Pubbl. Mer, 3 Giu 2020
La responsabilità penale degli esercenti la professione sanitaria legata al nuovo coronavirus.
Modifica paginaIl contributo, dopo un breve approfondimento sull´evoluzione della disciplina sulla responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, offre una panoramica delle possibili applicazioni della legge penale in ambito ospedaliero, in correlazione alla diffusione del virus “Covid-19”.
Sommario: 1. Premessa. – 2. La responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria. – 2.1 Le possibili applicazioni della normativa in tema Covid-19. – 2.2 Il reato di epidemia colposa. – 3. Conclusioni.
1. Premessa
La pandemia causata dal nuovo coronavirus, ha sintonizzato l’attenzione generale su un aspetto che, già in tempi ordinari, assume un’importanza fondamentale: l’accesso alle cure sanitarie.
Le norme giuridiche che se ne occupano, coinvolgono interessi e posizioni spesso addirittura antitetiche, cui è necessario offrire un giusto bilanciamento per scongiurare atteggiamenti difensivistici da parte dell’operatore e consentire il pieno espletamento dell’attività terapeutica, anche di fronte ai connaturati rischi di insuccesso[1].
Arduo compito per l’operatore del diritto, dunque, quello di definire attentamente il perimetro entro cui sia possibile insinuare addebiti di responsabilità al terapeuta, allorquando si verifichino eventi infausti, tenendo conto delle fisiologiche contrapposizioni in gioco.
La questione, di per sé molto delicata, lo diventa ancor più in questo turbolento ed atipico periodo di crisi emergenziale, in cui la tenuta stessa dell’intero sistema sanitario è stata, nel migliore dei casi, fortemente sollecitata.
Sembra dunque opportuno cercare di comprendere se (ed in che modo) nel contesto pandemico generato dalla diffusione del virus “SarsCoV-2”, potrebbero affermarsi, nei confronti del personale sanitario, pretese sanzionatorie di carattere penale per vicende relative a soggetti presumibilmente colpiti dal contagio nell’ambito ospedaliero.
Il clamore mediatico sorto intorno al concetto di responsabilità medica, nel confuso dibattito pubblico che ne è scaturito, cela in realtà una moltitudine eterogenea di concetti giuridici su cui sarebbe buon servizio fare chiarezza.
A tal proposito, una più approfondita cernita delle questioni può offrirci un possibile discrimen tra le condotte punibili (anche in sede civile) e quelle che, al contrario, mettono in luce lo spirito di sacrificio di chi si è trovato in prima linea, al servizio del bene collettivo. Basti pensare a tutti gli operatori che hanno perduto la vita, nel tentativo di offrire cura agli assistiti.
A tal proposito, sembra opportuno un preliminare distinguo ontologico tra le diverse posizioni che l’operatore può assumere di fronte al precetto penale. Ciò che tecnicamente viene rimarcato facendo uso della distinzione tra reato proprio e reato comune.
Da un lato, infatti, egli è chiamato ad esprimere la sua funzione di sanitario, con il bagaglio di conoscenze specialistiche acquisite, di cui è necessario che faccia corretta applicazione; dall’altro, una determinata condotta può assumere la stessa rilevanza riconosciuta dall’ordinamento a qualunque altro soggetto, anche non qualificato.
Prima di passare in rassegna le questioni di più attuale rilevanza, pare opportuna una breve disamina delle tappe ricostruttive della disciplina sulla responsabilità medica in ambito penale stricto sensu intesa.
2. La responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria.
Dopo una disciplina della materia affidata per decenni ad una altalenante giurisprudenza[2], una prima riforma – introdotta dalla legge di conversione n. 189/2012 (c.d. decreto Balduzzi) – fu varata al precipuo scopo di arginare la tendenza eccessivamente difensivistica cui era approdata l’attività medica nel suo complesso, atteso l’eccessivo rigorismo giudiziario invalso nella prassi[3].
Tuttavia, la riforma in questione, lungi dal sortire gli effetti sperati, finiva per gettare sull’intera materia interessata più ombre di quante mirasse ad eliderne, specie in ordine al dichiarato tentativo di contrastare il deprecato fenomeno della c.d. medicina difensiva[4].
Non deve sorprendere, dunque, il repentino intervento riformatore del 2017, legge n. 24 (c.d. Gelli-Bianco), che ha introdotto all’interno del codice penale l’art. 590 sexies.
Le principali innovazioni resesi necessarie attengono, anzitutto, all’ambito di non punibilità. Con tale riforma, infatti, è stato circoscritto – sottraendone la portata all’oscillazione ermeneutica – alle sole ipotesi di imperizia, lasciando espressamente impregiudicata la sanzionabilità di eventi cagionati dal sanitario per negligenza ovvero per imprudenza.
