La statuizione dichiarativa dellŽincompetenza nel codice della crisi dŽimpresa e dellŽinsolvenza: brevi osservazioni
Modifica paginaIl lavoro mira a confrontare rapidamente lŽart. 29 del D. lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, con lŽart. 9 bis della legge fallimentare.
Sommario: 1. La dichiarazione di incompetenza resa dal tribunale; 2. La statuizione dichiarativa dell’incompetenza del tribunale resa dalla corte d’appello.
1. La dichiarazione di incompetenza resa dal tribunale
L’art. 29 del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza – norma che entrerà in vigore il 1° settembre 2021 – disciplina il regime processuale dell’incompetenza in ambito concorsuale.
In questa sede si analizzerà il contenuto di detta disposizione raffrontandolo con quanto già previsto dall’art. 9 bis R.D. 16 marzo 1942, n. 267.
Va subito osservato che il legislatore del 2019 ha perso una buona occasione per chiarire alcuni delicati profili riguardanti il tema dell’incompetenza.
Se è vero, infatti, che il legislatore, nel primo periodo del primo comma del predetto art. 29, individua esplicitamente nell’ordinanza la forma del provvedimento dichiarativo dell’incompetenza così eliminando i dubbi generati dalla lettera del predetto art. 9 bis che si limita(va) a fare generico riferimento al “provvedimento che dichiara l'incompetenza” senza indicarne la forma[1], è altresì vero che lo stesso legislatore nulla dice sui margini di applicabilità, nella materia de qua, dell’art. 38 c.p.c.[2].
In linea con quanto già stabilito dal secondo periodo del primo comma del menzionato art. 9 bis, nel secondo periodo del primo comma dell’art. 29, viene poi previsto che l'ordinanza di incompetenza resa dal tribunale – sulla cui impugnabilità con il regolamento di competenza ex art. 42 c.p.c., stante il silenzio serbato dal legislatore sulla utilizzabilità di tale strumento, residuano dubbi[3] (dubbi che, nelle fattispecie in cui viene in rilievo l’istituto della sospensione ex art. 48 c.p.c., involgono anche il tema della compatibilità di detto istituto con le esigenze di celerità proprie delle procedure concorsuali de quibus[4]) – debba essere trasmessa in copia al tribunale dichiarato competente, unitamente agli atti del procedimento. Trasmissione che, ad avviso della Suprema Corte, concretizza una sorta di “translatio iudicii d'imperio”[5] che è idonea a soddisfare esigenze di speditezza e stabilità e che, proprio per ragioni legate alla rilevanza degli interessi (anche di carattere pubblicistico) sottesi alle procedure concorsuali de quibus, andrebbe effettuata immediatamente (come peraltro esplicitamente previsto nel primo periodo del primo comma del menzionato art. 9 bis, ma stranamente non ribadito nell’art. 29).
Dunque, il giudice non può limitarsi a dichiarare la propria incompetenza, ma è gravato dell’onere di inviare copia della pronunzia declinatoria al tribunale indicato come competente, unitamente agli atti della procedura.
Ricevuti gli atti, il tribunale indicato quale giudice competente si trova, a mente del secondo comma dell’art. 29, di fronte ad un bivio: o condivide l’indicazione del primo giudice e dispone la prosecuzione del procedimento pendente, dandone comunicazione alle parti, ovvero, diversamente, se si ritiene incompetente, richiede d'ufficio (con decisione collegiale[6]) il regolamento di competenza ai sensi dell'articolo 45 c.p.c. allo scopo di risolvere (rectius: evitare) il conflitto negativo.
In questo quadro, stupisce, e non poco, che la nuova norma non fissi alcun termine di proposizione di detta istanza di regolamento di competenza d’ufficio. La scelta del legislatore – in controtendenza rispetto all’art. 9 bis, comma 2, R.D. 16 marzo 1942, n. 267, che prevede(va) l’esperibilità dell’istituto del regolamento d’ufficio “entro venti giorni dal ricevimento degli atti”[7] – confligge, invero, palesemente con le esigenze di speditezza che dovrebbero caratterizzare lo svolgimento dei procedimenti disciplinati nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.
2. La statuizione dichiarativa dell’incompetenza del tribunale resa dalla corte d’appello
Il terzo comma dell’art. 29 prende, infine, in considerazione il caso in cui, in accoglimento di uno specifico motivo di impugnazione[8], a dichiarare (con pronunzia impugnabile in Cassazione[9]) l’incompetenza del tribunale sia la Corte d’appello adita in sede di reclamo ex art. 51.
