Storia ed evoluzione della tutela degli interessi legittimi e dei diritti soggettivi e responsabilità governative
Modifica paginaPartendo dalla considerazione che l´ordinamento conferisce alla Pubblica Amministrazione un potere necessario al perseguimento dell´interesse collettivo che inevitabilmente incide sulla sfera giuridica del privato, condizionandone in melius o in peius la portata espansiva, l´articolo pone in evidenza le possibili responsabilità governative in seno all´emergenza COVID-19, cercando di analizzare aspetti di diritto amministrativo, penale e civile.
Sommario: 1.Introduzione - 2. Caratteristiche della responsabilità penale della P.A.- 2.1 Profili di responsabilità civile della P.A. alla luce dell’emergenza sanitaria da Covid-19.
Tu quoque, Brute, fili mi!
1.Introduzione
L’ordinamento giuridico costituisce un complesso di regole generali ed astratte[1], con carattere coercitivo, volte a regolare i fenomeni relazionali della comunità sociale nella quale si inseriscono.
In particolare, tali norme giuridiche attribuiscono in capo[2] ai singoli consociati posizioni giuridiche attive ovvero passive, mediante cui gli individui rispettivamente conseguono vantaggi o vengono assoggettati a determinati obblighi.
Tali posizione soggettive attive possono consistere in diritti soggettivi od interessi legittimi.
I primi rilevano in tutte le ipotesi in cui i doveri giuridici discendano direttamente dalla voluntas legis e sono preordinati alla regolazione di rapporti interprivatistici.
Viceversa, l’interesse legittimo rappresenta una situazione giuridica di vantaggio del singolo consociato, il cui rilievo è legato alla spendita di un potere pubblicistico da parte di un soggetto pubblico o altro soggetto ad esso ope legis equiparato.
In buona sostanza, l’ordinamento conferisce alla Pubblica Amministrazione[3] un potere necessario al perseguimento dell’interesse collettivo che inevitabilmente incide sulla sfera giuridica del privato, condizionandone la portata espansiva.
Per vero, prima dell’entrata in vigore della legge nr. 2248/1865 (Legge abolitrice del contenzioso amministrativo), le posizioni di interesse legittimo non avevano alcun rilievo sotto il profilo rimediale, ben potendo il cittadino ricorrere, in via esclusiva, ad organi amministrativi per la protezione dei soli diritti soggettivi lesi dall’esercizio dell’attività amministrativa.
Tale impostazione dogmatica, del resto, risentiva della posizione di supremazia speciale riconosciuta alle autorità amministrative, attesa la pregnanza valoriale dell’interesse collettivo rispetto alle istanze del privato cittadino.
All’indomani dell’entrata in vigore della suddetta novella legislativa, le posizioni di diritto soggettivo acquistavano piena dignità giuridica, con la conseguenza che la violazione delle norme attributive del potere amministrativo poteva costituire oggetto di tutela giurisdizionale ogniqualvolta tale trasgressione si traducesse in una compromissione della posizione di vantaggio.
Nessuna protezione di natura giurisdizionale residuava, invece, in caso di lesione di interessi diversi (affari non compresi ai sensi dell’art. 3 L.A.C.), per i quali sussisteva una mera garanzia di tipo amministrativo, la cui fisiologica parzialità dell’organo adito comportava una palese frustrazione della tutela accordata a tale posizione soggettiva.
Tuttavia, il quadro normativo in vigore fino a quel momento subì un radicale riassetto per effetto dell’introduzione della Legge Crispi del 1889[4], istitutiva della IV sezione del Consiglio di Stato, avente natura contenziosa e funzione giusdicente.
Del resto, tale carattere contenzioso e l’imparzialità decisionale riconosciuta al Consiglio di Stato riflettevano il mutamento prospettico elaborato dapprima in sede pretoria e, successivamente, corroborato dal Legislatore, ed assegnava rilevanza giuridica alle posizioni di interesse legittimo, meritevoli di tutela anche in sede giurisdizionale.
L’attuale ricostruzione ordinamentale concepisce l’interesse legittimo alla stregua di una situazione giuridica soggettiva, direttamente protetta dall’ordinamento, che si sostanzia in un complesso di poteri esercitabili tanto in sede procedimentale quanto in sede processuale, idonea ad influire sulla potestà pubblica, al fine di conseguire un bene della vita di carattere individuale e collettivo.
Segnatamente, l’interesse legittimo, che sorge in virtù di una norma attributiva del potere pubblicistico, permette al singolo cittadino di condizionare l’agere amministrativo, sin dalla fase genetica di formazione del provvedimento amministrativo.
Infatti, il privato può intervenire in forma collaborativa, interagendo con la P.A. al fine di fornire suggerimenti di natura tecnica e comunicazioni utili al conseguimento della determinazione finale, ovvero in chiave difensiva, ben potendo il privato partecipare attivamente alla fase procedimentale, mediante il deposito di memorie e documenti, con l’intento di salvaguardare la propria sfera giuridica in funzione preventiva rispetto all’emanazione del provvedimento definitivo.
Tali essendo i tratti caratterizzanti la nozione di interesse legittimo, grazie alle molteplici ricostruzioni teoriche elaborate negli ultimi decenni, non può sottacersi l’analogia dell’interesse legittimo rispetto alle posizioni di diritto soggettivo, il cui unico aspetto differenziale attiene alla struttura costitutiva che inerisce all’una ed all’altra posizione.
