Pubbl. Lun, 1 Giu 2020
Ius educandi o corrigendi: profili penali e psico-pedagogici dell´abuso
Modifica paginaautori Simona Pecora Cucchiara , Luca Collura
Il presente lavoro, partendo da un inquadramento dello ius educandi o corrigendi nel nostro ordinamento giuridico, è volto ad individuare le conseguenze di un abuso del medesimo da parte degli educatori nel contesto scolastico, avendo cura di indagare non soltanto quelle di natura penale ma anche quelle di matrice psico-pedagogica.
Sommario: 1. Premessa: il concetto di ius educandi o corrigendi – 2. I limiti legislativi al diritto di educare – 3. L’abuso di ius educandi: quali sono le conseguenze psico-pedadogiche? – 4. Conclusioni
1. Premessa: il concetto di ius educandi o corrigendi
Per ius educandi o corrigendi[1] si intende generalmente il diritto riconosciuto in capo a soggetti che ricoprono posizioni di autorità e che dunque possono impiegare l'uso della violenza fisica o morale nei confronti di coloro che risultano essere assoggettati a tale loro autorità onde educarli o comunque correggerne comportamenti non rispondenti alle regole del diritto o della civile convivenza.
Se l’esempio certamente più immediato da richiamare è quello dei genitori – che, per motivi evidenti, sono, entro certi limiti, non solo “autorizzati” ma anche “tenuti” ad utilizzare, quando necessario, dei mezzi di coercizione fisica o morale onde impartire ai propri figli un’adeguata educazione e correggerne comportamenti non desiderabili (e ciò è indirettamente riconosciuto addirittura dall’art. 30 della nostra Carta costituzionale) –, non v’è chi non veda come altro titolare del diritto in commento sia l’educatore (o docente o pedagogista)[2], il quale, nel contesto scolastico ma non solo, è chiamato non soltanto a trasmettere la conoscenza ma pure ad “insegnare” quali siano i comportamenti più consoni per far parte della società di appartenenza, onde evitare che, alla fine del percorso educativo, il discente finisca, benché altamente istruito, per risultare poco inserito nel contesto sociale di riferimento, in quanto non sufficientemente “educato” a tenere comportamenti che, secondo il comune sentire, si confacciano alle regole, non scritte, della civile convivenza.
Se ciò è vero non lo è di meno il fatto che l'art. 13 della Costituzione sancisce espressamente come inviolabile il diritto alla libertà personale e morale e lo tutela contro lo smoderato utilizzo dei mezzi di coazione fisica e morale[3].
2. I limiti legislativi al diritto di educare
Dal breve inquadramento sin qui condotto risulta evidente che, malgrado esista – e, rispetto a specifici ambiti, sia riconosciuto anche a livello costituzionale –, lo ius educandi può concretamente risultare in contrasto con altro diritto fondamentale della persona quale quello “inviolabile” alla libertà personale e morale, che si pone anche come indefettibile e logico presupposto per l’esercizio di qualunque altro diritto costituzionalmente riconosciuto.
Di questa circostanza si è reso conto anche il nostro legislatore, che, con l’intento di apprestare un’adeguata tutela al predetto inviolabile diritto al contempo escludendo qualunque presa di posizione circa la prevalenza di esso sullo ius educandi, ha introdotto nel codice penale l’art. 571, evocativamente rubricato “Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina”, con il quale egli ha inteso punire colui che, investito del potere-dovere, tra l’altro, di educare una persona, abusi del potere disciplinare o correttivo riconosciutogli dall’ordinamento, trasmodando in apprezzabile eccesso l’uso che questi ne faccia[4]. Tuttavia la condotta – per la quale è sufficiente anche il semplice dolo eventuale[5] – risulterà punibile soltanto ove tale abuso cagioni alla persona offesa quanto meno il pericolo di soffrire una malattia nel corpo o nella mente: condicio sine qua non per la punibilità della condotta è quindi che l’agente metta la persona offesa in pericolo di subire delle ripercussioni fisiche o psicologiche[6].
