri gli artt. 13, 27 e 32 Cost., aree di assoluta intangibilità della persona, che viene quindi tutelata nel suo relazionarsi con l’autorità e il prossimo».V. sul punto altresì S. TORDINI CAGLI, Il principio di autodeterminazione e consenso dell’avente diritto, Bonomia Università Press, Bologna, 2008, p. 86, secondo cui l’art. 2 Cost. ha «rovesciato la visione tradizionale dei rapporto Stato – individuo, la quale si basava sull’anteriorità logica e storica dello Stato, quantomeno nel senso di Stato – legislatore, rispetto ai diritti fondamentali del cittadino, ed ha affermato invece la priorità e la preesistenza di questi rispetto ad ogni potere costituito».
[24] Ex multis Corte Cost. n. 184/1986, in www.cortecostituzionale.it, secondo cui «la lettera del primo comma dell’art. 32 della Costituzione, che non a caso fa precedere il fondamentale diritto della persona umana alla salute, rispetto all’interesse della collettività alla medesima, e i precedenti giurisprudenziali, inducono a ritenere sicuramente superata l’originaria lettura in chiave esclusivamente pubblicistica del dettato costituzionale in materia»; Corte Cost. n. 467 1991, in www.cortecostituzionale.it, secondo cui «a livello di valori costituzionali, la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti all’uomo come singolo».
[25] In questi termini A. CONTINIELLO – F. G. POGGIANI, Il delitto di istigazione o aiuto al suicidio nell’ordinamento italiano e sovranazionale, in www.giurisprudenzapenaleweb.it, n. 4/2017, p. 18, secondo cui si tratta di «bilanciare la tutela della vita (…) con il libero arbitrio».
[26] In questi termini F. CONSULICH – C. GENONI, Intervento penale e decisioni di fine vita, op. cit., p. 23, secondo cui «da una parte il diritto del paziente di decidere in via esclusiva quali trattamenti sanitari subire e, dall’altra parte, il dovere del medico di rispettare la volontà del malato, anche quando assuma connotazione anticonservativa»; V. sul punto F. CONSULICH, Lo statuto penale delle scriminanti. Principio di legalità e cause di giustificazione: necessità e limiti, Giappichelli editore, Torino, 2018, p. 39, secondo cui, in questo caso, «si tratta di diritti ‘a specchio’, poiché il dovere di agire o di astenersi (a seconda dei casi) in capo al sanitario è esattamente correlativo al diritto di rifiutare le terapie riconosciuto in capo al paziente».
[27] V. sul punto F. MANTOVANI, v. Eutanasia, in Dig. disc. pen., Torino, 1990, pp. 427 e ss., il quale considera, pur ambiguamente, illecita l'eutanasia attiva diretta e passiva non consensuale, e viceversa lecita l'ipotesi di eutanasia attiva indiretta e passiva consensuale. La problematicità della questione, secondo l'A., consiste nella illiceità della eterodirezione, rectius, eteroattuazione, dell'atto suicidario. In particolare, «l'autentico rifiuto delle cure, se sul piano di principio costituisce un diritto soggettivo, sul piano pratico non è di agevole accertamento, per cui il medico nel dubbio deve praticare le cure: in dubio pro vita».
[28] La ricostruzione è di F. MANTOVANI, v. Eutanasia, op. cit., pp. 425 e ss e F. BRICOLA, Vita, diritto o dovere: spazio aperto per il diritto? in Scritti di diritto penale, S. CANESTRARI, A. MELCHIONDA (a cura di), Giuffrè, Milano, 1997, pp. 2805 e ss.
[29] V. P. BERNARDONI, Ancora sul Caso cappato: qualche considerazione sulla “non punibilità” dell’aiuto al suicidio introdotta dalla Corte costituzionale, in www.sistemapenale.it, 26 febbraio 2020, secondo cui emerge un «passaggio evidente da una concezione paternalistica forte (…) ad una forma di paternalismo più attenuata, c.d. soft, in cui le limitazioni alle libertà sono finalizzate, in buona sostanza, ad assicurarsi che la volontà dell’individuo sia correttamente e liberamente formata»
[30] Sul punto A. D’ALOIA, Oltre la malattia: metamorfosi del diritto alla salute, in Riv. biodiritto, n.2/2014, p. 87.
[31] F. CONSULICH – C. GENONI, Intervento penale e decisioni di fine vita, op. cit., p. 10.
[32] Ivi, p.13.
[33] Ordinanza della Corte Cost. n. 207 del 2018 in www.cortecostituzionale.it.
