Famiglia ed eguaglianza: un legame da rivedere
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Luana Leo
Il quadro familiare, da sempre rappresenta un terreno scottante, non soltanto per il mondo giuridico ma anche per la Costituzione, oggi in evidente difficoltà innanzi agli innumerevoli mutamenti che toccano le delicate relazioni familiari. Il principio di eguaglianza, proiettato all´interno di codesto contesto, abbraccia numerose questioni, ma, di frequente, risulta lesionato. Il presente contributo mira a mettere in evidenza le varie disparità che hanno interessato, nel corso del tempo, l´ambito familiare, anche in ragione dell´evoluzione delle relazioni familiari. Alla luce di tale prospettiva, emerge, altresì, come di quella famiglia disegnata dall´art. 29 della Costituzione, sia rimasto ben poco, nella realtà odierna.
Sommario: 1. Famiglia, Costituzione, Codice civile: così vicini, così lontani. 2. Gli infiniti divari costituzionali tra famiglia legittima e famiglia di fatto. 3. La tutela economica del coniuge nella crisi di famiglia. 4. L’affidamento condiviso: meriti e difficoltà applicative. 5. Le Unioni Civili e le convivenze di fatto: la famiglia che cambia. 6. Essere genitori sempre: la “stepchild adoption”. 7. Donne e Parità (imperfetta) di genere: caccia alla dignità. 8. Brevi conclusioni: un’operazione a cuore aperto.
1. Famiglia, Costituzione, Codice civile: così vicini, così lontani
La tradizione giuridica, da sempre, marchia la famiglia come la prima “cellula” della società, una cellula che muta nel tempo per volontà non del diritto, bensì del genere umano, anche grazie alle tendenze di ciascun’epoca. Nel corso degli anni, in particolare dal 1948 in poi, la famiglia ha assunto differenti configurazioni (riconosciute o meno) ma non è mai stata posta in dubbio; la sua importanza[1] è lampante agli occhi di chiunque, tant’è che la stessa Costituzione Italiana parla di “società naturale”[2].
A differenza di qualsiasi altro fenomeno, non potrebbe mai concepirsi l’idea della famiglia come società estinta. Non è da escludere, invece, che vengano meno concezioni associate a codesta tematica, a causa dei numerosi mutamenti sociali. È come se, scomparsa la famiglia, il singolo non avrebbe alcuna ragione di esistere. Spenta la famiglia, l’uomo si “spoglia”, perde sostanza. L’approccio sociologico qualifica la famiglia come una vera e propria “istituzione” (c.d. teoria istituzionale). Il termine “istituzione”, nel contesto sociologico, indica “un insieme tendenzialmente coerente di elementi culturali – valori, simboli, regole, usanze – volto a soddisfare un bisogno sociale specifico, definendo e regolando i rapporti tra i membri del raggruppamento di cui è espressione e di questi con soggetti esterni”[3].
Tale definizione, in concreto, rappresenta l’incrocio tra due rilevanti pensieri: l’idea che un raggruppamento sociale risponda a certi bisogni e quella connessa che – per raggiungerli – si avvalga di un’apposita regolamentazione, tale da definirne i diritti e gli obblighi dei membri stessi. Sotto, il profilo sociologico, dunque, la famiglia-istituzione si mostra come un “universo culturale”.
Ciascun individuo, altresì, tende a identificare la famiglia in maniera diversa. Tale circostanza consente di smentire la credenza secondo cui spetti al diritto delimitare il concetto in esame. Una conferma deriva dai numerosi passi in avanti compiuti dalla tecnologia (ad es. le tecniche di fecondazione assistita) che hanno scardinato relazioni apparentemente immutevoli.
In chiave comparata, neppure il ricorso alla tradizione sembra in grado di poter giustificare la costruzione di una definizione esatta e puntuale del concetto di famiglia. A tal proposito, un interessante studio di Patrick Gleen sulle tradizioni giuridiche del mondo pone in luce la sussistenza di molteplici tradizioni differenti da quella occidentale (giudicata come eurocentrica e razionalistica) in termini di normatività, proprio con l'intento di avallare la tesi della dinamicità della realtà sociale.
Nel Titolo II della Parte I della Costituzione, dedicato ai rapporti etico-sociali, l’art. 29 comma 1, statuisce che “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” e, al comma conseguente, che “il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica tra i coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”.
Tale definizione costituisce una novità nel sistema costituzionale, dato l’intenso silenzio dello Statuto Albertino in materia di diritto di famiglia[4]. Il Codice civile del 1942, invece, era ben distante dai principi di eguaglianza giuridica e morale dei coniugi e di parità di trattamento tra figli legittimi e naturali, (per via del contesto storico)[5] oggi consolidati negli articoli 29 e 30 del testo costituzionale. Il Codice civile del 1942 adotta un modello di famiglia che riflette l’impianto sociale borghese dell’Ottocento[6]. In tal codice e in quello del 1865, la famiglia non è mai delineata in forma unitaria, ma si preferisce definire specifici istituti e singole specie di relazioni.
La Costituzione Repubblicana del 1948, al contrario, riconosce tale istituto in maniera compatta. Per i nostri Padri Costituenti, la famiglia, non è altro che, lo “specchio”[7] dello Stato e dei suoi cittadini, alla luce del fatto che essa riflette le caratteristiche storiche di ogni epoca: si pensi ad esempio, alla famiglia patriarcale tipica del dopoguerra, incentrata sull’autorità dell’uomo nei confronti della donna. Il diritto, con costante frequenza, ha tentato di definire la “cellula famiglia” e i suoi relativi mutamenti, pervenendo però, ad esiti piuttosto scarsi.
Una spiegazione di ciò deve essere rintracciata nella natura stessa del diritto: esso, infatti, non è in grado di stare al passo dei tempi, il più delle volte interviene con ritardo in ordine a questioni che, invece, avrebbero meritato di essere affrontate e risolte tempo addietro. Si pensi, ad esempio, alla tanto esasperata parità tra uomo e donna, ancora oggi oggetto di scontri (in particolare nell’ambito lavorativo) o alla discriminazione riversata nei confronti dei figli nati da genitori non uniti in matrimonio (c.d. figli naturali).
Una volta entrata in vigore la Costituzione, dottrina e giurisprudenza, palesemente condizionate dall’idea autoritaria e gerarchica, negavano il valore delle norme costituzionali. I connotati incerti, dovuti anche alla necessità di compensare le visioni delle pressanti forze politiche, hanno “fratturato” il panorama giuridico, dando così luogo a tesi contrapposte; ognuna di esse, infatti, recepisce, in modo differente, le norme costituzionali in materia di famiglia (artt. 29 e 30 Cost).
In particolare, la dottrina si divide nel determinare la natura del rapporto tra ordinamento familiare e statuale, individuandola, nel principio di sovranità e nel principio di autonomia. Una prima impostazione di pensiero incentra il rapporto tra i due ordinamenti sulla sovranità, attribuendo alla famiglia il supremo potere di predisporre regole proprie[8].
In rapporto a codesta concezione, una conferma potrebbe trarsi dalle previsioni normative del Codice civile del 1942, nonché dai principi di gerarchia ed unità, dall’alto potere riconosciuto al pater familias, astrattamente accostato all’apparato statale. Una seconda corrente di pensiero, invece, mette a punto tale rapporto in ordine al principio di autonomia[9]; alla famiglia spetta, un potere di autoregolamentazione, ma, non certo, quello di venir meno alle norme dell’ordinamento statale, in quanto l’autonomia ad essa riconosciuta non tramuta in sovranità.
A prescindere dalle suddette vedute, un fatto pare certo e non contestabile: la Costituzione Italiana, più di ogni altra fonte giuridica, riconosce alla famiglia “elevata dignità”, in ragione del carattere di stabilità e di certezza e della reciprocità e corrispettività dei diritti e dei doveri nascenti dal vincolo matrimoniale. La riforma del diritto di famiglia (1975) rinnova in toto la disciplina dell’istituto familiare, per altro, dando piena attuazione ai principi costituzionali. Tale riforma, infatti, attribuisce rilevanza alla volontà dei coniugi all’atto della celebrazione del matrimonio, riconoscendo agli stessi eguali poteri nel contesto familiare[10], anche a riguardo della potestà genitoriale[11].
Circa i rapporti patrimoniali, la riforma in oggetto ha introdotto la comunione legale dei beni e disciplinato l’impresa familiare[12]. In particolare, il proposito del legislatore è quello di marcare l’operato realizzato dalla donna sia nel contesto familiare che nell’impresa del coniuge. Il distacco dalla concezione autoritaria e gerarchica, inevitabilmente, comporta una crescente tutela dei diritti individuali, relegando, quindi, in secondo piano la visione unitaria della famiglia. Una delle maggiori differenze che affiorano nel raffronto tra la Costituzione e il Codice civile concerne la mancanza di una definizione esplicita e solida di “famiglia”, la cui causa viene imputata all’insorgenza incessante di nuove configurazioni familiari[13].
Occorre sottolineare, però, che codesta lacuna non frena l’attività produttiva della dottrina, il cui intento consiste nel pervenire ad una nozione unitaria di “famiglia”.
2. Gli infiniti divari costituzionali tra famiglia legittima e famiglia di fatto
La Costituzione Repubblicana, di per sé, non riconosce come “società naturale” “una compagine semplicemente naturale, che non si fondi su di un certo atto costitutivo e fondativo rappresentato dal matrimonio”[14]. I mutamenti connessi alla dinamicità dei rapporti sociali sbiadiscono la visione della famiglia istituzionale costruita dall’art.29 Cost., stimolando l’introduzione di ulteriori modelli familiari che ricevono rilevanza giuridica, pur non essendo fondati su di un vincolo matrimoniale[15].
In particolare, si è assistiti ad un’evoluzione terminologica di tale fenomeno. L’espressione “famiglia di fatto”, infatti, è stata introdotta soltanto di recente nel linguaggio giuridico, come portatrice di taluni valori sostanziali quali, la solidarietà e l’assistenza morale, che in precedenza venivano considerati propri della famiglia fondata sul matrimonio[16].
Il primo termine impiegato, per identificare detto fenomeno, è quello di “concubinato”[17]. Tale vocabolo, utilizzato soprattutto verso gli anni Settanta, presentava una valenza negativa. In ragione di ciò, un intervento della Corte costituzionale abrogò il c.d. delitto di concubinato[18], introducendo un’ originaria espressione, quella di “convivenza more uxorio”,[19] sprovvista di disvalore.
L’ordinamento giuridico italiano accoglie la “famiglia di fatto” alla luce del riconoscimento del valore di tale unione ai sensi dell’art. 2 Cost, il quale prevede che “la Repubblica stabilisca e garantisca i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”[20]. Al contrario, come ben risaputo, la Costituzione Italiana rimane ancorata alla classica concezione della famiglia quale “società naturale”[21].
La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sul differente trattamento riservato al convivente more uxorio rispetto al coniuge, spesso, ha richiamato il Legislatore ad una maggior attenzione nei confronti di quelle vicende che “seppur non potranno avere mai la dignità di matrimonio, non possono essere ritenute costituzionalmente irrilevanti”.
In particolare, si è rilevato che, nell’esaminare i problemi attinenti alla “famiglia di fatto”, appare necessario capovolgere la prospettiva imperniata sulla tutela della famiglia intesa in forma compatta e prendere in considerazione la tutela del singolo che vive nel contesto in esame. Da tale considerazione, non ne discende affatto un’equiparazione della famiglia di fatto alla famiglia legittima.
L’intenzione, piuttosto, è quella di proteggere l’interesse della persona a realizzarsi nella famiglia, quale prima forma di contatto, nonché società naturale. Nel corso degli anni, la giurisprudenza penale ha tentato di garantire alle famiglie di fatto un primo accoglimento in materia, mediante il riconoscimento di determinate situazioni[22].
In materia di filiazione, prima della nota Riforma del 2012, l’ordinamento giuridico italiano ammetteva una pluralità di status[23] filiationis – legittima, naturale riconosciuta, naturale non riconosciuta o non riconoscibile – e un singolo modello legale regolante la data relazione di coppia, cioè il matrimonio.
In virtù del principio di non discriminazione, l’art.2 della Legge 10 dicembre 2012, n. 219[24], attribuisce al Governo un’ampia delega affinché questi adotti tutte le modifiche della disciplina della filiazione volte a depennare ogni disparità tra figli. L’importanza della Riforma del 2012 risiede nell’introduzione dello “stato unico della filiazione”. In particolare, l’art. 1 comma 7 della sopra menzionata legge statuisce che “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”[25].
Alla luce di codesto mutamento, l’ordinamento giuridico italiano non attua alcuna distinzione in termini di diritti e doveri nel rapporto tra genitori e figli, ma persiste, ove necessario, la distinzione tra figlio nato entro il matrimonio e figlio nato fuori dal matrimonio, nonostante l’esplicito richiamo al principio di responsabilità genitoriale[26]. Infatti, l’introduzione dell’unico stato di figlio non abolisce le distinzioni circa l’accertamento legale dello stesso.
La Riforma del 2012 non interviene sull’accertamento della maternità, che nell’ordinamento giuridico italiano, segue regole differenti in relazione alla presenza o meno del vincolo matrimoniale. La donna coniugata è madre in seguito alla denuncia di nascita, il rapporto si costituisce di diritto[27], a meno che questa dichiari di aver concepito il figlio nato fuori dal matrimonio o di voler restare anonima, mentre la donna non sposata lo diventa una volta effettuato, da parte della medesima, il riconoscimento[28].
Per quanto concerne la paternità, il nuovo art. 231 c.c. sancisce che “il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio”. A sua volta il nuovo art. 232, co. 1, c.c. dispone che “si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando non sono ancora decorsi trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio”. Il fatto che la presunzione di paternità operi per tutti i figli nati (e non più solo per quelli concepiti) nel matrimonio implica, comunque, un ripensamento della presunzione di concepimento[29].
In merito alla prova della filiazione, invece, gli artt. 236 ss. c.c., prima destinati alla filiazione legittima, trovano applicazione a tutti i figli; la filiazione, quindi, viene provata con l’atto di nascita e, in sua mancanza, con il possesso di stato di figlio[30]. Quanto al disconoscimento della paternità, una modifica era invocata a seguito della sentenza della Corte costituzionale[31]. Una volta abrogato l’art. 235 c.c., la disciplina viene affidata agli artt. 243 bis (“l’azione può essere esercitata dal marito, dalla madre e dal figlio, o da un curatore speciale nominato dal giudice su istanza del figlio maggiore di 14 anni, del pubblico ministero o dell’altro genitore, quando si tratti di figlio minore di tale età) e 245 c.c. La legge 219/2012, altresì, sopprime il preesistente divieto di riconoscimento dei figli incestuosi[32].
Prima della riforma, infatti, quest’ultima categoria di figli non poteva essere riconosciuta, a meno che al momento del riconoscimento i genitori non fossero in buona fede (cioè ignorassero l’esistenza del vincolo di parentela o di affinità) o nel caso in cui il matrimonio da cui derivava l’affinità fosse dichiarato nullo (art. 251 c.c.)[33].
Sotto il profilo della successione, affiorano ancora leggere disparità tra figli nati da genitori coniugati e figli nati fuori dal matrimonio. In particolare, il figlio naturale possiede gli stessi diritti successori di quello nato da genitori uniti in matrimonio, ma in caso di concorso con questi nella successione legittima, al secondo spetta il c.d. diritto di commutazione, cioè la facoltà di liquidare in danaro o in beni immobili ereditari la quota spettante al figlio naturale, a meno che quest’ultimo si opponga, con relativa pronuncia del giudice, chiamato a valutare le “circostanze personali e patrimoniali” (art. 537, comma 3, c.c.).
Per quanto concerne, invece, la donazione, merita un cenno la modifica dell’art. 803 c.c., che racchiude la disciplina della revocazione delle donazioni per sopravvenienza di figli (“Le donazioni fatte da chi non aveva o ignorava di avere figli o discendenti al tempo della donazione, possono essere revocate per la sopravvenienza o l’esistenza di un figlio o discendente del donante. Possono inoltre essere revocate per il riconoscimento di un figlio, salvo che si provi che al tempo della donazione il donante aveva notizia dell’esistenza del figlio. La revocazione può essere domandata anche se il figlio del donante era già concepito al tempo della donazione”).
In materia di filiazione, poi, appaiono particolarmente controverse, alla luce dei diritti fondamentali, due situazioni collocate al di fuori della normativa codicistica: l’adozione e la procreazione medicalmente assistita. Per quanto concerne l’adozione, il diritto del minore a una famiglia risulta circoscritto in ordine a una legge che subordina tale istituto a taluni requisiti obbligatori tra i quali, la presenza di una coppia coniugata da almeno tre anni e la sussistenza di canoni di età ritenuti idonei. Lo stato matrimoniale non è, ad ogni modo, sufficiente a dimostrare l’idoneità della coppia, in quanto occorre avere piena certezza della situazione di fatto, ossia della concreta comunione di vita materiale e spirituale.
In ragione di ciò, il giudice deve accertarsi non solo che i coniugi siano uniti in matrimonio da almeno tre anni, ma che – nel triennio precedente – non vi sia stata alcuna richiesta di separazione. L’importanza riposta dalla disciplina[34] nei riguardi della resistenza del rapporto coniugale esclude dall’istituto, la famiglia di fatto, così come l’adozione da parte di un single, anche se in quest’ultimo caso il rigore sembra attenuarsi, nelle ipotesi di “adozione in casi particolari”[35].
Tali ipotesi convalidano l’assenza di un possibile contrasto tra l’adozione da parte del single e i principi sottesi alla tutela dell’interesse del minore[36]. Circa il requisito dell’età, il legislatore delinea un range di differenza tra l’età dell’adottando e quella degli adottanti per cui l’età di questi ultimi deve superare di almeno diciotto anni e non più di quarantacinque anni l’età dell’adottando[37]. Un ultimo requisito, assolutamente inderogabile, consiste, nel possesso da parte dei genitori adottivi, della capacità di “essere effettivamente idonei” e soprattutto “capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendano adottare”[38].
Il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, invece, viene consentito solo a coppie in età potenzialmente fertile, maggiorenni e sposate o conviventi, di sesso diverso, entrambe fertili. Si evince, da dette indicazioni normative[39], il divieto di applicazione delle tecniche procreative su una donna single o che si trovi in menopausa precoce, così come la fecondazione in seguito alla morte del partner con seme prelevato quando costui era ancora in vita. Pesa, altresì, il silenzio del legislatore circa il divieto di surrogazione della maternità[40], un terreno da sempre ritenuto vulnerabile e pregiudizievole.