L’enunciata equiparazione dell’interesse legittimo rispetto al diritto soggettivo attiene essenzialmente al nucleo della prospettiva rimediale riconosciuto in capo ad entrambe.
Sul punto, l’indagine storica condotta in ordine al sistema di giustizia amministrativa ha registrato una sostanziale metamorfosi del processo amministrativo, passando da un giudizio sull’atto ad un giudizio sul rapporto dedotto.
Fino agli anni novanta, infatti, il giudizio amministrativo era imperniato su una tutela caducatoria[5], in quanto l’unico strumento processuale deputato a salvaguardare la posizione del privato era il ricorso in annullamento; di talché, il giudice amministrativo conosceva esclusivamente dell’illegittimità dell’atto impugnato, ricondotta entro l’alveo delle tre ipotesi classiche di violazione di legge, eccesso di potere ed incompetenza.
Non veniva, dunque, riservato alcuno spazio di indagine alla fondatezza della pretesa avanzata dal ricorrente.
Sebbene tale sistema accordava protezione pienamente satisfattoria agli interessi legittimi c.d. oppositivi (ove il privato, titolare di un diritto preesistente all’agire della P.A., subisce una dequotazione del proprio diritto in virtù dell’incidenza negativa del provvedimento), altrettanto non poteva dirsi per i casi in cui si faceva questione di interessi legittimi c.d. pretensivi, per essi intendendosi gli interessi dei privati ad ottenere un provvedimento espansivo della propria sfera giuridica ( es. la concessione, l’autorizzazione et similia)[6].
In simili ipotesi, la pronuncia giudiziale risultava inutiliter data, attesa l’assenza di strumenti in ottemperanza idonei a rendere coattivo l’ordine giurisdizionale nei confronti della P.A.
L’odierno sistema processuale è ispirato, invece, al principio della atipicità delle azioni processuali amministrative.
Mutuando nel processo amministrativo le statuizioni consacrate nella Carta Costituzionale (artt. 24, 103 e 113), il Legislatore, a partire dall’emanazione della legge 205 del 2000, ha aderito a suddetto principio, riconoscendo piena ed effettiva tutela alle posizioni di interesse legittimo.
In effetti, la tutela eminentemente annullatoria si configurava come una forma rimediale incompleta, in quanto comportava il mero effetto di espungere dal mondo giuridico gli effetti dell’atto impugnato, non estendendo il sindacato giudiziale ad una verifica circa la posizione del singolo e la relativa utilità concreta negata a causa di un provvedimento lesivo.
In ossequio al principio suddetto, al G.A. viene riconosciuta la tutela degli interessi legittimi, piena ed effettiva, estesa alla verifica circa l’utilità concreta di una pronuncia di annullamento rispetto alla pretesa sostanziale del ricorrente, cui vengono affiancate, in un’ottica storico-evolutiva, dapprima la tutela risarcitoria e, successivamente, ulteriori tecniche processuali, tra cui si rammentano l’azione di accertamento, di condanna e di esatto adempimento[7].
Nonostante nell’attuale configurazione processuale la disciplina rimediale appena delineata mette in risalto numerosi aspetti di analogia tra i diritti soggettivi e gli interessi legittimi, la distinzione strutturale di tali posizioni attive risulta di indiscussa rilevanza in tema di riparto di giurisdizione.
Sulla base del dettato costituzionale di cui all’art. 103 Cost, la tutela degli interessi legittimi e, in particolari materie vincolate dalla legge, anche dei diritti soggettivi, compete alla giurisdizione del G.A., residuando in capo agli organi della giustizia ordinaria le controversie in cui si faccia questione di diritti soggettivi.
Ebbene, l’assemblea costituente, in linea con l’orientamento dottrinale prevalente, aderisce al criterio della causa petendi, quale meccanismo di individuazione della giurisdizione del G.A. e del G.O. ogniqualvolta la Pubblica Amministrazione assuma la veste di parte resistente in un giudizio proposto dal privato.
In altri termini, il criterio della causa petendi esalta il ruolo e la consistenza della posizione giuridica dedotta in giudizio, relegando un ruolo marginale al criterio basato sulla tipologia di tutela evocata dal privato o sulla prospettazione soggettiva di tale posizione dal medesimo concepita.
Sicché, qualora il ricorrente deduce in giudizio la lesione di un interesse legittimo, la giurisdizione si radica in capo al Giudice Amministrativo; mentre, laddove il privato faccia valere un diritto soggettivo, la controversia deve essere inquadrata entro l’ambito di operatività del Giudice Ordinario, ferma restando la riserva di giurisdizione esclusiva del G.A. nelle materie tassativamente indicate ex lege, come evincibile dalla lettura congiunta degli artt. 103 Cost. e 133 C.P.A.
La distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, d’altronde, risulta speculare alla dicotomia fondata sulla differenza tra carenza di potere e cattivo uso del potere amministrativo[8].
Infatti, la carenza di potere costituisce un fenomeno patologico che si manifesta in tutti i casi in cui la P.A. esercita un potere pubblico in assenza di una norma attributiva di tale potere.
In ipotesi siffatte, la questione del riparto di giurisdizione investe posizioni di diritto soggettivo dal momento che, difettando il presupposto legale in virtù del quale la P.A. può agire per il perseguimento dell’interesse pubblico, si determina un’indebita ingerenza del soggetto pubblico nella sfera giuridica del privato normativamente protetta.
