Pubbl. Gio, 25 Giu 2020
Concorso magistratura: i problemi applicativi del reato ex art. 416 bis c.p. nei casi di delocalizzazione delle mafie
Modifica paginaIl presente contributo mira ad esaminare la struttura dell´art. 416 bis c.p. partendo dalla sua genesi per poi soffermarsi sugli elementi essenziali costitutivi del reato, in particolar modo il c.d. ”metodo mafioso”. Verrà quindi trattato il principale aspetto relativo ai problemi applicativi della norma al fenomeno delle delocalizzazioni delle mafie, ovvero quelle articolazioni strettamente connesse alla ”casa madre”ma operanti in un differente territorio.
Sommario: 1. Genesi dell´art 416 bis c.p. - 2. Gli elementi costitutivi del reato: il metodo mafioso; 3. La delocalizzazione delle mafie: problemi applicativi dell´art. 416 bis c.p.
1. Genesi dell'art. 416 bis c.p.
Già dai primi anni successivi all’Unità d’Italia, non mancarono denunce relative alla pericolosità sociale e politica della mafia. Se in una prima fase si elaborarono tesi e argomentazioni atte a negare l’esistenza del fenomeno associativo mafioso, durante la prima metà del 1900 la giurisprudenza iniziò a offrire i suoi primi contributi a riguardo: la Suprema Corte di Cassazione, nel 1939, stabilì che affinché si possa parlare di sodalizio associativo “basta che sia provata la partecipazione degli imputati alla mafia locale e alle riunioni nelle quali si siano progettati i vari delitti commessi nelle località, senza che sia necessaria la condanna degli imputati per tali delitti”. (Cass, 31 marzo 1939)
Secondo l’originario impianto normativo del codice penale, solo il delitto di associazione per delinquere ex art.416 forniva la base legale su cui imperniare la repressione della condotta mafiosa. In dottrina, non mancarono vistose polemiche a riguardo; Antolisei ad esempio, sostenne che l’associazione mafiosa non avrebbe integrato il delitto di cui all’art 416 c.p stante l’impossibilità di individuare lo specifico programma criminogeno. Di opinione differente fu invece Manzini, il quale ritenne possibile la condanna del modus mafioso ex art 416, purché sia dimostrata l’aggregazione e l’accordo associativo. Tale verifica si sarebbe dovuta realizzare caso per caso in quanto i destinatari delle norme incriminatrici sono sempre i singoli e non i gruppi associati in quanto tali.
Da quanto sopra esposto appare evidente che il problema di maggior rilievo risiedeva nella mancanza di una norma ad hoc che permettesse di reprimere il fenomeno mafioso con una previsione altamente specializzata.
Infatti, i fenomeni associativi delinquenziali e associativi mafiosi sono estremamente diversi tra loro e necessitano di diverso trattamento in sede penale: mentre il “semplice associato” mira, in concorso con almeno altre tre persone, a commettere una serie di delitti, l’associato mafioso ricorre al c.d “metodo mafioso” caratterizzato dalla forza di intimidazione, dal vincolo associativo e dalla condizione di assoggettamento ed omertà. A questa vacatio normativa, il legislatore tentò di apporre rimedio mediante l’utilizzo di previsioni extrapenali. La legge n. 575 del 31 maggio 1965 recante “ disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere” estese agli imputati per mafia alcune misure di sorveglianza speciale, prevedendo all’art 2 bis che: “Il procuratore della Repubblica o il questore competente a richiedere l'applicazione di una misura di prevenzione procedono, anche a mezzo della polizia tributaria della guardia di finanza, ad indagini sul tenore di vita, sulle disponibilità finanziarie e sul patrimonio, anche al fine di accertarne la provenienza, delle persone nei cui confronti possa essere proposta una misura di prevenzione perché' indiziate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso o ad alcuna delle associazioni previste dall'articolo Accertano fra l'altro se le suddette persone siano titolari di licenze di polizia, di commercio, di commissionario astatore presso mercati annonari all'ingrosso, di concessione di acque pubbliche e diritti inerenti, nonché' se risultino iscritte ad albi professionali, di appaltatori di opere o forniture pubbliche o all'albo nazionale dei costruttori. Le indagini sono effettuate anche nei confronti del coniuge, dei figli e di coloro che nell'ultimo quinquennio hanno convissuto con le persone indicate nel comma precedente, nonché' nei confronti delle persone fisiche o giuridiche, associazioni od enti del cui patrimonio dette persone risultino poter disporre in tutto o in parte, direttamente o indirettamente”. Tali previsioni, seppur aspre, non sortirono l’effetto sperato. Nella terza metà del 1900 la presa della mafia su alcuni settori produttivi ed imprenditoriali del paese non accinse ad allentarsi.