In questa ipotesi – prevede la disposizione –, relativamente alle questioni diverse dalla competenza, dovrà, a norma dell'art. 50 c.p.c., provvedersi alla riassunzione (pena, in mancanza, il passaggio in giudicato della pronunzia del tribunale originariamente adito[10]) dinanzi alla corte di appello che risulta competente in base alla dislocazione del tribunale riconosciuto competente. Riassunzione che, dunque, andrà effettuata non di fronte ad un giudice di primo grado, ma di fronte ad un altro giudice del reclamo (corte d’appello), con la conseguenza che quest’ultimo potrà essere chiamato a statuire su pronunzie rese da tribunali di un diverso distretto[11].
Ovviamente, se il tribunale ritenuto competente dalla corte d’appello appartiene allo stesso distretto di quello erroneamente adito, non dovrà procedersi ad alcuna riassunzione, potendo/dovendo la corte decidere nel merito[12].
L’art. 29 – che ricalca, nella sostanza, quanto stabilito nell’art. 9 bis, comma 4, R.D. 16 marzo 1942, n. 267 –, prevedendo, dunque, la possibilità che il giudizio di reclamo prosegua dinanzi alla corte di appello competente (corte, verosimilmente, non munita del potere di rilevare d’ufficio la propria incompetenza[13]) per lo scrutinio delle questioni diverse dalla competenza, conferma il principio secondo cui la pronunzia del giudice del gravame che dichiara l’incompetenza del Tribunale adito non determina la caducazione del provvedimento reso in primo grado[14].
Posti questi tasselli, occorre interrogarsi sulle vicende, caratterizzanti il giudizio di primo grado, successive alla statuizione dichiarativa dell’incompetenza del tribunale resa dalla corte d’appello.
A tale aspetto l’art. 9 bis dedica(va) il primo periodo del primo comma in cui si prevede(va) che “il provvedimento che dichiara l'incompetenza è trasmesso in copia al tribunale dichiarato incompetente, il quale dispone con decreto l'immediata trasmissione degli atti a quello competente”.
Ai sensi di tale disposizione, la corte d’appello non si limita(va), dunque, ad indicare il giudice competente, ma invia(va) al tribunale originariamente adito copia del provvedimento dichiarativo dell’incompetenza di quest’ultimo. E ciò, anche ai fini di una immediata trasmissione (anche questa qualificata come una translatio d’ufficio[15]) degli atti al giudice dichiarato competente; giudice, quest’ultimo, al quale, tuttavia, resta(va), in caso di ritenuta incompetenza, la possibilità di avanzare istanza di regolamento d’ufficio ex art. 45 c.p.c.[16].
E tale articolazione del modello procedimentale risulta(va) confermata anche dalla relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo che ha introdotto il predetto art. 9 bis. Queste le parole usate nella relazione: l’articolo 9-bis Legge fall. “regola la disciplina del fallimento dichiarato da tribunale incompetente e dispone gli adempimenti conseguenti alla dichiarazione di incompetenza. Si prevede, al fine di non creare dannose soluzioni di continuità nella procedura e di facilitare i successivi adempimenti, che la sentenza che dichiara l’incompetenza non revochi la sentenza di fallimento pronunciata dal tribunale incompetente, ma che la stessa venga trasmessa in copia al tribunale dichiarato incompetente, il quale dispone con decreto la immediata trasmissione degli atti a quello ritenuto competente”; “si dispone che la dichiarazione di incompetenza – all’esito del giudizio di appello o del regolamento di competenza – non comporta la nullità della dichiarazione di fallimento pronunciata... Ciò in considerazione del fatto che nel vigente ordinamento processuale la competenza non viene considerata come un presupposto del processo, la cui mancanza è causa di nullità dello stesso. Tale principio è sancito già nell’articolo 50 del codice di rito. A tale stregua e nella prospettiva acceleratoria dettata dalla delega, la disciplina del fallimento dichiarato dal tribunale incompetente può essere opportunamente modificata nei termini precisati nell’articolo 9-bis. Per cui, fermo restando il carattere inderogabile di detta competenza, non pare più giustificabile che esso debba inesorabilmente comportare la assoluta nullità della sentenza pronunciata dal tribunale incompetente. In realtà, ciò che conta non è tanto il fatto che il fallimento sia stato dichiarato da un tribunale o da un altro, quanto che esso sia stato “correttamente” dichiarato, ossia in presenza di tutti i presupposti sostanziali di legge. La sentenza di fallimento emessa dal tribunale incompetente, quindi, non va dichiarata nulla, ma al contrario deve essere riconosciuta comunque valida ed idonea a fondare una procedura altrettanto valida; circostanza, questa, ulteriormente confermata dalla disposizione secondo la quale restano “salvi gli effetti degli atti precedentemente compiuti” dai primitivi organi della procedura. La disciplina è completata dalla previsione secondo cui il tribunale dichiarato incompetente (al pari di quello che all’esito dell’istruttoria prefallimentare si dichiari incompetente) deve immediatamente trasmettere gli atti a quello dichiarato competente, affinché la procedura fallimentare prosegua dinanzi a quest’ultimo con il nuovo giudice delegato e, se del caso, con il nuovo curatore, fatta salva l’ipotesi – ora espressamente disciplinata – in cui il medesimo tribunale richieda d’ufficio il regolamento (negativo) di competenza ai sensi dell’art. 45 c.p.c.”.