Diversamente, il cattivo uso del potere pubblico inerisce alla circostanza in cui la Pubblica amministrazione, ancorché legislativamente investita della funzione pubblicistica, agisce in spregio alle disposizioni contenute nella norma che gli attribuisce il potere.
In tal caso, l’esistenza di un precetto legale assegna alla P.A. la legittimazione ad esercitare lo ius imperii per il soddisfacimento delle esigenze della collettività; purtuttavia, la p.a. esercita tale potere in modo difforme rispetto alle statuizioni legali.
Ciò determina, naturalmente, un vulnus all’assetto degli interessi del privato coinvolto dall’agire amministrativo, per effetto delle modificazioni e/o delle alterazioni incidenti negativamente ed in modo significativo sulla sua sfera giuridica.
Per questa via, tale posizione soggettiva assurge al ruolo di interesse legittimo, con la conseguenza che l’eventuale compromissione dell’integrità di tale interesse deve essere lamentata innanzi al G.A., attesa la spendita del potere pubblicistico legittimamente scaturente da una norma attributiva del potere, ma scorrettamente esercitata dalla p.a.
Ancorché tradizionalmente la dottrina e la giurisprudenza abbiano posto l’accento sulle conseguenze negative derivanti dagli atti e dai provvedimenti definitivi posti in essere dalla pubblica amministrazione, appare opportuno dar conto del fatto che la funzione pubblica non si esaurisce nel novero di tali atti e provvedimenti, ma viene, altresì, esercitata dando rilevanza ai comportamenti antecedenti all’emanazione di un provvedimento.
Si tratta di tutte le condotte causalmente e/o strutturalmente connesse alla fase procedimentale ossia quella fase che costituisce il prius logico e cronologico, prima che giuridico, della determinazione finale.
L’approfondimento della tematica afferente alla rilevanza dei comportamenti amministrativi non è priva di pregio ai fini dell’individuazione del riparto di giurisdizione.
Infatti, ritenuta pacifica la posizione di interesse legittimo a fronte dell’emanazione di atti e provvedimenti rispetto ai quali la P.A. si pone in posizione di superiorità, la questione sulla natura del comportamento posto in essere dalla medesima ha dominato il dibattito giuridico.
Infatti, si è rilevato come soltanto i comportamenti amministrativi, riconducibili, quand’anche indirettamente, all’esercizio di un potere pubblico, costituiscono fonte di incidente per gli interessi legittimi, esulando da tale enucleazione dogmatica i comportamenti “meri” ossia i comportamenti assunti dalla P.A. quando non agisce in veste di auctoritas, bensì esplica la propria funzione iure gestionis, con ciò assoggettandosi alle regole di diritto comune.
Non può, pertanto, revocarsi in dubbio che solo i comportamenti posti in essere con atti di imperio possono formare oggetto di un sindacato giudiziale amministrativo, acclarata la loro natura amministrativa tout court.
Invero, il Giudice delle Leggi è intervenuto sulla questione, con due storiche pronunce del 2004[9] e del 2006[10], dichiarando l’illegittimità costituzionale di due norme processuali che ancoravano i comportamenti meri alla tutela amministrativa.
A ben vedere, la declaratoria di incostituzionalità ha dato la stura ad un ridimensionamento dell’ambito di operatività della giurisdizione amministrativa, da esso escludendovi i comportamenti meri, non ricollegati, per l’appunto, alla spendita dei poteri pubblicistici della P.A..
Così opinando, al pari degli atti e dei provvedimenti, i comportamenti possono costituire fonte di obblighi risarcitori nella misura in cui venga rilevato un illegittimo esercizio del potere della P.A. dotato di potenzialità dannosa.
Eppure, in epoca antecedente all’entrata in vigore della legge 205 del 2000, che ha ricondotto ad unità la giurisdizione in tema di risarcimento del danno in capo al G.A., nell’ambito del processo amministrativo vigeva il dogma della irrisarcibilità degli interessi legittimi, la cui lesione investiva un giudizio di puro annullamento dell’atto impugnato.
Con un intervento del Supremo collegio di legittimità del 1999, si è assistito ad un radicale sgretolamento di tale assioma, grazie all’attribuzione del carattere sostanziale delle posizioni di interesse legittimo.
Ad onta del riconoscimento del risarcimento dei danni derivanti dalla lesione degli interessi legittimi, il giudice nomofilattico ricondusse l’azione risarcitoria entro le maglie della giurisdizione ordinaria, facendo rinvio alla disposizione di cui all’art. 2043 c.c. e facendo, comunque, salva la possibilità di demandare al G.A. le sole controversie relative all’eventuale risarcimento del danno nelle materie di giurisdizione esclusiva ( art. 7 Legge nr. 1034 del 1971).
Detto altrimenti, la Corte di Cassazione sostenne che l’art. 2043 c.c., incarnando il dogma della tutela risarcitoria tout court, dovesse essere considerata alla stregua di una norma primaria, in grado di garantire tutela riparatoria a tutti gli interessi meritevoli di protezione secondo l’ordinamento giuridico, prescindendo dalla consistenza della situazione fatta valere dal privato; ciò in quanto tale posizione costituiva esclusivamente la fonte dell’obbligo risarcitorio.
Deve rilevarsi come tale orientamento, implicitamente auspicando un ritorno al vecchio sistema di riparto informato al criterio del petitum ormai superato, nonché presentando un sistema di doppia giurisdizione, fu immediatamente sconfessato dal Legislatore ordinario mediante l’introduzione della novella normativa nr. 205 del 2000.