[34] Ordinanza di rimessione della Corte di Assise di Milano, I sez., 14 febbraio 2018 n.1 pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Repubblica, Prima serie speciale, 14 marzo 2018 n. 11.
[35] Ivi.
[36] V. sul punto A. MANNA, Esiste un diritto a morire? Riflessioni tra Corte costituzionale italiana e Corte costituzionale tedesca, in www.discrimen.it, 26.5.2020, pp. 2- 3. Non mancano le critiche alla tecnica decisoria adottata dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 207 del 2018, tant’è che A. RUGGERI, Venuto alla Consulta l’ircocervo costituzionale (a margine dell’ordinanza n. 207 del 2018 sul Caso Cappato), in www.giurcost.it, 20 novembre 2018, fasc.3/2018, pp. 571 – 575, secondo cui si tratta di «un ibrido quoad formam che è però in tutto e per tutto una sentenza (di accoglimento) quoad substantiam».
[37] Secondo A. MANNA, Esiste un diritto a morire? Riflessioni tra Corte costituzionale italiana e Corte costituzionale tedesca, op. cit., p. 2 - 3, secondo cui «la Consulta ha riconosciuto, ma non dichiarato, l’incostituzionalità dell’art. 580 c.p.».
[38] Sul punto A. SESSA, Fondamento e limiti del divieto di aiuto al suicidio: un nuovo statuto penale delle scriminanti nell’ordinanza della Consulta, op. cit., p. 2, evidenzia una «legittima, anche se ibrida tecnica di gestione del processo costituzionale che mira a rafforzare lo spirito collaborativo e dialogico tra Corte e Parlamento»
[39] In questi termini si esprime la Corte cost. nell’ordinanza n. 207 del 2018.
[40] Sul punto. A. SESSA, Il processo all’art. 580 del Codice penale nella più recente giurisprudenza costituzionale: alle origini di una nuova idea di giustificazione, op. cit., p. 8 e ss.
[41] Sul punto v. G. GRASSO, Il fine vita e Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in Rassegna della giurisprudenza di legittimità, 2019, Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario, Approfondimenti tematici, pp. 16 – 18.
[42] Ordinanza della Corte Cost. n. 207 del 2018, in www.cortecostituzionale.it.
[43] La ricostruzione è di G. GENTILE, Il caso Cappato e il diritto a morire (senza soffrire), in Arch. pen., n.3/2018, p. 28. Sul punto v. altresì C. CUPELLI, Il caso cappato, l’incostituzionalità differita e la dignità nell’autodeterminazione alla morte, in www.penalecontemporaneo.it 3.12.2018, secondo cui deve riconoscersi «non tanto un diritto a morire con dignità, quanto piuttosto un diritto alla piena dignità anche nella morte». Contrario alla disponibilità assoluta del bene vita, cui corrisponderebbe un diritto a morire, C. CASONATO, I limiti all’autodeterminazione individuale al termine dell’esistenza: profili critici, in Dir. pubb. comp. Eur., n.1/2018, pp. 6 e ss, nota 17, secondo cui in nessun ordinamento contemporaneo l’individuo «è riconosciuto quale padrone assoluto e incondizionato della propria esistenza e del proprio destino biologico».
[44] Emblematica la ricostruzione di F. CONSULICH – C. GENONI, Intervento penale e decisioni di fine vita, alla ricerca di un diritto contemporaneo, op. cit., p. 27, secondo cui «il rifiuto di cure salvavita e il suicidio si pongono dunque in una relazione scalare, in cui il secondo può essere concepito in termini di libera scelta quando il primo, pur essendo un diritto azionabile giuridicamente, sia concretamente insufficiente, in una prospettiva personalistica che pone come protagonisti di ogni decisione il paziente e i suoi interessi».
[45 Sul punto A. SESSA, Il processo all’art. 580 del Codice penale nella più recente giurisprudenza costituzionale: alle origini di una nuova idea di giustificazione, op. cit., p. 11
[46] Ordinanza n. 207 del 2018 Corte Cost., in www.cortecostituzionale.it.
[47] V. M. DONINI, Il caso Welby e le tentazioni pericolose di uno “spazio libero dal diritto”, in Cass. Pen., Giuffrè, 2007 fasc.3, p. 908.
[48] Sul punto la ricostruzione di A. SESSA, Fondamento e limiti del divieto di aiuto al suicidio: un nuovo statuto penale delle scriminanti nell’ordinanza della Consulta, op. cit., p. 11.
