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Pubbl. Gio, 6 Ago 2015

Le Sezioni Unite sul danno tanatologico: "molto rumore per nulla".

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Rosa Mugavero


La Corte di Cassazione si inserisce nel solco dell’orientamento tradizionale, optando quindi per la tesi del nulla è cambiato: sì al danno biologico pre-mortale, no al danno tanatologico.


Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza del 22 luglio 2015 n. 15350 dirimono il contrasto interpretativo registrato dalla III Sezione Civile con l'ordinanza di rimessione del 4 marzo 2014, relativo all'ubi consistam del c.d. danno tanatologico.

Ebbene la Suprema Corte ha impiegato ben sedici mesi per giungere ad una soluzione tutt'altro che epocale, disattendendo le aspettative di coloro i quali speravano in un autorevole revirement giurisprudenziale, in grado di scardinare il tradizionale orientamento assestato sulla irrisarcibilità del danno da morte immediata.

La rilevanza e la delicatezza del dibattito si spiegano se solo si pone mente al fatto che si tratta di decidere le sorti di un diritto della personalità, il più importante di tutti: il diritto alla vita. A ciò si aggiunga che rispetto ad esso il risarcimento del danno costituisce, oltre che "forma minimale di tutela", l'unica tecnica rimediale in concreto esperibile, dato che l'azione inibitoria (rimedio ulteriore generalmente posto a presidio dei diritti della personalità) presupponendo la perduranza della lesione del bene della vita e la possibilità della sua cessazione, risulta in concreto impraticabile.

E’ sul crinale risarcitorio che quindi gli interpreti hanno focalizzato maggiormente l’attenzione, dando vita ad una “frode delle etichette” (danno tanatologico, danno catastrofale, danno da lucida agonia, danno da morte immediata, danno da perdita del diritto alla vita, danno biologico terminale ecc.) che in fondo non è altro che sintomo di una incertezza qualificatoria. Dello spessore interpretativo della questione si è mostrata ben consapevole la giurisprudenza, che sin dagli inizi del XX secolo ha sempre tenuto un costante atteggiamento di self-restraint, passando essenzialmente per due fasi evolutive: ferma restando la negazione del risarcimento del danno da lesione del diritto alla vita ex se (cfr. ex multis Cass. Sez. Unite 22 dicembre 1925, n. 3475), si è gradualmente attribuito agli eredi del de cuius, per il pregiudizio letale da questi patito, il risarcimento dapprima del solo danno biologico subito dal defunto nel caso in cui si riscontri un apprezzabile lasso di tempo tra la lesione e la morte (vd. Corte Costituzionale n. 372 del 1994); successivamente a partire dalla storica pronuncia delle Sezioni Unite n. 26972 del 2008 la tutela risarcitoria è stata riconosciuta anche a "ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l’agonia in consapevole attesa della fine", qualificando tale tipo di danno come danno morale.

In sostanza quindi, la giurisprudenza di legittimità è sempre stata restia ad attribuire piena cittadinanza nel nostro ordinamento al danno tanatologico, e attraverso l'utilizzo di un criterio cronometrico (lasso di tempo apprezzabile/breve) unitamente ad altre condizioni, concepisce il ristoro del solo danno biologico terminale e del danno morale catastrofale, ma preclude agli eredi di agire per il ristoro del danno tanatologico, cioè da morte immediata. Tanto sulla base del più volte dichiarato rispetto dei principi fondanti il vigente sistema di responsabilità civile, tra i quali primeggiano la risarcibilità dei soli "danni-conseguenza" nonchè la funzione riparatoria primariamente assolta dalla tecnica di tutela del risarcimento del danno.

Nondimeno non possono sottacersi le preoccupazioni di tipo schiettamente economico di cui questa giurisprudenza si fa portavoce e che traspaiono più o meno velatamente dalle sentenze che si sono avvicendate sul punto, tese a perseguire il meno nobile (rispetto alla tutela del diritto alla vita) obiettivo di evitare che gli eredi del defunto, attraverso il cumulo della pretesa risarcitoria avanzata iure proprio (per la perdita del rapporto parentale) con il diritto al risarcimento del danno tanatologico vantato iure hereditatis, possano conseguire una sorta di over-compensation, col pericolo di dare così la stura a giudizi risarcitori del tutto pretestuosi.

Su questo dibattito tutt'altro che sopito piomba la Cassazione con una rivoluzionaria sentenza del 23 gennaio 2014 n. 1361, dando vita al contrasto interpretativo dal quale prendono le mosse le Sezioni Unite che qui si commentano: dal principio di diritto espresso consapevolmente nella sentenza si ricava che

"deve ritenersi risarcibile iure hereditario il danno da perdita della vita immediatamente conseguente alle lesioni riportate a seguito di un incidente stradale".

La Cassazione con un repentino balzo in avanti sul fronte della tutela dei diritti fondamentali della persona, superando le argomentazioni poste a sostegno del pluridecennale orientamento negazionista, ritiene che 

"la perdita della vita non può lasciarsi priva di tutela (anche) civilistica" poichè " il diritto alla vita è altro e diverso dal diritto alla salute" cosicchè la sua risarcibilità "costituisce realtà ontologica ed imprescindibile eccezione al principio della risarcibilità dei soli danni conseguenza".

Come anticipato, le recenti Sezioni Unite non raccolgono la coraggiosa sfida interpretativa lanciata dalla sentenza Scarano, e preferiscono rientrare nei più confortevoli ranghi della prevalente tesi negazionista, sconfessando punto per punto le obiezioni mosse e non introducendo nessun elemento di novità nel dibattito, perdendo un’importante occasione anche per fare luce sulle numerose criticità rilevate dalla dottrina e mai superate.