La centralità assunta da tale legge va ravvisata nell’approccio risolutivo delle problematiche applicative portate alla luce con la succitata sentenza nr. 500/ 1999[11].
Infatti, il legislatore risolse definitivamente il problema della doppia giurisdizione legato all’azione risarcitoria, in quanto, affermando il principio della unicità della giurisdizione in capo al giudice amministrativo, eliminava in radice la possibilità che il privato esperisse l’azione dinanzi al G.A. per ottenere l’annullamento dell’atto ed il risarcimento del danno nelle materia di giurisdizione esclusiva e, in via residuale, al G.O. per ottenere il mero risarcimento dei danni conseguenti alla lesione dell’interesse legittimo, previa disapplicazione del provvedimento illegittimo.
La ricostruzione teorica appena delineata è stata interamente trasfusa nel D.Lgs. nr. 104 del 2010, recante le nuove norme del processo amministrativo, che ha recepito l’impostazione del legislatore del 2000 precisamente nelle disposizioni contenute negli artt. 7, 30 e 133 del testo codicistico.
Stante la centralità del principio di concentrazione delle tutele dell’interesse legittimo in capo al G.A. e considerata la rilevanza delle condotte procedimentali che violano le norme attributive del potere pubblico, non v’è chi non veda come la violazione dei doveri procedimentali sia suscettibile di arrecare un nocumento ad una posizione di interesse legittimo, in quanto il procedimento raffigura la fase emblematica di espletamento della funzione pubblica, dando luogo ad una situazione soggettiva la cui tutela non può che essere azionata dinanzi agli organi di giustizia amministrativa.
A tal fine non può trascurarsi la rilevanza assunta dall’ulteriore dovere procedimentale consistente nell’obbligo di osservanza dei termini di conclusione del procedimento amministrativo gravante in capo a chi esercita un potere pubblico.
Nell’attuale panorama normativo è stato introdotto il principio di certezza temporale, corollario imprescindibile dell’affidamento del privato nei confronti dell’azione amministrativa.
Sicchè, il mancato rispetto dei termini procedimentali comporta l’insorgenza di un inadempimento a fronte del quale l’ordinamento accorda tutela risarcitoria.
L’intentio legis risiede nell’esigenza di salvaguardare la posizione giuridica del privato che anela a conseguire l’utilità finale entro i termini normativamente previsti e la cui inosservanza colpevole della PA è suscettibile di arrecare un pregiudizio serio ed apprezzabile.
Tuttavia, non può trascurarsi il dibattito sorto intorno alla nozione del cosiddetto danno da ritardo, atteso che parte della dottrina ritiene che sussistano due species di nocumento: da un lato il pregiudizio derivante dalla tardiva adozione di un provvedimento favorevole all’istante e dall’altro lato il danno da ritardo mero, volto a stigmatizzare la mera inerzia della PA o la mancata emanazione del provvedimento richiesto, ancorché sfavorevole.
Le differenze intercorrenti tra le due fattispecie appena illustrate sono evidenti, posto che nella prima ipotesi assume rilievo centrale il giudizio di legittimità dell’azione amministrativa, assente nel secondo caso.
Sul versante giurisprudenziale, l’orientamento consolidato dell’Adunanza Plenaria (Consiglio di Stato, sentenza nr .7 del 2005) ha aderito ad una tesi restrittiva, considerando che il mero ritardo nell’adozione di un provvedimento non comporti ex sé l’affermazione di responsabilità in capo alla PA inadempiente.
Ciò in quanto, al pari di ogni indagine di responsabilità, anche l’analisi in ordine ai pregiudizi arrecati dal comportamento della PA non può prescindere dallo scrutinio circa la sussistenza degli elementi costitutivi del danno ingiusto ex art.2043c.c[12]..
Tale assunto è stato ripetutamente ribadito dallo stesso consesso nomofilattico, che ha statuito l’onore di dimostrare la spettanza del bene della vita leso dal comportamento illegittimo della PA nonché la lesione inferta e la colpa della pubblica amministrazione.
Quanto invece al danno da ritardo mero, che censura l’inerzia della PA, deve rammentarsi l’entrata in vigore dell’art. 28 della Legge nr. 98/2013, che introduce il diritto per l’interessato di richiedere un indennizzo per il semplice ritardo riconducibile all’inerzia dell’Amministrazione rispetto alla conclusione dei procedimenti amministrativi avviati su istanza di parte.
Tale istituto integra il novero dei rimedi garantiti dal Legislatore ai sensi dell’art. 2 bis della legge 241/90, ove si precisa che la tutela indennitaria acquisisce carattere aggiuntivo e complementare rispetto al rimedio risarcitorio.
La ratio della disposizione de qua è legata alla considerazione che il ritardo costituisce una lesione del fattore tempo, rispetto al quale discende la potenziale realizzabilità di una serie di iniziative del privato, la cui lesione è direttamente proporzionale all’incertezza sui tempi di conseguimento del bene della vita cui il privato aspira.
Dunque, il tempo acquisisce un valore monetario, non necessariamente legato alla fondatezza dell’istanza del privato[13], atteso che l’obbligo di provvedere costituisce diretta espressione dei doveri costituzionali di correttezza e buona amministrazione (art. 97 Cost.), da cui deriva per il privato una legittima aspettativa all’adozione del provvedimento amministrativo.
