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Pubbl. Mer, 14 Ott 2020
Sottoposto a PEER REVIEW

Francisco de Vitoria: alle fonti del diritto internazionale dei conflitti armati

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Luciano Labanca
Dottore di ricercaNessuna



Dopo aver introdotto la Scuola di Salamanca e la figura di Francisco de Vitoria, come padre del diritto internazionale, lo scritto esamina le quattro questioni dalla Relectio de iure belli dell´autore spagnolo, con l´obiettivo di presentare i principali elementi della sua concezione del diritto di guerra, nelle declinazioni classiche di ius ad bellum e ius in bello. Le argomentazioni del Maestro di Salamanca presentano una grande carica di originalità e attualità e forniscono la base per le successive rielaborazioni del diritto internazionale dei conflitti armati tuttora vigente.


ENG After introducing the School of Salamanca and the figure of Francisco De Vitoria, as the father of international law, the paper examines the four points of his”Relectio de iure belli” . The aim of presenting the main elements of De Vitoria´s conception of law of war, in the classic declinations of ius ad bellum and ius in bello. The arguments of the Master of Salamanca have a great charge of originality and topicality and provide the basis for the subsequent development of the international law of armed conflicts still in force.

Sommario: 1. Introduzione; 2. La scuola di Salamanca; 3. Francisco de Vitoria; 3.1. La Relectio de iure belli; 3.1.1. Prima questione: se ai cristiani sia lecito muovere guerra;  3.1.2. Questione seconda: Chi abbia la giusta autorità di indire e condurre una guerra; 3.1.3. Questione terza: Quale possa essere la ragione e la causa della guerra; 3.1.4. Questione quarta: Cosa e in che misura sia lecito in una guerra giusta; 3.1.5. Conclusioni della Relectio de Iure belli; 4. Rilievi finali

1. Introduzione

Il diritto internazionale dei conflitti armati, come parte della dimensione materiale del diritto internazionale contemporaneo, affonda le sue radici nelle due grandi branche del diritto bellico, quella dello ius ad bellum, ossia le norme che regolano l’uso della forza militare nelle relazioni internazionali, vietandola sostanzialmente a partire dalla Carta delle Nazioni Unite del 1945 e quella dello ius in bello, che si declina nella dimensione umanitaria, finalizzata a regolamentare e mitigare le situazioni conflittuali, secondo precisi principi in costante divenire[1].

I fondamenti di queste norme internazionali si ritrovano nello sviluppo della storia del diritto medievale e moderno. Alla vigilia dei 75 anni dalla firma della Carta delle Nazioni Unite (24 ottobre 1945), in questo contributo si è pensato di riprendere quanto elaborato da uno dei grandi maestri del diritto internazionale moderno, il domenicano spagnolo Francisco de Vitoria (1483-1546), fondatore della Scuola di Salamanca, esperienza culturale sorta in Spagna tra il XVI e il XVII secolo.

Il grande contributo di questo Maestro del diritto è umanemente riconosciuto dalla comunità internazionale tanto che, non a caso, davanti al palazzo delle Nazioni Unite in New York troneggia solenne un suo busto bronzeo.

Oltre alle elaborazioni del diritto bellico, la figura di Francisco de Vitoria è collegata alla strenue difesa dei diritti umani degli indigeni americani, fondati non sulla loro religione e fede, ma sul diritto naturale universale. I loro diritti individuali, quelli delle famiglie, quelli delle società politiche e quelli della proprietà nei popoli indigeni non deriverebbero, a dire del de Vitoria, dalla professione della loro fede, ma esclusivamente dalla loro stessa dignità umana. D'altro canto, la stessa possibilità dei popoli europei di intraprendere rotte commerciali e politiche coloniali di oltre mare non troverebbe alcuna fondazione teologica ed eteronoma in una presunta "volontà divina", ma deriverebbe soltanto dal diritto sacrosanto di tutti i popoli di ricercare nuove rotte commerciali, di trattare con altri popoli e di annunciare il Vangelo con libertà, ma sempre con metodi pacifici e propositivi, senza alcun diritto di oppressione e persecuzione verso chi non è disposto ad accogliere tale annuncio.  

2. La scuola di Salamanca

La Scuola di Salamanca, come esperienza culturale e giuridica realizzata da grandi giuristi e teologi, sviluppa esiti altamente moderni e originali in connessione con le dottrine teologiche della Riforma cattolica e in costante ascolto della lezione della filosofia tomista. Essa si colloca nell’Università dell’omonima città spagnola fra il XVI e il XVII secolo, dove nacque la c.d. "Seconda Scolastica", grazie alla quale iniziò a definirsi il quadro dogmatico del diritto moderno. Le figure centrali di questa tendenza, tutte collegate al siglo de oro spagnolo furono, oltre al già menzionato Francisco de Vitoria, Domingo de Soto (1494-1560), Luis de Molina (1535-1600), Fernando Vasquez (1512-1569), Gabriel Vasquez (1531-1604) e Francisco Suarez (1548-1617). Con questa scuola trovano la loro prima fondazione una nuova teoria generale del diritto, una nuova scienza del diritto internazionale e una dottrina generale dello Stato, oltre ad un’ampia costruzione di istituti fondamentali del diritto privato. La produzione intellettuale di questa corrente svolse un ruolo di mediazione fra la metafisica giuridica del Medioevo e l’individualismo giusnaturalistico dell’Età moderna[2].

Il pensiero teologico e giuridico di questa Scuola si fondò su temi nuovi che nascevano dalle sfide del tempo, come la spaccatura dell’Europa dovuta a Lutero e la "scoperta" del Nuovo Mondo, in cui la Corona di Spagna era pienamente coinvolta. I pensatori di Salamanca, dunque, si trovarono a dover dare delle risposte a sfide nuove per il diritto e i governanti. Ad esempio, le leggi emanate dai regnanti di Spagna, proprio alla luce delle nuove rotte commerciali, non potevano avere più una ricaduta limitata semplicemente alla cristianità europea, ma dovevano avere uno sguardo universale, fondato sul diritto naturale, o meglio, sul diritto delle genti. Il lavoro della Scuola di Salamanca fu caratterizzato da uno stile di condivisione comune fra Gesuiti e Domenicani, costruendo una linea di pensiero in costante approfondimento ed evoluzione, sia in estensione circa gli argomenti trattati, sia in una precisazione sempre maggiore, fornendo un contributo anche allo sviluppo futuro della teologia e del diritto[3].