Con questa disposizione il conditor legis, volutamente ricorrendo al termine “abuso”, ha sottinteso che l’utilizzo di mezzi di coercizione fisica o morale da parte dell’educatore nei confronti del discente è lecito purché esso non travalichi determinati limiti oltre i quali l’uso si trasforma in abuso e non può più dunque ritenersi consentito.
A fronte di ciò, lo ius educandi quindi è da inquadrare tra le cosiddette cause scriminanti o di giustificazione, vale a dire quelle circostanze al ricorrere delle quali colui che abbia commesso un fatto di reato non è comunque punibile in quanto lo ha fatto in presenza di una causa che ne giustificava il compimento. In particolare lo ius educandi è da ritenersi ricompreso nell’alveo dell’art. 51 c.p., il quale dispone che «L’esercizio di un diritto […] esclude la punibilità», disposizione comunemente ritenuta espressione del principio di non contraddizione, nel senso che non sarebbe internamente coerente l’ordinamento che attribuisca un diritto e poi ne punisca l’esercizio.
Per l’operare della causa di giustificazione è tuttavia necessario che l’attività posta in essere sia una corretta espressione del diritto asseritamente esercitato, realizzandosi diversamente un abuso del diritto (nel nostro caso, appunto, un abuso di mezzi di correzione o di disciplina)[7]. Proprio su questo aspetto è stata fondamentale l’opera esegetica condotta negli anni dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, la quale ha stabilito che possono ritenersi ammessi da parte dell’educatore atti di pressione morale o di coercizione fisica volti a rafforzare nel discente il sentimento di proibizione di manifestazioni di gratuita indisciplina o ad impedirne condotte violente mentre sarebbe comunque non giustificabile l’uso di mezzi di coartazione volti all’umiliazione del discente o all’oggettivizzazione del medesimo attraverso la sua trasformazione in un esempio per altri che volessero imitarlo (i.e. i casi di c.d. “pena esemplare”)[8].
Tuttavia, malgrado il legislatore abbia esplicitamente previsto una sanzione per i casi di abuso in parola, vi sono poi delle situazioni in cui il comportamento dell’educatore non può più dirsi rientrante nell’ambito di applicazione dell’art. 571 c.p. ma sfocia in quello dell’art. 572 c.p., che punisce, tra l’altro, chi – anche con semplice dolo generico[9] – maltratti una persona sottoposta alla propria autorità per ragioni di educazione «fuori dei casi indicati nell’articolo precedente».
È lo stesso art. 572 c.p., infatti, che si pone come norma di chiusura volta a non lasciare impunito chi, non essendo sanzionabile ai sensi dell’art. 571 c.p., abbia comunque tenuto un comportamento penalmente rilevante. Occorre però comprendere quale sia la sottile linea di demarcazione tra i casi qualificabili come “abuso di mezzi di correzione o di disciplina” e quelli che invece integrano dei “maltrattamenti contro familiari o conviventi”, per i quali il conditor legis ha previsto un trattamento sanzionatorio ben più grave, vista la costanza con cui le vessazioni vengono poste in essere.
Secondo chi si è occupato del tema[10] la differenza consiste proprio nel carattere di sistematicità che qualifica il ricorso all’uso di mezzi di coazione fisica e/o morale da parte dell’educatore. In nuce, se costui si rende responsabile di un abuso di ius educandi limitato sotto un profilo cronologico, si ricadrà nell’ambito dell’art. 571 c.p.; qualora, di converso, l’abuso cessi di essere lo sporadico frutto di circostanze contingenti ed assuma invece caratteri di sistematicità e ricorrenza, tanto da smettere di essere l’eccezione per trasformarsi in regola comportamentale, esso non sarà più sussumibile nell’alveo dell’abuso di mezzi di correzione o disciplina ma andrà ad integrare il più grave reato di c.d. maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p.[11]
Ad esito di ciò possiamo affermare che, attraverso le disposizioni penali in commento, il nostro legislatore abbia voluto compiere una difficile opera di bilanciamento tra la necessità di impartire, a chi non ce l’abbia, un’educazione adeguata alla corretta convivenza civile e quella di evitare che, per perseguire tale finalità, l’educatore finisca con l’abusare di tale suo diritto-dovere, utilizzando metodi in concreto eccedenti lo scopo o comunque non adeguati. L’attenta analisi dottrinale e giurisprudenziale su quali siano poi in concreto i limiti entro i quali il diritto-dovere de quo può essere esercitato, nonostante la non unanimità di pensiero che la caratterizza, ci conduce a poter fondatamente sostenere che siano da ritenere ammissibili quelle forme di coercizione morale o fisica finalizzate a mettere in risalto la non correttezza di determinati comportamenti o ad evitare manifestazioni di aggressività da parte del discente, purché essi non sfocino in fenomeni di umiliazione, vessazione o oggettivizzazione di costui, non siano caratterizzati da sistematicità e non risultino comunque eccessivi in un’ottica di proporzionalità tra fine perseguito e mezzi utilizzati per raggiungerlo.