All’indomani dell’omicidio da parte della mafia del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, lo Stato reagì duramente con la promulgazione della legge 646/1982 che introdusse nel nostro sistema penale l’art 416 bis c.p. ponendo fine a tutte le diatribe dottrinali e giurisprudenziali circa la base legale su cui costruire l’impianto repressivo del fenomeno mafioso. Da questo momento in poi, l’art.416 bis rappresentò uno strumento fondamentale di operatività in mano alla magistratura inquirente e giudicante. I giudici Chinnici e Montalto prima e Falcone e Borsellino poi, portarono alla sbarra centinaia di associati nel più che noto Maxiprocesso di Palermo, il quale si concluse in primo grado con 19 condanne all’ergastolo e un totale di anni di pene detentive pari a 2665.
2. Elementi costitutivi del reato; il c.d. metodo mafioso
Il reato ex art. 416 bis c.p. è contrassegnato dal c.d. “metodo mafioso”. Esso non è una componente della condotta ma un dato di qualificazione del sodalizio e si connota, dal lato attivo, per l’utilizzazione da parte degli associati della carica intimidatrice nascente dal vincolo associativo e, dal lato passivo, per la situazione di assoggettamento e omertà che tale forza imprime verso l’esterno, cioè nei confronti dei soggetti nei riguardi dei quali si dirige l’attività delittuosa. (Cass, sez. VI, 10/2/2000 n. 1612)
Partendo da tale sentenza, vi è da dire che il metodo mafioso consta di 3 elementi essenziali strettamente connessi tra loro: la forza intimidatrice, l’assoggettamento e l’omertà. Tali concetti, tuttavia, configurano certamente un modello astratto di fattispecie criminosa essendo estranei al lessico giuridico-penale. Da qui la giurisprudenza tentò di definire in modo esatto il significato di tali formule. Una prima interpretazione, in ossequio ai principi di tassatività e offensività, stabilì che la forza intimidatrice era un requisito oggettivo della fattispecie, uno strumento attraverso il quale gli associati esercitavano il loro modus operandi (Cass., Sez. I, 25 febbraio 1991, n. 6203).
La forza intimidatrice, quale elemento essenziale, si può desumere non soltanto dalle circostanze obiettive, ma anche dalla percezione della collettività, la quale è costretta al vincolo di omertà.
Secondo un orientamento della Corte di Cassazione (Cass, n. 215965/2000, riportato in G. Turone: “ il delitto di associazione mafiosa”, Giuffrè editore) la forza di intimidazione consta di due elementi; quello statico riguarda la carica intimidatoria quale caratteristica in se derivante dall’attualità, quello dinamico riguarda lo sfruttamento di tale forza, che può quindi riguardare anche una “potenzialità” e non un effettivo esercizio. Per quanto riguarda gli altri due elementi essenziali ovvero l’assoggettamento e l’omertà, essi costituiscono il fisiologico e consequenziale risvolto della forza intimidatrice.
La nozione di omertà si estrinseca con il rifiuto a collaborare, da parte deli associati, con gli organi dello Stato. Tale rifiuto può derivare non solo dalla paura per i danni che il sodalizio potrebbe arrecare alla persona o ai suoi familiari, ma anche dalle minacce attuate dagli associati, atte ad insinuare nella collettività la convinzione che la collaborazione giudiziaria comporterà dannose ritorsioni.
L’assoggettamento è quindi strettamente correlato all’omertà e ricomprende sia la posizione di sottomissione di un associato rispetto al suo “superiore”, sia la rilevanza che l’entità associativa riveste nel suo esterno, ingenerando un comune sentire caratterizzato da soggezione di fronte alla forza prevaricatrice ed intimidatrice del gruppo (Cass., 18/4/2012 n. 35627).