3. Francisco de Vitoria  

Francisco de Vitoria, considerato il fondatore della Scuola di Salamanca, costruì un sistema di pensiero unitario, la cui coerenza e novità fanno sì che sia considerato uno dei fondatori del diritto internazionale moderno[4]. Il contesto nel quale il domenicano spagnolo elaborò il suo sistema di pensiero fu quello della cosiddetta “conquista del Nuovo Mondo”, che non solo fu un tempo di sviluppo economico e militare, ma anche un fortissimo banco di prova per governanti, teologi e giuristi, tra i quali sorsero importanti riflessioni, causate da dubbi di coscienza che toccarono i regnanti, spesso costretti a coinvolgere gli intellettuali dell’epoca nell’affrontare le spinose questioni d’oltremare[5]

Il pensiero del dottore di Salamanca ha un fondamento di stampo fortemente universalistico, basato sui concetti di diritto naturale e diritto delle genti, mediante i quali egli riconosce l’esistenza di diritti a uomini e a popoli (gentes). A dire dello storico del diritto Carlo Fantappiè, Francisco de Vitoria "sostituisce le teorie medievali della sovranità universale del papato o dell’impero con una concezione universalistica del diritto. Fondandosi sull’esigenza naturale di una comunità internazionale estesa a tutti i popoli, anche a quelli infedeli, egli giunge a prefigurare una società di Stati regolata dal diritto internazionale positivo"[6].

Su queste basi, de Vitoria costruì l’edificio teorico della cosiddetta “guerra giusta[7]. Le sue principali opere da cui emergono tematiche di diritto bellico (ius belli) sono la Relectio De Indis, dove si trovano i presupposti teorici di base e in modo più specifico, la Relectio De iure belli. Francisco de Vitoria si inserisce a pieno in quella che è la tradizione precedente, richiamandosi ad insegnamenti di Sant’Agostino, anche alla base delle quaestiones del canonista Graziano, uniti al pensiero di Tommaso d’Aquino, che aveva speso pagine importanti della sua Summa Theologiae sul tema della guerra[8]. La sua opera di mediazione culturale, inoltre, si colloca in confronto con le idee del nominalismo e del pensiero di Erasmo da Rotterdam (1466/1469-1536), che Vitoria aveva incontrato nel corso degli studi a Parigi, sebbene egli segua in modo deciso la lezione dell’Aquinate improntata su uno stretto razionalismo strutturale e metodologico, riletto in maniera orginale, grazie all’influenza di testi classici come quelli di Cicerone, di Aristotele e degli antichi stoici, realizzando quella “modernizzazione”, con ampi effetti anche sul mondo protestante del giusnaturalismo, in particolare su Melatone, Wolff, Grozio e Leibniz[9].

Il pensiero di Francisco de Vitoria, nel corso della storia, ha visto svariate interpretazioni. La sua costruzione razionale, universalistica e pluralistica, a partire da Grozio, ne ha fatto il padre del diritto internazionale moderno, determinandone una grande fortuna soprattutto nel XX secolo. Già verso la fine del XIX secolo, viene riletto in contrasto alle tendenze nazionalistiche, specialmente grazie al belga Ernst Nys, all’americano James Brown Scott, allo spagnolo Camilo Barcìa Trelles, al tedesco Paul Handrossek. Questi autori lo hanno considerato un grande internazionalista moderno, un importante teorico del diritto coloniale e uno dei padri della Società delle Nazioni[10]

Carl Schmitt, un autore tedesco, nel 1950 propose un’interpretazione in discontinuità con le tendenze precedentemente richiamate. Egli sostiene: "Francisco Vitoria appartiene – nonostante la sua neutralità, obiettività e umanità – al Medioevo cristiano e non al moderno diritto internazionale interstatale"[11].

Secondo Galli, Schmitt vuole "sottrarre il cattolico Vitoria alla genealogia dell’universalismo liberale e socialista"[12]. L’autore di Salamanca, dunque, non può essere compreso al di fuori dell’idea di respublica christiana, di cui accoglie e rielabora tutti i principi.

La rilettura più realistica ed equilibrata del pensiero vitoriano sembra venire fuori da quella che Geuna presenta come una “terza via”, affermando che essa:

«riconosce sì il fatto che la teoria di Vitoria si avvale di una nozione moderna di diritti soggettivi e di un concetto di ius gentium che presenta molti elementi innovativi, ma non esita – questa prospettiva – a mettere in luce i molti limiti, i molti lati oscuri, del suo universalismo. Per questi autori, studiare Vitoria consente di mettere in luce le aporie, le ambivalenze, i paradossi della dottrina moderna della guerra giusta e, più i generale, del diritto internazionale moderno»[13].

3.1. La Relectio de iure belli

Francisco de Vitoria si sofferma in modo diffuso sul diritto di guerra nella Relectio de iure belli[14], tenuta il 19 giugno 1539 a Salamanca, come continuazione della Relectio de Indis, presentata il primo gennaio dello stesso anno.

Il nostro autore nella breve premessa alla Relectio afferma che essa si colloca in continuità con il testo precedente, nella quale si era soffermato sui titoli giusti e ingiusti, in base ai quali gli Spagnoli pretendevano di occupare e possedere le terre degli Indiani[15]. Essa tratta brevemente il diritto di guerra, per completare le argomentazioni dell’altra lezione. Il suo scopo è quello di esprimere esclusivamente le tesi su questa materia, mediante brevi argomentazioni attorno a 4 questioni principali: 1) se sia lecito ai cristiani fare la guerra (quaestio 1); 2) chi abbia l’autorità di condurre o dichiarare la guerra (quaestio 2); 3) quali possano e debbano essere le cause di una guerra giusta (quaestio 3); 4) che cosa ai cristiani sia lecito fare e in quale misura contro i nemici (quaestio 4).

3.1.1. Prima questione: se ai cristiani sia lecito muovere guerra

Nella prima questione de Vitoria si sofferma sulla liceità per i cristiani dell’esercizio delle armi e sulla possibilità di fare guerra. Come abbiamo visto precedentemente, già Graziano, sulla scia di Agostino e di altri autori della patristica si era soffermato sul problema. Il maestro di Salamanca, riprendendo diversi passi della Scrittura, specialmente del Nuovo Testamento, sottolinea come ad una prima impressione sembri proibito ai cristiani utilizzare le armi, addirittura anche in difesa. A questa prima impressione, il nostro autore risponde affermando che queste sentenze bibliche non sono comandamenti, ma esortazioni e l’opinione di tutti i dottori è contraria, dal momento che si dimostra in molte circostanze che la guerra sia lecita[16]. Richiamandosi poi alle idee di Lutero e di Tertulliano, De Vitoria conclude esponendo la sua tesi, secondo la quale "ai cristiani è lecito prestare servizio militare, e fare la guerra"[17], in base a numerose autorità, tra le quali spiccano ancora Agostino e Tommaso d’Aquino.

Interessante risulta la terza motivazione addotta dal maestro spagnolo per sostenere la sua tesi: "la guerra fu lecita nella legge di natura […] Ciò che era lecito nella legge naturale e nella legge scritta è lecito anche nella legge evangelica. E, inoltre, è lecito perché non si può dubitare della guerra difensiva, dato che “è lecito respingere la violenza con la violenza” (Digesto, I, 1, 3)"[18].