3. La tutela economica del coniuge nella crisi di famiglia
Nel contesto della crisi di famiglia, il riconoscimento di un assegno di mantenimento del coniuge o di divorzio, trova la sua fonte nell’art. 156 c.c.[41]e nell’art. 5, commi 6, 7, 8, l. div. ed è inizialmente orientato alla protezione del coniuge più debole e all’obbligo del coniuge economicamente più forte di garantirgli, ove consentito dai suoi redditi, la conservazione dello stesso “tenore di vita”. Gli assegni di mantenimento e di divorzio presentano un dato comune: la natura assistenziale. La giurisprudenza, infatti, ha impiegato, anche in tema di assegno di divorzio, il criterio guida (“un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”) statuito in ordine all’assegno di separazione[42], a partire dalla sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 11492/1990[43].
Al contempo, la giurisprudenza, ha ribadito la cospicua differenza tra i due tipi di assegno. In particolare, l’assegno di mantenimento deve essere parametrato, tenuto conto delle circostanze e dei redditi dell’obbligato, in base al tenore di vita che il coniuge debole ha diritto di conservare anche dopo la separazione[44].
L’assegno di divorzio, invece, può subire, in occasione della determinazione del quantum, una falcidia, per effetto dell’applicazione degli altri criteri prescritti dall’art. 5 l. div, sino a giungere alla sua riduzione o anche alla soppressione, con integrale perdita del diritto del coniuge a riceverlo. Una svolta decisiva si è avuta, ad opera della Corte di Cassazione, con la sentenza[45] 10 maggio 2017, n. 11504, volta a relegare il criterio guida sopra menzionato[46]. Il giudizio sulla domanda di assegno divorzile si articola in due fasi distinte e successive, sull’ an e sul quantum debeatur, allineate rispettivamente ai principi dell’autoresponsabilità[47] e della solidarietà economica, con riguardo agli ex coniugi sotto la prospettiva individuale.
Nella prima fase, il giudice appura la presenza delle condizioni di legge per la concessione del diritto, ossia la mancanza, da parte del richiedente, di mezzi opportuni e l’impossibilità di procurarseli per ragioni reali, con esclusivo riferimento all’autosufficienza economica del medesimo, che è onerato della prova relativa. Nella seconda fase, a cui si accede solo in caso di esito positivo della prima, il giudice provvede alla quantificazione dell’assegno, alla stregua degli elementi indicati dall’art. 5 l. div.
Da ciò, ne deriva una contrapposizione tra i due assegni: al medesimo coniuge, economicamente debole, può essere riconosciuto un assegno di mantenimento anche elevatissimo, e – successivamente – può essere negato l’assegno divorzile. Le polemiche[48] insorte in seguito a tale decisione hanno comportato, nel luglio del 2018[49], un intervento delle Sezioni Unite, che hanno optato per una terza via, offrendo una propria interessante lettura[50] dell’art. 5, comma 6, l. div. Secondo le Sezioni Unite, ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile, la disparità economica costituisce elemento necessario, ma non sufficiente.
In particolare, il giudice deve accertare se quella condizione di squilibrio economico sia da ricondurre alle determinazioni comuni e ai ruoli endofamiliari svolti, che hanno generato il sacrificio di aspettative professionali e reddituali da parte del coniuge che abbia ricoperto un ruolo prevalente o esclusivo all’interno della famiglia, pur avendo comunque contribuito alla costituzione del patrimonio comune e a quello di ciascuno dei due.
In tale pronuncia, l’obiettivo dichiarato è quello di individuare un criterio flessibile ed “integrato”, in grado di conformarsi alla molteplicità dei modelli familiari. Le Sezioni Unite negano la rigida distinzione tra la fase dell’accertamento dell’an e la fase della determinazione del quantum, conferendo all’assegno una funzione per lo più sperequativa[51]. In merito all’onore della prova, spetta al richiedente dimostrare lo squilibrio economico e soprattutto che la discrepanza tra le reciproche condizioni economiche è stata causata dalla differente distribuzione dei compiti di cura e gestione della famiglia, e che codesto “handicap” non possa essere ripristinato, in ragione dell’età e dell’effettiva possibilità di una reintegrazione nel contesto lavorativo[52].
Il merito delle Sezioni Unite è duplice: da un lato, ponendo gli artt. 2 e 29 Cost. alla base della disciplina economica della famiglia, riconsegna ad essa quella valenza sociale e giuridica che la sentenza del 2017 aveva sminuito; dall’altro lato, restituisce alla ponderata valutazione del giudice, il bilanciamento dei vari elementi sulla base dei quali appurare la presenza del diritto all’assegno di divorzio, nonché la determinazione della misura dello stesso[53].
Con riguardo a quest’ultimo punto, la giurisprudenza sembra richiedere il serrato accertamento del fatto che i coniugi avessero deciso, in maniera concorde, che uno di essi si dedicasse prevalentemente alla famiglia e che tale impegno abbia contribuito in modo diretto e decisivo alla gestione familiare e alla formazione del patrimonio individuale e comune. La sentenza in oggetto presenta anche numerose criticità[54].
In primo luogo, sebbene il principio del tenore di vita sembri essere stato confinato, il suo superamento non è stato espresso in maniera esplicita e definitiva. Un’ulteriore pecca della sentenza delle Sezioni Unite è quella di aver voluto dichiarare che il nostro sistema è conforme alle scelte attuate dagli altri paesi europei e ciò, non rispecchia la realtà vigente. A seguito di un periodo di quiete giurisprudenziale, ha destato particolare interesse, una sentenza del 2019[55].
In tal caso, il giudice di merito aveva revocato l’assegno divorzile a carico dell’ex marito, a fronte di certe sopravvenienze (il peggioramento delle condizioni economiche di quest’ultimo, pensionato, e l’oggettivo miglioramento di quelle dell’ex moglie). La Suprema Corte ha confermato quest’ultima statuizione dichiarando che non risultano più operanti né la funzione assistenziale né quella perequativa-compensativa.
4. L’affidamento condiviso: meriti e difficoltà applicative
La storica legge n. 54/2006, in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli, è preceduta dalla Riforma del diritto di Famiglia del 1975, la quale prevedeva che l’affidamento dei figli[56], a seguito di separazione e di divorzio, fosse stabilito dal giudice a favore dell’uno o dell’altro coniuge[57], sebbene l’art. 155[58] c.c. contemplasse astrattamente forme di affidamento congiunto.
Negli anni conseguenti, il legislatore ha avvertito la forte necessità, da parte del figlio, di mantenere rapporti solidi con entrambi i genitori anche in seguito alla scissione del nucleo familiare; codesta esigenza, venne manifestata nella legge divorzile n. 74/1987, che incluse la viva possibilità per il giudice di disporre l’affidamento congiunto o alternato invece dell’affidamento monogenitoriale[59].
A tal proposito, occorre ricordare le critiche a cui fu soggetto l’affidamento alternato: esso concretizzandosi in una forma di affido in cui il soggetto minore veniva affidato per periodi di tempo prestabiliti a ciascun genitore che in tale periodo esercitava in modo esclusivo la potestà sul figlio, era considerato fonte di volubilità per il minore tale da pregiudicarne pienamente l’equilibrio[60].
Circa l’affidamento congiunto, invece, la potestà sui figli spettava ad entrambi i genitori, indipendentemente dal fatto che il minore si trovasse temporaneamente presso uno di essi. Quest’ultima forma di affidamento, per volontà giurisprudenziale, presupponeva la vitale presenza di taluni requisiti[61], cosicché, esso venne accordato alle separazioni consensuali[62].
La normativa sull’affidamento condiviso viene approvata il 24 gennaio 2006, in seguito ad un iter parlamentare turbolento. L’intenzione del legislatore era quella di dar luogo a una rivoluzione in tema di affidamento, trasformando l’eccezione (l’affidamento condiviso) in regola.
L’affidamento condiviso comporta una genitorialità cooperativa e consensuale, una paritaria condivisione della veste genitoriale, nel prioritario interesse dei figli a conservare un rapporto stabile con il padre e la madre, nonostante la scissione dell’unione coniugale. Codesta legge persegue un triplice obiettivo: a) di adeguamento del sistema di affidamento previgente alla realtà sociale mutata dal 1975 ai giorni odierni; b) di indirizzo verso una nuova modalità di intendere la genitorialità; c) di allineamento della normativa nazionale alla normativa degli Stati europei ed ai principi espressi dalle convenzioni internazionali[63].
Il principio cardine della riforma è, quindi, l’affermazione del diritto di tutti i minori alla bigenitorialità[64], principio già contemplato[65], e da poco, riproposto da fonti sovranazionali[66]. L’anima della riforma si evince palesemente dalla lettura del primo comma del riformato art. 155 c.c. “Anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”.
Essa mira a proteggere la prole a prescindere dalla natura dell’unione, coniugale o meno, tra i genitori, sanando una lacuna del sistema normativo che non prevedeva alcuna norma in ordine alla regolamentazione della dissoluzione della coppia genitoriale non coniugata, specie sotto il profilo dell’affidamento dei figli[67].
Sebbene detta previsione fosse racchiusa nella legge di riforma del Codice civile, permaneva una disparità nei riguardi dei figli nati fuori dal matrimonio, in quanto la disciplina dell’affidamento dei figli era ubicata all’interno del Titolo V relativo al matrimonio. Solo con la legge n. 219 del 2012, attuata dal decreto legislativo n. 154 del 2013, si è pervenuti al superamento tra filiazione legittima e filiazione naturale[68].
Il proposito del legislatore di lasciare alle spalle la concezione tradizionale trova conferma nella scelta del termine impiegato per delineare il nuovo regime di affidamento. In particolare, la stessa Corte ha dichiarato che già la scelta del vocabolo da parte del nostro legislatore è ingente rispetto all’espressione previgente: “affidamento congiunto”, significa non solo affidamento ad entrambi, ma affidamento fondato sul consenso di gestione, cioè sulla condivisione[69].
Sotto un profilo puramente linguistico, il termine “condiviso” mostra maggiore resistenza rispetto al termine “congiunto”, tale da spazzare via le perplessità di chi sosteneva che codesti vocaboli potessero essere accostati e utilizzati come sinonimi[70]. Secondo una corrente di pensiero, con il suddetto termine, il legislatore ha inteso marcare l’aspetto della partecipazione di ambedue i genitori, e non di certo, l’assoggettamento degli stessi ad un determinato provvedimento[71].
L’art. 155, comma 2, c.c. prescrive il contenuto del provvedimento con cui il giudice determina il regime dell’affidamento. In particolare, il giudice deve a) predisporre i tempi e le modalità della presenza della prole presso ciascun genitore; b) fissare la misura e il modo in cui entrambi i genitori dovranno contribuire al mantenimento, alla cura e all’istruzione dei figli; c) prendere atto degli accordi avvenuti tra i coniugi; d) adottare qualsiasi altro provvedimento necessario nell’interesse della prole[72].
Una corrente di pensiero[73] ha osservato come, rispetto alla disciplina previgente, il potere di intervento che la legge conferisce al giudice sia, in tal ottica, molto più “prepotente”: il precedente art. 155 c.c., infatti, attribuiva al giudice il solo potere di decidere a quale dei due genitore doveva essere affidata la prole, di regolamentare il diritto di visita del genitore non affidatario e di calcolare l’assegno di mantenimento che quest’ultimo avrebbe dovuto erogare al genitore affidatario.
L’impossibilità per il giudice di disporre tale affidamento si ha solo nell’ipotesi in cui i contrasti tra i genitori siano tali da non consentire agli stessi, la piena condivisione di un progetto comune avente ad oggetto la crescita e lo sviluppo della prole[74]. Nel caso in cui, invece, una delle parti decida di non ricoprire la propria veste di genitore, non sussistono dubbi in merito alla mancata possibilità di disporre l’affidamento condiviso[75].
Prima della legge n. 54/2006, quando l’affidamento esclusivo rappresentava la modalità primaria di affido, vigeva la regola generale dell’esercizio disgiunto della potestà genitoriale, in quanto il giudice conferiva al genitore affidatario l’esercizio esclusivo della potestà genitoriale[76] (soltanto le questioni di prevalente interesse dovevano essere assunte di comune accordo tra i genitori).
La scelta del legislatore del 2006, ribadita con la novella del 2013, è stata quella di introdurre la regola dell’esercizio congiunto della potestà (oggi responsabilità) genitoriale, anche se in ordine alle questioni di ordinaria amministrazione, il giudice potrebbe conferire a ciascun genitore il potere di adottare direttamente decisioni di natura quotidiana, senza il consenso dell’altro genitore, ove il figlio viva con lo stesso[77]. In tema di affidamento condiviso, particolare rilevanza viene attribuita agli accordi assunti dai genitori nell’esclusivo interesse del figlio.
La Riforma del 2013 introduce la previsione in base alla quale anche la decisione relativa alla residenza abituale del minore deve essere adottata di comune accordo dai genitori[78]. In mancanza di accordo tra questi, la decisione viene assunta dal giudice. L’abrogato art. 155-quater, comma 2, riconosceva al genitore non affidatario il diritto di chiedere al giudice la ridefinizione degli accordi, ogni qual volta il mutamento di residenza dell’altro genitore si riversasse sulle modalità dell’affidamento[79]. Con il decreto legislativo n. 154/2013, tale diritto non è stato riaffermato, in ragione del fatto che la possibilità di chiedere al giudice la modifica dei provvedimenti adottati, affiora da altre previsioni.
In particolare, l’art. 337-ter, comma 3, attribuisce al giudice il potere di valutare il comportamento del genitore, che non si sia attenuto alle condizioni dettate, in tema di affidamento; l’art. 337-quinquies c.c., al sopravvenire di nuove circostanze, consente la revisione dei provvedimenti inerenti all’affidamento e al mantenimento; infine, l’art. 709 c.p.c. accorda al giudice il potere di modificare il provvedimento in vigore, in caso di gravi inadempienze ovvero di atti che arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento[80].
Un ulteriore profilo che richiede l’accordo dei genitori è quello inerente al mantenimento della prole, come prescritto dall’art. 337-ter comma 4 (che riproduce l’abrogato comma 4 dell’art. 155 c.c.), in base al quale ciascuno di essi deve provvedervi in misura proporzionale al proprio reddito. Tale norma prosegue conferendo al giudice il potere di disporre la corresponsione di un assegno periodico solo ove necessario, al fine di realizzare il principio della proporzionalità[81], in considerazione di taluni parametri (quali, ad es. le attuali esigenze del figlio, le risorse finanziarie dei coniugi).
Dal tenore della norma si evince l’intenzione del legislatore di distinguere due modalità di adempimento dell’obbligazione di mantenimento della prole, in forma diretta ed indiretta. Secondo la dottrina prevalente[82], la legge del 2006 ha previsto, quale modus di osservanza dell’obbligazione, quello del “mantenimento diretto”, consistente nella rapida esecuzione di tutti i bisogni e di tutte le cure dei figli nei periodi di permanenza presso ciascun genitore.
La mancata trasparenza dei termini contemplati nell’articolo in discussione, ha condotto alcuni autori[83] a rievocare la tesi previgente[84] e ad assegnare all’assegno periodico carattere integrativo e perequativo, in quanto tendente a riaffermare il principio di proporzionalità. Per quanto concerne la posizione dei figli maggiorenni, la giurisprudenza di legittimità ha continuato a ravvisare il fondamento dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni nel “principio generale di tutela della prole”. Il fondamento della permanenza dell’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne è stato riscontrato nel proseguimento dell’iter di formazione professionale, ovvero nel mancato, ed incolpevole, svolgimento di un’attività lavorativa[85]. L’assimilazione[86] della posizione del figlio maggiorenne, incolpevolmente non autonomo, a quella del figlio minore, ha trovato concretizzazione normativa[87] nell’art. 155-quinquies c.c. In tema di affidamento condiviso, appare vitale ritagliare un breve spazio alla questione del diritto di visita.
In particolare, occorre marcare che, l’affidamento condiviso della prole ad entrambi i genitori non esclude che il figlio minore sia collocato presso uno dei genitori e che sia messo a punto uno specifico regime di visita con l’ulteriore genitore[88].
5. Le Unioni Civili e le convivenze di fatto: la famiglia che cambia
La legge n. 76/2016[89], denominata “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso e disciplina delle convivenze”, riconosce e tutela l’unione civile e la convivenza more uxorio nell’ordinamento giuridico italiano. L’art. 1, comma 1, della legge in oggetto, delinea l’unione civile come una “specifica formazione sociale”, ai sensi degli artt. 2 e 3 Cost., tra due persone dello stesso sesso[90].
Tale normativa trova concretizzazione solo in seguito alle sollecitazioni del Parlamento Europeo, che invita gli Stati Membri a sopprimere qualsiasi intoppo al riconoscimento delle “convivenze non fondate sul matrimonio, sia eterosessuali e sia omosessuali, e alla loro piena equiparazione alle coppie sposate”. In codesto scenario, un ruolo di particolare rilevanza spetta alla sentenza emessa dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, sez. IV del 21 luglio 2015, nel caso Olivari, con la quale il nostro Paese veniva condannato poiché, in violazione dell’art. 8 CEDU[91], non aveva provveduto ad adottare una normativa volta al riconoscimento delle dei rapporti affettivi tra persone dello stesso.
Tale legge ha dovuto combinare due divergenti e opposte esigenze: da un verso, l’intensa necessità sociale di assicurare un riconoscimento giuridico, con relativi diritti e doveri, alle coppie omosessuali e dall’altro verso, quella di introdurre per detti legami un istituto non analogo al matrimonio[92], ma comunque comparabile ad esso. In particolare, il legislatore italiano ha ritenuto opportuno aderire alla visione espressa dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 138/2010 e 170/2014[93].
Secondo l’art. 1, comma 2, della l. n. 76/2016, l’unione civile si costituisce tramite una dichiarazione derivante da due persone maggiorenni dello stesso sesso, in presenza di due testimoni, innanzi all’Ufficiale dello Stato Civile, il quale deve provvedere alla registrazione degli atti nell’archivio di Stato Civile (art. 1, comma 3).
Dal confronto tra le norme che disciplinano il matrimonio civile (dall’art. 106 c.c. all’art. 113 c.c.) e la disposizione in vigore per l’unione civile (art. 1, comma 2), emergono delle differenze, innanzitutto terminologiche. In ordine al matrimonio civile, infatti, si impiega il termine “celebrazione”, mentre riguardo alle unioni civili si ricorre, invece, al vocabolo “costituzione”[94].
Il matrimonio civile, altresì, prevede il rito della celebrazione pubblica nella casa comunale, di fronte all’Ufficiale di Stato Civile, alla quale segue l’ufficializzazione dell’atto. Diversamente dalla celebrazione del matrimonio, l’unione civile è stata concepita come atto nel quale l’Ufficiale di Stato Civile assolve meramente il ruolo di ricevente delle dichiarazioni delle parti.
Codesta autorità non è portatore di alcuna indicazione sugli effetti della costituzione dell’unione civile, effetti peraltro testualmente sanciti dai commi 11 e 12 della legge in esame[95]. La novella legislativa prevede la possibilità per i contraenti di poter assumere, per tutta la durata dell’unione civile, tramite la dichiarazione all’ufficiale di stato civile, un cognome comune (art. 1, comma 10)[96]. Per i coniugi, invece, non è contemplata la possibilità di scegliere tra i due cognomi[97]. In linea con la disciplina codicistica, la legge n. 76/2016 prevede numerosi impedimenti alla costituzione di una valida unione civile, i quali possono essere differenziati in due categorie.