Viene poi eliminato qualunque riferimento alla problematica distinzione tra culpa lata e culpa levis, agevolando di tal guisa anche il lavoro del giudicante, al quale non sempre risulta agevole operare una netta distinzione tra le due categorie[5].
Non va inoltre sottaciuta l’importanza del riferimento alla “adeguatezza alle specificità del caso concreto” nell’applicazione delle raccomandazioni o delle buone pratiche cliniche, che mira a scongiurare il rischio di una asettica aderenza al dato letterale, che non tenga conto delle peculiarità della situazione sottoposta alla attenzione del sanitario.
Inoltre, la riforma introdotta, in virtù della rilevanza che assumono le c.d. guidelines e le buone pratiche cliniche e assistenziali, si prefigge di stabilire regole più virtuose circa l’autorevolezza riconosciuta e l’accreditata competenza scientifica dei soggetti legittimati a deliberarne il contenuto[6]. Pure al di fuori di inaccettabili automatismi applicativi, tali disposizioni, infatti, oltre ad essere utili cardini di indirizzo per l’attività dell’esercente la professione sanitaria, sono preziosi anche per il giudice, qualora sia chiamato a parametrare la bontà della condotta del terapeuta avvalendosi appunto del corredo normativo cautelare che vi inerisce[7].
Se è questo il contesto strettamente normativo di partenza – nelle intenzioni del Riformatore risolutivo dei punti di frizione che avevano interessato le precedenti disposizioni –, si è tuttavia materializzato, nelle iniziali pronunce delle sezioni semplici della Suprema Corte, lo spazio per opposti e confliggenti orientamenti che ancora riflettono le divisive esigenze, sottese alla regolamentazione di una materia così delicata.
In particolare, con una prima sentenza[8], la IV sezione ha assunto un atteggiamento strenuamente critico nei confronti della riformata disciplina normativa, giungendo persino all’assurdo di considerare l’intervento del legislatore sostanzialmente ‘inutile’ poiché impraticabile.
La pronuncia in parola, nel definire i confini della responsabilità del medico, ha ritenuto che l’esenzione in parola non fosse applicabile ad ambiti non governati affatto da linee guida, né ad ambiti in cui le raccomandazioni hanno ad oggetto regole di diligenza/prudenza ma non di perizia.
Lo stesso dicasi per le ipotesi in cui le raccomandazioni – inizialmente individuate correttamente – dovevano essere comunque disattese dal sanitario poiché, attesi i peculiari sviluppi del caso concreto, non costituenti valido contesto regolativo[9]. Giova ribadire, infatti, che le linee guida costituiscono fonti di colpa generica cui parametrare la responsabilità dell’agente e non precetti inderogabili di colpa specifica da applicare pedissequamente.
In tutti gli altri casi, il ricorso alle linee guida non ha altra funzione se non quella di giungere alla individuazione-esclusione-gradazione della colpa secondo le consolidate regole generali del reato colposo in ambito sanitario, quando quello dipenda da imperizia[10].
A fronte di un siffatto orientamento, tutto puntellato sulla tutela del “diritto” sancito dall’art. 32 della Costituzione ma poco sensibile agli esiti infausti che un eccessivo rigorismo nei confronti del medico-chirurgo può produrre sull’“interesse collettivo”, in termini di incremento del fenomeno della c.d. medicina difensiva, è intervenuta una successiva pronuncia che, offrendo un’interpretazione letterale dell’art. 590 sexies c.p., assume una direzione diametralmente opposta, nel senso di una radicale attenuazione della responsabilità penale medico-chirurgica cui è ispirata, peraltro, la legge stessa[11].
Al fine di conciliare la profonda dicotomia ermeneutica evidenziata, è prontamente intervenuto il temperamento delle Sezioni Unite, con la sentenza n. 8770/2018[12].
La sentenza in parola reintroduce – solo nell’ambito della condotta imperita legata a condizioni di particolare difficoltà così come ricavabile dall’applicazione in ambito civilistico del sopra citato art 2236 c.c. – la distinzione tra colpa lieve (scusabile) e colpa grave (non scusabile)[13].
2.1 Le possibili applicazioni in tema Covid-19.
Ebbene, la disciplina testé ripercorsa è strettamente correlata alla condotta del sanitario che cagioni lesioni personali ovvero la morte del proprio assistito (art. 590 sexies c.p.), ed è limitata, dunque, al dispiegamento delle sue specifiche e qualificate competenze professionali all’interno della relazione terapeutica. La fonte stessa della responsabilità va, infatti, individuata nella posizione di garanzia che l’ordinamento attribuisce al sanitario nei confronti dell’assistito[14].