3. La delocalizzane delle mafie: problemi applicativi dell'art. 416 bis c.p.
Da quanto sopra esposto e dall’esame degli elementi essenziali del metodo mafioso, deriva che la presenza costante e intimidatrice di un’associazione ben radicata nel territorio non da luogo a problemi applicativi circa la norma del 416 bis. Ciò che invece è stato ampiamente dibattuto e discusso in dottrina e in giurisprudenza è l’applicabilità alla c.d. mafia delocalizzata.
La delocalizzazione è quel fenomeno che prevede delle articolazioni mafiose di tipo consortile sviluppatesi al di fuori del territorio in cui opera la c.d. “casa madre”.
La mafia, quale fenomeno in sé, si è esteso durante gli anni anche in territori distanti dalla sua normale zona di operatività giungendo dapprima nel nord Italia e poi anche all’estero.
Il punto di partenza della nostra analisi è rappresentato dalla operazione “Crimine infinito” la quale ebbe come target la ‘ndrangheta calabrese operante in Lombardia. In tale occasione fu riconosciuto da un lato il carattere unitario del sodalizio criminale, dall’altra la sua capacità di organizzarsi in articolazioni territoriali c.d. “locali” strettamente connesse alla “casa madre” e quindi legate ad essa da quel vincolo di assoggettamento quale requisito essenziale di operatività dell’art 416 bis.
Dalle mosse di tale operazione, nacquero alcune teorie estensive secondo le quali in alcune occasioni, si sarebbe potuto giungere ad una condanna in sede penale a prescindere dalla presenza o meno di quegli elementi elencati nel terzo comma dell’art.416 bis considerando prova regina quella del collegamento tra casa madre e mafia locale. Dall’altro lato, le teorie restrittive impongono la sussistenza, caso per caso, di tutti quegli elementi essenziali che si estrinsecano nell’effettivo esercizio del metodo mafioso. A seguito di ciò, si è instaurato un acceso dibattito, il quale, non troverà certamente fine nella ordinanza del 17 luglio 2019 della Corte di Cassazione, nella quale, il Presidente, nell’enunciare alcuni principi di diritto, non prende una netta decisione rispetto ad una o all’altra tesi, ma restituisce gli atti al Presidente della Prima Sezione per una loro più attenta valutazione.
Tuttavia, in tale occasione viene realizzato un netto distinguo del fenomeno della delocalizzazione: a) il nuovo soggetto costituisce una struttura autonoma e originale anche se adotta lo stesso modus operandi di una mafia storica; b) il nuovo soggetto è una mera articolazione territoriale di una storica associazione, ed è quindi in stretto rapporto di dipendenza funzionale con al “casa madre”.
La differenza tra le due manifestazioni non attiene alla capacità intimidatrice del sodalizio, che è comunque necessaria affinché si configuri il reato di specie, ma nella prova dell’esteriorizzazione del metodo mafioso.
L’asse ermeneutico deve quindi per forza di cose spostarsi sul tema della corretta valutazione delle evidenze probatorie, essendo necessario accertare la stretta connessione tra cellule e casa madre. L’esistenza del metodo mafioso può inoltre manifestarsi anche in modo “silente” cioè in assenza di avvenimenti diretti o minacce, ma avvalorati dalla sola “fama criminale” conseguita nel corso degli anni (Cass., n. 21562/15).
Il principio di diritto esposto nell'ordinanza n. 21562 del 2015 è quindi quello secondo il quale: “è sempre richiesta per poter riconoscere la natura mafiosa dell’articolazione territoriale, una capacità intimidatrice effettiva ed obiettivamente riscontrabile”.
Tale indirizzo appare, a parere dello scrivente, del tutto logico se si considera che la conclusione opposta (ovvero la non necessaria valutazione degli elementi caratteristici del metodo mafioso circa l’applicabilità del 416 bis alle mafie localizzate, essendo sufficiente in tal senso le prove dell’esistenza di una mera struttura gerarchica), porterebbe ad una caducazione della norma in esame quale fattispecie autonoma rispetto all’art. 416 e mal conciliabile con il maggior rigore sanzionatorio rispetto alla fattispecie dell’associazione per delinquere.