La prima racchiude le cause impeditive che determinano la nullità dell’unione, la cui impugnazione non è soggetto ad un limite di tempo[98](art. 1 comma 4). La seconda categoria, invece, comprende le cause impeditive che innescano l’annullabilità del matrimonio, la cui impugnazione è esperibile entro un anno (art. 1 comma 7)[99]. In tal contesto, non sfugge il mancato richiamo all’errore che riguardi una “anomalia o deviazione sessuale” (art. 122 comma 3 c.c.).
In particolare, quest’ultima omissione, imputata a una dimenticanza del legislatore nazionale, ha indotto una parte della dottrina, a sostenere che l’orientamento sessuale sia stato considerato alla stregua di una “anomalia o deviazione sessuale”[100].
Con la costituzione dell’unione civile, poi, le parti acquistano gli stessi diritti e assumono gli stessi doveri. Sul tema dei diritti e dei doveri, è riscontrabile una differenza tra matrimonio ed unione civile. In particolare, l’art. 1 comma 11, della legge in esame, non menziona l’obbligo di fedeltà e di collaborazione, contemplati invece nell’art. 143 comma 2 c.c.
L’omissione del richiamo al dovere di fedeltà delle parti dell’unione civile riflette l’intenzione di allontanare codesto istituto dal matrimonio, nella controversa prospettiva che le coppie omosessuali non posseggano quei valori di stabilità ed esclusività tipiche del matrimonio.
Secondo la dottrina prevalente, tale lacuna non deve affatto indurre a pensare che le parti possano astenersi da rapporti sessuali extraconiugali, al contrario, il dovere di fedeltà deve essere concepito in senso ampio come dovere di non tradire la fiducia reciproca ed il rapporto di dedizione fisica e spirituale tra le parti (dunque, nel più generale obbligo di assistenza morale e materiale)[101].
Sotto il profilo patrimoniale, la disciplina ricalca quasi interamente il modello codicistico dei rapporti patrimoniali tra i coniugi[102]. In assenza di diversa indicazione, trova applicazione il regime della comunione dei beni. In tema di forma, modifica, simulazione e capacità per la stipula delle convenzioni matrimoniali, si fa rinvio agli artt. 162, 163, 164, 166 c.c. Esplicitamente invocate, in quanto applicabili anche all’unione civile, sono le sezioni II, III, IV, V, VI del capo VI del titolo VI c.c. (rispettivamente riservate alla disciplina del fondo patrimoniale, della comunione legale, della comunione convenzionale, della separazione dei beni e dell’impresa familiare).
Per quanto concerne lo scioglimento dell’unione civile, l’art. 1 comma 2 della l. 76/2016 menziona la morte e la dichiarazione di morte presunta di una delle parti dell’unione civile. L’art. 1 comma 23 della stessa legge statuisce che, oltre alla morte, l’unione civile si scioglie anche negli specifici casi previsti dall’art. 3 comma 1 della legge 10 dicembre 1970, n.898[103] e in quelli stabiliti dall’art. 3 comma 2 della stessa legge[104].
La disciplina dello scioglimento volontario dell’unione risulta più moderna rispetto a quella matrimoniale. In particolare, l’unione si scioglie “quando le parti hanno manifestato, anche disgiuntamente, la volontà di scioglimento dinanzi all’ufficiale di stato civile”.
In tal caso, la domanda di scioglimento deve obbligatoriamente essere proposta decorsi tre mesi da quella di manifestazione della volontà[105] (art. 24 comma 1). Sul punto, il legislatore italiano non ha delineato le modalità in cui debba essere manifestata la volontà, né la forma e il contenuto, né tanto meno quale sia l’Ufficiale dello Stato Civile incaricato a ricevere la suddetta dichiarazione di volontà[106].
Oggetto di autonoma regolamentazione è l’ipotesi della rettificazione di sesso, quale causa di scioglimento dell’unione. La Corte di Cassazione, con la sentenza 21 aprile 2015, n.8097, aveva riconosciuto alla coppia unita in matrimonio, in caso di avvenuta rettificazione del sesso, i diritti e i doveri derivanti dal vincolo matrimoniale legittimamente contratto, fino a quando il legislatore non avesse consentito ad essi di “di mantenere in vita il rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata” che ne garantisca adeguatamente diritti ed obblighi[107]. Le suddette carenze sono state colmate (parzialmente) dalla legge sulle unioni civili.
In particolare, l’art. 1 comma 27, l. n. 76/2016, stabilisce che: “Alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, segue l'automatica instaurazione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso”. Il decreto attuativo della l. n.76/2016[108], ha introdotto il comma 4 bis, all’art. 31 del d.lgs. 1 settembre n. 150[109], accordando la possibilità, per la persona che ha avanzato con esito favorevole la domanda di attribuzione di sesso e per il suo coniuge, di esprimere attraverso dichiarazione resa personalmente e congiuntamente, l’intenzione di costituire un’unione civile nel corso del procedimento di rettificazione di attribuzione di sesso.
L’intervento del legislatore del 2006 risulta piuttosto incompleto. In particolare, l’art. 26 comma 1 della legge in esame stabilisce che la sentenza di attribuzione di sesso comporta lo scioglimento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, senza però chiarire che l’effetto estintivo automatico dell’unione civile si determini al momento del passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione anagrafica di sesso[110]. L’art. 36 della l. 76/2016 comincia ad affrontare una questione particolarmente delicata, nonché quella della convivenza di fatto[111].
Per “conviventi di fatto”, il legislatore intende “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio ovvero da un’unione civile”. Le unioni di fatto, oggi etichettate “convivenze di fatto”, avevano già ricevuto nella giurisprudenza costituzionale riconoscimento giuridico tramite il richiamo all’art. 2 Cost., entrando a far parte di quelle “formazioni sociali” meritevoli di tutela all’interno dei quali i soggetti svolgono la propria personalità. In tale ottica, pesa la mancanza nella definizione sopramenzionata, di un esplicito riferimento all’art. 2[112].
La norma, per altro, non include un’indicazione temporale chiara, che stabilisca dopo quanto tempo una convivenza possa essere qualificata come stabile e, al contempo, esclude che essa possa trovare applicazione nei confronti di convivenze di tipo diverso, in cui le relazioni reciproche tra i componenti non prevedono l’apertura alla sessualità: per esempio, la convivenza tra due anziane sorelle rimaste sole[113]. La l. n.76/2016, in ordine alle convivenze di fatto, prescrive una disciplina mista. Essa prevede accanto ad una normativa minima relativa al riconoscimento di taluni diritti, la possibilità per i conviventi di definire contrattualmente i vari aspetti, soprattutto quelli patrimoniali.
A seguito della l. n. 162/2014 di conversione del d.lgs. n. 132/2014 – che ha introdotto la c.d. negoziazione assistita – oggi, la legge sulle unioni civili potenzia l’idea di contrattualizzazione delle relazioni familiari. Il quadro normativo sulle convivenze di fatto appare impreciso, insufficiente e confusionario tanto da attirare svariate critiche[114].
La legge n. 76/2016 (art. 38) estende ai conviventi le norme dell’ordinamento penitenziario in ordine ai rapporti tra carcerati e rispettivi coniugi, senza però preoccuparsi di modificare la norma generale (art. 307, comma 4, c.p.) che non prende in considerazione la figura del convivente[115]. Il comma 39 della legge in esame disciplina i diritti dei conviventi nei casi di ricovero ospedaliero del partner sotto un duplice profilo: visite e accesso alle informazioni sulla salute.
Circa le visite, la norma potrebbe considerarsi innovativa soltanto nel caso di ospedali che permettano ai soli congiunti legati con il ricoverato da un rapporto giuridico familiare l’accesso a tutti quei reparti (es. di rianimazione) i cui motivi sanitari impongono di contenere i visitatori esterni[116]. Per quanto riguarda, invece, le informazioni sanitarie, il comma 39 non introduce alcuna concreta innovazione. Da un punto di vista strettamente letterale, il fatto che detta indicazione normativa sia posta in parallelo a quella sulle visite, potrebbe indurre a pensare che l’accesso alle informazioni sia disciplinato dai regolamenti interni delle strutture sanitarie[117]. Particolare attenzione merita il comma 40 della legge in oggetto, il quale conferisce a ciascun convivente la facoltà di designare l’altro come proprio rappresentante al fine di adottare le decisioni sui trattamenti sanitari, sulla donazione degli organi, sulle modalità di trattamento del corpo e sulle celebrazioni funerarie. In particolare, in tal contesto, l’espressione “poteri pieni e limitati” risulta vaga, tale da richiedere, da parte del legislatore, una precisazione.
La disciplina del contratto di convivenza trova ubicazione nei commi 50 ss. della legge n. 76/2016. Ai sensi dell’art. 50, “i conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza”. I maggiori problemi interpretativi interessano il comma 53 nel punto in cui, afferma che “il contratto può contenere: a) l'indicazione della residenza; b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno ed alla capacità di lavoro professionale o casalingo; c) il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile. La dottrina maggioritaria sostiene che il “può” in essa contenuto apra alla possibilità di interpretare la disposizione nel senso più ampio (funzione esemplificativa)[118].
Al contrario, la disposizione deve interpretarsi in senso restrittivo in ordine ai profili mortis causa: ai sensi dell’art. 458 c.c., i conviventi non possono stipulare patti successori. La legge sulle unioni civili, dunque, non si è preoccupata di introdurre una deroga a codesto divieto. Altro aspetto delicata della legge in esame concerne l’apposizione di termini o condizioni, che se previsti, vengono considerati non apposti. In particolare, tale questione si complica nel punto in cui è previsto che le parti non possano stabilire un quantum da corrispondere nel caso di interruzione della convivenza. Quest’ultima tematica, da sempre, coinvolge la dottrina. Prima della legge Cirinnà, infatti, si tendeva a negare la possibilità per i conviventi di inserire nel contratto una clausola penale associata all’ipotesi in cui una delle parti fosse stato infedele[119]. Nel testo originario presentato in Senato, anche per i conviventi di fatto, era previsto l’obbligo di mantenimento al momento della cessazione del rapporto, al pari di quanto avviene per la separazione dei coniugi[120].
A seguito di numerose opposizioni sollevate da coloro i quali ritenevano che una disciplina così severa contrastasse con la ratio della convivenza di fatto, il legislatore ha introdotto l’obbligo di prestazione degli alimenti. Ai sensi dell’art. 65 della legge in esame, “in caso di cessazione della convivenza di fatto, il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall'altro convivente e gli alimenti qualora versi in stato di bisogno[121] e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento[122]”. Il comma successivo dell’art. 65 prevede che “in tali casi, gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale[123] alla durata della convivenza e nella misura determinata ai sensi dell'articolo 438, secondo comma, del Codice civile”.
La previsione del diritto agli alimenti comporta che potranno avvalersi di codesta forma di tutela soltanto i conviventi che rispondano ai requisiti prescritti dalla legge in oggetto. In particolare, il diritto agli alimenti viene riconosciuto al convivente economicamente più debole qualora la convivenza venga interrotta per volontà unilaterale o comune delle parti. Occorre marcare che, in tale contesto, il legislatore del 2016 pone un limite al convivente: ai fini della determinazione degli obbligati ai sensi dell’art. 433 c.c., precedenza spetta ai fratelli e alle sorelle[124]. Un vuoto normativo, invece, si registra in materia di successione.
6. Essere genitori sempre: la “stepchild adoption”
Per “stepchild adoption” si intende l’adozione, da parte del coniuge unito civilmente, del figlio della controparte. La stepchild adoption è una fattispecie, di mera creazione giurisprudenziale, che prende le mosse dall’istituto dell’adozione in casi particolari[125], disciplinata dall’art.44 della Legge 4 maggio 1984, n.183, quale ipotesi residuale di adozione di minori rispetto all’adozione legittimante[126].
Tale istituto giuridico presenta una duplice finalità: da un lato, consolidare i legami familiari in una famiglia ricostituita; dall’altro lato, tutelare l’interesse del minore affinchè venga garantita l’instaurazione di un rapporto giuridico analogo a quello genitoriale con un individuo al quale egli non è legato biologicamente, ma determinato ad assumere nei suoi riguardi un effettivo ruolo genitoriale. A quattro anni esatti dall’entrata in vigore della l. n. 76/2016[127], il panorama giuridico sembra ancora propenso a riporre in un angolo tale istituto giuridico[128].
Sotto il profilo del riconoscimento di una genitorialità non pregiudicata dalla discriminazione sessuale, più volte, la Corte EDU ha sostenuto che gli Stati, seppur liberi di dilatare o meno la disciplina della CEDU in materia di adozione dei minori alle unioni matrimoniali tra individui dello stesso sesso o stabilmente legata da un accordo, non debbano però differenziare le coppie.
In particolare, secondo i giudici di Strasburgo, la condizione di una convivenza di coppia, in cui viva il figlio di uno dei partner ed al cui benessere provvedono entrambi, deve essere assicurata dalla tutela accordata dalla CEDU (art. 8) e dal principio di autodeterminazione. La sentenza del 2014[129], con la quale il Tribunale di Roma ha sancito l’adozione di una bambina da parte della compagna della madre naturale, conferma la confusione in materia e pone in luce numerose questioni[130].
Il panorama giuridico appare timoroso del fatto che sentenze del genere possano mutare gli assetti relazionali e, di conseguenza, allentare il senso di corresponsabilità. In codesta sentenza, l’adozione è disposta in quanto ritenuta dal giudice[131] come la scelta più adeguata a soddisfare l’interesse della minore, che da sempre riconosce quali suoi genitori la mamma biologica e la mamma sociale, senza avvertire alcuna forma di disagio.
Ad orientare il giudice è il c.d. the best interest of the child[132], statuito dall’art. 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo. La pronuncia del Tribunale di Roma soddisfa il sacro diritto della minore ad avere una famiglia[133]. A dire di questo giudice, la “constatata impossibilità di affidamento preadottivo”, presupposto per tale tipo di adozione, dovrebbe intendersi correttamente non soltanto come impossibilità di fatto, che ricorre quando, per esempio, l’affidamento preadottivo è rifiutato per le difficoltà caratteriali del minore o per una sua grave disabilità fisica o psichica, ma anche come “impossibilità di diritto”. Secondo il Tribunale di Roma, il fatto che lo sviluppo psichico del minore possa essere assicurato esclusivamente dal suo mantenimento da parte di una coppia eterosessuale rimane espressione di un pregiudizio, data la mancanza di conferme scientifiche[134].
A partire dalla suddetta pronuncia, ulteriori Tribunali, nella maggior parte dei casi, hanno seguito la medesima linea[135]. Diversamente, il Tribunale per i minorenni di Milano, nella sentenza del 13 settembre 2016, ha sostenuto che le ipotesi di cui all’art. 44 lettere a), c) e d) atterrebbero a situazioni che presuppongono “l’abbandono o gravi carenze delle figure genitoriali”, condizione che non si constaterebbe nella fattispecie in discussione[136].
A prescindere dalle pronunce adottate negli anni, data la negativa consuetudine di mettere da parte la tematica, un intervento del legislatore appare urgente, anche alla stregua di una recente equiparazione tra figli nati da genitori coniugati e figli nati fuori dal matrimonio (l. n. 219/2012) che sembra abbattere le prime barriere in materia di filiazione, e del riconoscimento delle unioni civili e delle convivenze di fatto[137]. Tale triste realtà, peraltro, risulta nettamente in contrasto con la ratio dello stesso principio del the best interest of the child, nato con l'intento di riconoscere al minore la garanzia della titolarità dei diritti fondamentali. Sul punto, appare opportuno segnalare come il suddetto principio comporti sempre un giudizio di bilanciamento tra diritti fondamentali potenzialmente confliggenti. Tuttavia, il bilanciamento viene spesso ostacolato dalle concezioni del diritto, di solito non svelate o addirittura date per scontate dagli studiosi. Data la complessità della questione, non stupisce la condotta posta in essere dalla dottrina, diretta a screditare il principio del the best interest of the child in un contesto altamento spinoso come quello dell'omosessualità. In particolare, si è finito per mettere in discussione la valenza giuridica del principio, qualificandolo come una "mera clausola di stile bonne à tout faire". In scenari vulnerabili, come quello in analisi, il principio del the best interest of the child dovrebbe invece essere invocato con l'intento di "spegnere" tutti gli attacchi volti a compromettere la possibilità di instaurare rapporti di filiazione differenti da quelli considerati da sempre "normali" o meglio "naturali".
7. Donne e Parità (imperfetta) di genere: caccia alla dignità
Oltre alle disparità venutesi a creare, nel corso degli anni, all’interno dell’ambito familiare in materia di filiazione e riconoscimento di nuove relazioni affettive, merita considerazione anche la questione relativa alla parità di genere, che da sempre vede la donna impegnata a ritagliarsi un posto nel “mondo”[138].
Si ricordi come su 21 donne deputate, elette nel 1946 all’Assemblea costituente, solo cinque di queste parteciparono alla Commissione incaricata di redigere la Costituzione. A prescindere dal numero piuttosto scarso, il contributo delle suddette divenne decisivo poiché, nonostante la presenza di prepotenti[139] forze politiche, esse riuscirono in maniera solida e pacifica, ad ottenere il riconoscimento dei diritti delle donne e delle cittadine[140]. Il proposito delle costituenti non era solo quello di ottenere la parità d’accesso nel mondo del lavoro, ma anche quello di assicurare alla donna lavoratrice la sua essenziale funzione familiare[141].
In tal contesto, un intervento discutibile provenne da Giovanni Leone, secondo il quale: “Che la donna possa partecipare, con profitto per la società, a quella amministrazione della giustizia, dove più può far sentire le qualità che le derivano dalla sua femminilità e dalla sua sensibilità, non può essere negato. Ma, negli alti gradi della Magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possano mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”[142].
Un discorso di gran spessore, invece, giunse[143] da Teresa Mattei, per la quale: “nessuno sviluppo democratico, nessun progresso sostanziale si produce nella vita di un popolo senza che sia accompagnato da una emancipazione femminile”. L’emancipazione non si traduce solamente nel togliere le barriere al libero sviluppo delle singole personalità femminili, ma implica un effettivo progresso e una concreta liberazione per tutte le masse femminili nel campo giuridico e anche nella vita economica, sociale e politica del Paese”. In materia di lavoro[144], la produzione normativa è ricca. Una prima serie di leggi (anni ’50 e ’70) puntava ad abrogare la netta condizione di sottosviluppo che caratterizzava lo status della donna lavoratrice[145]. Verso gli anni ’90, l’intento paritario inizia a farsi sentire grazie all’importante riconoscimento delle “Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro”[146], nonché “interventi di carattere positivo diretti a colmare o, comunque, ad attenuare uno squilibrio a sfavore delle donne, che, a causa di discriminazioni accumulatesi nel corso della storia passata per il dominio di comportamenti sociali e modelli culturali, ha portato a favorire le persone di sesso maschile nell'occupazione delle posizioni di imprenditore o di dirigente d'azienda”[147].