Ebbene, passando adesso alla nuova disciplina, può osservarsi come, stranamente, l’art. 29 non contenga la regola già sancita dal primo periodo del primo comma dell’art. 9 bis che, rispettivamente, impone(va): i) alla corte d’appello di inviare al tribunale originariamente adito copia del provvedimento dichiarativo dell’incompetenza di quest’ultimo; ii) al tribunale dichiarato incompetente di trasmettere, immediatamente, gli atti a quello competente.
Se la mancata conferma di tale regola sia il frutto di una valutazione o di una mera dimenticanza non può dirsi con certezza.
La circostanza, però, che al riguardo nulla di diverso si dica nelle norme – artt. 51, 52 e 53 – che disciplinano il giudizio di reclamo e nella relazione illustrativa spinge a considerare altamente probabile l’ipotesi della dimenticanza.
Non vi sono, dunque, elementi che inducano a ritenere che l’idea del legislatore sia quella di introdurre una translatio diretta dalla corte d’appello al tribunale da quest’ultima ritenuto competente, e dunque di delineare un sistema che non preveda più l’invio della pronunzia del giudice del gravame al tribunale originariamente adito (che, va evidenziato, fino alla declaratoria di incompetenza, è il giudice che ha “gestito” la procedura) e la trasmissione, da parte di quest’ultimo, degli atti al tribunale indicato come competente.
Non sembra, allora, azzardato praticare una operazione ermeneutica che consenta, mutatis mutandis, l’applicazione analogica del secondo periodo del primo comma dell’art. 29, e, dunque, della disposizione che, come già sottolineato, onera il tribunale che si è dichiarato incompetente di trasmettere al giudice ritenuto competente gli atti del procedimento.
E, peraltro, che, nella materia de qua, il “trasferimento” della procedura avvenga, di regola, “da un tribunale all’altro” sembra confermato anche dalla lettera del successivo art. 31; norma, questa, che sancisce, quale regola generale, la salvezza degli effetti degli atti compiuti nel procedimento davanti al giudice incompetente.
Può, allora, concludersi ritenendo che il sistema risulti (ancora) governato da un meccanismo processuale che si articola nell’invio, da parte della corte d’appello, al tribunale originariamente adito di copia del provvedimento dichiarativo dell’incompetenza di quest’ultimo e nella trasmissione, da parte del giudice di primo grado incompetente, degli atti al tribunale indicato come competente.
[1] Cfr. Di Bernardo, Giurisdizione e competenza nelle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza (Parte I – Titolo III – Capi I, II – articoli 26-32), in Giorgetti (a cura di), Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Commento al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, Pacini Giuridica, 2019, 43; Della Rocca – Grieco, Il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Primo commento al D.Lgs. n. 14/2019, Milano, 2019, 43.
[2] In argomento cfr., per tutti, Fabiani, Giurisdizione e competenza, in Jorio – Sassani, Trattato delle procedure concorsuali, I, Introduzione generale. Il fallimento. Presupposti – Processo – Organi, Giuffrè, Milano, 2014, 412 ss.; Russo, Il procedimento per la dichiarazione di fallimento (la fase c.d. prefallimentare), in Apice (diretto e coordinato da), Trattato di Diritto delle procedure concorsuali, Vol. I, La dichiarazione e gli effetti del fallimento, Giappichelli, Torino, 2010, 52 ss.