Del resto, anche l’indennizzo da mero ritardo rappresenta diretta espressione del principio di certezza giuridica, cui è informato l’intero sistema ordinamentale, posto che con la tutela indennitaria s’intende garantire stabilità e definitività alle vicende giuridiche del rapporto sottostante al procedimento amministrativo avviato dalla parte interessata.
Il ritardo nell’adozione di un provvedimento entro i termini legalmente previsti costituisce una delle molteplici manifestazioni di responsabilità per inadempimento poste in essere dalla P.A. e dà luogo anche a responsabilità non solo di carattere amministrativo.
Infatti, il soggetto pubblico, perseguendo finalità di interesse pubblico con sacrificio di quelli privati, considerati interessi secondari che lambiscono l’agere amministrativo, diventa titolare di doveri comportamentali, dalla cui mancata osservanza scaturiscono condotte illegittime non solo rispetto alla legalità amministrativa, integrando anche condotte violative di regole civilistiche e/o di precetti penali.
L’accertamento della responsabilità civile o penale riconducibile all’azione della P.A. mostra la vulnerabilità di un sistema di regole solo apparentemente circoscritto al rapporto di supremazia che orbita intorno alla PA, rispetto al quale il cittadino apparirebbe un mero spettatore assoggettato alla volontà del potere pubblico.
Vi sono, invero, posizioni soggettive privilegiate che l’ordinamento riconosce e salvaguarda, apprestando una tutela piena che supera il fisiologico ius imperii della PA, ponendola sullo stesso piano del privato.
Si tratta della tutela di interessi costituzionalmente garantiti, che la Carta Fondamentale classifica alla stregua di principi irrinunciabili, fondamentali ed inaffievolibili dell’uomo, di fronte ai quali occorre operare un bilanciamento di interessi non sempre destinato a deporre in favore dell’interesse della collettività, cui anela il potere pubblico.
Essi costituiscono il nucleo fondamentale di ogni sistema democratico.
Tra essi figurano le libertà fondamentali come quella personale, di circolazione e di riunione, nonché il diritto alla salute. Lo stato è tenuto ad assicurare il rispetto di tali libertà attraverso il contemperamento di esigenze confliggenti di difficile risoluzione.
Il ruolo della P.A., pertanto, è quello di riservare lo spazio all’interno del quale vengono preservati diritti privilegiati, che non affievoliscono di fronte al potere pubblico, al pari di qualsivoglia interesse legittimo, poiché portatori di interessi e valori di rango superiore.
Sicché, in caso di violazione di tale speciale nucleo di valori, occorre individuare quali conseguenze discendano dal loro mancato rispetto e quali siano i riflessi scaturenti dall’eventuale pregiudizio arrecato ai destinati delle norme giuridiche che ne impongono l’osservanza.
La questione assume rilievo preminente nel periodo storico e politico che il Paese sta vivendo a causa dell’emergenza sanitaria in atto dichiarata con DPCM del 31 Gennaio 2020.
Ci si chiede, in particolare, quali siano le responsabilità della compagine governativa, che, dopo la dichiarazione dell’emergenza sanitaria, ha messo in atto il piano di contrasto per il contenimento del virus in data 08.03.2020.
Naturalmente, lungi dall’operare considerazioni politiche e/o personali in ordine all’operato del governo in tale contesto eccezionale, ci si chiede quali siano i possibili effetti di un eventuale accertamento di responsabilità del governo, nel caso in cui venga acquisito il ritardo nell’apprestamento di cautele restrittive che avrebbero dovuto essere messe in atto con adeguata solerzia.
Sul piano dogmatico, appare utile rammentare che i Ministri non beneficiano dell’immunità riservata ai membri del Parlamento ex art. 68 cost., con la conseguenza che le azioni compiute nell’esercizio delle loro funzioni sono suscettibili di integrare fattispecie rilevanti sul piano penale, civile ed amministrativo, secondo quanto previsto dal combinato disposto degli articoli 28 e 96 della Carta Fondamentale.
Proprio la mancata previsione di posizioni di privilegio per i Ministri, assimilabili all’immunità parlamentare, induce a considerare verosimile la possibilità che l’attuale Governo sia destinatario di azioni di accertamento della responsabilità per ritardata predisposizione di adeguate misure di contenimento e diffusione capillare del contagio da covid-19, le cui ripercussioni negative nei settori nevralgici del Paese sono di tutta evidenza.
La condizione emergenziale italiana, infatti, ha avuto un forte impatto economico e sociale, legato all’improvviso arresto delle filiere produttive.
Non solo.
Il dramma sanitario non sta investendo solo il profilo economico-finanziario, in quanto sta mostrando la sua forza devastante anche sul piano umano e della salute pubblica. Ci si riferisce alle numerose vittime del contagio, corrispondenti ad altrettanti esiti infausti, molto spesso legati all’incapacità del personale sanitario di fronteggiare l’emergenza in carenza dei presidi ospedalieri necessari e secondo precise indicazioni terapeutiche in grado di contrastare l’evoluzione incerta e sconosciuta della patologia.
In un contesto permeato da profonde incertezze, molti hanno messo in luce le carenze di un meccanismo decisionale che, forse, ha mancato di predisporre tempestivamente le misure idonee a scongiurare l’insorgenza di elevati livelli di diffusione del virus tra la popolazione, nonostante le raccomandazioni ed il livello di allerta verso la pericolosità della situazione manifestati dall’OMS[14]. La disamina delle possibili fattispecie di responsabilità del Governo, quale organo esecutivo dello Stato, impone di ricordare che i Ministri sono politicamente e giuridicamente responsabili delle condotte teleologicamente legate al mandato politico di cui sono diretta espressione e di tali azioni rispondono non solo dinanzi al Parlamento ma anche dinanzi alle competenti autorità giudiziarie.