3. L’abuso di ius educandi: quali sono le conseguenze psico-pedagogiche?
Atteso che l’art. 571 c.p. rende punibile la condotta abusiva qualora da essi derivi quanto meno il pericolo di una malattia, oltre che al corpo, alla mente della persona offesa, occorre ora indagare, alla luce delle più recenti ricerche in ambito psicologico e pedagogico[12], quali possano essere in concreto le conseguenze che il discente[13] potrebbe subire.
Per prima cosa il bambino maltrattato o abusato può presentare una variazione nelle sue normali attività, ovvero nell‘alimentazione, nel sonno, nel gioco[14]. L’essere sottoposto ad abusi da parte del proprio insegnante, infatti, può causare nel discente ripercussioni emotive che non rimarranno limitate allo spatium temporis in cui egli si trova all’interno dell’ambiente scolastico ma che sono destinate ad influenzare la sua vita di tutti i giorni anche oltre il contesto all’interno del quale gli abusi vengono perpetrati.
Se l’abuso non viene subito riscontrato ed eliminato, poi, la semplice variazione delle attività della vita quotidiana può sfociare in situazioni ben più gravi quali depressione, disturbi d'ansia, disturbi alimentari, disfunzioni sessuali, disturbi dissociativi, disturbi della personalità, disturbi post traumatici e abuso di sostanze stupefacenti, nonché in condizioni di sfiducia da parte del bambino nei confronti degli adulti, nei quali finisce per vedere soggetti che, anziché curarsi di lui e dei suoi bisogni, tradiscono costantemente la sua fiducia, sottoponendolo a vessazioni ingiustificate[15].
L’abuso dello ius educandi, poi, può risultare anche controproducente: anziché portare ad un miglioramento delle prestazioni scolastiche e ad un adeguamento dei propri comportamenti a quelli socialmente conformi e richiesti può anzi condurre il discente ad un peggioramento. Come insegnano i fautori dell’approccio socio-costruttivista[16], nell’apprendimento un ruolo di grande importanza è giocato dal contesto sociale e culturale in cui esso avviene. Le condizioni dell’ambiente esterno in cui vive, insomma, hanno un profondo impatto nello sviluppo del discente e influenzano enormemente la sua capacità di apprendere e di assimilare gli insegnamenti che gli vengono dati[17].
Come è stato icasticamente ritenuto[18], infatti, «Lo sviluppo umano è intesto come un viaggio continuo e talvolta imprevedibile attraverso la vita, facendo leva da mari ormai familiari verso oceani per ora sconosciuti in direzione di destinazioni ancora da immaginare, da definire, da ridefinire nel corso del viaggio; tutto ciò mentre circostanze inattese occasionalmente trasformano, spesso in modi imprevisti, la nostra nave, le nostre capacità di velisti e gli oceani sopra cui navighiamo».
Per questi motivi non pare illogico che i metodi di coazione fisica e morale utilizzabili nei confronti dei discenti siano cambiati nel corso del tempo e sarebbe forse auspicabile un ulteriore rimodulazione di quelli attualmente in essere, onde renderli quanto più possibile idonei ad ottenere i risultati educativi cui in ultima istanza il loro utilizzo tende e leciti sotto il profilo più squisitamente penale.