Vitoria non si limita a richiamare le autorità precedenti, ma aggiunge un interessante contributo fondato sul diritto di natura, che non contrasta né con la legge scritta (diritto romano), né con la legge evangelica, quando si tratta del tema dell’autotutela.

Nella prosecuzione delle argomentazioni, poi, l’autore di Salamanca richiama anche la liceità della guerra offensiva, finalizzata alla punizione di una offesa subita in precedenza[19]. Sembra opportuno sottolineare, inoltre, come il nostro autore fondi la liceità della guerra sul principio di finalità, secondo il quale l’azione è orientata al bene di tutto il mondo, per evitare che i malvagi possano arrecare ingiurie ai buoni e agli innocenti[20]. Infine, in conclusione della quaestio, Vitoria richiama anche l’esempio di uomini dotti e saggi, che sia nelle Scritture, sia nella storia (vengono citati due imperatori: Costantino e Teodosio I), hanno utilizzato entrambi i tipi di guerra menzionati, su consiglio di vescovi santi e sapienti[21].

3.1.2. Questione seconda: Chi abbia la giusta autorità di indire e condurre una guerra

La seconda questione della Relectio argomenta su tre tesi. La prima è quella secondo la quale ciascuno, anche un privato, può intraprendere una guerra difensiva. Per questo genere di guerre non è previsto alcun tipo di autorizzazione, dal momento che esse sono finalizzate alla difesa della persona stessa o dei suoi beni[22]. In questa argomentazione emerge il dubbio sulla liceità dell’uso della forza, quando ci sia la possibilità di evitare il danno con la fuga. Poiché, però, la stessa fuga viene considerata un danno, in base al diritto romano de Vitoria sostiene che sarebbe lecita l’uccisione sia per difendere la propria persona, sia per la proprietà.

La tesi centrale della quaestio risulta essere la seconda, in base alla quale ogni comunità politica (res publica) ha l’autorità di dichiarare e di condurre la guerra[23]. De Vitoria distingue chiaramente il diritto del privato a difendere sé stesso e i propri beni in maniera immediata, senza alcun ritardo, da quello della comunità politica, che oltre al medesimo diritto del privato ha anche la facoltà di vendicare sé e i propri cittadini o sudditi. La comunità politica, infatti, è autosufficiente, orientata al governo delle faccende morali per il bene pubblico[24].

Nella terza tesi, infine, de Vitoria sostiene che i principi hanno la medesima autorità di una comunità politica per quanto concerne il diritto di indire una guerra[25]. Per comunità politica (res publica) sarebbe da intendersi una compagine perfetta in sé stessa, ossia che è un’unità e una totalità, senza parti di altre comunità al proprio interno, con proprie leggi, un proprio consiglio e proprie magistrature[26]. I re, ad esempio, pur stando sotto l’autorità dell’Imperatore, essendo a capo di comunità politiche che rispecchiano i requisiti precedentemente esposti, hanno facoltà di muovere guerra anche senza l’autorizzazione dell’Imperatore. Gli altri principi di rango inferiore, invece, che non stanno a capo di comunità perfette, di per sé non hanno la facoltà di muovere guerra, a meno che ciò non sia loro concesso per un’antica consuetudine[27].

De Vitoria aggiunge inoltre che un principe o anche una città che, pur non essendo a capo di una comunità politica perfetta, nello stato di necessità e di negligenza da parte dell’autorità superiore, oltre a difendersi, possono intraprendere una guerra per vendicare l’offesa subita e prendere misure contro gli ingiusti aggressori, anche uccidendoli, se non ci fossero altre strade percorribili[28].

3.1.3. Questione terza: Quale possa essere la ragione e la causa della guerra

Nelle cinque tesi della terza questione de Vitoria analizza le possibili cause di una guerra giusta. Nel dare avvio alle sue argomentazioni il maestro sostiene che tale questione tocca da molto vicino la controversia sui barbari. La prima tesi è che la differenza di religione non sia causa giusta di guerra[29].

Questa si pone in continuità con quanto già affermato nella Relectio De Indis e nella Summa Theologiae di San Tommaso[30] e in altri dottori. La seconda tesi presenta un’evidenza intrinseca in relazione all’ingrandimento del dominio politico (amplificatio imperii), che non può mai essere giusta causa di guerra, perché porterebbe ad avere contemporaneamente due giuste cause in opposizione e non darebbe la facoltà di uccidere il nemico[31].

La terza tesi esclude dalle legittime cause, quella della gloria personale o del vantaggio del principe, dal momento che egli è responsabile del bene comune e della pace della comunità che gli è affidata, anche mediante l’uso della forza bellica[32]. Dopo la pars destruens, nelle ultime due tesi, de Vitoria si sofferma sui titoli di guerra giusta, sostenendo nella quarta che l’unica causa di una guerra giusta è quella di vendicare un’offesa ricevuta[33]. La tesi viene dimostrata dal dottore di Salamanca sulla base del pensiero di Sant’Agostino e San Tommaso. La tesi successiva, infine, rappresenta uno sviluppo della precedente, in quanto de Vitoria specifica che non è qualunque offesa e di qualunque entità a dare avvio e ad offrire una giusta causa di guerra, ma bisogna commisurare sempre la punizione secondo la gravità della colpa[34].

Sebbene il maestro di Salamanca si inserisca pienamente nella tradizione giuridica precedente, in riferimento a quello che in linguaggio più attuale si chiama “principio di proporzionalità”, egli non offre riferimenti oggettivi per stabilire cosa debba intendersi nello specifico.

3.1.4. Questione quarta: Cosa e in che misura sia lecito in una guerra giusta

La quarta questione, divisa in due parti, introduce l’altro aspetto del diritto bellico, quello del cosiddetto ius in bello, ossia delle condotte da osservare nel corso di un conflitto e che in linguaggio contemporaneo si definisce diritto internazionale umanitario. Le due parti della quaestio si sviluppano in diverse tesi e dubbi.

La tesi introduttiva che apre la prima parte dichiara che in una guerra giusta è lecito fare tutto ciò che risulta utile per il bene pubblico e la difesa dello stesso. Queste affermazioni di de Vitoria si collocano in naturale continuità con quanto affermato già nella quaestio precedente e fanno da introduzione e criterio generale alle tematiche più specifiche delle tesi successive.