Da questo punto di vista, l’applicazione ai pazienti positivi al coronavirus dei protocolli che normalmente si applicano per le affezioni polmonari, sembrerebbe non essere foriero di impreviste difficoltà tecniche per gli operatori.
Qualche problema potrebbe riguardare eventuali errori di imperizia commessi da soggetti neolaureati, appositamente ingaggiati attraverso disposizioni derogatorie del Governo[15],oppure all’uopo urgentemente trasferiti da reparti in cui le competenze acquisite non fossero per nulla affini a quelle necessarie per la cura dei pazienti “Covid”; ancora, potrebbero rilevarsi negligenze del personale sanitario dovute a stress e stanchezza per gli orari irregolari e gli enormi sforzi richiesti per contrastare l’epidemia.
A questo proposito, sul piano del giudizio di colpevolezza entra in gioco la c.d. “misura soggettiva della colpa”[16]. Tale concetto giuridico, in estrema sintesi, fonda i presupposti della colpevolezza non solo sulla condotta oggettivamente rispettosa delle regole cautelari da parte dell’agente, ma altresì sulla esigibilità in concreto dell’osservanza dei parametri in discorso, estesa all’analisi complessiva delle condizioni emergenziali di fatto in cui si inserisce la disattenzione delle pretese dell’ordinamento giuridico. In particolare, nel bilanciamento tra valori ed interessi contrapposti, l’ordinamento è chiamato in alcuni casi anche a riconoscere meritevolezza, in ottica scusante, alle ragioni che hanno determinato l’inosservanza del precetto cautelare, offrendo debito rilievo alla “particolare temperie nella quale l'intervento sanitario fu praticato”[17].
Sul piano della tipicità, poi, difficilmente si comprenderebbero censure di imperizia, rispetto ad un fenomeno scientificamente nuovo ed inesplorato, causato da un agente patogeno assolutamente inatteso, sia dal punto di vista strettamente clinico che nell’ambito della letteratura scientifica internazionale. Ferma restando la validità di regole e principi basilari, infatti, le altre indicazioni diramate dalle autorità sanitarie non possono godere di una granitica validazione scientifica sulla loro idoneità ed efficacia a contrastare la diffusione del nuovo coronavirus. Pertanto, si ritiene, ancorché tali urgenti raccomandazioni possano costituire una preziosa guida per l’attività dei sanitari, non possono tuttavia ergersi a divenire autorevole parametro di liceità della loro condotta, in sede di sindacato giurisdizionale.
2.2 Il reato di epidemia colposa.
Sullo stesso versante, viene all’attenzione un’ulteriore ipotesi di reato in cui la responsabilità penale, che potrebbe astrattamente ascriversi agli operatori sanitari, è costruita sul mancato utilizzo dei dispositivi di protezione individuale (mascherine, guanti, camici, etc.), raccomandato da più parti ai fini del contenimento dell’espansione virale[18].
In particolare, diversi sono i procedimenti, iscritti a carico di ignoti, che recano notizie di epidemia colposa.
Tale fattispecie criminosa, complice la stringatezza e genericità del precetto nonché la scarsa applicazione nel panorama giurisprudenziale più recente, si presta ad una più ardua ricostruzione. D’altro canto, il cospicuo lasso temporale che va dall’emanazione del codice penale (1930) ad oggi, rende senz’altro necessario coniugare la voluntas legis del tempo con gli attuali metodi di indagine ed i notevoli progressi maturati dalla scienza medica. Secondo una recente pronuncia, infatti, la nozione codicistica di epidemia sarebbe più ristretta rispetto a quella elaborata, e universalmente riconosciuta in ambito medico[19].
L’art. 438 c.p., punisce con l’ergastolo “chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni”. A seguito dell’espunzione della pena di morte dal nostro ordinamento, la medesima sanzione è inflitta se dal fatto derivi la morte di più persone.
Il bene giuridico che la norma mira a presidiare non è la salute del singolo (quantomeno non in via immediata), bensì quella che, ai sensi dell’art. 32 della Carta costituzionale, concretizza un interesse della collettività. Esso assume la forma anche solo del pericolo astratto di cagionare un’epidemia, pericolo implicito nella diffusività stessa del patogeno[20]. Alcune recenti pronunce, riconducono la materialità del delitto ad una duplice condizione: da un lato, l’evento danno rappresentato dalla concreta manifestazione, in un certo numero di soggetti, di una patologia eziologicamente ricollegabile ai germi patogeni trasmessi dall’agente; dall’altro, l’evento di pericolo rappresentato dall’ulteriore propagazione della malattia ad opera di quei soggetti originariamente contagiati dall’agente[21].