[3] Per la tesi affermativa cfr. Di Bernardo, Giurisdizione e competenza nelle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza (Parte I – Titolo III – Capi I, II – articoli 26-32), cit., 44, e, con riferimento alla disciplina contenuta nell’art. 9 bis R.D. 16 marzo 1942, n. 267, Cecchella, I presupposti processuali, in Vassalli – Luiso – Gabrielli (diretto da), Trattato di Diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, Il processo di fallimento, vol. II, Giappichelli, Torino, 2014, 49-50; Russo, Il procedimento per la dichiarazione di fallimento (la fase c.d. prefallimentare), cit., 127-128. Relativamente al regime di cui all’art. 9 bis R.D. 16 marzo 1942, n. 267, diversa è la posizione assunta da una parte della giurisprudenza. Al riguardo, cfr. Cass. civ., sez. VI, 21 dicembre 2017, n. 30748, che osserva: “La giurisprudenza, nel sistema anteriore alle riforme degli anni 2006-2007, aveva (…) sia legittimato pienamente la prassi dell'invio informale degli atti al tribunale competente da parte di quello preventivamente adito, sia di conseguenza fissato il principio della inammissibilità del regolamento necessario di competenza ad istanza di parte. Ciò, sulla base della considerazione secondo cui l'art. 42 c.p.c. è applicabile soltanto al processo di cognizione, non alla procedura prefallimentare, regolata da un sistema normativo e da rationes sue proprie. Il legislatore della riforma ha reso precetto la trasmigrazione diretta del processo e la stabilizzazione della competenza nell'ufficio ad quem, salvo che questo sollevi il regolamento di competenza d'ufficio. La disposizione speciale della legge fallimentare prescrive dunque una translatio iudicii d'imperio con decreto del giudice dapprima adìto, che si reputi incompetente, laddove il codice di rito ricollega quell'effetto all'attività delle parti: si opera la translatio direttamente ad opera dell'ufficio, facendosi eccezione alla norma comune dell'art. 50 c.p.c., che richiede un atto di riassunzione della causa della parte interessata davanti al giudice dichiarato competente. La ratio della disposizione è volta a soddisfare una particolare esigenza di celerità e stabilità, non soltanto prevedendo tale meccanismo processuale del mutamento del giudice con salvezza degli atti compiuti, ma anche evitando di affidare unicamente alle parti l'impulso processuale per la prosecuzione del giudizio, che deve pervenire celermente all'accertamento dell'insolvenza ed eventualmente alla dichiarazione di fallimento. La costruzione è ispirata al fine della rapida individuazione del foro competente all'accertamento, concorrente nel soddisfare l'esigenza di certezza e di efficienza. Indubbiamente, essa è l'espressione di un "residuo di officiosità", posto che il processo continua e l'istanza per la dichiarazione d'insolvenza resta efficace, pure in mancanza di riassunzione ad opera della parte davanti al giudice indicato come competente. Ma la norma attuale è stata introdotta dichiaratamente per regolare la materia, recependo il c.d. diritto vivente (…). Deve insomma ritenersi, al riguardo, che sia stata compiutamente accolta la soluzione proposta dal pregresso "diritto vivente": sia, quindi, nel senso di ammettere, ed anzi contemplare come legalmente dovuto, il meccanismo informale di trasmissione diretto degli atti, sia nel senso di escludere implicitamente, in tal caso, il regolamento necessario di competenza, quale conseguenza ineludibile e speciale del meccanismo di accertamento dei presupposti per il fallimento. Si rileva, dunque, una peculiarità della materia fallimentare, atteso il meccanismo officioso di trasmissione del processo al giudice indicato come competente, perché - recependo una prassi risalente - il legislatore ha reputato che soltanto in tal modo si assicurino le esigenze di celerità e di tutela di interessi generali sottese alla procedura. Ad oggi, può aggiungersi l'argomento fondato sull'intenzione del legislatore di svalutare il rilievo dell'incompetenza e di ridurre al minimo l'impatto dell'eventuale vizio: come è dimostrato dai commi 3 e seguenti dell'art. 9-bis legge fall., i quali fanno salvi gli atti compiuti, persino dei processi attratti dalla procedura ex art. 24 legge fall., ed incardinano pur sempre presso il giudice d'appello, sebbene di altro distretto, le questioni di merito, dopo il rilievo della incompetenza nel procedimento ex art. 18 legge fall.. La forma minimale ed officiosa, prevista dall'art. 9-bis legge fall. per la translatio del