Gli strumenti di accertamento della responsabilità giuridica trovano il proprio addentellato normativo nell’articolo 28 della Costituzione, che così recita:“ I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”, di concerto con il precetto costituzionale di cui all’articolo 113, che così dispone: “Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti. La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa”-
La peculiare vicenda epidemiologica che ha destato numerose perplessità sulla correttezza delle iniziative intraprese dal Governo, investe anzitutto profili di scrutinio penale delle condotte poste in essere dall’esecutivo.
2.Caratteristiche della responsabilità penale della P.A
Al fine di esaminare le possibili responsabilità penali del Governo relativamente alla gestione dello stato di emergenza Covid-19, è necessario operare alcune premesse di ordine storico-normativo.
Ebbene, il primo importante provvedimento emesso dal Governo italiano nella prima fase (31 gennaio – 25 marzo 2020) è la Delibera del Consiglio dei Ministri del 31 Gennaio 2020, con la quale si è proceduto formalmente alla “Dichiarazione dello stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”, per sei mesi a far tempo dalla data della delibera (dunque, fino al 31 luglio 2020).
Successivamente, il Governo ha presentato il decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito nella legge 5 marzo 2020, n. 13 (successivamente abrogato dal decreto-legge n. 19/2020), con il quale sono state individuate in generale le “Misure urgenti per evitare la diffusione del COVID-19”, da adottarsi nei comuni o nelle aree ove fosse risultata positiva almeno una persona per la quale non fosse stata nota la fonte di trasmissione.
Dinanzi ad una situazione di grave diffusione globale dell’epidemia sul territorio nazionale, delicata per la tenuta del sistema sanitario nazionale, il Governo, nella notte tra il 7 e l’8 marzo 2020, ha deciso di chiudere in ingresso ed in uscita la regione Lombardia e altre 14 province del nord Italia.
La notizia, trapelata e diffusa attraverso la circolazione di una bozza del predetto decreto, ancor prima che venisse approvato il provvedimento, ingenerava panico e preoccupazione nella popolazione.
Per l’appunto, centinaia di persone che si trovavano nelle cosiddette zone rosse per motivi di studio, svago, lavoro, temendo di rimanere bloccati in seguito al decreto che è stato successivamente approvato, in piena notte sono rientrati presso la loro destinazione d’origine, dal Nord al Sud Italia. Tale comportamento ha messo in grave difficoltà i Comuni del Sud, che hanno dovuto affrontare una situazione emergenziale di non poco conto, oltre che imprevista, viste anche le evidenti disparità economiche e sanitarie rispetto ai presidi ospedalieri di cui dispongono i virtuosi comuni del Nord.
Di fronte ad una situazione tanto eccezionale quanto allarmante, ci si è chiesti se la pubblicazione di un documento normativo confluito nel DPCM dell’08 marzo 2020, dopo ben 40 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del DPCM del 31.01.2020, che ha dichiarato lo stato di massima allerta e l’emergenza sanitaria, possa integrare gli estremi costitutivi della fattispecie penale di pandemia colposa di cui all’articolo 438 c.p., dato che tale ritardo nella predisposizione di strumenti di contenimento potrebbe avere agevolato la rapida diffusione del contagio.
Per meglio argomentare è fondamentale considerare due pronunce della Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, rispettivamente la sentenza n. 48014 del 26 novembre 2019 Sez. I e la sentenza n. 576 dell’11 gennaio 2008[15].
In particolare, la pronuncia della Cassazione Pen. sez. I , 26 novembre 2019, n. 48014 ha affermato il seguente principio di diritto: “ai fini della configurabilità del reato di epidemia può ammettersi che la diffusione dei germi patogeni avvenga anche per contatto diretto fra l’agente, che di tali germi sia portatore, ed altri soggetti, fermo restando, però, che da un tale contatto deve derivare la incontrollata e rapida diffusione della malattia tra una moltitudine di persone” .
L’individuazione di responsabilità penalmente rilevanti viene, inoltre, in considerazione con riferimento al consolidato principio di diritto pronunciato sin dal 2008 dalle Sezioni Unite civili[16] della Corte di Cassazione secondo il quale: “ l’evento tipico dell’epidemia si connota per diffusività incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti e quindi per una malattia contagiosa dal rapido e autonomo sviluppo entro un numero indeterminato di soggetti, per una durata cronologicamente limitata ”.
L’analisi dei principi espressi dal Giudice nomofilattico conduce a riflessioni rilevanti in ordine alla nozione di epidemia ai fini dell’accertamento di responsabilità. Infatti, il reato di epidemia[17] consiste nello spargimento dei germi patogeni in grado di colpire in tempi brevi un numero elevato di soggetti, con la conseguenza che il contagio umano, che si realizza mediante contatto fisico, non può essere ricondotto alla nozione normativa di diffusione ed il reato de quo incontrerebbe una difficoltà di ordine pratico rispetto all’integrazione della fattispecie criminosa[18].
A ben vedere, l’elemento centrale è costituito dal dato temporale entro cui si verifica il contagio, che contribuisce a qualificare la fattispecie in termini di reato di pericolo concreto per la pubblica incolumità, tanto da rappresentare il discrimine tra la rilevanza della condotta sub specie del delitto in questione e l’irrilevanza della stessa.