Secondo la giurisprudenza di merito, inoltre, la fattispecie in discorso non sarebbe integrata allorquando la diffusione dei germi coinvolga pochi soggetti, ovvero sia circoscritta in un ambiente chiuso, come può essere quello ospedaliero[22].
Il successivo art. 452 c.p., stabilisce le pene per i “delitti di comune pericolo mediante frode”, quando siano commessi per colpa.
Se da un lato, dunque, è ammissibile la fattispecie di epidemia colposa, il tema specifico presenta due ulteriori criticità.
La prima, attiene alla difficoltà probatoria connessa alla fattispecie de qua. A tal proposito, si parla di probatio diabolica, poiché, dovendo cadere l’accertamento – oltre che sui tradizionali elementi oggettivi del fatto e dell’elemento psicologico – anche sul nesso causale, tale operazione può rivelarsi particolarmente insidiosa soprattutto in alcuni decorsi epidemici, laddove sarebbe necessario escludere – in ossequio al canone di alta probabilità e credibilità razionale, delineato in una nota sentenza delle Sezioni Unite[23] – che la trasmissione del patogeno possa ricondursi ad altri fattori responsabili.
La seconda, di ordine sistematico, si ricollega alla difficile conciliabilità dello schema del reato omissivo improprio con le fattispecie a forma vincolata. A tal proposito, la giurisprudenza si è di recente pronunciata negativamente, dichiarando che la configurabilità del delitto di epidemia nella forma omissiva è incompatibile con il disposto dell’art. 40 co. 2 c.p. in quanto l’art. 438 c.p., con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni”, richiede una condotta attiva, vincolata nella forma[24].
Inoltre, restando su questo tema, quandanche fosse ascritta a carico dei sanitari una condotta colposa consistente nella diffusione di germi, dovuta al mancato utilizzo dei dispositivi di protezione individuale, bisogna considerare altresì che, come sostenuto in dottrina[25], tra i presupposti generali dell’omissione penalmente rilevante deve annoverarsi la effettiva possibilità da parte dell’agente di compiere l’azione omessa. Ebbene, nel caso di specie, sembrerebbe piuttosto conclamata l’insufficiente dotazione di d.p.i. e la difficoltà di approvvigionamento, persino nei presidi sanitari.
Un conclusivo accenno, per il forte clamore suscitato, va fatto anche a quegli episodi in cui l’addebito, tra gli altri, del reato di epidemia colposa si è fondato sulla circostanza dei trasferimenti di soggetti affetti da “Sars-Cov2”, dalle strutture nosocomiali alle residenze sanitarie di cura e assistenza per anziani. In tal caso, la violazione di parametri cautelari è stata individuata non solo nel mancato utilizzo dei d.p.i., ma anche nella inadeguatezza delle strutture di destinazione a garantire il trattamento e l’isolamento sanitario dei pazienti positivi al virus, dove non si è peraltro tenuta in considerazione l’età media molto alta dei soggetti ivi residenti e dunque la loro particolare vulnerabilità.
3. Conclusioni.
Nel contesto delineato, parte del dibatto pubblico si è prontamente animato attorno alla possibilità di costruire una sorta di immunità assoluta per gli operatori di sanità, attraverso cui inibire la perseguibilità di qualsiasi malpractice verificatasi nel drammatico frangente emergenziale, ovvero, quantomeno, di limitarne la punibilità ai soli casi di colpa grave, intendendosi con tale concetto la palese ed ingiustificata violazione dei principi basilari che disciplinano la professione sanitaria o dei protocolli o programmi emergenziali eventualmente predisposti per fronteggiare la crisi epidemica. Per contro, il ricorso massiccio allo strumento giurisdizionale, per appurare responsabilità – anche gestionali – nei confronti di chi ha – ed ha avuto, in questi anni – l’obbligo giuridico di garantire il buon funzionamento della sanità pubblica, è stato da talaltri brandito come strumento atto a suggerire facili ricompense per le vittime.
Ebbene, i medici, gli infermieri ed il personale, che si sono ritrovati in prima linea, hanno senz’altro adempiuto a quello che è divenuto, al contempo, sia diritto che dovere: la Salute, infatti, è diritto fondamentale sancito dall’art. 32 della Carta costituzionale la cui tutela, non a caso, è contemplata nella sua duplice dimensione di “diritto dell’individuo” ma anche di “interesse della collettività”. Ed è proprio in tale ultimo senso che deve principalmente essersi orientata l’attività posta in essere nelle strutture nosocomiali nel momento drammatico dell’emergenza.