De Vitoria, infatti, nella seconda tesi sostiene che in una guerra giusta è assolutamente lecito recuperare i beni sottratti, o il loro controvalore, e nella terza aggiunge che in una guerra giusta è lecito rivalersi sui beni dei nemici delle spese di guerra e di tutti i danni arrecati ingiustamente da parte loro[35]. Sembra interessante sottolineare quanto il Maestro di Salamanca affermi nelle argomentazioni relative a questa terza tesi: "Inoltre, se ci fosse un giudice legittimo sopra entrambe le parti belligeranti potrebbe condannare gli ingiusti aggressori, responsabili della guerra, non solo a restituire le cose sottratte ma anche a rifondere le spese di guerra e tutti i danni"[36].

Sappiamo benissimo come quella che nel XVI secolo era solo un’ipotesi (si quis esset), con i grandi conflitti del XX e XXI secolo, è divenuta una prassi internazionale: si pensi ai grandi Tribunali internazionali ad hoc istituiti in differenti circostanze post-conflitto[37] fino all’istituzione di un Tribunale stabile, la Corte Penale Internazionale (CPI) con il Trattato di Roma del 1998, della quale Buonomo afferma:

«(Essa) costituisce la versione più avanzata di istituzionalizzazione dell’azione penale esercitata a livello intergovernativo e finalizzata alla punizione dei crimini internazionali: una dimensione della giurisdizione sui crimini che ne conferma l’universalità della gravità e degli effetti, ma che non sottrae ai singoli Stati la competenza a giudicarne gli autori in ragione di una piena complementarietà»[38].

Le argomentazioni di Francisco de Vitoria proseguono nella stessa linea affermando che i principi, essendo giudici della guerra essi stessi, possono esigere dai nemici le riparazioni. Nella quarta tesi, poi, spiega che il principe nella guerra giusta può fare contro i nemici tutto ciò che sia necessario alla pace e sicurezza, come distruggere fortezze, esigere ostaggi, navi o armi, al fine di far osservare ai nemici i propri doveri in buona fede e senza animo fraudolento[39]. Nella quinta tesi il dottore di Salamanca sostiene che, al termine di una guerra giusta, il principe ha la facoltà di punire i nemici, per spaventarli e distoglierli dal compiere ulteriori delitti[40]. Dopo l’esposizione di queste cinque tesi, seguono cinque dubbi.

Il primo dubbio è se sia sufficiente a rendere giusta la guerra il fatto che il principe creda di avere una giusta causa. La risposta al dubbio è negativa, in quanto non può esistere una guerra giusta per entrambe le parti, ma ciascuno dei belligeranti deve ascoltare e ponderare debitamente anche le posizioni dell’altra parte.

A questo proposito, anche nel quarto dubbio, de Vitoria chiarisce che non è possibile che vi sia un’oggettiva iusta causa per entrambe le parti, ma può verificarsi soltanto un caso di ignoranza invincibile, che lasci entrambe le parti in buona fede, scusando ogni eventuale azione illecita[41]. La posizione di de Vitoria sembra molto interessante ed equilibrata: egli afferma anzitutto che, qualora il suddito sappia con certezza dell’ingiustizia della guerra, non gli è assolutamente lecito prendere le armi, neanche su esplicito comando del principe. Coloro che sono rivestiti di autorità ed hanno responsabilità pubblica, come magistrati e comandanti, sono tenuti ad interrogarsi sempre sulla giustizia della guerra. La popolazione, che de Vitoria definisce “minores”, deve fidarsi del giudizio del principe[42]. Commentando questi passaggi del testo vitoriano, Eppstein si chiede lucidamente se queste sue conclusioni possano essere ancora attuali in un tempo in cui nei Paesi democratici il popolo decide liberamente chi siano i suoi rappresentanti.

La sua domanda, dunque, risuona in questi termini: "sotto questo genere di politica, ciascuno non avrebbe una parte di responsabilità negli atti della nazione?"[43].   Nel quinto dubbio, relativo alla necessità per un principe o un suddito di dover restituire beni sottratti in buona fede in una guerra che successivamente si scopre essere ingiusta, de Vitoria sostiene che questo soggetto sarebbe tenuto a restituire le cose che non ha ancora distrutto o che lo hanno arricchito, ma non quelle che ha distrutto, sempre che abbia agito in buona fede. Concludendo le argomentazioni relative a tale dubbio, il maestro di Salamanca offre un riferimento interessante:

«Infatti, poiché, come abbiamo detto, le guerre devono essere fatte per il bene comune, se per riprendere una città la comunità politica va necessariamente incontro a mali più grandi – devastazione di molte città, ecc., provocazione di principi, occasione di nuove guerre – non c’è dubbio che quel principe è tenuto a rinunciare al proprio diritto, e a astenersi dalla guerra […] E pertanto quando, al contrario, dalla guerra derivino a entrambe grandi mali, la guerra non può essere giusta»[44].

La seconda parte della IV questione presenta diversi dubbi circa lo ius in bello, in modo particolare su quale sia la misura del lecito in una guerra giusta. Il primo dubbio, che lo stesso Francisco de Vitoria considera il più importante, è relativo alla liceità di uccidere gli innocenti in guerra. La risposta del maestro di Salamanca è evidentemente negativa, dal momento che intenzionalmente e direttamente non può mai essere lecito colpire gli innocenti. A questa categoria, inoltre, egli offre alcune specifiche declinazioni[45]: in primis non è lecito uccidere le donne e i fanciulli, neache nella guerra contro i Turchi; nelle guerre fra i cristiani, non è lecito colpire i contadini inermi, i letterati pacifici (gens togata et pacifica), i viaggiatori stranieri e gli ospiti che si trovano fra i nemici, gli uomini di Chiesa e i religiosi[46]. Accanto a questo principio generale, de Vitoria nella tesi successiva afferma che “accidentalmente” sarebbe lecito anche uccidere gli innocenti[47], quando ad esempio si tratta di attaccare una fortezza e un villagio per colpire i nemici e in mezzo a loro vi siano anche innocenti. Anche per questo caso, però, De Vitoria rifacendosi al principio di proporzionalità, dice che non è mai lecito uccidere innocenti, neppure incidentalmente e inintenzionalmente, se non quando giova alla guerra giusta, e quando questa non possa essere condotta in altro modo. Il medesimo criterio diviene la soluzione del secondo dubbio, relativo alla liceità di espropriare i propri beni agli innocenti per indebolire le forze nemiche.