L’inizio del nuovo secolo si caratterizza per una serie di rilevanti interventi giurisprudenziali e normativi prettamente comunitari[148]. Con riferimento, poi, alla tutela della maternità, a prescindere dalla raccolta normativa in materia, una singolare considerazione merita l’art. 37[149] della Costituzione il quale al comma 2, stabilisce che “Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.
Sin dalle prime battute, l’attenzione dei Costituenti si è concentrata sull’utilizzo del termine “essenziale”. A tal proposito, si segnala un acceso raffronto tra l’On. Merlin e l’On. Moro. In particolare, l’On. Merlin era contraria all’impiego del vocabolo “essenziale”, in quanto riteneva che esso avrebbe potuto determinare una limitazione dell’attività della donna alla sola prospettiva familiare[150]. Al contrario, l’On. Moro interpretava l’uso del vocabolo come “un avviamento necessario ed un chiarimento per il futuro legislatore, affinché esso, nel disciplinare l'attività della donna nell'ambito della vita sociale del lavoro, tenga presenti i compiti che ne caratterizzano in modo peculiare la vita”.
Altro aspetto delicato connesso alla parità di genere concerne il cognome. Secondo una corrente di pensiero[151], l’attribuzione del cognome del marito (e non della donna) alla prole costituisce una forma di discriminazione di genere. La tematica in esame è rimasta per lungo tempo ai confini del dibattito giuridico e tradotta come segno distintivo dell’unità familiare.
La ratio di codesto atteggiamento viene individuata nell’insufficiente considerazione pubblica accordata dall’epoca post-costituzionale al cognome di famiglia. In precedenza, l’attribuzione del cognome maritale rifletteva l’acquisizione di uno status considerato piuttosto proficuo per la donna[152], la quale passava dall’essere “signorina” al divenire “signora”. Al contrario, l’equivalente maschile (“signorino”) richiamava l’elevato ceto sociale. L’impiego del cognome maritale da parte della moglie[153], quindi, assolveva la funzione di esporre pubblicamente l’appartenenza della medesima alla famiglia del marito.
Più conforme al principio di parità è la legislazione di vari Paesi, come Germania, Svizzera, Austria, Francia, Grecia, Lituania, Portogallo ed Ungheria, che consente agli stessi coniugi di decidere se assumere come cognome di famiglia, da trasmettere ai figli, quello del marito o quello della moglie, o entrambi (nel caso della Spagna, tale decisione spetta alla prole)[154].
Le decisioni della giurisprudenza italiana hanno riguardato spesso la richiesta di utilizzo, da parte della moglie, del cognome maritale a seguito della rottura del vincolo coniugale[155]. In un primo momento, con le ordinanze n. 186 e 856 del 1988, la Corte, nel pronunciarsi sulla questione dell’attribuzione del cognome paterno ai figli nati nel matrimonio, riteneva che nonostante dovesse considerarsi “consentaneo all’evoluzione della coscienza sociale, sostituire la regola vigente con un criterio differente, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi”, tale innovazione costituiva solo una opzione di politica legislativa, riservata al Parlamento. Un ventennio dopo, con la sentenza n. 61 del 2006 e la successiva ordinanza n. 145 del 2007, il giudice delle leggi sostenne che “l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna”[156].
A questi due primi atti, ne è scaturito un terzo, decisivo. La Corte costituzionale, con la sentenza dell’8 novembre 2016, n. 286, mette fine ad una serie di incertezze createsi nel corso degli anni, a causa dalla mancanza di un’opportuna e soddisfacente giurisprudenza sul tema. In tale circostanza, la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli art. 237, 262, 299 c.c., oltre che dall’art. 72, comma 1, del Regio Decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello Stato civile), e dagli artt. 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’art. 2, comma 12, della l. 15 maggio 1997, n. 127) nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno, per contrarietà con gli artt. 2, 3, 29, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione[157].
Alcune perplessità, altresì, sorsero in merito all’inserimento del cognome del marito nelle tessere oggetto di rinnovo e nei certificati trasmessi alle elettrici. Tale questione ha innescato delle accanite diatribe il 26 maggio del 2019 in occasione della nomina da parte del corpo elettorale dei propri rappresentanti in seno al Parlamento europeo. Secondo quanto sostenuto[158] dagli organi di stampa, l’inserimento del cognome del marito sarebbe avvenuto d’ufficio senza che in suo favore si fossero espressi né la titolare del documento né l’uomo il cui cognome è stato speso.
Di fatto, l’art.4, comma 1, lett. a), della legge n. 1058 del 1947, stabilisce che nelle liste elettorali la donna sia identificata anche con il cognome maritale. L’art. 13 della legge n. 120 del 1999, invece, appare più attento all’identità personale e all’eguaglianza tra i sessi, in quanto prevede che la tessera elettorale “contiene i dati anagrafici del titolare”, senza far alcun riferimento all’aggiunta del cognome del marito. Tuttavia, codesta osservanza è parziale, alla luce del fatto che il regolamento cui rinvia l’art.13 della legge n.120 del 1999 specifica che “per le donne coniugate il cognome può essere seguito da quello del marito”. L’art. 143-bis c.c., rubricato “Cognome della moglie”[159], sostiene espressamente che la stessa “aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze”.
Sebbene qualche corrente di pensiero ricavi in quest’ultima disposizione una grave lesione del principio dell’identità personale e del principio di eguaglianza[160], in concreto, l’aggiunta del cognome del marito non comporta una vera e propria modifica del nome civile della moglie[161]. Una conferma deriva anche da una pronuncia recente della Corte costituzionale, secondo la quale “il cognome d’uso assunto dalla moglie a seguito di matrimonio non comporta alcuna variazione anagrafica del cognome originario, che rimane quindi immodificato”[162]. Tuttavia, codesta disciplina, nella misura in cui comporta l’introduzione del cognome maritale accanto al nome dell’elettrice coniugata, differenzia[163] palesemente i coniugi in ragione del sesso, in un ambito in cui l’appartenenza ad un nucleo familiare non presenta alcuna importanza. Il diritto di voto è un atto personale, uguale, libero e segreto[164]. Coniugio ed esercizio dei diritti politici non possiedono alcun tipo di legame tra loro, in quanto il primo prescinde dal secondo, e viceversa. Una valida soluzione al problema in esame potrebbe essere quella di introdurre una disciplina analoga a quanto prescritto in materia di unione civile (art.1, comma 10, l. n.76/2016)[165].
La questione relativa al cognome familiare, inevitabilmente, porta a galla un’ulteriore forma di parità, quella tra i coniugi. Il principio costituzionale, sancito dall’art. 29, comma 2,[166] in virtù del quale il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ha piena concretizzazione soltanto con la Riforma del diritto di famiglia. La disciplina previgente prevedeva, infatti, un modello di famiglia imperniato sull’autorità del marito[167] e sulla diversificazione dei ruoli dei coniugi[168]. Fino alla fine degli anni ’60, la Corte mantiene un atteggiamento prudente, nell’attesa di un intervento da parte del legislatore. Nelle pronunce di questo primo periodo si evince l’intenzione della Corte di evidenziare le contraddizioni tra l’impianto del Codice civile e il dettato costituzionale[169].
In un secondo periodo giurisprudenziale, che parte dalla fine degli anni Settanta, la Corte si mostra meno comprensiva, non più propensa ad attendere l’intervento del legislatore. Sul tema dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, decisiva fu la sentenza della Corte costituzionale del 19 dicembre 1968, n. 126, a seguito della quale l’adulterio femminile non fu più ritenuto reato[170]. Sotto il profilo normativo, oltre alla l. 19 maggio 1975, n. 151, con la quale è stata riformato il diritto di famiglia, particolare rilevanza è stata assunta dalla l. 5 agosto 1981, n. 442, tramite la quale è stata abrogata la rilevanza penale della causa d’onore. Sul piano della parità nella partecipazione politica, le prime leggi in materia di promozione della rappresentanza femminile furono adottate, dall’organo legislativo, all’inizio degli anni Novanta.
A tal proposito, si ricorda la l. n. 81/1993, relativa all’elezione diretta del Sindaco, del Presidente della Provincia, del Consiglio comunale e del Consiglio provinciale e la l. n. 277/1993, recante modifiche al d.p.r. 30 marzo 1957, n. 361, di approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione della Camera dei deputati[171], dichiarate poco dopo costituzionalmente illegittime dalla Corte costituzionale[172]. Occorre sottolineare che, l’esigenza di una rappresentanza paritaria delle donne nella vita pubblica è stata avvertita soprattutto a livello locale e regionale[173]. A seguito della Riforma costituzionale del Titolo Ve degli Statuti Speciali[174], le leggi elettorali regionali compresero sia la norma sulle liste dirette a includere candidati di ambedue i sessi, sia la (tanto attesa) preferenza di genere[175]. Sulla scia della legislazione regionale, a livello statale, si è provveduto a modificare la legge elettorale della Camera dei deputati e quella del Senato della Repubblica e ad “intrufolare” tra i principi fondamentali della legislazione elettorale regionale[176], a norma dell’art. 122 Cost., “la promozione delle pari opportunità tra donne e uomini nell’accesso alle cariche elettive”[177].
Circa la parità di genere nell’accesso alle cariche pubbliche, si ricordi per prima la l. 27 dicembre n. 1441, con la quale il legislatore ordinario consentiva alle donne di far parte delle Corti d’Assise, stabilendo però che dei sei giudici popolari tre dovevano essere uomini. La Corte costituzionale investita del giudizio, con sentenza del 29 settembre 1958, n. 56, riconosceva la legittimità costituzionale della legge del 1956. Nel negare la violazione del principio di eguaglianza, secondo la Consulta, l’art. 56 aveva voluto lasciare all’organo legislativo “qualche sfera di apprezzamento nel dettare le modalità di applicazione del principio, ai fini della migliore organizzazione e del più proficuo funzionamento dei diversi uffici pubblici, anche nell’intento di meglio utilizzare le attitudini delle persone”[178].
Alla luce di una situazione non accettabile[179] in quanto palesemente discriminatoria, un cambio di rotta si ebbe poco dopo, con la sentenza n.33 del 1960[180]. La Corte costituzionale, infatti, dichiarò illegittima la norma (l’art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176) che escludeva ingiustamente le donne da una serie di uffici pubblici implicanti l’esercizio di diritti e potestà politiche. Da detta pronuncia, ne scaturì, con la legge 9 febbraio 1963, n. 66, l’ammissione della figura femminile in magistratura[181].
Infine, merita un cenno la legge 20 febbraio 1958, n. 75, - “Abolizione della regolamentazione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui” – comunemente nota come “legge Merlin”. In particolare, l’intenzione primario della senatrice Merlin non era quella di sopprimere il fenomeno della prostituzione, che essa stessa sapeva bene essere una piaga insopprimibile di ogni società, quanto quello dell’abolizione della prostituzione di stato. Tale condizione si poneva in contrasto[182] con l’art. 3 Cost. e perciò richiedeva un immediato intervento[183].
Il contesto europeo, rispetto al territorio nazionale, sul tema della parità di genere, presenta una situazione più confortante. Si prenda, ad esempio, in considerazione il caso spagnolo. Secondo il preambolo della Legge 22 marzo 2017, n. 3, “la parità è un principio giuridico universale”. L’art. 14 della Costituzione Spagnola del 1978, invece, statuisce espressamente che: “gli spagnoli sono uguali di fronte alla legge, senza che possa prevalere alcuna discriminazione per ragioni di nascita, razza, sesso, religione, opinione o qualsiasi altra condizione o circostanza personale o sociale”. L’art. 35 della Costituzione spagnola prevede, poi, il dovere di lavorare ed il diritto al lavoro “senza che in alcun caso si possa fare discriminazione per ragioni di sesso”. Gli obiettivi fondamentali della Legge 22 marzo 2007, n. 3 per le pari opportunità effettive tra donne e uomini sono due, nonchè: “creare le condizioni necessarie per raggiungere le pari opportunità”, e soprattutto, “evitare la discriminazione per ragioni di sesso”[184].
8. Brevi conclusioni: un’operazione a cuore aperto
Sebbene il processo di costituzionalizzazione della famiglia abbia confinato la concezione gerarchica e guardato sia ai diritti inviolabili dell’individuo (libero di esprimere la propria personalità), che all’affermazione del principio di eguaglianza, ancora oggi, il panorama giuridico e la coscienza morale appaiono timorosi nel prendere atto dell’evoluzione delle dinamiche familiari. Il problema di fondo sembra consistere nell’effettiva mancanza di una definizione unitaria di famiglia che ne chiarisca i contenuti[185]. L’unica nozione positiva di famiglia, presente allo stato attuale tra le fonti vigenti, è quella offerta dalla Costituzione Repubblicana all’art. 29, che ammette i diritti della famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio”, senza però specificare il sesso dei coniugi o concedere una breve apertura al riconoscimento delle convivenze more uxorio. Il diritto costituzionale della famiglia è oggi chiamato ad occuparsi di temi non affrontati dai Padri Costituenti all’epoca della scrittura della Carta costituzionale. I principi costituzionali elaborati nel 1948 riflettono la volontà di costruire un’immagine di famiglia diversa ma che, al contempo, tenga conto della realtà vigente. I passi compiuti dalla Costituzione, in materia di famiglia, non possono reputarsi irrilevanti e lacunosi, tenuto conto del delicato periodo storico in cui la medesima venne concepita. Piuttosto, spetta al legislatore nazionale adeguare definitivamente la materia alla realtà familiare odierna.
L’assenza di una normativa specifica che chiarisca, una volta per tutte, la questione relativa al cognome maritale e, al contempo, allontani tutti i dubbi in termini di discriminazione, mette in luce la mancanza di coraggio del legislatore nazionale. Un discorso analogo deve farsi anche in merito alla “stepchild adoption”, dato il violento stralcio della previsione normativa che includeva l’istituto, dal testo definitivo della legge sulle unioni civili. Sul tema della parità di genere, invece, appare evidente come i principi costituzionali di per sé non siano affatto sufficienti a promuovere la presenza femminile nell’ambiente di lavoro e ad assicurare alla donna la sua “essenziale funzione familiare”[186].
Riguardo alla filiazione, poi, la parificazione dei figli nati fuori dal matrimonio ai figli nati da genitori coniugati, non ha abolito del tutto l’identificazione dei primi come “inferiori” rispetto ai secondi, data la sussistenza di una disciplina ancora carente sotto taluni aspetti. Secondo il pensiero[187] di Luigi Ferraioli, “l’uguaglianza è stipulata perché, di fatto, siamo differenti e disuguali, a tutela delle differenze e in opposizione alle disuguaglianze”. “Differenti” e “disuguali”, ma non discriminati. È da qui che il legislatore nazionale deve partire per sopprimere tutte le disparità ancora presenti nel contesto familiare e non più accettabili innanzi alle logiche moderne.
[1] L’importanza della famiglia è ripetutamente sottolineata anche nella Sacra Scrittura: “Non è bene che l’uomo sia solo” (Gen. 2, 18). Fin dai testi che narrano la creazione dell’uomo (cfr. Gen. 1, 26-28; 2,7-24) emerge come – nel disegno di Dio – la coppia costituisca “la prima forma di comunione delle persone”.
[2] r. bin, La famiglia: alla radice di un ossimoro, in Studium Iuris, 2000, 10, 1066:“ Prima contraddizione: esiste un concetto “naturale” di famiglia? Mi posso immaginare due tipi risposta, una in chiave psicologica, l’altra in chiave culturale. La prima potrebbe portarci a dire che la “famiglia”, qualsiasi ne sia l’estensione, l’organizzazione o la funzione, è comunque “naturale” nel senso che appartiene ai bisogni umani fondamentali, imprescindibili, legati alla socialità dell’uomo, alla sua riproduzione, alla sua affettività, al suo bisogno di riservatezza. La famiglia, insomma, denoterebbe quel primo e indispensabile esempio di “formazione sociale” di cui l’art. 2 Cost. garantisce e, ancora una volta, “riconosce” l’esistenza (non a caso, essendo l’art. 2 l’altra clausola “giusnaturalistica” della costituzione). Ma se così fosse, dovremmo ritenere che l’art. 29 ci rimanda ad un concetto ampio, destrutturato, di ‘famiglia’”; r. spiazzi, Lineamenti di etica della famiglia, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1990, 27: “La famiglia è una società naturale e necessaria, in quanto non sorge esclusivamente per libera volontà dell’uomo (società artificiali), ma per un impulso e un’esigenza della natura che trova la sua espressione nelle indicazioni della retta ragione e nelle tendenze e attrattive dell’amore. Per l’elemento naturale, istintivo, spontaneo che spinge alla costituzione della famiglia, questa si può considerare come la prima forma di comunità naturale, compatta e solidale per l’unità della vita e del sangue”.
[3] p. ceri, Sociologia. I soggetti, le strutture, i contesti, Laterza, 2007, 149
[4] l. califano, La famiglia ed i figli nella Costituzione italiana, in I diritti costituzionali, a cura di r. nania e p. ridola, Giappichelli, Torino, 2006, 926: “Nel vigore dello Statuto Albertino e del Codice civile del 1865, nella lettura dominante, la famiglia costituisce un organismo (etico, ancor prima che giuridico), portatore di un autonomo interesse, diverso e superiore rispetto a quello dei singoli membri”.
[5] Si ricordi, l’art. 91 c.c., (abrogato dall'art. 1, R.d.l. 20 gennaio 1944, n. 25 e dall'art. 3, D. lgs. lgt. 14 settembre 1944, n. 287), circa la diversità di razza o di nazionalità: “I matrimoni tra persone appartenenti a razze diversi sono soggetti alle limitazioni poste dalle leggi speciali. Le leggi speciali determinano anche le condizioni che devono osservarsi per i matrimoni dei cittadini italiani con persone di nazionalità straniera”.
[6] a. oddi, La famiglia tra società e diritto. Prolegomeni., in www.eius.it, 2012:“Nel suo testo originario, il codice civile del 1942 – non diversamente da quello del 1865, che a sua volta rispecchiava, per ideologia e struttura, il Code Napoléon del 1804 - era caratterizzato da una netta concezione patriarcale – e, quindi, essenzialmente gerarchica ed autoritaria – sia dei rapporti fra coniugi sia dei rapporti fra genitori e figli. Tale concezione – “che, in termini socio-giuridici, possiamo definire androcentrica” – affondava le sue radici storiche nella tradizione romanistica della patria potestas ed era coerente con l'impianto complessivo di un codice – quello del '42 – che nella sua ispirazione di fondo “privilegia il “soggetto economico” in un panorama normativo che colora le relazioni umane secondo un preciso ordine gerarchico”.