Molteplici le argomentazioni esposte dalle Sezioni Unite nel motivare ancora una volta e senza un particolare sforzo dogmatico la tesi della irrisarcibilità del danno tanatologico (da morte immediata), abbracciando quasi supinamente le riflessioni già note in parte qua nella precedente giurisprudenza.

La Cassazione parte dal dato assolutamente incontestato, sul quale ormai non si registra più alcun contrasto in giurisprudenza: la consacrazione della risarcibilità dei danni (biologici, per la tesi prevalente) derivanti dalla morte che segua dopo un apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni.

Così circoscritto il campo d’indagine, la Suprema Corte incede analizzando il vero punctum dolens della questione e cioè il problema della "risarcibilità iure hereditatis del danno da perdita della vita immediatamente conseguente alle lesioni derivanti da un fatto illecito".

Il primo argomento (definito "epicureo") che la Corte utilizza per negare il risarcimento di tale tipo di danno è rappresentato dalla considerazione della mancanza in rerum natura del suo titolare: posto che il danno si identifica nella perdita della vita, la quale costituisce un bene autonomo non riducibile alla massima lesione del bene salute, il pregiudizio causalmente ricollegabile non è suscettibile di essere risarcito per equivalente in quanto nel momento in cui si verifica la lesione non esiste più il soggetto al patrimonio del quale la perdita sia collegabile.

Non convince nemmeno l'affermazione della tesi opposta che fa leva sulla coscienza sociale, che sarebbe irrimediabilmente vulnerata dalla irrisarcibilità del danno tanatologico. Le Sezioni Unite affermano infatti che tale richiamo non sarebbe nè indicativo nè probante, ma anzi assurgerebbe a nient'altro che grimaldello per far conseguire ai congiunti un risarcimento più economicamente consistente.

A scalfire ulteriormente le basi dell'orientamento favorevole al ristoro del danno da morte immediata le Sezioni Unite sconfessano anche la ricorrente affermazione secondo la quale sarebbe "più conveniente uccidere che ferire", spesso accompagnata anche dalla considerazione di tipo logico-sistematico della inconciliabilità anche con il sistema penale, che sanziona più gravemente l'omicidio rispetto alle lesioni. L'Alto Consesso infatti apostrofa tale argomentare come "suggestivo" ma non per questo convincente: in primo luogo perchè risulta indimostrato che la sola esclusione del diritto al risarcimento del danno iure hereditario comporti una liquidazione inferiore in favore degli eredi; ma anche e soprattutto per la ribadita autonomia del sistema penale rispetto alla logica prettamente reintegratoria e riparatoria del sistema della responsabilità civile, che ripudia qualsiasi rigurgito sanzionatorio, come del resto è dimostrato dal non accoglimento nel nostro ordinamento dei cc.dd. danni punitivi.

Da ultimo la Suprema Corte confuta una delle affermazioni più dirompenti della tesi opposta, in ossequio alla quale il danno tanatologico si configurerebbe come una vistosa eccezione al principio della risarcibilità dei soli danni conseguenza. Ebbene le Sezioni Unite superano anche tale assunto, sulla duplice considerazione che da un lato la portata della deroga sarebbe tale da vulnerare la regola generale, dall’altro che si incorrerebbe nell’equivoco di porre nel nulla la distinzione tra bene salute e bene vita.

Se questo è ad oggi lo stato dell’arte, dalle coordinate ermeneutiche tracciate dalle Sezioni Unite n. 15350 del 2015 non si percepisce la stessa aria di rinnovamento che ormai si respirava all’indomani della sentenza Scarano. La Corte si lascia sfuggire un’occasione propizia per attribuire al danno tanatologico la piena ed effettiva dignità giuridica, tanto agognata e spesso contrabbandata dietro voci di danno create ad arte per soddisfare l’esigenza (formale) di non stravolgere le coordinate classiche del sistema della responsabilità civile. 

Non può tuttavia sottacersi che dietro tale tecnicismo e sforzo dogmatico si annidano preoccupazioni di tipo sostanziale, tese a contenere nei limiti del danno da perdita del rapporto parentale le pretese risarcitorie dei prossimi congiunti.

Ma c’è di più: non solo la Corte abbraccia la tesi negativa adducendo a sostegno gli argomenti già noti alla prevalente giurisprudenza senza fornire chiarimento alcuno sebbene auspicabile (ad es. relativamente al concetto di “apprezzabile lasso di tempo”), ma compie addirittura un passo indietro rispetto agli approdi giurisprudenziali cui si è pervenuti con le già citate Sezioni Unite San Martino.

Da un’attenta lettura della motivazione infatti le Sezioni Unite, dopo aver ribadito la pacifica ristorabilità del danno biologico premortale che si verifica allorquando la morte segua dopo un apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni, si dilungano in una serrata critica della tesi positiva al risarcimento del danno tanatologico, senza fare minimamente cenno alla possibilità (profilatasi a partire dalle Sezioni Unite 26972 del 2008) di risarcire il danno morale c.d. catastrofico nel caso in cui la morte segua dopo un breve lasso di tempo dall’evento lesivo.

Il risultato è che nella sostanza si spostano indietro le lancette dell’orologio, equiparando il danno da morte immediata a quello da morte quasi-immediata, di guisa da ridurre lo strumentario delle tutele (rectius precludere il risarcimento del danno) a disposizione dei congiunti delle vittime di fatti illeciti produttivi di eventi letali.