[49] Sul punto A. NATALINI, Il tema del “fine vita” nella vicenda Cappato: i nuovi confini procedurali dell’aiuto al suicidio, in Rassegna della giurisprudenza di legittimità 2019, Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario, Approfondimenti tematici, p. 47.
[50] In questi termini F. CONSULICH, Lo statuto penale delle scriminanti, op. cit., p. 40.
[51] Ivi, 39.
[52] Sul punto A. NATALINI, Il tema del “fine vita” nella vicenda Cappato: i nuovi confini procedurali dell’aiuto al suicidio, op. cit., p. 47. V. altresì A. SESSA, Il processo all’art. 580 c.p. del Codice penale nella più recente giurisprudenza costituzionale: alle origini di una nuova idea di giustificazione, op. cit., p. 21.
[53] Sul punto v. F. DI PAOLA, Ritorno al futuro: e se la Corte costituzionale avesse indicato una strada già tracciata? in www.giurisprudenzapenale.it, n. 1/2019, p. 7.
[54] Emblematica è la ricostruzione di P. BERNARDONI, Ancora sul Caso Cappato: qualche considerazione sulla non punibilità dell’aiuto al suicidio introdotta dalla Corte Cost., op. cit., p. 10. Tali coordinate ermeneutiche si riflettono nella dinamica concreta, atteso che la Corte di Assise di Milano ha assolto Cappato “perché il fatto non sussiste”.
[55] V. ibidem. V. altresì A. SESSA, Il processo all’art. 580 del Codice penale nella più recente giurisprudenza costituzionale, op. cit., p. 43, secondo cui si ravvisa una «nuova idea di giustificazione che, a differenza di quella tradizionale o sostanziale, è unicamente in grado strutturalmente di creare presupposti di licitizzazione di condotte lesive quale espressione di un diritto penale vicino alle ragioni dell’uomo».
[56] Sul punto v. la ricostruzione di C. CUPELLI, Il caso (Cappato) è chiuso, ma la questione (agevolazione al suicidio) resta aperta, in www.sistemapenale.it, 6.2.2020, pp. 5 e ss.
[57] Emblematica la ricostruzione di F. CONSULICH, Lo statuto penale delle scriminanti, principio di legalità e cause di giustificazione: necessità e limiti, op. cit., p. 38.
[58] V. N. COLAIANNI, Incostituzionalità prospettata e causa di giustificazione dell’aiuto al suicido: novità nella continuità, in Stato, chiesa e pluralismo confessionale, n. 2/2020, p. 20.
[59] Sul punto v. L. EUSEBI, Decisioni sui trattamenti sanitari o diritto a morire? I problemi interpretativi che investono la legge n. 219/2017, in Riv.it.med.leg., 2018, pp.418 e ss.
[60] V. sul punto M. DONINI, Libera nos a malo, op. cit. p. 18 e ss.
[61] In questi termini M. DONINI, La necessità di diritti infelici. Il diritto di morire come limite all’intervento penale, in Riv. it. med. leg., n. 2/2016, pp. 555 – 581.
[62] V. la ricostruzione di M. ROMANO, Cause di giustificazioni procedurali? interruzione della gravidanza e norme penali, tra esclusioni del tipo e cause di giustificazione, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 1626 e ss., in particolare p. 1273. L'A. evidenzia come, in entrambe le ipotesi di scriminante, la scelta operata dal legislatore sussiste, in quanto quest'ultimo sceglie il c.d. diritto migliore che prevale rispetto agli altri interessi ad esso contrapposti, prestabilendo una procedura tale da rendere il suo esercizio lecito e giustificato. In particolare, l'A. sottolinea la necessità, nell'ottica di garantire autonomia alla categoria della scriminante procedurale, dell'intervento legislativo in materia, il quale autorizzi ex ante la condotta tipica, non risultando sufficiente l'intervento della giurisprudenza. Avalla tale orientamento critico volto a "svuotare" di autonomia la categoria della scriminante procedurale anche M. MANTOVANI, Autorizzazioni e cause di giustificazione, in A.A. V.V., Il penale nella società dei diritti, M. DONINI, M. ORLANDI (a cura di), BUP, Bologna, 2010, pp. 185 e ss.
[63] Sul punto v. C. CUPELLI, Il Parlamento decide di non decidere e la Corte costituzionale risponde a sé stessa. La sentenza n. 242 del 2019 e il caso Cappato, www.sistemapenale.it, 2019, n. 12, p. 53.
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