In ultima analisi, il prezioso supporto degli operatori di sanità, quandanche involontariamente lesivo dell’altrui incolumità, appare riconducibile a quella particolare figura scriminante prevista dall’art. 51 c.p., dove espressamente si sancisce che “L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica […] della pubblica autorità, esclude la punibilità”.
A tal proposito, viene all’attenzione il complesso compendio di fonti normative derogatorie, tra cui si segnala il d.lgs. 2 gennaio 2018, n. 1 (codice della protezione civile), entrato pienamente in vigore nello stato di emergenza nazionale dichiarato dal C.d.M., con delibera del 31 gennaio 2020.
In particolare, si richiama il combinato disposto tra l’art. 1, co. 1 del predetto d.lgs, in cui è sancito che “…la funzione di protezione civile [è] costituita dall'insieme delle competenze e delle attività volte a tutelare la vita, l’integrità fisica, i beni, gli insediamenti, gli animali e l'ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell'uomo”, ed il successivo art. 13, co. 1, in cui, tra le strutture operative che fanno capo al Servizio nazionale della protezione civile, sono annoverate quelle del Servizio sanitario nazionale (lett. d).
Ebbene, tutto quanto evidenziato testimonia chiaramente lo stato di grave urgenza operativa, diretta a contenere la diffusione del virus, nel cui solco va inserito il complessivo giudizio sulla condotta tenuta dagli operatori sanitari[26].
Ciononostante, qualora dovesse rendersi necessario un intervento ad hoc da parte del legislatore, certamente esso dovrà offrire risposte chiare, ritagliate sulle difficili condizioni operative di partenza, senza tuttavia che il valore primario del “neminem laedere” venga mortificato oltremodo. Tale principio giuridico, infatti, può trovare temperamento, in funzione di controlimite, esclusivamente in quelle cause di non punibilità previste dall’ordinamento e, in generale, tutte le volte in cui emerga, ictu oculi, l’insussistenza dei margini per una colpevole imputazione a carico dell’agente.
La modulazione dei profili di responsabilità, infatti, deve in ogni caso essere ben ponderata, tenendo conto del giusto equilibrio tra lo sforzo poderoso richiesto ai protagonisti principali di questa difficile pagina della storia recente, da un lato, e la sofferenza, tragica e solitaria, di chi si è ritrovato a combattere, con esito non sempre vittorioso, contro questo invisibile quanto terribile nemico comune.
[1] D’altro canto, il proliferare anche in campo medico di nuove conoscenze tecniche che richiedono competenze sempre più specialistiche, spesso bisognose di approcci multidisciplinari, e che consentono, tra l’altro, una più agevole tracciabilità ex post dell’attività svolta dal professionista, in uno alla crescente diffusione di mezzi informativi accessibili a tutti, rendono senz’altro il paziente maggiormente avveduto nella scelta della figura professionale che possa attendere fruttuosamente, ove possibile, alla cura del proprio stato di salute, ma soprattutto più attento nella valutazione critica del suo operato.
[2] Sul versante penale, possiamo storicamente ricostruire una prima fase – culminata negli anni Ottanta del secolo scorso – nella quale, emulando la distinzione operata dall’art. 2236 c.c., la responsabilità per imperizia veniva, dal prevalente orientamento giurisprudenziale, confinata alle sole ipotesi di errori grossolani e macroscopici (Cass. n. 12249 del 05.11.1984, Pinedda, in CED Cass. Rv. 171396; Cass. n. 5241 del 11.01.1978, Gandini, in CED Cass Rv. 138892; Cass. n. 1301 del 18.10.1978, Andria, in CED Cass. Rv. 141044; Cass n. 5860 del 19.02.1981, Desiato, in CED Cass Rv. 149347).