Riguardo al problema di eventuali ostaggi, poi, il nostro autore sostiene che in una guerra fra cristiani e saraceni sia sempre lecito prendere ostaggi, anche fra le donne e i bambini, cosa permessa anche nelle altre guerre fra cristiani, sebbene mai a fini di schiavitù, ma al massimo per ottenere in cambio dei riscatti. Il maestro di Salamanca, però, frena ulteriormente: "questa pratica, tuttavia, non deve essere estesa al di là di ciò che è richiesto dalla necessità della guerra; lo ha sancito la consuetudine dei legittimi belligeranti"[48]. Sembra interessante sottolineare, inoltre, quanto de Vitoria argomenta circa il sesto dubbio, se cioè sia lecito uccidere i prigionieri colpevoli. La risposta si presenta di grandissimo equilibrio e attualità:

«Si risponde che, a rigore, nulla osta a che coloro che si sono arresi o sono stati fatti prigionieri in una guerra giusta, vengano uccisi, purchè siano stati colpevoli, e fatta salva la giustizia. Ma poiché in guerra molte regole sono istituite per diritto delle genti, sembra ormai accolto come consuetudine che i prigionieri, una volta che sia stata conseguita la vittoria e sia passato il pericolo, non vengano uccisi, tranne che non siano dei rinnegati. E questa regola del diritto delle genti deve essere rispettata, come tradizione consolidata tra persone civili»[49].

Riguardo al tema del “bottino” di guerra, parlando della possibilità che un esercito depredi una città, de Vitoria afferma che ciò potrebbe essere lecito se ve ne fosse un motivo ragionevole, ma subito dopo afferma:

«Ma poiché da simili concessioni derivano – commessi da soldati simili a barbari – molti mali atroci e crudeli, al di là di ogni umanità, come stragi e torture di innocenti, ratti di vergini, stupri di donne, spoliazione di Chiese, senza dubbio è ingiusto distruggere una città, soprattutto cristiana, senza una grave causa che lo renda necessario. Ma se lo richiede la necessità non è illecito, anche se è probabile che i soldati commetteranno alcuni atti di quel tipo, che i comandanti, però, sono obbligati a proibire»[50].

            A questo punto, de Vitoria si sofferma su un criterio centrale per lo sviluppo del diritto internazionale dei conflitti armati, anche nei secoli successivi, quello della moderazione. In riferimento ad un territorio da occupare o a misure da intraprendere nei confronti dei nemici, il nostro autore dichiara:

«Ma ciò deve avvenire con moderazione, e non sulla base di quanto è consentito dalla potenza militare. E se la necessità e le ragioni di guerra richiedono che sia presa una parte maggiore del territorio dei nemici, o un maggior numero di città, è necessario, una volta che la situazione si sia calmata e la guerra sia finita, che vengano restituite, e che venga trattenuto soltanto ciò che è giusto al fine di riparare i danni e le spese, e di punire l’offesa – in ogni caso sulla base di princìpi di umanità e di giustizia, poiché la pena deve essere proporzionata alla colpa»[51].

Risulta molto interessante leggere in questo autore del XVI secolo i fondamenti di quelli che diverranno, nei secoli successivi, i principi base del diritto internazionale dei conflitti armati, attualmente riconosciuti come principi generali dell’ordinamento internazionale, tra i quali spiccano il principio di umanità e quello di proporzionalità[52].

2.1.5. Conclusioni della Relectio de iure belli 

Le Conclusioni della Relectio, composte e firmate da Giovanni di Heredia, si presentano come un’aggiunta postuma al testo vitoriano, ma offrono un’utile sintesi del diritto di guerra del maestro di Salamanca, concettualizzato attorno a tre regole: 1) i principi, pur avendo l’autorità di fare guerra, non devono cercarne occasioni e cause, trattandosi solo di un’estrema necessità; 2) scoppiata una guerra giusta, essa deve essere combattuta senza voler danneggiare il popolo contro cui si deve combattere, ma per conseguire e difendere i propri diritti per ottenere pace e sicurezza; 3) ottenuta la vittoria, bisogna giovarsene con moderazione, senza arrecare danni sproporzionati alla parte colpevole, ricordando che la colpa per lo più ricade sui principi e che nei combattimenti sono stati coinvolti sudditi che hanno combattuto in buona fede per i principi[53].

3. Rilievi finali

In conclusione, volendo sintetizzare il contributo di Francisco de Vitoria alla formazione del diritto internazionale dei conflitti armati, si deve anzitutto sottolineare che per lui la guerra si presenta  sempre come un rapporto fra entità politiche, mai fra religioni, pertanto essa non può mai essere qualificata come “santa”, né può mai colorarsi di ideologia.

Essa è qualcosa di negativo in sè stesso, una sorta di degenerazione, da considerarsi intrinsecamente legata alla condizione dell’umanità peccatrice (ratione peccati), ma proprio per questo non può essere lasciata ai soli riflessi naturali, agli automatismi della potenza militare, alla mera valutazione dell’utile e alla legge del più forte, ma deve collocarsi nel percorso di civiltà, mediante la religione, la giustizia, la morale razionale, il diritto delle genti e la politica orientata al bene di tutta l’umanità, nella continua ricerca della pace, anche attraverso lo strumento della guerra giusta.

Introducendo un’edizione del De iure belli, Galli afferma:

«Ius ad bellum e ius in bello sono dedotti, in Vitoria, da un combinarsi, che si vuole non contraddittorio, tra fede e ragione, tra Scrittura e Aristotele, tra Padri e Dottori della Chiesa, tra il Digesto e il Decretum Gratiani, tra giuristi, canonisti, decretalisti e teologi; Vitoria utilizza la tradizione con libertà, e fa dire ai testi a volte più e a volte meno di quanto essi intendano, all’interno di una strategia argomentativa che tende a recuperare quanto è possibile della tradizione, a sistematizzarla e ad armonizzarla, in una sorta di razionalismo critico cattolico, aperto alle esigenze nuove»[54].

La trattazione della guerra giusta che Francisco de Vitoria sviluppa sposta l’asse dal piano specificamente teologico-morale (tipico di Sant’Agostino, San Tommaso e San Bernardo di Chiaravalle), che avevano sottolineato soprattutto il legame con il concetto di culpa, a quello prettamente giuridico, offrendo un passaggio progressivo a quanto già realizzato in ambito della storia del diritto canonico da Graziano[55]. Se, infatti, il maestro bolognese aveva sottolineato la definizione giuridica di specifici nemici, interni ed esterni alla cristianitas medievale, De Vitoria si sofferma maggiormente sulle dimensioni oggettive della guerra. Egli prevede come unica causa di guerra giusta l’offesa ricevuta dal nemico (iniuria accepta), senza entrare nell’analisi della retta intenzione (recta intentio), che aveva interessato molto i canonisti medievali[56].

Partendo dai testi del maestro di Salamanca, Geuna propone una definizione di guerra giusta che risulta davvero interessante: "la guerra giusta è la procedura giudiziaria della comunità mondiale, della comunità totius orbis, procedura giudiziaria regolata dal diritto naturale e messa in atto dai governanti delle singole res publicae"[57].

Un’altra importante novità introdotta da Francisco De Vitoria è quella relativa al contesto internazionale all’interno del quale si dà la guerra giusta. Egli introduce le gentes e non più gli homines[58], come soggetti dello ius inter gentes su un piano di parità, fondata sull’idea di unica umanità, redenta dall’unico Dio. 