4. Conclusioni
L’indagine sin qui condotta ci permette di trarre alcune importanti conclusioni circa la posizione dell’educatore che agisca nel contesto scolastico.
Preliminarmente occorre sottolineare ch’egli è chiamato ad un ruolo di assoluta importanza estrinsecantesi nel potere-dovere di trasmettere ai discenti non solo dei freddi concetti scientifici ma anche di insegnare loro quali sono i valori di fondo su cui la nostra società si basa e a come adeguare ad essi i loro comportamenti: non soltanto, quindi, a farsi “maestro di scienza” ma anche maestro di vita.
Nel fare ciò egli può, quando necessario, ricorrere anche a dei mezzi di coazione fisica e/o morale che gli permettano di rendere più efficace il proprio insegnamento, essendo a ciò legittimato dal c.d. ius educandi o corrigendi. I limiti entro cui tale ius possa essere esercitato, però, vanno individuati, secondo la ricostruzione esegetica che di essi ha dato nel tempo la giurisprudenza, facendo sempre riferimento al criterio di proporzionalità tra mezzi utilizzati e scopo perseguito: se il fine cui essi tendono deve essere l’educazione del discente, questi non possono trascendere il limite di quanto quest’ultimo possa in ultima istanza percepire come giusta “punizione” per il proprio inadeguato comportamento e non, invece, come un sopruso del tutto sproporzionato, onde evitare che il mezzo di correzione o di disciplina in concreto adottato dall’educatore, più che come la “normale” conseguenza del proprio errore, venga avverti da chi lo subisce come un’ingiustizia gratuita, così perdendo qualunque efficacia rieducativa. Si deve, in nuce, cercare di operare un esatto bilanciamento tra la finalità rieducativa e la finalità retributiva della pena tipiche della miglior dottrina giuspenalista.
Nel condurre tale ardua operazione vanno tenuti in debita considerazione anche i risultati cui le scienze psico-pedagogiche sono addivenute, non potendosi certo sottacere come un errore nell’utilizzo dei mezzi di coazione de quibus, oltre che portare a risultati affatto opposti a quello perseguito, è idoneo a produrre nel destinatario ripercussioni che potrebbero influenzarne per sempre lo sviluppo psicologico e la capacità di inserimento e di relazione sociale.
Se tanto non avviene, l’educatore, lungi dall’essere legittimato ad invocare in sua difesa la scriminante dello ius educandi, si troverà a dover rispondere in sede penale del reato di abuso di mezzi di correzione o di disciplina di cui all’art. 571 c.p. o, qualora l’abuso de quo assuma caratteri di sistematicità e ricorrenza nel tempo, del più grave delitto previsto e punito dall’art. 572 c.p.
Tutto ciò, ci teniamo a precisarlo, senza che il potere d'intervento dell'educatore, per la paura di subire (ingiuste) condanne in sede penale, venga tanto ridotto da sminuire oltremodo il prestigio di questa figura. Non si deve dimenticare, dopotutto, che se nel contesto scolastico (quanto meno nell'ambito della scuola primaria) il termine utilizzato per riferirsi all'educatore è quello di "maestro" – dal latino magister, vale a dire colui che, eccellendo in una qualche disciplina, si è reso degno di rispetto – vi sarà pure un qualche motivo.
[1] D’ora in avanti, per ragioni di brevità, si utilizzerà soltanto la locuzione “ius educandi”.