Non poche, quindi, saranno le problematiche che la giurisprudenza dovrà fronteggiare a seguito delle querele/denunce presentate contro il Governo. Basti pensare alle azioni proposte da AlbaMediterranea e Assoconsumatori contro il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio dei Ministri, testate giornalistiche, radiofoniche e televisive ed altri per false comunicazioni, abuso della credulità popolare, procurato allarme ed altro, nonché all’esposto proposto dall’Avvocato Taormina contro il Presidente del Consiglio dei Ministri, alla querela a firma dell’Avvocato Ferretti, nonché quella proposta dall’ex magistrato Augusto Sinagra. Non verranno da meno le proposte risarcitorie dei privati nei confronti di Aziende Ospedaliere.
2.1 Profili di responsabilità civile della P.A. alla luce dell’emergenza sanitaria da Covid-19
Un’ulteriore considerazione merita l’ipotesi di configurabilità di una responsabilità civile da parte del Governo rispetto ad una condotta imperita, negligente ed imprudente nell’assunzione di decisioni precauzionali che, se, in sede di accertamento giudiziale, dovessero essere considerate tardive, potrebbero costituire la fonte legittimamente il riconoscimento di liquidazioni risarcitorie in favore delle vittime superstiti del contagio e/o dei prossimi congiunti, cui è stato causato un pregiudizio alla salute psico-fisica per effetto della diffusione prevedibile del contagio.
Si rammenti, a tal fine, che la responsabilità di cui trattasi va inquadrata nell’alveo della responsabilità di tipo extracontrattuale, disciplinata dall’art. 2043 c.c., sicché ai fini del suo accertamento, è fondamentale dimostrare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, tanto dell’elemento soggettivo, costituito dalla presenza dell’atteggiamento colposo o doloso dell’agente, quanto di quelli oggettivi, ossia la condotta e il nesso causale tra la condotta e l’evento verificatosi.
Mutuando i tratti caratteristici della fattispecie aquiliana al caso che ci occupa, preme osservare che l’applicazione pratica dei criteri di accertamento della responsabilità di cui trattasi risulta particolarmente difficoltosa sia per la tipologia di soggetto agente nei confronti del quale il privato ha l’onere di esperire l’azione di risarcimento sia per la difficoltosa dimostrazione del nesso causale tra condotta ed evento, assistito dal comportamento colposamente riconducibile ad una determinazione tardiva da parte del Governo rispetto alla predisposizione cogente di misure di contenimento del contagio da covid 19.
Invero, quanto al primo elemento costitutivo, deve ritenersi che la natura giuridica pubblica del soggetto agente non assume ormai rilevanza dirimente, atteso che risulta normativamente pacifico che anche l’attività posta in essere dalla pubblica amministrazione può assurgere a fonte di danno risarcibile; risulta, inoltre, altrettanto assodato che non ha più alcuna importanza la distinzione tra interesse legittimo e diritto soggettivo rivestita dal privato leso, poiché ogni posizione giuridica soggettiva è meritevole di protezione da parte dell’ordinamento, a prescindere da classificazioni descrittive di tale situazione, che afferisce esclusivamente alla modalità attraverso cui si estrinseca il rapporto tra pubblica amministrazione e privato.
Ciò in quanto il diritto al risarcimento del danno, a prescindere dalla fonte del rapporto da cui scaturisce, assurge a diritto soggettivo autonomo e perfetto, tale da conferire una potestà di azione al suo titolare tutte le volte in cui la sua sfera giuridica privata venga lesa da comportamenti dissonanti rispetto al paradigma legale di riferimento.
La condotta illecita della pubblica amministrazione, pertanto, può determinare un nocumento al privato, sul quale incombe l’onere di provare il fatto costitutivo del diritto ad ottenere il relativo ristoro ed il nesso di causalità tra fatto ed evento.
Ne deriva che le eventuali richieste risarcitorie dovranno essere accompagnate dalla dimostrazione che il ritardo nell’attivazione delle procedure di contenimento, culminate nella predisposizione del piano di riduzione dei mezzi di trasporto pubblici messi a disposizione dell’utenza, nei divieti di spostamento delle persone fisiche non assistiti da comprovate giustificazioni e nella chiusura di uffici pubblici non essenziali e di catene di produzione commerciale, abbia determinato in modo serio ed apprezzabile la diffusione del contagio e che tale diffusione, rispetto alle raccomandazioni dell’OMS ed alle certificazioni pervenute dalla comunità scientifica, non si sia caratterizzata per imprevedibilità: proprio tale circostanza esenterebbe lo Stato, rectius il Governo, come massimo esponente della funzione pubblica, dal dovere di risarcire quanto sono stati lesi nel loro diritto alla salute per effetto del contagio.
Non si trascuri, in effetti, la circostanza che sul sito del Ministero della Salute è stato pubblicato un documento dal titolo "Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale"[19], che ben si attaglia alla situazione che stiamo vivendo e che costituisce al contempo una guida per i governanti e per i governati in grado di istruire sulle modalità e sulle tempistiche delle azioni necessarie per contenere gli effetti devastanti del contagio.
L'obiettivo del Piano è rafforzare la preparazione alla pandemia a livello nazionale e locale al fine di ridurre l'impatto della pandemia sui servizi sanitari e sociale ed assicurare il mantenimento dei servizi essenziali e di identificare tempestivamente i casi di influenza causati da nuovi sottotipi virali per riconoscere l'inizio della pandemia.