L’impianto teorico del diritto bellico di De Vitoria presenta anche alcuni punti deboli. Il primo dei quali è relativo alla visione secondo la quale la guerra si possa qualificare come giusta solo in base ad elementi oggettivi, a prescindere dagli elementi soggettivi: la guerra in sé o è giusta, o è ingiusta; l’errore può sussistere soltanto nell’opinione dei principi che se la attribuiscono. A livello teorico, infatti, per il Maestro di Salamanca in una guerra deve essere sempre distinguibile chi ha ragione da chi ha torto in modo univoco e certo: non può esistere l’assurdità di una guerra ingiusta da entrambe le parti. Saranno gli autori successivi a De Vitoria, in modo particolare l’italiano Alberigo Gentili a superare tale aporia.

A dire di qualche studioso, la trattazione sulla guerra di De Vitoria presenta essenzialmente due rischi: quello di una comprensione puramente teorica della guerra, che non terrebbe conto delle circostanze concrete nelle quali essa si combatte e dall’altra parte quello di enfatizzare troppo la giustizia oggettiva, introducendo una certa instabilità nell’ordine internazionale, dove ci si sentirebbe autorizzati automaticamente a perseguire delle violazioni, come nel caso di quelle relative ai diritti umani. Una simile idea consentirebbe a rigor di logica non solo una guerra difensiva, ma anche offensiva, come “guerra umanitaria”, o addirittura “guerra preventiva”[59].

Il pensiero di de Vitoria, come è emerso già in precedenza, si fonda su una grande continuità rispetto alle lezioni del passato, dai Padri a San Tommaso d’Aquino, passando per Graziano, ma non manca di offrire anche il suo contributo originale ed insostituibile alle dottrine dello ius belli. Riguardo al contributo di De Vitoria alla storia del diritto internazionale, Gozzi afferma:

«Le considerazioni esposte consentono così di formulare un giudizio su F. De Vitoria che non può non essere necessariamente complesso e articolato. Egli fu infatti il difensore dei diritti dei popoli, ma solo sul fondamento di uno ius gentium in cui si esprimono pienamente i principi “universali” della ragione occidentale. Inoltre egli oppose la verità della dottrina cristiana all’errore della fede dei mussulmani, finendo col sostenere l’irriducibilità dello scontro tra Occidente e Islam. Infine, egli si aprì alla modernità riconoscendo la realtà dei nuovi Stati sovrani ormai sottratti all’autorità del Papa e dell’Imperatore. In ciò la sua opera anticipò il pensiero dell’altro padre del diritto internazionale moderno, ossia di Ugo Grozio»[60].


Note e riferimenti bibliografici

[1] Sinteticamente, i summenzionati principi sarebbero riconducibili ai seguenti: - Principio di umanità, ossia il rispetto della dignità della persona umana, in qualsiasi condizione; - Principio di necessità militare, ossia la verifica costante da parte dei combattenti sulla necessità, liceità e proporzionalità dell’uso della forza militare, mantenendo in equilibrio la necessità militare e le esigenze umanitarie; - Principio di lealtà, ossia l’utilizzo di mezzi e comportamenti che non abusino della fiducia dell’altra parte al fine di arrecargli danni; - Principio di proporzionalità, ossia un uso della forza che eviti effetti sproporzionati e danni alla popolazione civile; - Principio di distinzione, ossia la chiara demarcazione fra la popolazione civile e i combattenti, come anche tra obiettivi civili e militari; - Principio di precauzione, ossia la costante valutazione da parte dei belligeranti degli effetti delle azioni militari sulla popolazione e sui beni, in particolare di carattere artistico e religioso. Cfr. V. BUONOMO, Il diritto della Comunità internazionale, Principi e regole per la governance globale, LUP, Città del Vaticano, 2010, pp. 146-148; N. RONZITTI, Diritto internazionale dei conflitti armati, Giappichelli, Torino, 2017, pp. 209-213; L. LABANCA, Lo ius belli: dal Decretum di Graziano al diritto internazionale vigente. Ricognizione e analisi delle fonti canoniche e internazionali, EDUCatt, Milano, 2019, 343-344.

[2] Cfr. P. GROSSI, La proprietà nel sistema privatistico della seconda scolastca, in P. GROSSI (CUR.), La seconda scolastica nela formazione del diritto privato moderno, Atti dell’incontro di studio, Firenze, 16-19 ottobre 1972, Giuffrè, Milano, 1973, 117-121; A. CAVANNA, Storia del diritto moderno in Europa: Le fonti e il pensiero giuridico, I, Giuffrè, Milano, 1982, 329-330; P. ERDÖ, Storia della scienza del diritto canonico, PUG, Roma, 1999, 139-140; S. T. SALVI, Luci e ombre nella famiglia del siglo de oro: filiazione illegittima e Seconda Scolastica, in Rivista di storia del diritto italiano, 88 (2015), 175-178.

[3] Cfr. I. JERICÓ-BERMEJO, “Escuela de Salamanca”, in INSTITUTO MARTÍN DE AZPILCUETA, FACULTAD DE DERECHO CANONICO, UNIVERSIDAD DE NAVARRA, Diccionario general de derecho canónico, III, 714-717.