[2] Sul tema si vedano le illuminanti ricostruzioni di E. MARESCOTTI, La funzione educativa dell’insegnante: guidare e non indottrinare. Prospettive deontologico-scientifiche in Eduard C. Lindeman, in Annali online della Didattica e della Formazione Docente, Vol. 8, 2016, 11, 39 ss., la quale, nel discorrere di quale sia il compito che è chiamato a svolgere l’educatore, si esprime in questi termini: «In che cosa consiste, dunque, la funzione docente? Fermo restando che si tratta di un interrogativo al quale non si può rispondere una volta per tutte – giacché il contenuto e il senso di tale funzione si definiscono e si perfezionano continuamente, in relazione all’evoluzione dell’ambiente culturale, in generale, e della ricerca educativa nello specifico – e che pertanto si ripropone e si riproporrà sempre, è comunque possibile individuare alcuni nodi universali, che giustificano e legittimano la scuola e – potremmo tranquillamente ampliare il discorso – il porre in essere una relazione educativa. Questi nodi rendono conto di relazioni qualificanti, fondative per l’educazione: tra l’insegnante e la conoscenza; tra l’insegnante e il discente; tra l’insegnante e l’ambiente; tra queste stesse relazioni e il metodo-processo in cui si svolgono. […] Se, pertanto, si assumono tali postulati a fondamento della funzione docente, da ciò deriva, logicamente, l’inevitabile schieramento di chi educa, dal momento che il modo di instaurare e di svolgere le suddette relazioni implica un’assunzione di responsabilità: in altri termini, è la scelta teorica agita a monte e, di conseguenza, il passaggio dalla teoria alla pratica, che coinvolgono l’educatore. Seguendo il ragionamento di Lindeman, ma anche intervenendo su di esso alla luce di ulteriori ragionamenti cui sospinge, il verbo insegnare esprime la prima relazione, quella tra l’insegnante e la conoscenza, costringendo ad esplicitare che cosa si intende per conoscenza. […] anche laddove si ritenesse che la sola conoscenza che, educativamente parlando, vale la pena insegnare è quella scientifica (ovvero testata, per riprendere l’efficace espressione di Lindeman), non si può negare il fatto che essa è comunque e sempre filtrata dalla soggettività dell’insegnante, che la interpreta, sia nel momento in cui la acquisisce sia nel momento in cui la trasmette ad altri […]. In questo senso, insegnare è educare perché, richiamandoci al secondo verbo esaminato da Lindeman, è guidare. A questo proposito, viene ad essere chiamata in causa la seconda relazione, quella tra l’insegnante e il discente, opportunamente reso da Lindeman con la locuzione personalità in via di sviluppo. […] l’insegnante/educatore deve essere, in prima persona, un didatta: ovvero deve ricercare in proprio, e continuamente, una sempre maggiore coerenza mezzi-fini ed efficacia comunicativa, costruendo e revisionando in itinere gli strumenti del proprio pensiero e della propria azione, a partire dai linguaggi di cui servirsi»; e E. QUITADAMO, Le 10 competenze dell’insegnante moderno, in scuolasangiovannibosco.it, 1, per il quale «La professione docente presenta un’identità articolata e complessa, in cui si intrecciano diverse variabili. Il cuore dell’attività dell’insegnante sta nella dimensione educativa del suo compito che si fonda sul “prendersi cura” della persona nella sua globalità, nel farsi carico dei suoi “bisogni” (talora mutevoli e contingenti) e delle più profonde esigenze connesse alla dignità della persona. Il nostro orizzonte ideale di riferimento coinvolge l’azione didattica, la relazione educativa […] l’organizzazione del sistema scolastico e la cultura in genere». È dunque evidente che l’educatore, nel vero senso del termine, non si limita a trasmettere la conoscenza (scientifica o meno) ma anche a trasmettere l’insieme dei valori necessari per mettere il discente sulla via più corretta per inserirsi adeguatamente nella società cui appartiene, correggendone i comportamenti che a tal fine non si appalesino idonei.
[3] La libertà personale, così come ogni altro diritto di libertà, è un diritto naturale dell'uomo che l'ordinamento si limita a riconoscere in quanto ad esso preesistente, non essendo esso oggetto di una sua concessione. Questa libertà si concreta nel diritto a non subire imposizioni tanto da altri soggetti (cfr. art. 41 Cost.) che dalla pubblica autorità (cfr. art. 13 cit. e art. 77 Cost.), sia in una dimensione fisica che morale. A livello internazionale la libertà personale è invece garantita dall'art. 6 della Carta Europea dei Diritti dell'Uomo (CEDU), il quale dispone che «ogni individuo ha diritto alla libertà e alla sicurezza».Inizio moduloFine modulo
[4] S. DONATO-MESSINA e G. SPINNATO, Manuale Breve. Diritto Penale, Milano, 2019, 660; N. PIGNATELLI, Il reato di “Abuso di mezzi di correzione o di disciplina” (art. 571 cod. pen.), in ilcaso.it, 1 ss.