[7] Tuttavia, appare evidente che, nell’epoca contemporanea, lo Specchio della Costituzione, ove limitato all’art. 29, non risulti più in grado di rispecchiare le molteplici relazioni affettive che si sono delineate nel corso degli anni (sul tema, p. perlingieri, I diritti del singolo quale appartenente al gruppo familiare, in Rass. dir. civ., 1982, 72).
[8] Sul punto, g. b. ferri, Il diritto di famiglia e Costituzione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1962, 120
[9] A tal proposito, saggia - zoppini, sub art. 29 Cost., in bifulco-celotto-olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, I, Torino, 2006, 605
[10] Al vecchio art. 144 c.c., che nella disciplina precedente consacrava il marito come capo della famiglia e detentore della potestà maritale, è stato sostituito il nuovo testo dell’art. 144 c.c., che attribuisce ad entrambi i coniugi “il dovere di concordare” le scelte attinenti all’indirizzo familiare in un’ottica tutta solidaristica, che guarda all’interesse di entrambi e a quello preminente della famiglia stessa.
[11] Nel Codice civile del 1942, titolari della potestà genitoriale sono entrambi i genitori, ma l’unico che può esercitarla rimane il padre, mentre la madre deve sottostare alla sovrana volontà del marito, che permane anche oltre la morte di quest’ultimo. Si ricordi, infatti, l’art. 338 c.c., (abrogato dall'art. 159 della L. 19 maggio 1975 n. 151) relativo alle condizioni imposte alla madre superstite: “Il padre può per testamento, per atto pubblico o per scrittura privata autenticata stabilire condizioni alla madre superstite per l'educazione dei figli e per l'amministrazione dei beni. La madre, che non voglia accettare le condizioni, può domandare di essere dispensata dall'osservanza di esse; e il tribunale provvede in camera di consiglio, assunte informazioni e sentito il pubblico ministero e, se possibile, i parenti sino al terzo grado”. In merito alla potestà genitoriale, al vecchio art. 338 c.c., che attribuiva la potestà al padre, è stato sostituito il nuovo testo dell’art. 338 c.c., in base al quale: “entrambi i genitori hanno la responsabilità genitoriale che è esercitata di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio. I genitori di comune accordo stabiliscono la residenza abituale del minore”.
[12] L’art. 230 c.c., introdotta dalla riforma del diritto di famiglia, prevede che “Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonchè agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato”.
[13] l. garlati, La famiglia tra passato e presente, Giuffrè, 2011, 44:“ Gli anni successivi all’entrata in vigore del codice sono caratterizzati da scarsi interventi legislativi, tanto da essere stati ribattezzati da Paolo Ungari ‘‘un mezzo secolo senza riforme’’.
[14] c. grassetti, I principi costituzionali relativi al diritto familiare, cit.
[15] g. sbisà, Intervento su Il problema della rilevanza giuridica della famiglia di fatto alla luce della riforma del diritto di famiglia, in AA. VV., Due anni di applicazione della riforma del diritto di famiglia, 1979, 361.
[16] f. gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Key Editore, 2018,5: “Analoga evoluzione terminologica, del resto, si riscontra anche in Germania, dove, dall’originario Konkubinat, si è passati all’uso della più complessa espressione di eheahnliche Gemeinshaft, attraverso l’altra, meramente negativa, nicthteheliche Lebensgemeinshaft”.
[17] Art. 560 c. p: “Il marito, che tiene una concubina nella casa coniugale, o notoriamente altrove, è punito con la reclusione fino a due anni. La concubina è punita con la stessa pena. Il delitto è punibile a querela della moglie”. (Articolo dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte costituzionale con sent. 3 dicembre 1969, n. 147)
[18] Corte cost., 3 dicembre 1969, n. 147, in Foro it., 1970, I, 17
[19] f. romeo, Le relazioni affettive non matrimoniali, Utet Giuridica, 2014: “Il ricorso a tale formula evidenzia non solo un atteggiamento di maggiore tolleranza ma anche la tendenza a mettere in relazione l’unione coniugale con quella fondata sul matrimonio e ciò al fine di verificarne la riproduzione del contenuto del rapporto”.
[20] g. ferrando, Convivere senza matrimonio: rapporti personali e matrimoniali nella famiglia di fatto, in Fam. e dir., 1998, 183; a. mascia, Famiglia di fatto: riconoscimento e tutela, Halley Editore, 2006, 34: “La formula che sponsorizza questo inserimento della famiglia di fatto nell’alveo delle aggregazioni giuridicamente rilevanti, è quella di “formazioni sociali”. Ciò avviene soprattutto allorquando si intenda con tale formula, quel luogo all’interno del quale si favorisca e si realizzi lo sviluppo della persona”.
[21] La concezione di matrimonio propria della Chiesa cattolica, invece, deriva da presupposti di diritto divino, naturale e positivo, che in quanto tali sono immutabili ed indisponibili. Ne deriva che il modello matrimoniale canonica presenta caratteristiche che sono costanti nel tempo e restano insensibili ai mutamenti sociali e giuridici che si verificano nella società civile (in g. barberini, m. canonico, Elementi essenziali dell’ordinamento canonico, Giappichelli, 2013, 139).
[22] Sul punto, si ricorda: l’art. 342 bis e 342 ter c.c., che contemplano la condotta del coniuge o di altro convivente in tema di protezione contro gli abusi familiari; l’art. 199, comma 3, lett. a) c.p.p., che prevede la facoltà di astenersi dal deporre in giudizio per chi, pur non essendo coniuge dell’imputato, con tale conviva o abbia convissuto; l’art. 6 legge 13 marzo 1958, n. 356, che prevede l’assistenza per i figli naturali non riconosciuti dal padre caduto in guerra, quando la madre e il presunto padre avessero convissuto durante il periodo del concepimento.
[23] In dottrina, sul concetto di status si distinguono diverse impostazioni. Per taluni lo status indica un insieme di posizioni giuridiche soggettive attive e passive, personali e patrimoniali, che caratterizzano la figura di un determinato soggetto fondato sugli interessi e sulle pretese insite nelle posizioni giuridiche medesime. Per altri, invece, lo status indica il modo di essere di un soggetto nell’ambito di uno specifico ambiente sociale o, meglio, il modo di rappresentarsi con esso; ovverosia, rovesciando la prospettiva, la percezione che detto ambiente sociale, vale a dire la comunità giuridica che lo concretizza, ha della condizione soggettiva dell’individuo (in s. patti, diritto di famiglia, Giuffrè, 2011, 746).
[24] La riforma della filiazione è stata attuata in tempi e modi differenti. La l. 219/2012, agli artt. 1 e 3, ha introdotto norme precettive, di tipo sostanziale e processuale, entrate in vigore il 1° gennaio 2013, a seguito dell’ordinaria vocatio legis.
[25] a. miranda, Modernità del pensiero giuridico di G. Criscuoli e Diritto Comparato. Parte III, Giappichelli, Torino, 2012, 43: “Il ricorso alla formula dello stato unico di figlio non è semplicemente indice dell’intenzione di affermare un principio di pari condizione giuridica dei soggetti indipendentemente da fatti legati alla nascita, ma in particolare l’insistenza del richiamo, che in alcune disposizioni inevitabilmente si traduce in un appesantimento del contenuto, vuole rappresentare l’idea di una riformulazione della ratio del diritto di famiglia maggiormente incentrata sulla posizione dei figli nel rapporto con i genitori e nei legami familiari con il gruppo più esteso”; in particolare, la netta rilevanza della formula è marcata da m. bianca, Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico, in Le nuove leggi civili commentate, 2013, 507.
[26] Con la Riforma del 2012 viene meno l’espressione “potestà genitoriale”, sostituita con quella di “responsabilità genitoriale” (nel Codice civile ancora definita “patria potestà); m. g. stanzione, Il diritto alla genitorialità e alle relazioni familiari, in www.comparazionedirittocivile.it, 2013, 24: “L’apparizione di un nuovo termine sulla scena del diritto non è mai neutra o neutrale. Emerge sempre più forte la consapevolezza che un nuovo attore recita il suo ruolo nella commedia familiare, ed è la famiglia ricostituita, che non concerne soltanto la nuova coppia, ma altresì, ed è il profilo più delicato, i figli dell’uno e dell’altro conviventi con il nuovo compagno del genitore, che vi sia oppur no tra di essi un vincolo matrimoniale”.
[27] È un principio di tradizione plurisecolare, che in passato stabiliva una cosa del tutto ovvia sul piano biologico. Suo presupposto logico e biologico, era che la formazione dell’embrione, risultato dell’unione dell’ovocita e dello spermatozoo, non poteva avvenire se non all’interno del corpo della donna. Come tutti sappiamo, da circa 40 anni non è più sempre così: infatti è tecnicamente e legalmente possibile formare l’embrione in vitro, dopo aver prelevato l’ovocita dall’apparato riproduttivo femminile (in L. lenti, La costituzione del rapporto filiale e l’interesse del minore, in www.juscivile.it, 2019, 14)
[28] Tale regola è in conflitto con l’art. 2 della Convenzione europea sullo stato giuridico dei figli nati fuori dal matrimonio (Strasburgo, 1975), secondo il quale invece la maternità è attribuita per il “solo fatto della nascita”. La Convenzione non è stata ratificata dall’Italia e ha avuto pochissimo successo nei paesi dell’Europa occidentale, Scandinavia a parte, benché il principio del suddetto art. 2 sia accolto quasi ovunque, anche dai paesi che non hanno ratificato la Convenzione
[29] Il fatto che la madre possa escludere la paternità del marito, o dichiarando di non voler essere nominata nell’atto di nascita, o dichiarando che il figlio è stato generato fuori del matrimonio, induce a chiedersi se “la “signoria” oggi riconosciuta alla madre non possa per così dire essere riequilibrata attribuendo al marito un potere in qualche modo speculare, ad esempio, consentendogli di opporsi alla dichiarazione della moglie. Si potrebbe, poi, pensare, in caso di nascita da coniugi separati, ad una dichiarazione (eventualmente congiunta) che attribuisca al marito separato la paternità. Il Codice civile francese, ad esempio, ammette in questo caso il riconoscimento del figlio da parte del marito (art. 315). Il Codice civile spagnolo (art. 118) prevede che l’iscrizione del figlio nato da genitori separati come “matrimoniale” possa avvenire con il consenso di entrambi i coniugi. La nostra riforma tace su questi aspetti di non trascurabile rilevanza” (in g. ferrando, La riforma della filiazione, 2014, 10).
[30] p. m. della rocca, La nuova disciplina della filiazione, Maggioli, 2015, 78: “Trattasi di istituti avvolti da una fitta nebbia dogmatica, alimentata dal tenore dell’art. 226, c.c., il quale, mischiando i concetti di “prova” e di “titolo”, solleva il dubbio che l’atto di nascita e, in supplenza, il possesso di stato non rivestano una funzione probatoria, ma anche costitutiva”.
[31] Corte cost., 6 luglio 2006, n. 266, in seguito alla quale la prova genetica della paternità non è più subordinata alla previa prova dell’adulterio.
[32] L’incesto è un disvalore che ha segnato la nostra storia sin dai tempi più antichi. Perfino le Sacre scritture vi fanno cenno. Le relazioni sessuali tra persone legate sul piano personale ripugnano a tal punto che, accanto a quello di sangue, finisce con l’imporsi anche un concetto di incesto in considerazione di vincoli esclusivamente civili. Il disvalore, oltre alla configurazione di un reato (art. 564 c.p.), determina in ambito civilistico il divieto di celebrazione del matrimonio ed il divieto dell’instaurazione del rapporto di filiazione: il primo rimasto sostanzialmente immutato nel tempo (v. art.58 ss. c.c. del 1865; art. 87 c.c. del 1942; art. 87, nuova formulazione, c.c.); il secondo mitigato da deroghe sempre più importanti” (in g. lisella, Riconoscimento di figlio nato da relazione incestuosa e autorizzazione del giudice, www.comparazionedirittocivile.it, 2013, 1-2); Nella sentenza 28 novembre 2002, n. 4068, la Corte Cost. ha dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 278, 1° comma, “nella parte in cui esclude la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturali e le relative indagini, nei casi in cui, a norma dell’art. 251, 1° comma, c.c., il riconoscimento dei figli incestuosi è vietata”(c. m. nanna, La riconoscibilità dei figli “incestuosi”, tra paternalismo legislativo e prospettive di interpretazione evolutiva, 2018, 2016: “ Sembra opportuno subito precisare che la sentenza della Consulta del 200225, pur di grande rilievo e di portata “storica”, non è stata incisiva fino in fondo, perché si è limitata, come si è accennato, a dichiarare l’incostituzionalità del divieto dell’accertamento giudiziale della paternità e maternità dei figli “incestuosi”, solo nell’ipotesi di “iniziativa” del figlio, e non anche nell’ipotesi prevista dal pur correlato art. 251 c.c., in materia di riconoscimento del figlio incestuoso, su “iniziativa”, quindi, del genitore o dei genitori, anche se non in buona fede”).
[33] Il nuovo art. 251 c.c. prevede che “il figlio nato da persone, tra le quali esiste un vincolo di parentela in linea retta all'infinito o in linea collaterale nel secondo grado, ovvero un vincolo di affinità in linea retta, può essere riconosciuto previa autorizzazione del giudice avuto riguardo all'interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio. Il riconoscimento di una persona minore di età è autorizzato dal giudice”.
[34] Legge 4 maggio 1983, n. 184 (“Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori”)
[35] In base a quanto previsto dall’art. 44 della l. 184/1983, “i minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le condizioni di cui al primo comma dell'articolo 7: a) da persone unite al minore, orfano di padre e di madre, da vincolo di parentela fino al sesto grado o da rapporto stabile e duraturo preesistente alla perdita dei genitori; b) dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell'altro coniuge; c) quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo”.
[36] Di certo, esse rispondono ad un allineamento del sistema normativo all'evoluzione sociale e culturale dei nostri giorni, essendo oramai pacificamente accettato dalle scienze sociali il concetto di famiglia unipersonale, non più espressione di un isolamento sociale, bensì di un modello familiare alternativo, supportato dagli sviluppi delle tecniche di procreazione assistita, delle quali in altri ordinamenti giuridici possono beneficiare anche persone non legate ad altra persona da alcun rapporto affettivo (in v. barela, L’adozione all’indomani della legge 219/2012, in www.comparazionedirittocivile.it, 2013, 12).
[37] Nell'originario testo della legge n. 184 del 1983 la differenza di età tra coniugi adottanti e adottato era contenuta fra i diciotto e i quaranta anni. La necessità di tutelare il superiore interesse del minore consente, inoltre, di derogare il limite massimo “quando il tribunale per i minorenni accerti che dalla mancata adozione derivi un danno grave e non altrimenti evitabile per il minore"
[38] Art. 6, comma sei, l. n. 184/1983, nuovo testo.
[39] Artt. 4 e 5 l. 19 febbraio 2004, n. 40
[40] In base all’art. 9, comma 2, l. 40, è fatto divieto alla madre del nato a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita di dichiarare la volontà di non essere nominata (possibilità riconosciuta ad ogni madre naturale dall’art. 30, comma 1, d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396); tale divieto parrebbe precludere l’attribuzione della maternità alla donna committente, ma il divieto è subordinato alla circostanza che sia reso noto che la gravidanza è il risultato dell’utilizzo della tecnologia riproduttiva e ciò accade quando l’intervento medico avviene nelle strutture nazionali autorizzate; tuttavia, in presenza di un accordo tra la coppia committente e la madre sostituta, ben potrebbe darsi che la madre sostituta non dichiari la propria maternità, che il padre riconosca il figlio, e che la moglie richieda successivamente l’adozione del figlio del marito, come forma di adozione speciale ex art. 44, comma 1, lett. b), l. 184/198374 (in g. famiglietti, Filiazione e Procreazione, www.gruppodipisa.it, 2013).
[41] L’art. 155 c. c., comma 1, prevede espressamente che “il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall'altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”.
[42] Non vi è alcun dubbio in merito al fatto che la funzione dell’assegno di mantenimento sia quella di garantire al coniuge separato un tenore di vita analogo a quello goduto precedentemente la separazione. A tal proposito, g. bonilini, Manuale di diritto di famiglia, Torino, 2014, 230; Il tenore di vita deve essere identificato con “lo standard reso oggettivamente possibile dal complesso delle risorse economiche dei coniugi” (Cass. n. 20638/2004).
[43] Cass. n. 11492/1990: “L’assegno periodico di divorzio, nella disciplina introdotta dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987 n. 74, modificativo dell’art. 5 della legge 1 dicembre 1970 n. 898, ha carattere esclusivamente assistenziale, atteso che la sua concessione trova presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da intendersi come insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che sia necessario uno stato di bisogno, e rilevando invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio”.
[44] La giurisprudenza rapporta l’adeguatezza non tanto al concreto tenore di vita, quanto a quello potenziale. In altre parole, presupposto per l’attribuzione dell’assegno di mantenimento è l’inadeguatezza dei redditi del richiedente a mantenere un tenore di vita analogo a quello offerto dalle potenzialità economiche di entrambi (in a. cagnazzo, L’assegno nella separazione e nel divorzio, Key Editore, 2019, 44).
[45]La rimessione della questione alle Sezioni Unite ha avuto origine dal contrasto determinatosi, nella giurisprudenza di legittimità, tra l’orientamento consolidato – risalente a Cass., Sez. Un., n. 11490/1990 – che riconosceva all’ex-coniuge il diritto di continuare a godere del tenore di vita matrimoniale, e l’orientamento più recente – espresso da Cass, sez. I, n. 11504/2017 – che subordinava il diritto dell’ex coniuge all’assegno post-matrimoniale alla sua mancanza di autosufficienza economica (in c. benanti, Le Sezioni Unite riconoscono la natura “assistenziale-compensativa» dell’assegno divorzile”, Riv. Familia, 2018).
[46] La Cassazione, nella sentenza n. 11504/2017, non risponde ad una domanda: chiarito che il tenore di vita matrimoniale è irrilevante nella fase della valutazione dell’ an debeatur, ci si deve chiedere se esso sia anche irrilevante nella fase della concreta determinazione del quantum debeatur potrebbero ipotizzarsi due soluzioni alternative: – il criterio dell’autosufficienza economica è anche il tetto massimo per la concreta determinazione dell’assegno divorzile; oppure – una volta riconosciuto a favore di un coniuge il diritto a percepire un assegno divorzile in quanto è accertato che egli non è economicamente autosufficiente, la misura del diritto, determinata alla luce dei criteri indicati nella parte centrale dell’art. 5, comma 6, della L. n. 898/1970, può essere fissata in una somma superiore a ciò che garantisce l’indipendenza economica (in c. rimini, Non è solidarietà, non è assistenza ciò che l’ex coniuge va cercando: proposta per una soluzione alternativa del problema dell’assegno divorzile, nota sentenza Cass. 11504/2017).