Successivamente, e fino all’intervento normativo del 2012, le istanze di tutela della vita e della salute rivendicate da più parti andarono via via rafforzandosi, generando una inversione di tendenza nelle pronunce giudiziarie (di merito e di legittimità) che divennero più rigorose e fedeli ai crismi propri del diritto penale[2]. La gradazione della colpa, si argomentava, se può assumere pacifica identità e rilevanza per la qualificazione dell’addebito nell’ambito del diritto civile, viene per contro normativamente sancita, dall’art. 133 c.p., solo ed esclusivamente in relazione alla quantificazione sanzionatoria e dunque in una fase successiva alla vera e propria imputazione del rimprovero colposo. Per poter formulare quest’ultimo, invece, non è dato rilevare, nel dettato normativo dell’art. 43 c.p., alcun riferimento ai suddetti canoni discretivi, onde potersi escludere ex ante l’attribuzione di responsabilità penale ad una condotta colposa dal tenore ‘lieve’ (Cass. 25.9.2002, n. 39637, Riv. pen. 2003, 110; conf. Cass. 28.10.2008, n. 46412, in CED Cass. Rv. 242251. In dottrina si rinvia a N. Mazzacuva, Responsabilità penale e grado della colpa nell’esercizio dell’attività medico chirurgica, in Temi, 1974; P. Muscolo, La responsabilità penale del medico nella lesione e nell’omicidio colposi, GP, 1984,II, p. 114 e ss.; Riz, Colpa penale per imperizia del medico, nuovi orientamenti, Ind. Pen., 1985, p. 267 e ss.).
[3] Tale assetto prevedeva tuttavia l’introduzione nella sfera penale – per sua natura permeata da inderogabili principi quali la tassatività e la determinatezza delle fattispecie – della graduazione della colpa, nella forma di colpa grave e colpa lieve, ai fini della valutazione circa la rilevanza penale di una siffatta condotta, ancorando, però, la scusabilità della condotta lievemente colposa del sanitario al rispetto delle “linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica”.
Partendo da tale aggancio, la giurisprudenza prevalente, riducendo ulteriormente i margini di operatività della decriminalizzazione in discorso, interveniva precisando che il riferimento normativo alle linee guida e buone pratiche cliniche così introdotto, aveva come corollario quello di escludere la punibilità dell’esercente la professione sanitaria soltanto in ipotesi di colpa lieve dovuta a imperizia e non anche alle ipotesi connotate da negligenza o imprudenza, le quali determinavano invece la piena punibilità del sanitario (per tutte, Cass. pen. n. 34295 del 2015. Contra, Cass. pen., Sez. IV, 24.01.2013 n. 11493, Pagano, in cui si precisa che le linee guida possono avere ad oggetto anche norme di diligenza e di prudenza oltre che di perizia).
[4] Tale novum, infatti, come sottolineato in alcune pronunce dei giudici di merito, appariva censurabile sotto una varietà ampia di ulteriori profili. Dalla citata violazione del principio di tassatività/determinatezza del precetto penale, che involge l’intero sistema; passando per le critiche sulla legittimità di una norma c.d. ad professionem, limitativo del perimetro di responsabilità dell’esercente la professione sanitaria ma che non riserva la medesima attenzione alle altre categorie professionali, pur sensibili al tema; giungendo infine al richiamo dell’art. 33 Cost., laddove stabilisce chiaramente che “l’arte e la scienza sono libere” (cfr. ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale della 9^ Sezione penale del Tribunale di Milano del 21.3.2013 dichiarata peraltro inammissibile con l’Ordinanza n. 295/2013).
[5] Ma sulla vigenza e validità di tale distinzione per le ipotesi di speciale difficoltà dell’atto medico, in continuità con il decreto Balduzzi e con la tradizione giurisprudenziale formatasi sul punto, v. Cass. S.S. U.U., sent. n. 8770 del 22.02.2018 (amplius, infra).
[6] Questi, infatti, devono essere iscritti in un apposito elenco istituito e regolamentato con decreto, ed a provvedere all’aggiornamento delle stesse con cadenza biennale. La vigilanza ed il controllo oltreché una serie di ulteriori garanzie, sono poi affidate al Ministero della Salute ed all’Istituto Superiore di Sanità, con l’obiettivo di evitare, dunque, il proliferare caotico di più ‘fonti’ del sapere scientifico disorganizzate e di rendere, per tale via, maggiormente afferrabile il precetto (rectius, parametro) cautelare cui fare complessivamente riferimento.
[7] Sulla riferibilità alle linee guida come vere e proprie regole in dottrina, M. Franzoni, Colpa e linee guida, Soft law e colpa medica, in Danno e resp., 2016, p. 801 ss.
[8] Cass. pen., sez. IV, n. 28187 del 20 aprile 2017, Tarabori.
[9] Nel verificarsi di uno degli eventi previsti dagli artt. 589 e 590 c.p., se le linee guida osservate dal sanitario erano adeguate al caso di specie – assume la Corte – non si comprende dove possa ravvisarsi la condotta rimproverabile.