[5] Muovendo dal concetto di dolo in genere, che elemento psicologico composto da rappresentazione e volontà dell’evento, i.e. delle conseguenze della propria condotta attiva o omissiva, il dolo eventuale si caratterizza perché in esso vi è la rappresentazione della concreta possibilità (non anche certezza) della realizzazione del fatto cui tuttavia segue l’accettazione del rischio di tale realizzazione (e, dunque, la volizione). Così Redazione Diritto.it, La sottile differenza tra dolo eventuale e colpa cosciente negli incidenti stradali, in diritto.it; S. DONATO-MESSINA e G. SPINNATO, Manuale Breve. Diritto Penale, cit., 134 ss.; R. GAROFOLI, Manuale di Diritto Penale. Parte generale e speciale, Roma, 2015, 234 ss.; S. MARANI, Dolo eventuale e colpa cosciente: precisato il criterio distintivo, in altalex.com.
[6] Non sarà quindi necessario che la condotta produca ripercussioni concrete – si pensi, ex multis, ad un’ecchimosi o ad una patologia mentale – ma basterà che essa sia potenzialmente idonea a farlo.
[7] S. DONATO-MESSINA e G. SPINNATO, Manuale Breve. Diritto Penale, cit., 210. A. TORTA, Articolo 51 c.p.: esercizio di un diritto o adempimento di un dovere. Cosa prevede la legge?, in iusinitinere.it, 1; E. SALEMI, Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, in altalex.com; G. MICCIANZA, L’abuso dei mezzi di correzione e di disciplina, in ildirittopenale.blogspot.com.
[8] Non può però non precisarsi come la giurisprudenza non sia abbia assunto atteggiamenti sempre e comunque uniformi quando è stata chiamata a giudicare dell’abuso dello ius educandi. Agli arresti nei quali è stato in ogni caso escluso il ricorso a qualsiasi forma di violenza fisica, più o meno qualunque ne fosse la finalità (v. Cass., 18 marzo 1996, n. 4094; Cass., 14 giugno 2012, n. 34492: «Ritenuto quanto disposto dalla normativa nazionale, comunitaria ed internazionale sulla tutela d'ogni minore, in conformità agli attuali, consolidati e ormai irreversibili postulati delle scienze psicologiche e pedagogiche, non può considerarsi lecito, ex art. 571 c.p., l'uso della violenza psichica costruttiva finalizzata, sul piano soggettivo, a scopi ritenuti educativi perché correttivi e disciplinari, tanto più quando il mezzo è usato a scopi, o con modalità d'ordine chiaramente vessatorio, o con finalità di punizione "esemplare", o con umiliazione della dignità personale e relazionale del minore, o per mero esercizio di "autorità", di esibizionistico prestigio, di profondo ed insindacabile potere personale ed istituzionale: non può, invero, perseguirsi, quale meta educativa e formativa, un armonico sviluppo della personalità minorile "in itinere", sensibile ai valori di pace, di moderazione, di tolleranza, di razionalità, di moderazione, di solidale convivenza anche scolastica, usando metodi e mezzi di violenza psichica, costrittivi od ultronei che tali finalità contraddicono (confermata la condanna nei confronti di un insegnante per il reato di abuso dei mezzi di correzione, atteso che la donna aveva costretto un alunno a scrivere per 100 volte sul quaderno la frase "sono un deficiente")»; Trib. La Spezia, 22 agosto 2014, in laleggepertutti.it: «Con riferimento al delitto di abuso di mezzi di correzione, il termine “correzione” va assunto come sinonimo di educazione, pertanto non può ritenersi tale l’uso della violenza finalizzato a scopi educativi, con la conseguenza che l’eccesso di mezzi di correzione violenti non rientra nella fattispecie dell’art. 571 c.p. giacché intanto è ipotizzabile un abuso, in quanto sia lecito l’uso»; Cass., 16 maggio 2014, n. 25790: «È da escludere che l'educatore possa utilizzare violenza nei confronti del minore, sia pure a scopo educativo. […] Relativamente a minori, il termine "correzione" va assunto come sinonimo di educazione, con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo. E non può ritenersi tale l'uso della violenza finalizzato a scopi educativi: ciò sia per il primato che l'ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti; sia perché non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di connivenza utilizzando un mezzo violento che tali fini contraddice»), si contrappongono pronunce – a nostro avviso più condivisibili – nelle quali, invece, si distingue a seconda delle finalità perseguite dall’educatore e dell’effettiva idoneità