[47] Nell’esperienza tedesca, con riferimento ai limiti del principio di autoresponsabilità del coniuge divorziato, si afferma la necessità di coordinare diversi principi contrastanti. Il primo di essi è quello della Handlungsfreiheit, cioè della libertà di agire che ciascuno dei coniugi deve avere dopo il divorzio, e che risulta limitata da eventuali obblighi di mantenimento. Il suddetto principio deve tuttavia cedere rispetto alle esigenze di figli in tenera età, che risulterebbero (ulteriormente) sacrificati se l’ex coniuge che ne ha la cura – in genere la madre – fosse costretta a svolgere un’attività lavorativa. È previsto pertanto il diritto dell’ex coniuge di ricevere il mantenimento (per sé stesso) fino al compimento del terzo anno di età del figlio. Il secondo principio è quello della nacheheliche Solidarität, cioè della solidarietà post coniugale, che tuttavia – alla luce del principio generale e prevalente della Eigenverant-wortung, necessità di volta in volta di una particolare giustificazione alla luce delle circostanze del caso concreto (età, malattia, etc.). In ogni caso si tiene conto della durata del matrimonio e di ciò che risulta pretendibile alla luce delle possibilità economiche dell’ex coniuge (eventualmente) obbligato, soprattutto alla luce della presenza di figli minori (in s. patti, Solidarietà e autosufficienza nella crisi del matrimonio, 2017, 283).
[48] f. danovi, Assegno di divorzio e irrilevanza del tenore di vita matrimoniale: il valore del precedente per i giudizi futuri e l’impatto sui divorzi già definiti, in Fam. e Dir., 2017, 655.
[49] Cass. n. 18287/18
[50] La sentenza fonda il proprio percorso argomentativo sulla considerazione per cui l’art. 5, comma 6, l. div. è una norma autosufficiente, nel senso che fornisce all’interprete tutti i parametri necessari alla sua applicazione concreta fondata su criteri individuati all’esterno della norma (sia il tenore di vita matrimoniale, sia l’autosufficiente economica) è errata (in c. rimini, aa. vv., Famiglia, patrimonio e paesaggio generazionale, Wolters Kluwer, Milano, 2020)
[51] L’assegno divorzile assolve una triplice funzione: assistenziale, nella misura in cui rappresenta un supporto per il coniuge economicamente bisognoso, compensativa e sperequativa, poichè retribuisce il consorte che ha sacrificato o in qualsiasi misura ha condizionato la propria vita per la famiglia (in m. g. cilardi, Riv. Cammino Dir., 2018).
[52] Sul punto, s. patti, Assegno di divorzio, il passo indietro delle Sezioni Unite, in Corr. Giur., 2018, 10, 1186; L’ex coniuge a cui è richiesto l’assegno, invece, dovrà allegare e provare elementi di segno contrario a quelli che dimostrerebbero una scarsa possibilità di entrare nel mondo del lavoro o di rafforzare la capacità di guadagno (in a. gorgoni, Assegno di divorzio e sistema nell’intervento delle Sezioni Unite, 2018, 46).
[53] c. benanti, I principi enunciati dalle Sezioni Unite giustificano la revisione dell’assegno divorzile?, in Riv. Familia, 2019: “Tra le tante questioni poste dalla recente sentenza delle Sezioni Unite in materia di assegno divorzile (Cass., S.U., n. 18287/2018) c’è quella relativa agli effetti che il nuovo principio di diritto in essa affermato possa produrre sui procedimenti relativi all’assegno già conclusi. Si è posta, quindi, la questione se la pronuncia delle Sezioni Unite costituisca un fatto sopravvenuto che giustifichi la revisione dell’assegno divorzile. Sembra che al quesito debba darsi risposta negativa, perché l’art. 9, l. div. si riferisce a situazioni di fatto sopravvenute, che modifichino i presupposti sulla cui base l’assegno di divorzio è stato attribuito e/o quantificato. Una nuova interpretazione giudiziale, anche se vincolante per i successivi giudici come nel caso in cui sia stata adottata dalle Sezioni Unite, non rientra nei casi considerati dalla disposizione. Si finirebbe altrimenti per attribuire ad una sentenza un effetto, quello di rimettere in discussione decisioni già definite, che non è riconosciuto neanche ad una legge sopravvenuta”.
[54] g. scarselli, Sull’assegno di divorzio e sulla sentenza delle sezioni unite Cass. 11 luglio 2018 n. 18287, in Judicium, 2018: “I punti deboli di Cass. sez. un. 11 luglio 2018 n. 18287 sono, a mio parere e come anticipato, due: a) un eccessivo concettualismo, che può portare il giudice del merito a ricavare da questa pronuncia tutto e il contrario di tutto; b) e l’assenza di indicazioni precise e concrete al medesimo giudice di quando, come, e in che misura, dare un assegno di divorzio”.
[55] Cass., 5 marzo 2019, n. 6386
[56] Sull’istituto della potestà genitoriale, c. grassi, Potestà genitoriale e affidamento della prole, in Giustizia Civile, 2008.
[57] Anche la terminologia in uso contribuiva ad indicare il fatto che il genitore non affidatario sostanzialmente rimaneva esterno ed estraneo rispetto alla vita del minore. Egli aveva, infatti, la cosiddetta “facoltà di visita”, termine generalmente usato per incontri con persone appartenenti alla casa e alla cerchia delle persone con le quali si ha maggiore convivenza (in b. de filippis, l. lausi, a. l. lettieri, s. luccariello, r. maurano, p. mazzei, a. mutalipassi, c. penna, g. pierro, L'affidamento dei figli nella separazione e nel divorzio. Seconda edizione, Cedam, 2013).
[58] Il vecchio testo dell’art. 155 c.c. stabiliva che “Il giudice che pronunzia la separazione dichiara a quale dei coniugi i figli sono affidati e adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole, con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa”.
[59] L’articolo 11 della legge del 1987 aveva modificato l’articolo 6 della legge sul divorzio che al nuovo comma 2 prevedeva espressamente: “Il Tribunale che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio dichiara a quale dei due genitori i figli sono affidati e adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. Ove il tribunale lo ritenga utile all’interesse dei minori, anche in relazione all’età degli stessi, può essere disposto l’affidamento congiunto o alternato”.
[60] In giurisprudenza si riteneva sconsigliabile l’affidamento alternato quando i figli mostravano di aver bisogno di un’assoluta stabilità ambientale, o ancora, quando poteva ingenerare nel minore un disorientamento psicologico (sul punto, f. caringella, r. giovagnoli, Studi di diritto civile, Giuffrè, Milano, 2007, 540).
[61] m. sesta, Manuale di diritto di famiglia, CEDAM 2015, 287-290.
[62] La legge del 1987, altresì, non forniva alcuna definizione dell’affidamento congiunto.
[63] a. cennicola, a. f. saracino, L’affidamento condiviso. Alla luce della legge n. 54/2006, Halley, Macerata, 2007, 18.
[64] Bigenitorialità significa che, con l’evento della nascita, sia il padre che la madre assumono responsabilità verso il figlio. Il minore ha diritto di ricevere assistenza morale e materiale da entrambi, anche a seguito della scissione coniugale (sul punto, b. de filippis, La separazione personale dei coniugi ed il divorzio, CEDAM, 2012).
[65] L’art. 9 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, resa esecutiva in Italia con l. 27 maggio 1991, n. 176, sancisce il diritto del figlio separato da entrambi i genitori o da uno di essi di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi, a meno che ciò non sia contrario al suo interesse. È configurabile un vero e proprio diritto soggettivo dei figli a crescere nella propria famiglia, ricevendo l’assistenza dai loro genitori.
[66] L’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, adottata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, vincolante nel nostro ordinamento a seguito dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona (1° dicembre 2009), che, all’art. 6, le conferisce lo stesso valore giuridico dei Trattati, attribuisce ad ogni bambino il diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contratti diretti con i genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse.
[67] L’art. 4, comma 2 della legge n. 54/2006 recita che “le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, cessazione degli effetti civili o nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi a figli di genitori non coniugati.”
[68] In tal senso, m. nuzzo, Il principio di sussidiarietà nel diritto privato, Giappichelli, Torino, 2014, secondo il quale: “Tale svolta è stata nel senso di aver tracciato una netta linea di demarcazione tra il piano dei rapporti tra i genitori e quello del rapporto genitore-figlio, quest’ultimo piano insensibile alle vicende che si determinano nel primo, e nel quale i genitori devono impegnarsi concretamente affinchè la situazione degli affetti resti sostanzialmente invariata”.
[69] b. de filippis, l. lausi, a. l. lettieri, s. luccariello, r. maurano, p. mazzei, a. mutalipassi, c. penna, g. pierro, L'affidamento dei figli nella separazione e nel divorzio. Seconda edizione, Cedam, 2013.
[70] Una distinzione viene delineata in s. chiaravalotti, g. spadaro, L'interesse del minore nella mediazione familiare, Giuffrè, 2012, 57.
[71] Su tale aspetto, g. giacobbe, La famiglia nell’ordinamento giuridico italiano, Giappichelli editore, 2011, 171 ss.
[72] m. sesta, a. arceri, L'affidamento dei figli nella crisi della famiglia, Utet, 2012, Assago (MI), 90.
[73] s. patti, l. rossi carleo, L' affidamento condiviso, Giuffrè, Milano, 2006, 72-73.
[74] In tal senso, Trib. Napoli, 28 giugno 2006, in Foro it., 2007, I, pp. 138. Di per sé, la conflittualità non esclude l’affidamento condiviso (Trib. Catania, ord. 18 maggio 2006: “in tema di affidamento dei figli minori, alla luce della ratio legis sottesa alla novella, la sussistenza di una notevole conflittualità tra i coniugi, di per sé, non è ostativa all’affidamento condiviso; ne consegue che l’affidamento dei figli ad uno solo dei genitori può essere disposto solo in presenza di elementi che travalicano i limiti dell’ordinaria conflittualità, in presenza dei quali l’affidamento condiviso risulterebbe contrario all’interesse morale e materiale del minore”.
[75] Trib. Novara, 27 agosto 2010, n. 835, in Ilcaso.it, 2011, 4: “Sebbene nella consapevolezza che il legislatore abbia dato, con il nuovo articolo 155 codice civile, un'indicazione di sicura preferenza tra per il modello dell'affidamento ad entrambi i genitori, ritenendolo in astratto il più conforme agli interessi della prole e di conseguenza quello che prioritariamente il Collegio giudicante deve valutare nella definizione degli assetti relazionali scaturenti dalla separazione, va infatti sottolineato come tuttavia lo stesso legislatore, con l'articolo 155 bis codice civile, conceda la possibilità di discostarsi da codesta scelta ove risulti che l'affidamento ad uno dei due genitori sia contrario all'interesse dei minori. (Nella fattispecie, il Ctu aveva precisato che l'affidamento congiunto del minore non fosse pensabile a causa dell'elevata conflittualità tra i genitori. In presenza di tali situazioni di conflitto, che impediva, secondo il Tribunale, di instaurarsi di un clima di fiducia reciproca nelle abilità educative, nelle risorse personali e nell'apporto dell'altro all'arricchimento emotivo e spirituale del figlio, il collegio ha ritenuto che il percorso dell'affidamento condiviso non fosse allo stato praticabile)”.
[76] Si determinava una contraddizione apparente tra l’art. 317 c.c. che sanciva “la potestà comune dei genitori non cessa quando, a seguito di separazione, di scioglimento, di annullamento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio i figli vengono affidati” ad uno solo dei genitori ed il citato disposto dell’art. 155 c.c.; si assisteva alla dissociazione tra la potestà genitoriale la cui titolarità continuava a permanere in capo ad entrambi i coniugi e l’esercizio della potestà che, invece, veniva devoluto al genitore affidatorio (in a. cennicola, a. f. sarracino, L’affidamento condiviso. Alla luce della legge n. 54/2006, Halley, Macerata, 2007, 62).
[77] Si tratta di una novità rispetto all’affidamento congiunto. La disposizione dell’art. 155 c.c. è suscettibile di varie letture, a seconda che se ne valorizzi l’incipit o la parte finale: si potrebbe pensare che il legislatore abbia inteso attribuire separatamente a ciascun genitore la potestà sulle questioni di minore importanza non avendo richiamato in proposito il “comune accordo”, oppure che, in linea di principio, l’esercizio della potestà è sempre comune che solo attraverso un provvedimento del giudice possa essere esercitata separatamente per le questioni di minore importanza (in g. a. stanzione, Il diritto di famiglia nella dottrina e nella giurisprudenza. La separazione, il divorzio, l’affido condiviso – Seconda Edizione, Giappichelli, Torino, 2011, 389).
[78] L’art. 155, comma 3, prevede che “le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all'istruzione, all'educazione e alla salute sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli”. Non vi è alcun dubbio sul fatto che la decisione circa la residenza abituale rientri tra quelle di “maggior” interesse, soggette alla regola del comune accordo (in tal senso, Cass., S.U., 21 ottobre 2019, n. 22238).
[79] Sul tema b. de filippis, Il diritto della famiglia, Cedam, 2011, Bassano del Grappa (VI), 501.
[80] Sul punto, si ricorda un interessante sentenza del Tribunale di Vivo Valencia, che ha revocato, ai sensi dell’art. 709-ter c.p.c., le anteriori disposizioni sull’affidamento e mantenimento dei figli minori, a causa del comportamento della madre che ha deciso unilateralmente di trasferirsi in un’altra città, impedendo il corretto svolgimento delle modalità di affidamento e portando un pregiudizio ai minori. Analogamente, il Tribunale di Torino – decreto 8 ottobre 2014 – aveva precisato che il diritto di un genitore di spostare la propria residenza insieme al figlio, pur trattandosi di diritto di rilievo costituzionale, deve essere bilanciato con il diritto del figlio minore (di pari rango costituzionale) ad una sana crescita e ad uno sviluppo armonico della personalità, nonché a mantenere, in caso di disgregazione della famiglia, equilibrati ed adeguati contatti e rapporti con entrambi i genitori (in g. vassallo, Lo spostamento unilaterale della residenza del minore, Eclegal.it, 2017)
[81] L’obbligo di mantenimento del minore si ricollega direttamente agli obblighi previsti in capo ai genitori ex art. 30 Cost. ed artt. 147 e 148 c.c. e sussiste in funzione dell’esistenza del rapporto di filiazione rimanendo intatto anche nel momento del dissolvimento del consortium vitae (in f. a. fantetti, Diritto di famiglia e diritti familiari, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2011, 391).
[82] a. arceri, L’affidamento condiviso. Nuovi diritti e nuove responsabilità nella famiglia in crisi, Milano, 2007, 150
[83] c. padalino, L’affidamento condiviso dei figli. Commento sistematico delle nuove disposizioni in materia di separazione dei genitori ed affidamento condiviso dei figli, Giappichelli, Torino, 2006, 57.
[84] In precedenza, l’adempimento tramite assegno sarebbe rimasto rappresentava il modo ordinario di assolvimento del dovere genitoriale di mantenimento della prole
[85] Cass. 21 gennaio 2011, n. 1476
[86] Cass. 28 giugno 1994, n. 6215, in Nuova giur. civ. comm., 1995, I,113
[87] L’art. 155-quinquies c.c. esprime espressamente che: “Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all'avente diritto”; secondo t. auletta, I figli nella crisi familiare, in Familia, 2007, 48, la locuzione impiegata dal legislatore (“può disporre”) rende ammissibile, anche per i maggiorenni, la modalità dell’adempimento diretto, nonostante la liquidazione in denaro appaia più idonea ad assicurare all’avente diritto una certa autonomia, in coerenza con la maggiore età dello stesso.
[88] Infatti, l’art. 337- ter prevede che “il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”; in tal senso, Cass. civ., sez. I, ordinanza 12 settembre 2018, n. 22219 (con commento di c. benanti, in Riv. Familia, La scelta del genitore collocatario e la regolazione delle visite dell’altro genitore sono compatibili con l’affidamento condiviso, 2018: “Dalla motivazione non emerge che sia stata riscontrata una conflittualità tra il minore e il genitore non collocatario la quale soltanto avrebbe potuto giustificare l’adozione di un regime di visita così severo, nell’interesse, appunto, del minore”.
[89] Nota come Legge Cirinnà, dal nome del suo proponente, la senatrice Monica Cirinnà.
[90] Corte Cost., 14 aprile 2010, n. 138: “Per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri”.
[91] Art. 8 - Diritto al rispetto della vita privata e familiare. Sul tema, m. g. putaturo donati, Il diritto al rispetto della “vita privata e familiare” di cui all’art. 8 della CEDU, nell’interpretazione della Corte Edu: il rilievo del detto principio sul piano del diritto internazionale e su quello del diritto interno, www.europeanrights.eu, 2018.
[92] Sul punto, m. sesta, Unione civile e convivenze: dall’unicità alla pluralità dei legami di coppia, in Giur. It, 2016, 1792
[93] Con la sentenza n. 138/2010, la Corte costituzionale è stata chiamata a giudicare sulla legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis e 156-bis c.c., “nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso”. Con la sentenza n. 170 del 2014, la Corte si è pronunciata sugli articoli 2 e 4 della l. n. 164 del 1982 che prevedono, nel caso di rettificazione legale del sesso, che il matrimonio contratto in precedenza cessi di produrre i propri effetti. Sulle sentenze i commenti di, m. di bari, Commento “a caldo” della sentenza n.170/2014 della Corte costituzionale: quali prospettive?, in Riv. AIC, 2014; i. rivera, Il c.d. divorzio imposto tra illegittimità costituzionale e seguito processuale (osservazioni a margine delle sentenze n. 170/2014della Corte costituzionale e n. 8097/2015della Corte di cassazione), in Consulta Online, 2015; f. mastromartino, Il giudicato costituzionale sul matrimonio tra persone dello stesso sesso: quale discrezionalità per il legislatore italiano?, Riv. Diritto e Questioni pubbliche, 2015; r. romboli, La sentenza 138/2010 della Corte costituzionale sul matrimonio tra omosessuali e le sue interpretazioni, in Riv. AIC, 2011.
[94] Art. 70-quaterdecies, decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5: “L'atto di costituzione dell'unione civile deve specificamente indicare: a) il nome e il cognome, il luogo e la data di nascita, la cittadinanza e la residenza delle parti dell'unione civile; il nome, il cognome, il luogo e la data di nascita e la residenza dei testimoni; b) la data della richiesta di costituzione dell'unione civile, salvo il caso di cui all'articolo 70-decies; c) il decreto di autorizzazione quando ricorre alcuno degli impedimenti di legge, salvo il caso di cui all'articolo 70-decies; d) la menzione dell'avvenuta lettura del contenuto dei commi 11 e 12 dell'articolo 1 della legge 20 maggio 2016, n. 76; e) la dichiarazione delle parti di voler costituire l'unione civile; f) il luogo della costituzione dell'unione civile nel caso di imminente pericolo di vita e di costituzione fuori della casa comunale ed il motivo del trasferimento dell'ufficiale dello stato civile in detto luogo”.