Ancora, profilare l’esclusione di responsabilità in capo al sanitario che, ancorché ‘in qualche momento della relazione terapeutica’ abbia fatto corretta applicazione delle adeguate raccomandazioni, abbia comunque assunto poi un comportamento connotato da imperizia ed estraneo all’ambito specificamente regolato da quelle linee guida, dando luogo al verificarsi dell’evento lesivo o esiziale, costituirebbe – secondo la citata sentenza – una vera e propria mortificazione del principio costituzionalmente sancito di colpevolezza e dei connotati generali della colpa, i quali agganciano la rimproverabilità di una condotta colposa al presupposto che il verificarsi o non verificarsi dell’evento-danno sia dall’agente concreto prevedibile ed evitabile. L’esempio fatto è quello del conducente di un veicolo che si ritiene possa essere esentato da rimprovero per aver causato un sinistro stradale poiché osservante dei limiti di velocità stabiliti, trascurando però il fatto che impegnava l’incrocio col semaforo rosso.
[10] Cfr. Cass. pen., IV sez., n. 28187 del 2017, par. 4.1 .
[11] Cass. pen., IV sez., n. 50078 del 2017, Cavazza. Con tale sentenza si amplia il novero delle condotte suscettibili di essere considerate penalmente irrilevanti fino a ricomprendervi tutte le condotte colpose degli esercenti la professione sanitaria caratterizzate da imperizia (inclusa quella grave), purché siano inquadrabili in un contesto di corretta individuazione delle linee guida da applicare in relazione al caso concreto.
Di talché, tutte le volte in cui una preliminare individuazione sia stata correttamente impostata, le condotte, pur imperite, ricadenti sui momenti successivi della risposta operativa del sanitario – ovverosia quello della corretta applicazione ed attuazione delle predette raccomandazioni – sarebbero comunque sottratte al perimetro di punibilità.
[12] Nello specifico, il campo operativo in cui le Sezioni Unite, nella loro massima funzione nomofilattica, circoscrivono la novella del 2017, può descriversi nei termini che seguono.
L'esercente la professione sanitaria risponde per morte o lesioni personali derivanti dall'esercizio di attività medico-chirurgica se l'evento si è verificato:
a) per colpa (anche "lieve") dovuto a negligenza o imprudenza;
b) per colpa (anche "lieve") da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali;
c) per colpa (anche "lieve") derivante da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto;
d) per colpa (soltanto “grave”) dovuta a imperizia nell'esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell'atto medico, come appena sopra precisato.
[13] Tale distinzione, ancorché non presa in considerazione dalle sentenze in contrasto che hanno determinato l’intervento compositivo, viene ritenuta implicita nell’art. 589 sexies c.p. – laddove si fa riferimento alla adeguatezza delle linee guide alle specificità del caso concreto, presupponendo dunque una soglia di attenzione alta nell’operato del terapeuta ma comunque limitata agli approdi scientifici raggiunti ed applicabili alla complessità eventuale del caso di specie; il distinguo in discorso appare poi altresì legittimato da un florilegio di sentenze che ne hanno giustificato nel tempo l’estensibilità alla responsabilità penale del medico (Cass. pen. sez. IV, n. 4391 del 12.11.2011, dep. 2012, Di Lella, Rv.251941; Sez. IV, n. 16328 del 05.04.2011, Montalto, Rv. 251960; Sez. IV, n. 39592 del 21.06.2007, Buggè, Rv. 237875; Sez. IV, n. 1693 del 29.09.1997, dep. 1998, Azzini, non massimata sul punto), atteso che la condotta dello stesso non può non essere parametrata alle difficoltà tecnico-scientifiche dell’intervento ed al contesto in cui esso è richiesto, qualificandosi, quella del medico, come obbligazione di mezzi e non di risultato (Corte costituzionale, sentenza n. 295 del 1973). Indicativi, in tal senso, anche i lavori parlamentari (cfr. sul punto i resoconti delle discussioni della Commissione giustizia del Senato del 7, 8 e 21 giugno 2016).
[14] Per una più approfondita analisi del concetto giuridico nella sua dimensione dottrinale e giurisprudenziale, ex multis: G. Marinucci - E. Dolcini, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, 2012, p. 217 ss.; D. Micheletti, La posizione di garanzia nel diritto penale del lavoro, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1 - 2, 2011, p. 155 ss. In giurisprudenza, ex plurimis: Cass.,sez. IV, 28 ottobre 2004, n. 46586, Ardizzone; Cass., sez. IV, 14 novembre 2007, n. 10795, Pozzi; Cass., sez. IV, 4 giugno 2008, n. 35307, Izzo; Cass., sez. IV, 14 novembre 2008, n. 47490, Calzini; Cass., sez. IV, 2 dicembre, n. 1866, Toccafondi; Cass., sez. IV, 4 marzo 2009, n. 10819, Ferlito; Cass., sez. IV, 19 maggio 2009, n. 38225, Di Fabio; Cass., sez. IV, 8 aprile 2010, n. 20370, Zagni; Cass., sez. IV, 26 maggio 2010, n. 34521, Huscher, in F. Giunta e Altri, Il diritto penale della medicina nella giurisprudenza di legittimità (2004 - 2010), Napoli, ESI, 2011. Più recente v. anche, ex plurimis, Cass., sez. IV, 27 ottobre 2011, n. 46830, Zheng Li.