[4] Francisco de Vitoria, figlio di Pietro de Vitoria e Catalina de Compludo, nacque a Burgos nel 1483. Nel 1505 entrò nel convento domenicano di San Paolo di Burgos. Nel 1456 iniziò gli studi di arte e nel 1508 si trasferì al convento di Santiago di Parigi, incorporato alla Congregazione dell’Osservanza in Olanda. Studiò teologia fra il 1509 e il 1513, essendo discepolo di Pietro di Bruxelles, che diede un forte impulso allo studio della Summa Theologiae di San Tommaso d’Aquino, al posto delle Sentenze di Pietro Lombardo. Il Capitolo dei Domenicani di Genova nel 1513 designò De Vitoria come docente di teologia per il 1516. Si addottorò in teologia nel 1522. Dopo di ciò si impegnò molto nella composizione di opere teologiche, come i commenti alla Secunda Secundae della Summa di San Tommaso. Dal 1523 insegnò a Valladolid, presso la cattedra di teologia dove si formavano i futuri maestri dell’Ordine domenicano. Tra il 1523 e il 1526, De Vitoria insegnò la Summa Theologiae. A Valladolid per la prima volta entrò in contatto con le questioni americane. Nel 1525 il capitolo di Burgos lo nominò maestro in sacra Teologia. Il 7 settembre 1526 ottenne la cattedra di teologia, cosiddetta “prima” a Salamanca, dove iniziò ad insegnare nell’ottobre di quell’anno. Nelle lezioni di un’ora e mezza della prima, commentò le Sentenze di Pietro Lombardo, oltre a varie parti della Summa. Fu il restauratore della teologia spagnola, rinnovatore degli studi teologici, padre della scolastica spagnola, diede un forte impulso alla cultura teologica e giuridica del suo tempo. Ebbe diversi incarichi anche nel governo della Scuola, partecipando a più riprese anche alla revisione degli statuti tra il 1531 e il 1539 e avendo anche l’incarico di provvedere ad una stamperia per Salamanca. Come reggente della cattedra di prima, Vitoria aveva il compito di tenere una relazione o ripetizione annuale, in giorno festivo e dinanzi alla sua Facoltà o all’intera Università, su qualche argomento già trattato nelle lezioni ordinarie. Tra il 1527 e il 1541 tenne 15 relazioni, di cui si conservano date e titoli: De silentii obligatione (1527), De potestate civili (1528), De homicidio (1530), De matrimonio (1531), De potestate Ecclesiae prior (1532), De potestate Ecclesiae posterior (1533), De potestate Papae et Concilii (1534), De augmento caritatis (1535), De eo ad quod tenetur (1535), De simonia (1536), De temperantia (1537-1538), De Indis prior (1539), De Indis posterior sive de iure belli (18 giugno 1539), De magia (1540), De magia posterior (1543). Nel 1527 partecipò alla commissione inquisitoriale sugli scritti di Erasmo da Rotterdam, affermando che in essi c’erano elementi in contrasto con la vera fede, nonostante si cogliesse lo sforzo di quell’autore di mantenersi nella cattolicità. Carlo I nel 1534 assistè a due lezioni del Vitoria e nel 1539 con due lettere chiese un suo parere circa alcune questioni relative alla conversione e istruzione degli indigeni d’America. Ammalatosi di gotta dal 1529, ottenne una riduzione dell’impegno nelle lezioni a partire dal 1541 e gli fu permesso il cambio di cattedra, dall’ora prima, come aveva sempre fatto, alla lezione biblica, ad un orario più consono al suo stato di salute precario. Tra il 1543 e il 1544 non tenne relazioni. Negli ultimi corsi accademici della sua vita, gli stessi studenti, approfittando dei momenti di migliore salute lo portavano in spalla nelle aule universitarie. Nel 1545 si scusa con Filippo II di non poter partecipare al Concilio di Trento, a causa delle sue infermità e della sua età avanzata. Muore il 12 agosto 1546. Cfr. J. M. VIEJO-XIMÉNEZ, “Vitoria, Francisco de”, in INSTITUTO MARTÍN DE AZPILCUETA, FACULTAD DE DERECHO CANONICO, UNIVERSIDAD DE NAVARRA, Diccionario general de derecho canónico, VII, 941-948.

[5] Cfr. A. A. CASSI, Santa, giusta, umanitaria: la guerra nella civiltà occidentale, Ed. Salerno, Roma, 2015, 72-73.

[6] C. FANTAPPIÉ, Storia del diritto canonico e delle istituzioni della Chiesa, Il Mulino, Bologna, 2011, 203.

[7] Cfr. M. GEUNA, Francisco de Vitoria e la questione della guerra giusta, in G. D’AVERIO ROCCHI (CUR.), Dalla concordia dei greci al bellum iustum dei moderni, FrancoAngeli, Milano, 2013, 154.

[8] Cfr. F. H. RUSSELL, The just war in the Middle Ages, Cambridge University Press, Cambridge, 1977, 258-291; J. GAFFNEY, Just War. Catholicism’s Contribution to International Law, in Logos: A Journal of Catholic Thought and Culture, 14 (2011) 3, 55-59; G. BARBERINI, Il contributo della dottrina cattolica per l'elaborazione dei principi del diritto internazionale, Pellegrini, Cosenza, 2012, 16-21; A. A. CASSI, Santa, giusta, umanitaria, op. cit., 63-65; M. FABBRINI, Storia del diritto di guerra. Dal Ius fetiale romano al progetto “Per la pace perpetua” di Immanuel Kant, Effigi, Arcidosso (GR), 2017, 68-75.

[9] C. GALLI, Introduzione, in C. GALLI (CUR.), Francisco de Vitoria, De iure belli, Laterza, Bari, 2005, VIII.

[10] C. GALLI, Introduzione, op. cit., XXX. L’autore presenta un’approfondita bibliografia dei testi chiave degli autori menzionati sopra, in riferimento alla rilettura del pensiero vitoriano.

[11] C. SCHMITT, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum europaeum», Adelphi, Milano, 1991, 134.

[12] C. GALLI, Introduzione, op. cit., XXXIII.

[13] M. GEUNA, Francisco de Vitoria e la questione della guerra giusta, op. cit., 146.

14] Il testo di riferimento è F. DE VITORIA, De iure belli: C. GALLI (CUR.), Francisco de Vitoria, De iure belli, Bari, 2005. Questa edizione contiene il testo latino a fronte tratto da U. HORST, H. JUSTENHOVEN, J. STÜBEN (CURR.), Francisco De vitoria, Vorlensugen. Völkerrecht, Politik, Kirche, Stuttgart-Berlin-Kohlnhammer, 1997, 2 voll.

[15] F. DE VITORIA, De Iure Belli, Praeludium: GALLI, 2.

[16] Cfr. F. DE VITORIA, De Iure Belli, Qu. I, 1: GALLI, 7.

[17] F. DE VITORIA, De Iure Belli, Qu. I, 2: GALLI, 9.

[18] F. DE VITORIA, De Iure Belli, Qu. I, 2: Galli, 11: «Tertio in lege naturali hoc licuit […] Ergo, quod licebat in lge naturae et scripta, non minus licet in lege evangelica. Et quia de bello defensivo revocari in dubium non potest, ‘vim vi repellere licet’ (Dig. I,13)».

[19] Le sue fonti in questo caso sono ancora differenti testi agostiniani e la qu. 2 della Causa XXIII della Concordia grazianea. Cfr. anche J. EPPSTEIN, The catholic tradition of the law of Nations, The Lawbook Exchange, London, 1935, 99.

[20] Cfr. F. DE VITORIA, De Iure Belli, Qu. I, 2: GALLI, 13.

[21] Cfr. F. DE VITORIA, De Iure BelliQu. I, 2: GALLI, 13-14.

[22] Cfr. F. DE VITORIA, De Iure Belli, Qu. II, 1: GALLI, 16.

[23] Cfr. F. DE VITORIA, De Iure Belli, Qu. II, 2: GALLI, 18: «Quaelibet res publica habet auctoritatem indicendi et inferendi bellum».

[24] Cfr. F. DE VITORIA, De Iure Belli, Qu. II, 2: GALLI, 20.

[25] Cfr. F. DE VITORIA, De Iure Belli, Qu. II, 3: GALLI, 20.