[95] La scelta sembra essere ispirata non soltanto all’esigenza di differenziare la costituzione delle unioni civili dal matrimonio, ma pure, se non soprattutto, dall’opportunità di stabilire che la dichiarazione resa nelle forme previste dal comma 2 dell’art. 1 della legge n. 76/2016 sia finalizzata alla costituzione di un rapporto giuridico più che delle creazione di un’istituzione qual è la famiglia (in c. m. bianca, Le unioni civili e le convivenze: Commento alla legge n. 76/2016 e ai d.lgs. n. 5/2017, d.lgs. n. 6/2017, d.lgs. n. 7/2017, Giappichelli, 2017, 6-7).
[96] La scelta del legislatore di attribuire alla coppia un cognome dell’unione, non è priva di rilevanza, anche simbolica: essa dimostra, al di là dei dibattiti, molto accesi, che hanno preceduto l’approvazione della legge, come l’unione civile non sia, semplicemente, una relazione qualificata tra due persone; essa, come il matrimonio, dà luogo ad una famiglia, la quale può scegliere un cognome familiare (in m. gorgoni, Unioni civili e convivenze di fatto, Maggioli, Santarcangelo di Romagna (RN), 2016, 77)
[97] Art. 143-bis c.c.: “La moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze”
[98] Art. 1, comma, 4, l. 76/2016: “Sono cause impeditive per la costituzione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso: a) la sussistenza, per una delle parti, di un vincolo matrimoniale o di un'unione civile tra persone dello stesso sesso; b) l'interdizione di una delle parti per infermità di mente; se l'istanza d'interdizione è soltanto promossa, il pubblico ministero può chiedere che si sospenda la costituzione dell'unione civile; in tal caso il procedimento non può aver luogo finche' la sentenza che ha pronunziato sull'istanza non sia passata in giudicato; c) la sussistenza tra le parti dei rapporti di cui all'articolo 87, primo comma, del codice civile; non possono altresì contrarre unione civile tra persone dello stesso sesso lo zio e il nipote e la zia e la nipote; si applicano le disposizioni di cui al medesimo articolo 87; d) la condanna definitiva di un contraente per omicidio consumato o tentato nei confronti di chi sia coniugato o unito civilmente con l'altra parte; se è stato disposto soltanto rinvio a giudizio ovvero sentenza di condanna di primo o secondo grado ovvero una misura cautelare la costituzione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso è sospesa sino a quando non è pronunziata sentenza di proscioglimento”.
[99] Art. 1, comma 7, l. 76/2016: “L'unione civile può essere impugnata dalla parte il cui consenso è stato estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravità determinato da cause esterne alla parte stessa. Può essere altresì impugnata dalla parte il cui consenso è stato dato per effetto di errore sull'identità della persona o di errore essenziale su qualità personali dell'altra parte. L'azione non può essere proposta se vi è stata coabitazione per un anno dopo che è cessata la violenza o le cause che hanno determinato il timore ovvero sia stato scoperto l'errore. L'errore sulle qualità personali è essenziale qualora, tenute presenti le condizioni dell'altra parte, si accerti che la stessa non avrebbe prestato il suo consenso se le avesse esattamente conosciute e purché l'errore riguardi: a) l'esistenza di una malattia fisica o psichica, tale da impedire lo svolgimento della vita comune; b) le circostanze di cui all'articolo 122, terzo comma, numeri 2), 3) e 4), del codice civile”.
[100] Sul tema, f. dell’anna misurale, Unioni civili tra diritto e pregiudizio. Prima lettura del nuovo testo di legge, Giustiziacivile.com, 2016, 6, p. 12
[101] Sul punto, a. figone, Matrimonio ed unioni civili: differenze e analogie, in Familiarista.it, 2016. Secondo, c. troisi, Diritti e dovere nelle unioni civili, in www.comparazionedirittocivile.it, 2015: “Il significato di tale omissione nell’unione civile potrebbe, peraltro, avere un significato evolutivo, stando a significare che le relazioni sessuali tra i partner escono dalla sfera di controllo da parte del diritto e vengono consegnate – ad eccezione dell’ipotesi della violenza (stante il richiamo agli artt. 342 ter da parte del comma 14) - per intero alla sfera privata”. In particolare, ci si chiede se davvero detta esclusione abbia delle ricadute sul piano operativo. Da una parte – e anche alla luce dell’evoluzione del concetto stesso di fedeltà – si potrebbe giustificare la riconduzione della condotta ‘infedele’ alla più generale violazione del vincolo di solidarietà che lega le parti dell’unione, come dell’obbligo alla reciproca assistenza morale. Dall’altra, non si trascura la circostanza che il principale tratto distintivo tra i modelli familiari oggetto di confronto risiede non tanto nell’assenza dei divisati obblighi, quanto, più in generale, nelle conseguenze legate alla violazione dei doveri nascenti dal matrimonio e dall’unione (in i. prisco, Il pluralismo familiare in Italia: Unioni Civili e Convivenze, 2019, 86).
[102] Circa il regime patrimoniale delle unioni civili, notevole rilevanza è posta da g. oberto, I regimi patrimoniali delle unioni civili, Giurisprudenza Italiana, 2016.
[103] Art. 3 comma 1, legge 10 dicembre 1970, n.898: “Lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio può essere domandato da uno dei coniugi: 1) quando, dopo la celebrazione del matrimonio, l'altro coniuge è stato condannato, con sentenza passata in giudicato, anche per fatti commessi in precedenza: a) all'ergastolo ovvero ad una pena superiore ad anni quindici, anche con più sentenze, per uno o più delitti non colposi, esclusi i reati politici e quelli commessi per motivi di particolare valore morale e sociale; b) a qualsiasi pena detentiva per il delitto di cui all'articolo 564 del codice penale e per i delitti di cui agli articoli 519, 521, 523 e 524 del codice penale commessi in danno di un discendente o figlio adottivo, ovvero per induzione o costrizione del coniuge o di un figlio anche adottivo alla prostituzione, nonche' per sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione di un discendente o di un figlio adottivo; c) a qualsiasi pena per omicidio volontario in danno di un discendente o figlio adottivo ovvero per tentato omicidio in danno del coniuge o di un discendente o figlio adottivo; d) a qualsiasi pena detentiva, con due o più condanne, per i delitti di cui all'articolo 582, quando ricorra la circostanza aggravante di cui al secondo comma dell'articolo 583, e agli articoli 570, 572 e 643 del codice penale, in danno del coniuge o di un figlio anche adottivo”.
[104] Art. 3 comma 2, legge 10 dicembre 1970, n.898: “Lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio può' essere domandato da uno dei coniugi, nei casi in cui: a) l'altro coniuge è stato assolto per vizio totale di mente da uno dei delitti previsti nelle lettere b) e c) del numero 1) del presente articolo, quando il giudice competente a pronunciare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio accerta l'inidoneità del convenuto a mantenere o ricostituire la convivenza familiare; b) è stata pronunciata con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale fra i coniugi, ovvero è stata omologata la separazione consensuale ovvero è intervenuta separazione di fatto quando la separazione di fatto stessa è iniziata anteriormente all'entrata in vigore della presente legge da almeno due anni”.
[105] Sul tema, l. querzola, Riflessioni sulla legge in materia di unioni civili, Riv. trim., 2016, 843
[106] g. russo, Le unioni civili, Key, 2017, 52.
[107] v. barela, Rettificazione del sesso: effetti sugli istituti del matrimonio e dell’unione civile, in www.comparazionedirittocivile, 2018, 11.
[108] Decreto legislativo 19 gennaio 2017, n.5.
[109] Decreto che è stato modificato dall’art. 7 del d.lgs. 19 gennaio del 2017 n. 5, che ha attuato l’art. 1, c. 28 della legge n. 76 del 2016.
[110] Sul punto, m. gorgoni, Unioni civili e convivenze di fatto, Maggioli, Santarcangelo di Romagna (RN), 2016, 141.
[111] Con l’entrata in vigore della l. 76/2016, ci si posti un quesito: “la disciplina della convivenza si applica anche se parti non lo ritengono opportuno?”. Sul punto, si ricordi quanto affermato dalla Corte cost. nella sentenza 6-13 maggio 1998, n. 166, circa i rapporti fra matrimonio e convivenza di fatto: le parti “nel preferire un rapporto di fatto hanno dimostrato di non voler assumere i diritti e i doveri nascenti dal matrimonio; onde la imposizione di norme, applicate in via analogica, a coloro che non hanno voluto assumere i diritti e i doveri inerenti al rapporto coniugale si potrebbe tradurre in una inammissibile violazione della libertà di scelta tra matrimonio e forme di convivenza”.
[112] L’assenza di tale riferimento esplicito fa eco alla copiosa elaborazione della Consulta che, muovendo proprio dal rinvio all’art. 2 Cost., nel riconoscere la necessità di una tutela, marca comunque la differenza tra l’istituto coniugale e le convivenze di fatto per affermare che non sussiste un’esigenza costituzionale di parità di trattamento tra essi (in m. blasi, La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze: Legge 20 maggio 2016, n.76, Giappichelli, Torino, 2016, 183)
[113] Per un approfondimento, l. lenti, La nuova disciplina delle convivenze di fatto: osservazioni a prima lettura, in Riv. Jus Civile, 2016, 95-96.
[114] Secondo l’attenta visione di b. m. sabatino, Profili problematici del contratto di convivenza nella l. 76/2016, in www.comparazionedirittocivile.it, 2017 “Le maggiori questioni ermeneutiche che la normativa pone all’attenzione dell’interprete derivano: da una disattenta articolazione delle disposizioni; nonché dalla circostanza che il legislatore, da un lato, tenta di rimarcare la differenza tra convivenza e matrimonio ma, dall’altro, cade in errore laddove estende sic et simpliciter la disciplina coniugale a situazioni di fatto che, notoriamente, si caratterizzano per la loro natura libera e adattabile alle esigenze più svariate della coppia”.
[115] Il Dipartimento di Amministrazione penitenziaria, nella circolare n. 3478/5928, 8 luglio 1998, aveva evidenziato come il concetto di famiglia, sviluppatosi in termini più psicologici che giuridici, non permettesse di delineare un concetto giuridico di famiglia valido anche a definire l’ambito dei suoi componenti, sostenendo che “in senso prettamente sociologico, si può dire che la famiglia sia un gruppo sociale, caratterizzato dalla residenza comune, dalla cooperazione economica e dalla riproduzione”.
[116] Si osserva che, in questo comma il termine “familiari” si riferisce solo a quelli legati fra loro da rapporti giuridici rilevanti sul piano dello stato civile, quindi non comprende il convivente.
[117] Ciò sarebbe evidente conflitto con il diritto vigente, in particolare, con le regole sul trattamento dei dati sanitari dettate dal codice per la protezione dei dati personali.
[118] Sul tema, l. balestra, Unioni civili, convivenze di fatto e “modello” matrimoniale: prime riflessioni, Riv. Giur. It., 2017
[119] Vi è anche chi ha avanzato la possibilità di includere nel contratto una clausola premiale, f. caggia, La convivenza, in Diritto della famiglia, (a cura di) s. patti – m. g. cubeddu, Giuffrè, 2011, 726.
[120] La ratio di tale iniziativa viene rilevata nella volontà di assicurare al soggetto più vulnerabile le stesse tutele della controparte.
[121] La distinzione con il mantenimento è essenzialmente quantitativa; il mantenimento, infatti, corrisponde al soddisfacimento di qualsiasi esigenza della vita del beneficiario, in proporzione alle sostanze di chi deve somministrarlo, mentre gli alimenti comprendono solo ciò che è strettamente necessario per vivere (in a. de miccolis angelini, in Unioni Civili e convivenze di fatto, Primiceri, Padova, 2016, 99). Lo stato di bisogno sussiste nel momento in cui il richiedente non possa affrontare e soddisfare le proprie esigenze primarie.
[122] La giurisprudenza di legittimità afferma che il richiedente deve dimostrare la propria invalidità al lavoro per incapacità fisica o mentale o l’impossibilità di reperire un occupazione conforme alle proprie condizioni sociali (in tal senso, Cass. Civ., sez. I, 14 febbraio 2007, n. 3334, in Fam. dir., 2007, 11, 1002).
[123] La locuzione periodo proporzionale, usata qui, ha un significato ben diverso rispetto alla locuzione periodo pari, usata a proposito dell’abitazione della casa familiare (comma 42): mentre la seconda permette un semplice calcolo numerico, la prima lascia al giudice un ampio margine di discrezionalità, per valutare quanto la convivenza e le sue modalità abbiano inciso sulle scelte esistenziali dei componenti della coppia, in particolare del componente bisognoso dell’assegno alimentare (in l. lenti, La nuova disciplina delle convivenze di fatto: osservazioni a prima lettura, in Riv. Jus Civile, 2016, 109).
[124] Sul punto, b. puglisi, La cessazione della convivenza e il diritto agli alimenti, in Riv. Jus Civile, 2018, 816.
[125] In particolare, i casi previsti dall’articolo 44 della legge n. 184/1983, come modificato dall’articolo 25 della legge 28 marzo 2001 n. 149, sono: a) adozione del minore orfano di padre e di madre che sia assistito “da parenti fino al sesto grado” uniti a lui da “rapporto stabile e duraturo” da parte di tali parenti. In tale caso, tecnicamente, poiché vi è assistenza, non ricorre la situazione di abbandono, ma l’istituto tende a dare veste giuridica ad un rapporto di fatto già saldamente instaurato; b) adozione da parte del coniuge del figlio minorenne dell’altro coniuge. Il minore può essere anche figlio adottivo dell’altro coniuge; c) adozione di minore handicappato, orfano di genitori; d) adozione per constatata impossibilità di affidamento preadottivo.
[126] A differenza dell’adozione legittimante, la fattispecie in oggetto viene disposta anche nel caso in cui non ricorra alcuna situazione di definitivo abbandono. Si veda, Cass. 22 giugno 2016, n. 12692.
[127] Si ricordi che, il disegno di legge sulle unioni civili contemplava all’art. 5 la c.d. stepchild adoption o adozione del figliastro. Il 25 febbraio 2016 il Senato ha approvato il c.d. ddl Cirinnà bis stralciando il riferimento alla stepchild adoption. Sulle motivazioni politiche dell’opposizione alla norma inclusa nel ddl approdato al Senato, una visione interessante è quella di t. auletta, Disciplina delle Unioni non fondate sul matrimonio: evoluzione o morte della famiglia?, in Le nuove leggi civili commentate, 2016, 367.
[128] È legittimo ritenere che la materia consentita sia solo quella prevista dal Codice civile in tema di adozione del figlio maggiorenne. Infatti, l’art. 1 comma 2 della legge sulle unioni civili prevede che: “Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”.
[129] Trib. Roma, 30 luglio 2014
[130] Secondo la visione di g. zacarro, Adozione da parte di coppie omosessuali, stepchild adoption e interesse del minore, in www.questionegiustizia.it, 2014, “il passaggio, scandaloso ma ineludibile, del tribunale capitolino è quello in cui non ritiene che l’orientamento sessuale della ricorrente possa ostare all’adozione. Passaggio scontato perché, secondo le regole generali in materia di interpretazione, le eccezioni alla regola generale devono essere menzionate ed, ove non lo sono, non possono essere create in via pretoria. Se chiunque, anche chi non è coniugato, può adottare “nei casi speciali”, il solo orientamento sessuale non può precludere l’accoglimento del ricorso. Sempre ovviamente, come è stato dimostrato nel caso concreto, l’adottante abbia una capacità genitoriale adeguata e sia quindi idonea a soddisfare le esigenze dell’adottando”.
[131] Si ricordi che, in tal caso, il ricorso all’adozione avviene per constatata impossibilità di affidamento preadottivo.
[132] Per un approfondimento sul tema, si veda l. lenti, “Best interests of the child” o “best interests of children”, in La nuova Giurisprudenza Civile Commentata, CEDAM, 2010; n. montuoro, Il supremo interesse del minore nella famiglia non tradizionale: dalla CEDU al recente ritorno ai criteri di legge, in Riv. Ordines, 2016; l. giacomelli, in Riv. di filosofia del diritto internazionale e della politica globale, 2016
[133] La ratio di questo istituto normativo è quella di fornire una copertura giuridica ad una genitorialità sociale consolidata con il partner del genitore e favorire così l’interesse del minore alla più ampia protezione giuridica possibile, in l. giacomelli, Tutela dei minori e pragmatismo dei giudici: verso il riconoscimento delle «nuove» forme di filiazione e genitorialità, in Osservatorio AIC, 2018, 559.
[134] Sul tema, m. farina, Adozione in casi particolari, omogenitorialità e superiore interesse del minore, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2016.
[135] Così, Corte d’Appello di Roma, sentenza del 23 dicembre 2015; Corte d’Appello di Milano -Sezione V delle Persone, dei Minori e della Famiglia, sentenza del 9 febbraio 2017; Corte d’Appello di Torino, sentenza del 27 maggio 2016 e Tribunale per i minorenni di Milano, sentenza del 13 luglio 2018 e depositata il 10 ottobre 2018.
[136] Tale linea argomentativa è stata seguita anche da: Tribunale per i minorenni di Torino, sentenza dell’11 settembre 2015, Tribunale per i minorenni di Palermo, sentenza del 3 luglio 2017.
[137] Secondo a. g. parisi, in Unioni Civili e Filiazione: le grandi riforme del terzo millennio tra effettività e problematiche, in www.comparazionedirittocivile.it, 2016: “Se all’endiadi figlio senza aggettivi fa da pendent la nozione di famiglia senza aggettivi, alla ‘nuova’ famiglia di fatto – che si chiami unione civile o convivenza – si giustappone il nuovo concetto di figlio di fatto”; sul tema anche, m. g. stanzione, Il diritto alla genitorialità e alle relazioni familiari, in www.comparazionedirittocivile.it, 2013.
[138] Nel libro I della sua Politica, Aristotele, nell’asserire che “per natura vi è chi comanda e chi è comandato al fine della conservazione”, afferma senza esitazioni che “il maschio è più adatto al comando della femmina” (in Aristotele, libro I (A), 1252 a, 1259 b, Trad. it., Bari 1966, 5-39).
[139] Si ricordano le parole di m. federici, La donna alla Costituente, in Studi per il XX anniversario dell’Assemblea Costituente, Vallecchi, Firenze, 202 “rimane nella storia di quegli anni, documentata dai resoconti delle discussioni e dagli atti delle sedute, una traccia, che si rileva con disagio, dell’atteggiamento di non pochi uomini, peraltro di grande ingegno e cultura e di esperta dottrina giuridica, che ostacolarono, in qualche caso con fermezza, il processo di promozione socio-giuridica della donna”.
[140] I principi fondamentali affermati dalla Carta sono: 1) l’eguaglianza davanti alla legge (art. 3 comma 1: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni politiche, di condizioni personali e sociali”); 2) l’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi (art. 29: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”); 3) la protezione della maternità (art. 31: “La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù favorendo gli istituti necessari a tale scopo”); 4) la parità nel lavoro (art. 37: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”); 5) la parità nella partecipazione politica (art. 48: “Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale, uguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico”; art. 117, comma 7: “Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”); 6) la parità nell’accesso alle cariche pubbliche (art. 51: “Tutti i cittadini, dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizione di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”).