[15] Art. 102 del d.l. 17 marzo 2020 n. 18, come modificato in sede di conversione dalla l. 24 aprile 2020 n. 27.
[16] C. Fiore - S. Fiore, Diritto penale, Parte generale, 3^ ed., UTET Giuridica, Torino, p. 260 ss.; sul punto cfr. anche G. Fiandaca, Diritto penale, Parte generale, Zannichelli Editore, Bologna, 1995; F. Mantovani, Diritto penale, Parte generale, Cedam, Padova, 1997.
[17] Cass. pen., sez. IV, sentenza 10 giugno 2014, n. 24528.
[18] V. raccomandazioni e circolari diramate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dal Ministero della Salute (http://www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus/archivioNormativaNuovoCoronavirus.jsp?lingua=italiano&iPageNo=1).
[19] Cass. pen., sez. IV, n. 9133 del 2018.
[20] Marinucci-Dolcini, Manuale di Diritto Penale. Parte Generale, Quarta edizione, Milano, 2012, p. 208 ss.; Fiandaca-Musco, Diritto penale, cit., 537; Cass. pen. sez. I, n. 48014 del 2019; Cass. pen. sez. I, n. 21409 del 2019.
[21] Cass. pen., sez. IV, n. 9133 del 2018; Cass. pen., sez. IV, n. 2597 del 2011. Ma per una qualificazione in termini di reato di evento della giurisprudenza di merito, cfr. sent. Trib. Trento, 16 luglio 2004, Marcucci, RP 04, 1231, secondo cui “ai fini della configurabilità del reato di epidemia non è sufficiente un evento c.d. superindividuale, generico e completamente astratto, ossia avulso dalla verifica di casi concreti casualmente ricollegabili alla condotta del soggetto agente, in quanto ciò porterebbe a confondere il concetto di evento con quello di pericolo”.
[22] Cfr. Trib. Savona, 6.2.2008; Trib. Trento, 16.7.2004; Trib. Roma, 22.3.1982; Trib. Bolzano, 20.6.1978.
[23] Cass. S.U., n. 30328 del 10.7.2002, Franzese, in Cass. pen., n. 1224, 364; In dottrina, ex multis: O. Di Giovine, Lo statuto epistemologico della causalità penale tra cause sufficienti e condizioni necessarie, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 6334 ss.; F. Stella, Etica e razionalità del processo penale nella recente sentenza sulla causalità delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, ivi, 2002, 767 ss.; A. Di Martino, Il nesso causale attivato da condotte omisive tra probabilità, certezza e accertamento, in Dir. proc. pen., 2003, p. 50 ss.; G. Canzio, L’« oltre ogni ragionevole dubbio» come regola probatoria e di giudizio nel processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 303 ss.
[24] Cass. pen. sez. IV, n. 9133 del 2018. Così anche la dottrina prevalente; ma per un’interpretazione difforme cfr. S. Corbetta, i delitti di comune pericolo mediante frode, II, 2, i delitti contro l'incolumità pubblica, in trattato di diritto penale, parte speciale, diretto da G. Marinucci - E. Dolcini, cedam, padova, 2014.
[25] C. Fiore - S. Fiore, Diritto penale, Parte generale, 3^ ed., UTET Giuridica, Torino, p. 224 ss; sulla rilevanza del rispetto del principio che si sostanzia nel rispetto delle regole di diligenza, in assenza di altri parametri, v. anche T. Padovani, Colpa per inosservanza di leggi ed “impossibilità” di adottare le cautele prescritte, in Riv. it. Dir. proc. pen., 1977, p. 767 ss.
[26] Si segnalano, inoltre, il primissimo decreto-legge del 23 febbraio 2020, n. 6 e successivi D.P.C.M., nonché l’istituzione, con ordinanza del capo della protezione civile, del Comitato Tecnico Scientifico – in cui siedono diversi rappresentanti dell’autorità sanitaria – cui è affidato il precipuo obiettivo di contribuire all’effettuazione di interventi di soccorso e assistenza alla popolazione, nell’ottica della miglior gestione della crisi sanitaria.