delle stesse a cagionare quanto meno il pericolo di una malattia (v. Cass., 19 marzo 2014, n. 15149: «In tema di abuso di mezzi di correzione e di disciplina, di cui all'art. 571 c.p., mentre non possono ritenersi preclusi quegli atti di pressione morale che risultino adeguati alla finalità di rafforzare la proibizione di comportamenti di indisciplina gratuita o insolente idonei a minare la credibilità e l'effettività della funzione educativa, o anche quelli di coercizione fisica meramente impeditivi di condotte violente da parte del discente, integra la fattispecie criminosa in questione l'uso di un mezzo, vuoi di natura fisica, psicologica o morale, che abbia come effetto l'umiliazione del soggetto passivo, posto che l'intento educativo va esercitato in coerenza con una evoluzione non traumatica della personalità del soggetto cui è rivolto con la precisazione che con riguardo ai bambini il termine "correzione", presente nella dizione normativa, va inteso come sinonimo di educazione, con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo»; G.I.P. Rovereto, 30 gennaio 2012, in laleggepertutti.it: «Per la configurabilità del delitto di cui all’art. 571 c.p., il concetto di abuso di mezzi di correzione o di disciplina, implica logicamente un uso consentito degli stessi, non potendosi abusare di mezzi di per sé considerati illeciti. Pertanto l’utilizzo da parte del professore dello “scappellotto” nei confronti di un alunno, pur potendo configurare in astratto il reato "de quo", va in concreto escluso, perché il mero scappellotto ricevuto dal minore, nell’ambito del rapporto educativo con l’insegnante in un contesto in cui il minore pone in essere continui comportamenti scorretti, con ripetuti richiami verbali del professore, rimasti senza esito, necessità di allontanare il minore dall’aula per consentire il regolare svolgimento dell’attività didattica, e il richiamare la sua attenzione sugli obblighi che pure gravano sui discenti, non esula dai leciti mezzi di correzione perché non può causare quel pericolo di malattia nel corpo o nella mente che condiziona la punibilità del fatto, per la sua scarsissima intensità»).
[9] Consistente nella consapevolezza e volontà dell’agente di infliggere una serie di sofferenze alla persona offesa mediante una pluralità di atti di aggressione alla sua libertà fisica e morale (cfr. R. GAROFOLI, Manuale di Diritto Penale. Parte generale e speciale, cit., 619).
[10] In dottrina: A. LARUSSA, Collaboratrice scolastica risponde di maltrattamenti se non li impedisce, in altalex.com, che fa notare come non abbia rilevanza «al fine di escludere l'abitualità e l'elemento soggettivo, l'assenza di specifiche condotte violente in danno di alcuni minori» qualora si tratti di atti di maltrattamento posti in essere in danno dei minori affidati alle insegnanti nell'ambito di una specifica classe dell'istituto d'istruzione, e quindi la commissione di condotte in grado di determinare in tutti i minori un grave stato di soggezione psicologica; L. VOLPE, Maestri violenti? Scatta il reato più grave di “maltrattamento in famiglia”, in cittadellinfanzia.it; A. C. PANI, Violenza a scuola? È reato di maltrattamenti in famiglia, in Diritto24; S. A. CAPORALE, Maltrattamenti a scuola: cosa rischia l’insegnante, in laleggepertutti.it. In giurisprudenza: Cass., 17 aprile 1996, n. 4015: «In tema di maltrattamenti familiari (art. 572 c.p.), correttamente il giudice di merito desume dalla ripetitività dei fatti di percosse e di ingiurie l'esistenza di un vero e proprio sistema di vita di relazione abitualmente doloroso ed avvilente, consapevolmente instaurato dall'agente, a seguito di iniziali stati di degenerazione del rapporto familiare. Per la configurabilità del reato non è richiesta una totale soggezione della vittima all'autore del reato, in quanto la norma, nel reprimere l'abituale attentato alla dignità e al decoro della persona, tutela la normale tollerabilità della convivenza»; Cass., 10 maggio 2012, n. 36564; Cass., 22 ottobre 2014, n. 53425; Cass., 2 febbraio 2016, n. 4170; Cass., 13 marzo 2017, n. 11956; Cass., 31 ottobre 2019, n. 44634: «L'uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore affidato, anche lì dove fosse sostenuto da animus corrigendi, non può rientrare nell'ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti [in famiglia; ndr]».