[26] Cfr. F. DE VITORIA, De Iure Belli, Qu. II, 3: GALLI, 22: «[…] res publica proprie vocatur perfecta communitas. […] Pro quo notandum, quod perfectum est, cui nihil deest, et imperfectum, cui aliquid deest; quod totum est perfectum quid. Est ergo perfecta communitas aut res publica, quae est per se unum totum, in qua non est alterius rei publicae pars, sed quae habet proprias leges, proprium concilium et proprios magistratus […]».

[27] Cfr. F. DE VITORIA, De Iure Belli, Qu. II, 3: GALLI, 24.

[28] Cfr. F. DE VITORIA, De Iure Belli, Qu. II, 3: GALLI, 24.

[29] Cfr. F. DE VITORIA, De Iure Belli, Qu. II, 3: GALLI, 26.

[30] Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q. LXVI, art. 8: SANCTI THOMAE AQUINATIS DOCTORIS ANGELICI OPERA OMNIA, Iussu impensaque Leonis XIII P. M. edita, vol. IX, Romae, 1897, 93-94.

[31] Cfr. F. DE VITORIA, De Iure Belli, Qu. III, 3: GALLI, 28.

[32] Cfr. F. DE VITORIA, De Iure Belli, Qu. III, 3: GALLI, 28.

[33] Cfr. F. DE VITORIA, De Iure Belli, Qu. III, 4: GALLI, 30: «Una sola causa iusti belli est, scilicet iniuria accepta».

[34] Cfr. F. DE VITORIA, De Iure Belli, Qu. III, 5: GALLI, 30.

[35] Cfr. F. DE VITORIA, De Iure Belli, Qu. IV, I pars, 1-3: GALLI, 36.

[36] F. DE VITORIA, De Iure Belli, Qu. IV, I pars, 3: GALLI, 36: «Item si quis esset legitimus iudex utriusque partis gerentis bellum, potest condemnare iniustos aggressores et auctores belli, non solum ad restituendas res ablatas, sed etiam ad resarciendum impensam belli et omnia damna».

[37] Solo a mo’ di esemplificazione, si presentano alcuni esempi di Tribunali internazionali (sorti in base a Trattati o Convenzioni internazionali) o misti (sorti in Paesi dove sono stati perpetrati i crimini, con il coinvolgimento di organismi legati alle Organizzazioni internazionali), istituiti in seguito ad eventi bellici con la finalità di giudicare i crimini commessi nel corso di differenti conflitti: 1945-1946, Tribunale militare internazionale; 1945-1946, Tribunale militare di Norimberga; 1946-1948: Tribunale militare internazionale per l'Estremo Oriente; dal 1993, Tribunale penale internazionale per l'ex-Jugoslavia; dal 1994, Tribunale penale internazionale per il Ruanda; dal 2001, Tribunale speciale della Cambogia; dal 2002, Corte penale internazionale; dal 2002, Corte speciale per la Sierra Leone; dal 2007, Tribunale speciale per il Libano. Cfr. B. CONFORTI, Diritto internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 201410, 477-479.

[38] V. BUONOMO, Il diritto della Comunità internazionale, Principi e regole per la governance globale, LUP, Città del Vaticano, 2010, 161.

[39] Cfr. F. DE VITORIA, De Iure Belli, Qu. IV, I pars, 4: GALLI, 38.

[40] Cfr. F. DE VITORIA, De Iure Belli, Qu. IV, I pars, 5: GALLI, 38.

[41] Cfr. F. DE VITORIA, De Iure Belli, Qu. IV, I pars, 9: GALLI, 58.

[42] Cfr. F. DE VITORIA, De Iure Belli, Qu. IV, I pars, 7: GALLI, 46.

[43] Nostra traduzione di J. EPPSTEIN, The catholic tradition of the law of Nations, The Lawbook Exchange, London, 1935, 105: «under such a polity has not each a measure of responsability for national acts?».

[44] F. DE VITORIA, De iure belli, Qu. IV, I pars, 10: GALLI, 60-62.

[45] In De Vitoria, come emerge dall’analisi del testo, sussiste la differenza tra guerra intracristiana e guerra contro i Turchi. Si tratta, evidentemente, di un retaggio del passato di inimicizia costante fra Impero ottomano (da intendersi come potenza politica, anziché come religione islamica) e Stati europei. È una posizione che il maestro di Salamanca condivide con la maggior parte degli intellettuali della sua epoca. Cfr. C. GALLI, Introduzione, op.cit., XLV.

[46] Cfr. F. DE VITORIA, De iure belli, Qu. IV, II pars, 1: GALLI, 66-68.

[47] F. DE VITORIA, De iure belli, Qu. IV, II pars, 1: GALLI, 68.

[48] F. DE VITORIA, De iure belli, Qu. IV, II pars, 3: GALLI, 78.

[49] F. DE VITORIA, De iure belli, Qu. IV, II pars, 6: GALLI, 84.

[50] F. DE VITORIA, De iure belli, Qu. IV, II pars, 7: GALLI, 88-90:.

[51] F. DE VITORIA, De iure belli, Qu. IV, II pars, 7: GALLI, 92.

[52] Cfr. V. BUONOMO, Il diritto della Comunità internazionale, op. cit., 146-147.

[53] Cfr. F. DE VITORIA, De iure belli, Conclusiones: GALLI, 98-100.

[54] C. GALLI, Introduzione, op. cit., XXIV.

[55] Cfr. L. LABANCA, Lo ius belli: dal Decretum di Graziano, op. cit., 42-44.

[56] Cfr. G. VENEROSI PESCIOLINI, “Guerra giusta”, in Enciclopedia del diritto, XIX, Giuffrè, Varese, 1970, 932; C. Galli, Introduzione, XXVII;

[57] M. GEUNA, Francisco de Vitoria e la questione della guerra giusta, op.cit., 160.

[58] Molti commentatori di De Vitoria hanno sottolineato questo cambiamento intenzionale nelle sue opere: dal concetto iusromanistico di ius gentium come ius inter omnes homines (GAIO, Institutiones, I, 2,1), ad uno moderno di ius inter gentes, un diritto positivo derivante dal patto e consenso fra i popoli. Cfr. G. GOZZI, Diritti e civiltà. Storia e filosofia del diritto internazionale, Il Mulino, Bologna, 2010, 43-46.

[59] Cfr. C. GALLI, Introduzione, op. cit., LIV; M. GEUNA, Francisco de Vitoria e la questione della guerra giusta, op. cit., 167.

[60] G. GOZZI, Diritti e civiltà, op. cit., 38. Cfr. anche C. FOCARELLI, Introduzione storica al diritto internazionale, Giuffrè, Milano, 2012, 201; M. GEUNA, Francisco de Vitoria e la questione della guerra giusta, 145-146.157-159; M. FABBRINI, Storia del diritto di guerra, op.cit., 88-104.