procedimento volto alla dichiarazione di fallimento, porta dunque con sé la necessaria esclusione per le parti della facoltà di richiedere il regolamento della competenza avverso il provvedimento con il quale il tribunale, per primo adito, si sia dichiarato incompetente. In tal caso, le parti non restano senza tutela al riguardo, potendo ricorrere contro l'affermazione o la negazione della competenza in occasione del reclamo alla corte d'appello avverso la sentenza dichiarativa di fallimento emessa dal tribunale ad quem, ai sensi dell'art. 18 legge fall., oppure con il regolamento facoltativo di competenza di cui all'art. 43 c.p.c., assunti dal tribunale designato come competente da quello per primo adito. Si evitano, in tal modo, anche gli effetti dell'art. 48 c.p.c. (su cui v. Cass., sez. un., 15 maggio 2015, n. 9936), che potrebbero essere attivati ogni volta che sia proposto il regolamento. Infatti, secondo la norma, il processo resta sospeso dal giorno in cui è presentata l'istanza al cancelliere, ad opera della parte che abbia proposto l'istanza di regolamento, perché i relativi fascicoli siano rimessi alla cancelleria della Corte di cassazione. Dunque, salvo il compimento degli atti che ritiene urgenti, come prevede il secondo comma della menzionata disposizione, il processo resterebbe in una situazione di quiescenza che finirebbe per contrastare la lettera e vanificare la ratio dell'art. 9-bis citate”. Per una soluzione diversa cfr. la più recente Cass. civ., sez. I, 31 luglio 2019, n. 20666, secondo cui: “il meccanismo della translatio iudicii d'imperio non risulta decisivo; non si vede perché la sottrazione alle parti dell'iniziativa della riassunzione o la deformalizzazione del procedimento di rimessione possano giustificare la compressione dei loro poteri di impugnativa, considerato che il regolamento di competenza assolve alla insopprimibile funzione di assicurare il controllo immediato e una statuizione definitiva sulla questione di competenza, a garanzia dei principi del giusto processo. Deve, invece, osservarsi che, una volta che il legislatore del 2006 ha disposto l'introduzione del regolamento ex officio, al fine di risolvere i conflitti di competenza tra più tribunali fallimentari, l'invocabilità delle norme del codice di rito, che disciplinano il rimedio anche nella fattispecie in esame, non possa essere messa in discussione, proprio poiché la volontà di riservare unicamente al giudice il potere di adire la Suprema Corte con il regolamento di competenza (così sottraendolo alle parti) avrebbe imposto una chiara ed espressa limitazione in tal senso. Ma di tale rinuncia non v'è traccia di sorta nella novella. La posizione di chiusura espressa dalla giurisprudenza di legittimità sopra ricordata nei confronti del regolamento necessario trova un appiglio negli effetti potenzialmente pregiudizievoli che potrebbero derivare in thesi dalla sospensione automatica del procedimento ex art. 48 c.p.c., quando sia stato promosso il regolamento di competenza. Non può certo negarsi che l'esperimento del gravame allontani nel tempo la dichiarazione di fallimento, a detrimento del ceto creditorio e che il meccanismo si presti così a pericolose tattiche dilatorie. Tuttavia, adducere inconveniens non est solvere argumentum. Va, peraltro, aggiunto che uno strumento che consenta di neutralizzare le conseguenze pregiudizievoli derivanti dallo slittamento del termine di apertura del fallimento è oggi normativamente previsto. Ed invero, dalla lettura combinata dell'art. 48, comma 2, c.p.c. - che consente al giudice di "autorizzare il compimento degli atti che ritiene urgenti" - e dell’art. 15, comma 8, L. fall. (ove al giudice su istanza di parte è riconosciuto il potere di adottare "provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio dell'impresa"), si ricava il potere del tribunale fallimentare - davanti al quale il procedimento prefallimentare è sospeso - di emettere provvedimenti cautelari innominati, compresa la nomina di un amministratore giudiziario, ovvero il sequestro dell'impresa oggetto del provvedimento. Ne consegue che il regolamento di competenza ad istanza di parte (necessario o facoltativo) può ritenersi compatibile con le peculiarità del procedimento prefallimentare sopra riferite…”.
[4] Sulla questione cfr. Santangeli, sub art. 9 bis R.D. 16 marzo 1942, n. 267, in Santangeli (a cura di), Le nuove leggi civili, Il nuovo fallimento, Giuffrè, Milano, 2006, 45, 46 e 49; Cecchella, I presupposti processuali, cit., 51-52.