[11] Sul tema è intervenuta anche Cass., 15 luglio 2014, n. 31121, per la quale «la norma di cui all’art. 572 c.p., non riguarda solo i nuclei familiari costruiti sul matrimonio, ma qualunque relazione che, per la consuetudine e la qualità dei rapporti creati all’interno di un gruppo di persone, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tradizionalmente propri del nucleo familiare. […] È necessario […] che detta relazione presenti intensità e caratteristiche tali da generare un rapporto stabili di affidamento e solidarietà». Secondo questa pronuncia, quindi, la disposizione non si applica soltanto agli abusi che avvengono all’interno di un nucleo familiare tipicamente inteso, dovendosi ad esso equiparare qualunque gruppo di persone tra le quali sussistono dei vincoli stabili che comportino il sorgere di reciproche aspettative di assistenza e solidarietà, da cui deriva che nell’alveo della disposizione incriminatrice siano riconducibili anche i comportamenti tenuti da un educatore nell’ambito della classe lui affidata, essendo innegabile che, da parte dei discenti, vengano a crearsi nei suoi confronti fondate aspettative di ricevere dei trattamenti adeguati alle circostanze e non abusivi.
[12] Prima di procedere oltre, valga la seguente chiosa metodologica: nel prosieguo del presente scritto si utilizzeranno il termine “pedagogia” e i suoi derivati non per indicare l’insegnamento ma il come il discente risponda agli stimoli provenienti dall’attività dell’educatore che sia rivolge alla sua persona.
[13] Considerato che il lavoro si concentra sulla figura dell’educatore nell’ambiente scolastico, il “discente” cui si fa riferimento è principalmente il bambino o comunque una persona non ancora adulta.
[14] S. MONDARUZZO, “Ero terrorizzato dalla mia maestra”: le conseguenze dell’abuso, in parmateneo.it.
[15] C. MICALIZZI, Le conseguenze a breve e a lungo termine prodotte dalle esperienze violente: il mondo delle rappresentazioni mentali della vittima di maltrattamento infantile, in State of Mind – Il giornale delle scienze psicologiche: «Nello specifico, le vittime di violenza hanno maggiore possibilità, rispetto alla popolazione generale, di presentare sintomi, quali allucinazioni di natura visiva, uditiva, o le voci di commento, i deliri e i disturbi del pensiero, sintomi di internalizzazione ed esternalizzazione e disturbi nell’attaccamento. I bambini vittime di abusi e maltrattamenti, punizioni ingiuste e prepotenze, vivono un problema di deformazione dei sentimenti di fiducia in sé stessi e negli altri e nell’espressione delle emozioni empatiche».
[16] Pr tutti il capostipite L. S. VYGOTSKIJ, Pensiero e linguaggio, Firenze, 1934.
[17] G. PERRICONE, C. POLIZZI, M. R. MORALES, A. CAROLLO, I. ROTOLO e R. CALDARELLA, Corso di Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione con elementi di Psicologia pediatrica, Ed. aggiornata, Milano, 2018, 158.
[18] D. H. FORD e R. M. LERNER, Teoria dei sistemi evolutivi, Milano, 1995.