[141] Secondo quanto sostenuto da L. Merlin, “il riconoscimento della funzione sociale della maternità non interessa solo la donna, o l’uomo, o la famiglia; interessa tutta la società. Proteggere la madre significa proteggere la società alla sua radice” (A.C. III Sottocommissione 13 settembre 1946, in www.nascitacostituzione.it).
[142] Seduta plenaria del 31 gennaio 1947.
[143] Intervento durante la seduta dell’ Assemblea Costituente del 18 marzo 1947, in camera dei deputati-segretariato generale, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’ Assemblea Costituente, Vol. I, Roma, 1970, 500.
[144] L’applicazione del principio di non discriminazione in ragione del sesso nell’ambito dei rapporti di lavoro costituisce oggetto di esplicita proclamazione sia nei testi costituzionali, di cui l’art. 37, primo comma, della nostra Costituzione rappresenta un esempio, sia nei documenti internazionali, come la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 23)1, il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea(art. 157) o la Convenzione ONU sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna.
[145] In particolare, la legge 26 agosto 1950, n. 860 (“Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri”3) riformò la legge del 1934, prevedendo: un periodo di astensione obbligatoria dal lavoro della durata di 6 settimane prima e di due mesi dopo il parto; il prolungamento di codesto periodo per le lavoratrici dell’industria e dell’agricoltura, e comunque per tutte le lavoratrici, ove l’Ispettorato del lavoro lo ritenesse necessario in considerazione della qualità del lavoro svolto; il divieto di licenziamento durante tutto il periodo della gravidanza e per un anno dopo la nascita del bambino (come è ancora oggi in vigore); un’indennità pari all’80% della normale retribuzione per il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, corrisposta dagli enti di previdenza e assistenza sociale; parziale applicazione della normativa anche alle lavoratrici a domicilio, domestiche e familiari; istituzione del cosiddetto ‘allattamento’: due periodi di riposo di un’ora ciascuno durante la giornata, fino al compimento dell’anno di età del figlio; obbligo di istituire le ‘camere di allattamento’ nei locali aziendali, in presenza di almeno trenta lavoratrici coniugate (sic) di età non superiore ai 50 anni. La legge 30 dicembre 1971, n.1204, invece, ha riformato quanto previsto dalla legge del 1950 (a partire dalla Legge 53 del 2000 le previsioni saranno ulteriormente ampliate): durante la gravidanza e nei 7 mesi successivi al parto, divieto di adibizioni a lavori pesanti, pericolosi o insalubri, con conseguente obbligo di spostamento ad altra mansione ove necessario; periodo di astensione obbligatoria dal lavoro fissato in 5 mesi: due mesi antecedenti la data presunta del parto e tre mesi successivi; potestà dell’Ispettorato del lavoro di imporre un ulteriore periodo di astensione obbligatoria, ove ritenuto necessario per salvaguardare la salute della lavoratrice; ribadito il divieto di licenziamento durante l’intero periodo della gravidanza e del puerperio, fino al raggiungimento di un anno di età del bambino, con reintegro della lavoratrice eventualmente licenziata ; indennità per il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro pari all'80% della retribuzione (la maggior parte dei CCNL la aumenteranno al 100 %); possibilità per la lavoratrice di protrarre l’astensione dal lavoro fino ad un massimo di 6 mesi entro il primo anno di vita del bambino, con indennità al 30% della retribuzione; diritto della lavoratrice ad assentarsi dal lavoro in caso di malattia dei figli di età inferiore ai 3 anni, seppur con permessi non retribuiti; conferma del c.d. allattamento ridefinito “periodo di riposo” e quindi finalmente usufruibile da tutte le donne, comprese quelle che, per scelta o per necessità non allattano direttamente”.
[146] Legge 10 aprile 1991, n. 125. Le azioni positive nascono negli Stati Uniti in particolare per combattere in un primo momento le discriminazioni razziali e si traducono nell’esigenza di introdurre delle misure in favore delle categorie fragili allo scopo di consentire eguali condizioni di partenza. (sul tema, m. g. rodomonte, L'eguaglianza senza distinzioni di sesso in Italia: Evoluzioni di un principio a settant’anni dalla nascita della Costituzione, Giappichelli, Torino, 2018).
[147] Corte Cost. 25 aprile 1991, n. 125.
[148] In particolare, si ricordi il Codice delle pari opportunità (d. lgs. n. 198 del 2006 e poi più volte modificato d. lgs. n. 5/2010) che costituisce attuazione della direttiva 2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione impiego. Nella terza risoluzione, dell’8 ottobre 2015, il Parlamento Europeo prende atto del fatto che gli Stati membri hanno allineato le rispettive leggi nazionali della direttiva 2006/54/CE, riguardante l’attuazione del principio di parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione ed impiego, ma sottolinea che il semplice recepimento corretto delle disposizioni della direttiva si è rivelato del tutto insufficiente a garantire la loro piena applicazione ed efficace esecuzione ed il divario retributivo di genere persiste (in f. buffa, Il rispetto dei diritti fondamentali in Europa oggi, Key, Vicalvi, 2016).
[149] La formulazione definitiva dell’art. 37 Cost., a cui pervennero i Padri Costituenti, si pone su un piano di netta rottura rispetto a quella che fino a pochi anni fa era stata la politica legislativa e contrattuale accolta dal fascismo (per un approfondimento, si veda f. cannata, L'eguaglianza nella previdenza di genere, FrancoAngeli, Milano, 2014, 57).
[150] In un intervento alla seduta plenaria del 10 maggio 1947, l’On. Merlin afferma “Noi sentiamo che la maternità, cioè la nostra funzione naturale, non è una condanna, ma una benedizione e deve essere protetta dalle leggi dello Stato senza che si circoscriva e si limiti il nostro diritto a dare quanto più sappiamo e vogliamo in tutti i campi della vita nazionale e sociale, certe, come siamo, di continuare e completare liberamente la nostra maternità”.
[151] p. palermo, Uguaglianza e tradizione nel matrimonio: dall’adulterio alle unioni omosessuali, in Nuova giur. civ. comm, 2010, fasc. 11, 537-555.
[152] Sul tema dello status, si veda e. pazè, Verso un diritto all’attribuzione del cognome materno, in Dir. fam, 1998, 325-351.
[153] Si ricordi che, in Italia, fino al 1975 la donna che si sposava sostituiva il cognome del marito al proprio (art. 144 comma 3 c.c.). a seguito della Riforma del diritto di famiglia (legge 19 maggio 1975, n. 151) la moglie con il matrimonio aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze (per un approfondimento, si veda e. pazè, Diseguali per legge. Quando è più forte l'uomo e quando è più forte la donna, FrancoAngeli, 2013, 122).
[154] Le Corti europee si sono espresse sul problema del cognome familiare. Per un approfondimento, si veda a. del re, v. longo, l. perini, I confini della cittadinanza. Genere, partecipazione politica e vita quotidiana, FrancoAngeli, Milano, 2010, 28-29.
[155] Di recente, la Cass. Civ., sez. I, sent. 11 dicembre 2019 – 12 febbraio 2020, n. 3454, ha statuito che “il perdurante uso del cognome maritale dopo il divorzio può costituire un pregiudizio per il coniuge che non vi acconsenta e che intenda ricreare un nuovo nucleo familiare riconoscibile”.
[156] Si ricordi che, nonostante l’accertamento di illegittimità, non conseguì un dispositivo di accoglimento, stante la preclusione, per il giudice delle leggi, di optare, con la propria sentenza, per una tra le varie soluzioni astrattamente possibili.
[157] La Corte individua, in primo luogo, nel principio dell’automatica attribuzione del cognome paterno, desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 c.c., una lesione del diritto all’identità personale e quindi una violazione del contenuto dell’art. 2 Cost. Il secondo profilo di illegittimità, richiamato dalla Corte, risiede nella violazione dell’art. 3 unitamente all’art. 29, secondo comma, della Costituzione, ove la mancanza di scelta, per i genitori, sul cognome da attribuire al figlio, viola il principio di uguaglianza e quindi crea discriminazione tra loro, oltre a penalizzare l’unità familiare (per un approfondimento, si veda c. ingenito, L’epilogo dell’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio, Osservatorio AIC, 2017”; s. scagliarini, Dubbie incertezze e sicure incertezze in tema di cognome dei figli, in Rivista AIC, 2017).
[158] Crf., ad esempio, Elezioni, sulle tessere elettorali delle donne spunta di nuovo il cognome del marito: “Decisione del Viminale”, in IlFattoQuotidiano.it, 27 maggio 2019
[159] Tale norma venne introdotta dalla legge sulla Riforma del diritto di famiglia in sostituzione del previgente art. 144 c.c.
[160] In particolare, in merito al carattere discriminatorio delle differenza di trattamento, si veda Sentenza Corte Edu Burghartz c. Svizzera e Sentenza Ünal Tekeli c. Turchia.
[161] Deve tenersi conto del fatto che codesta disposizione rappresenta comunque un passo in avanti rispetto alla normativa precedenza che prevedeva automatica sostituzione del proprio cognome con quello del coniuge.
[162] Corte cost. 22 novembre 2018, n. 212.
[163] Secondo, r. lugarà, Il cognome del marito su tessere e certificati elettorali: brevi spunti di riflessione su identità ed eguaglianza dei coniugi, Osservatorio AIC, 2019, 22, “la protezione accordata alle donne come categoria ritenuta ex lege vulnerabile da una legislazione patriarcale mostra, nei confronti della moglie, l’altra faccia della subordinazione e, nei confronti del marito, quella del privilegio. Al potere riconosciuto al marito corrisponde la responsabilità connessa al suo esercizio, testimoniata, ad esempio, da quelle norme che disciplinavano i rapporti patrimoniali tra i coniugi in maniera favorevole alla moglie. Una legislazione non ancora del tutto depurata da elementi patriarcali ancora impone dinamiche di subordinazione/privilegio, potere/responsabilità all’interno del nucleo familiare, assegnando all’uno o all’altro coniuge dei ruoli predefiniti sulla sola base dell’appartenenza di genere”.
[164] L’art. 48 Cost. prescrive che:“Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico. La legge stabilisce requisiti e modalità per l'esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all'estero e ne assicura l'effettività. A tale fine è istituita una circoscrizione Estero per l'elezione delle Camere, alla quale sono assegnati seggi nel numero stabilito da norma costituzionale e secondo criteri determinati dalla legge. Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge”.
[165] L’art.1, comma 10, Legge n.76/2016 stabilisce che:“Mediante dichiarazione all'ufficiale di stato civile le parti possono stabilire di assumere, per la durata dell'unione civile tra persone dello stesso sesso, un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi. La parte può anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso, facendone dichiarazione all'ufficiale di stato civile”.
[166] In Assemblea costituente, l’On. Calamadrei aveva rilevato come la proclamazione dell’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi nella Costituzione, contenesse un nocciolo di ipocrisia, poiché all’epoca il matrimonio era fondato sulla preminenza maritale (per un approfondimento, a. pitino, Interventi di contrasto alla discriminazione e alla violenza sulle donne, Giappichelli, Torino, 2015,83).
[167] Al quale spettava la c.d. potestà maritale sulla moglie.
[168] Per un approfondimento sull’iter storico si veda, t. auletta, Diritto di famiglia: seconda edizione, Giappichelli, Torino, 2014, 57.
[169] Corte Cost., 27 dicembre 1965, n. 101 Foro.it, 1966, I, 163; Corte Cost., 15 dicembre 1967, n. 144, in Foro.it, 1968, I, 4.
[170] Secondo la Corte Cost., “La legge, non attribuendo rilevanza all'adulterio del marito e punendo invece quello della moglie, pone in stato di inferiorità quest'ultima, la quale viene lesa nella sua dignità, è costretta a sopportare l'infedeltà e l'ingiuria, e non ha alcuna tutela in sede penale. Per l'unità familiare costituisce indubbiamente un pericolo l'adulterio del marito e della moglie, ma, quando la legge faccia un differente trattamento, questo pericolo assume proporzioni più gravi, sia per i riflessi sul comportamento di entrambi i coniugi, sia per le conseguenze psicologiche sui soggetti”.
[171] Nella prima legge si prevedeva che, per l’elezione del Consiglio comunale nei comuni con popolazione – rispettivamente fino a, e superiore a, 15000 abitanti – nessuno dei due sessi potesse essere rappresentato in lista in misura superiore a tre quarti e due terzi dei consiglieri da assegnare. Nella seconda legge si stabiliva, invece, che le liste che concorrevano all’attribuzione dei seggi assegnati con metodo proporzionale fossero compilate secondo l’alternanza dei candidati in ragione del sesso.
[172] Corte Cost., 12 settembre 1995, n. 422.
[173] Per un approfondimento si veda, aa. vv., L'eguaglianza alla prova delle azioni positive, Giappichelli, Torino, 2013.
[174] L. 18 ottobre, 2001, n. 3.
[175] Per prima introdotta dalla legge campana 27 marzo 2009, n.4.
[176] L. 2 luglio 2004, n.165.
[177] L. 23 novembre 2012, n. 215, più avanti, guarnita dalla l. 15 febbraio 2016, n. 20.
[178] In particolare, secondo la Corte costituzionale “la limitazione numerica nella partecipazione delle donne in quei collegi risponde non al concetto di una minore capacità delle donne ma alla esigenza di un più appropriato funzionamento dei collegi stessi”
[179] Si ricordi l’emendamento sostitutivo presentato da Teresa Mattei e Maria Maddalena Rossi, nel corso della discussione in Aula, il 26 novembre 1947: “le donne hanno diritto di accesso a tutti gli ordini e a tutti i gradi della Magistratura.
[180] La sentenza rimane di portata storica, perché contrassegnò l’espulsione dall’ordinamento di una disciplina che impediva alle donne di accedere a posizioni chiave dell’amministrazione e perché, finalmente, fece emergere il principio di parità fra i sessi dall’alveo inconsistente delle “norme programmatiche” in cui l’interpretazione dei principi costituzionali da parte del mondo politico e della giurisdizione all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione l’avevano ridotto (in m. d’amico, La rappresentanza di genere nelle Istituzioni, www.cortedicassazione.it, 2017).
[181] Si ricordi che l’ingresso delle donne in magistratura avvenne a seguito della vittoria nel primo concorso non riservato ai soli uomini, nel 1965. A tale concorso risultarono vincitrici otto donne.
[182] “La dignità della persona umana ha acquistato sempre maggiore rispetto a mano a mano che le istituzioni civili si sono fatte sempre più rispettose del diritto naturale e divino. Liberi dinanzi alle potenze brute della natura. Liberi dinanzi all’egoismo ed alla prepotenza degli altri uomini. Liberi nel rispetto delle leggi, nello stato. La prostituta non è mai libera. La prostituzione regolamentata ammette questa degradazione della libertà. La prostituzione regolamentata ammette che si possa vendere l’uso del corpo di altra persona da parte del tenutario di una casa di prostituzione, il quale ha dei diritti su quel corpo ed ha una percentuale su quel commercio. Tutto questo è incompatibile con la dignità dell’uomo e del cittadino”. (Relazione alla Camera dell’On. Tozzi Condivi” in g. gustapane – Casa di prostituzione e lenocinio, Editrice salentina di Pajano & C., Lecce, 1959, 261).
[183] Si ricordi come, di recente, la Corte costituzionale è tornata a pronunciarsi sulla questione. Con la sentenza n. 141 del 2019, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’appello di Bari con riferimento alla l. 20 febbraio 1958, n. 75, sulla prostituzione. In particolare, nel corso del giudizio d’appello contro la sentenza del Tribunale di Bari che aveva dichiarato quattro imputati colpevoli dei delitti di reclutamento di persone ai fini della prostituzione e di favoreggiamento della stessa, il dubbio di costituzionalità era stato posto, con l’ord. 6 febbraio 2018, sull’art. 3, comma 1 (n. 4, prima parte, e n. 8) della legge n. 75 del 1958, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, secondo comma, 27 e 41 Cost., nella parte in cui configurano “come illecito penale il reclutamento ed il favoreggiamento della prostituzione volontariamente e consapevolmente esercitata”. (sul tema, m. picchi, La legge Merlin dinanzi alla Corte costituzionale. Alcune riflessioni sulla sentenza n. 141/2019 della Corte costituzionale, in www.forumcostituzionale.it, 2019, a. de lia, Le figure di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione al banco di prova della Consulta. Un primo commento alla sentenza della Corte costituzionale n. 141/2019, 2019; c. p. guarini, La prostituzione “volontaria e consapevole”: né libertà sessuale né attività economica privata “protetta” dall’art. 41 Cost, in Osservatorio AIC, 2019; f. politi, La prostituzione non è un diritto fondamentale ed è un’attività economica in contrasto con la dignità umana. La sent. n. 141 del 2019 e la “sostanza delle cose”, in Riv. AIC, 2020)
[184] L’art. 3 LOPO sancisce il principio di pari opportunità fra donne ed uomini come l’omissione di ogni discriminazione diretta o indiretta per ragioni di sesso, e, in particolar modo, quelle discendenti dalla maternità, dall’assunzione di obblighi familiari e dallo stato civile. In merito alla discriminazione distingue le due ipotesi. Si considera discriminazione diretta quella situazione in cui una persona è trattata in base al suo sesso in modo meno favorevole di un’ulteriore in situazione paragonabile. Si definisce, invece, discriminazione indiretta, la situazione in cui una disposizione, criterio o pratica apparentemente neutrale mette persone di un determinato sesso in particolare svantaggio rispetto a persone di altro sesso, salvo che detta disposizione, criterio o pratica si possano giustificare oggettivamente per una finalità legittima e che i mezzi per raggiungere detta finalità siano necessari ed adeguati. I meccanismi giuridici introdotti per limitare gli effetti della discriminazione sono sia di carattere processuale sia sostanziale.
[185] Si ricordi le parole di Jemolo “Noi giuristi diciamo famiglia, e constatiamo con un po’ di sorpresa che il nostro codice non la definisce” (in a. c. jemolo, Pagine sparse di diritto e storiografia, Giuffrè, Milano, 1957, 223).
[186] Secondo m. fortino, Parità dei sessi, in Enc. dir., Milano, 1981, 697 “le resistenze tenaci, provenienti da insigni giuristi e, molte volte, anche dalla stessa Carta Costituzione di fronte alle cristalline disposizioni della Costituzione, possono essere spiegate alla luce della riflessione che la storia politica e giuridica della parità dei sessi segue un iter diverso e senza dubbio più lento rispetto all’evoluzione del principio generale dell’eguaglianza dei soggetti di fronte alla legge”.
[187] l. ferraioli, Manifesto per l'uguaglianza, Laterza, 2019, Bari.