Ebbene, in base al piano predisposto, occorrerà vagliare la tempestività o meno delle azioni intraprese dal Governo, per comprendere se sussistono apprezzabili possibilità per il privato di esperire l'azione civile nei confronti del Governo stesso.
[1] SALVATORE PUGLIATTI, Scritti Giuridici, I 1927-1936, Giuffrè Editore, 2008, pg.432
[2] MASSIMO MECCERELLI, PAOLO PALCHETTI, CARLO SOTIS, Il lato oscuro dei diritti umani,Esigenze emancipatorie e logiche di dominio nella tutela giuridica dell’individuo,Historia del Derecho, Editorial Dykison, 2014, p.349
[3] VINCENZO SPAGNUOLO VIGORITA, Una giustizia per la pubblica amministrazione,Guida Editori,1983,pg 344
[4] NAZARENO SAITTA, Sistema di Giustizia amministrativa, Giuffrè Editore,2012, pg.5
[5]MAURIZIO SANTISE, Coordinate ermeneutiche di diritto amministrativo, Giappichelli Editore,2017, pg.636.
[6] Sul punto cfr ROBERTO ECCETTUATO, Sulla risarcibilità del danno derivante da lesione di interessi legittimi articolo su lexitalia, link di riferimento : http://www.lexitalia.it/articoli/eccettuato_risarcibilita.htm
[7] GUIDO CORSO ,GAETANO FARES, FRANCESCO FOLLIERI, Giustizia amministrativa: Casi di giurisprudenza, Giappichelli Editore,2014, pp.13-21
[8] Ibidem, pg.189-193
[9] Corte Costituzionale sentenza n.204 del 5 Luglio 2004
[10] Corte Costituzionale sentenza n.191 dell’11 Maggio 2006
[11] Corte di Cassazione , SS.UU., sentenza 22/07/1999 n° 500
[12] Tar Sicilia ,Catania, Sez .I, 6 Marzo 2017, n.445; Tar Lazio,Roma,Sez.I,14 Dicembre 2016,n.12493;Tar Puglia,Lecce,Sez.1,19Dicembre 2015,n.3644.
[13] Cons.Stato,Sez IV,4 Maggio 2011,n.2675; anche Cons.Stato,Sez.V,21 Marzo 2011, n.1739.
[14] Il preambolo del DPCM del 31 Gennaio 2020 Gennaio 2020 recita: “Vista la dichiarazione di emergenza internazionale di salute pubblica per il coronavirus (PHEIC) dell'Organizzazione mondiale della sanità del 30 gennaio 2020; Viste le raccomandazioni alla comunità internazionale della Organizzazione mondiale della sanità circa la necessità di applicare misure adeguate; Considerata l'attuale situazione di diffusa crisi internazionale determinata dalla insorgenza di rischi per la pubblica e privata incolumità connessi ad agenti virali trasmissibili, che stanno interessando anche l'Italia.”
[15] Sul punto cfr GIOVANNI PALMIERI, Una possibile analisi sulla (ir)rilevanza penale delle condotte agevolatrici del contagio da Covid-19, Un approfondimento degli aspetti penali legati all'emergenza Coronavirus e dei presupposti del reato di epidemia disciplinato dall'art. 438 c.p., pubblicato il 18/03/2020 su Altalex
[16] Corte di Cassazione, Sez.Un. Civile, sentenza n. 576 dell’11 Gennaio del 2008
[17] Sul punto cfr SANDRO FELCIONI, Un interessante pronuncia della Cassazione su epidemia, avvelenamento e adulterazione di acque destinate all’alimentazione, Cass., Sez. IV, sent. 12 dicembre 2017 (dep. 28 febbraio 2018), n. 9133, Pres. Piccialli, Est. Tornesi contributo su Diritto Penale Contemporaneo, Fascicolo 6/2018, ISSN 2039-1676.
[18] Sul punto la Corte di Cassazione, Sez IV Penale, sentenza n.9133 del 12 Dicembre del 2017 così ha affermato: “ la dottrina maggioritaria nonché la giurisprudenza di merito ed anche di legittimità ( Sez.IV n.2597 del 26/01/2011, Ceriello, sia pure in un obiter dictum) hanno infatti sottolineato che il fatto tipico previsto nell’ art. 438 cod.pen è modellato secondo lo schema dell’illecito causalmente orientato in quanto il legislatore ha previsto anche il percorso causale,con la conseguenza che il medesimo evento realizzato a seguito di un diverso percorso, difetta di tipicità. Pertanto l’epidemia costituisce l’evento cagionato dall’azione incriminata la quale deve estrinsecarsi secondo una precisa modalità di realizzazione, ossia mediante la propagazione volontaria o colpevole di germi patogeni di cui l’agente sia in possesso.La materialità del delitto è costituita sia da un evento di danno, rappresentato dalla concreta manifestazione, in un certo numero di persone, di una malattia eziologicamente ricollegabile a quei germi patogeni, sia da un evento di pericolo, rappresentato dall’ulteriore propagazione della stessa malattia a causa della capacità di quei germi patogeni di trasmettersi ad altri individui anche senza l’intervento dell’autore della originaria diffusione.La norma evoca, all’evidenza, una condotta commissiva a forma vincolata di per sé incompatibile con il disposto dell’art. 40, co. 2, c.p., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera o a quelle la cui realizzazione prescinde dalla necessità che la condotta presenti determinati requisiti modali.