[5] Cass. civ., sez. VI, 21 dicembre 2017, n. 30748, cit. In dottrina, cfr. Fabiani, Giurisdizione e competenza, cit., 418, secondo cui “la trasmissione degli atti funge da riassunzione officiosa della procedura…e ne produce gli effetti”.
[6] Cfr. Cecchella, I presupposti processuali, cit., 50. In giurisprudenza, nello stesso senso, cfr. Cass. civ., sez. I, 22 settembre 2005, n. 18637.
[7] Ad avviso di Santangeli, sub art. 9 bis R.D. 16 marzo 1942, n. 267, cit., 47, però, “la lettera della disposizione non sembra assegnare al giudice un termine perentorio per la proposizione del regolamento, né il procedimento della camera di consiglio sembra favorire simili costruzioni giurisprudenziali”. Nello stesso senso Cecchella, I presupposti processuali, cit., 50, che osserva: “…non è chiara la conseguenza dell’inosservanza. Con molta probabilità tutto ricade nella ordinarietà, trattandosi di un semplice invito al giudice a non tardare la sua determinazione”. Diversa la posizione di Della Rocca – Grieco, Il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Primo commento al D.Lgs. n. 14/2019, cit., 44, secondo cui la violazione del termine previsto dalla norma determinerebbe l’inammissibilità dell’istanza di regolamento.
[8] In mancanza di una esplicita censura, dovrà, invero, ritenersi che sul capo di pronunzia affermativo della competenza del tribunale adito si sia formato il giudicato. In tal senso anche Santangeli, sub art. 9 bis R.D. 16 marzo 1942, n. 267, cit., 44-45.
[9] Ancora oggi non è ben chiaro se con ricorso ex art. 360 c.p.c. o con regolamento necessario di competenza. In argomento, si veda Santangeli, sub art. 9 bis R.D. 16 marzo 1942, n. 267, cit., 45-46; Fabiani, Giurisdizione e competenza, cit., 424.
[10] Cfr. Santangeli, sub art. 9 bis R.D. 16 marzo 1942, n. 267, cit., 45.
[11] Cfr. Russo, Il procedimento per la dichiarazione di fallimento (la fase c.d. prefallimentare), cit., 65.
[12] Cfr. Russo, Il procedimento per la dichiarazione di fallimento (la fase c.d. prefallimentare), cit., 66; Fabiani, Giurisdizione e competenza, cit., 416, nota n. 153, specifica che “in questo caso si deve sempre applicare l’art. 279 c.p.c., con la conseguenza che la corte, dapprima, dichiara l’incompetenza del tribunale e poi dispone la prosecuzione del processo per l’esame delle questioni di merito; una prosecuzione che, per ragioni di economia processuale, non dovrebbe imporre una formale riassunzione”.
[13] Cfr. Santangeli, sub art. 9 bis R.D. 16 marzo 1942, n. 267, cit., 45.
[14] Ad avviso di Santangeli, sub art. 9 bis R.D. 16 marzo 1942, n. 267, cit., 43-44, il sistema ricavabile dagli artt. 9, 9 bis e 9 ter testimonia “che, quando sia in contestazione la competenza del tribunale adito, la sola incompetenza del tribunale che ha dichiarato il fallimento non può eliminare il fallimento”; “una lettura…innovativa” – prosegue l’autore – “che vede sacrificate le ragioni del rispetto della competenza (con inevitabili riflessi quanto alla sostanziale attenuazione del rispetto del principio della precostituzione per legge del giudice naturale) quando il prezzo da pagare sulla funzionalità della procedura intrapresa sarebbe stato troppo alto”. Osserva Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino, 2012, 66-67: “…con l’art. 9 bis si è statuito che l’accertamento dell’incompetenza nella fase del gravame non comporta la revoca del fallimento e, trasmessi gli atti al giudice competente, questi…dispone la prosecuzione della procedura, provvedendo alla nomina del giudice delegato e del curatore… La sentenza di fallimento…ha essenzialmente la funzione di aprire un procedimento e lo stesso criterio di determinazione della competenza è funzionale proprio allo svolgimento del procedimento, sicché sotto questo profilo si giustifica la scelta legislativa, ancorché non conforme al principio in forza del quale l’accertamento dell’incompetenza in sede di gravame comporta il travolgimento della pronuncia nel merito della sentenza impugnata”.
[15] Cecchella, I presupposti processuali, cit., 50.
[16] Cfr. Santangeli, sub art. 9 bis R.D. 16 marzo 1942, n. 267, cit., 45.