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Pubbl. Gio, 9 Apr 2020

L´applicabilità retroattiva della maxi sanzione da lavoro sommerso alla luce dei criteri Engel

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Teresa Vuolo



E´ rilevante e non manifestamente infondata, secondo la Corte d´Appello di Napoli, la questione di legittimità costituzionale dell´art. 4, lett. b, legge n. 183/2010, nella parte in cui non prevede la sua applicabilità retroattiva a fatti commessi antecedentemente alla sua entrata in vigore


Con l’ordinanza n. 204 del 3 luglio 2019 la Corte d’Appello di Napoli, I sez. civ. [1], ha rimesso al vaglio della Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, lettera b, della legge 4 novembre 2010 n. 183, che ha modificato l’art. 3, comma 4 del decreto legge 22 febbraio 2002 n. 12, in materia di illecito amministrativo di impiego di lavoratori subordinati senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro privato, nella parte in cui non prevede la sua applicabilità retroattiva a fatti commessi antecedentemente alla sua entrata in vigore. 

La giurisprudenza di merito è così recentemente ritornata ad occuparsi del problematico rapporto tra il c.d. principio di retroattività favorevole e la disciplina della sanzione amministrativa - pecuniaria ex art. 4, lettera b, legge 4 novembre 2010 n. 183 (secondo cui: «Ferma restando l'applicazione delle sanzioni gia' previste dalla normativa in vigore, in caso di impiego di lavoratori subordinati senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di favore da parte del datore di lavoro privato, con la sola esclusione del datore di lavoro domestico, si applica altresi' la sanzione amministrativa da euro 1.500 a euro 12.000 per ciascun lavoratore irregolare, maggiorata di euro 150 per ciascuna giornata di lavoro effettivo. L'importo della sanzione e' da euro 1.000 a euro 8.000 per ciascun lavoratore irregolare, maggiorato di euro 30 per ciascuna giornata di lavoro irregolare, nel caso in cui il lavoratore risulti regolarmente occupato per un periodo lavorativo successivo. L'importo delle sanzioni civili connesse all'evasione del contributi e del premi riferiti a ciascun lavoratore irregolare di cui ai periodi precedenti e' aumentato del 50 per cento») anche alla luce delle soluzioni offerte dalla giurisprudenza soprannazionale. 

Invero, secondo la Corte d’Appello rimettente, non vi sarebbe alcun dubbio che la maxi sanzione da lavoro nero, concernente l’illecito amministrativo di impiego di lavoratori subordinati, senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro, da parte del datore privato, presenti natura sostanzialmente penale alla luce dei criteri individuati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, a partire dalla famosa sentenza Engel c. Paesi Bassi dell'8 giugno del 1976, con la quale si sono individuati per la prima volta tre criteri, utilizzabili in via alternativa o cumulativa,ai fini della qualificazione penale di una sanzione ed allo scopo di assicurare la uniforme applicazione di uno standard minimo di garanzie in tutti gli Stati-parte:

  1. La classificazione dell’illecito nell’ordinamento nazionale;
  2. L’intrinseca natura dell’illecito;
  3. La severità della sanzione applicabile.

La Corte Europea, infatti proprio sulla scorta di suddetti criteri, nella sentenza Menarini c. Italia e Grande Stevens ed altri c. Italia, ha ritenuto di natura penale, ai sensi dell’art. 6 della CEDU, rispettivamente le sanzioni amministrative in materia di concorrenza e le sanzioni amministrative in materia di manipolazione del mercato.

Ritornando alla fattispecie oggetto di disamina si tratterebbe, invero, di una previsione sanzionatoria che non è diretta a riparare il pregiudizio cagionato al sistema previdenziale, ma bensì a contrastare una pratica illegale, attraverso un vero e proprio regime punitivo, fondato sull’applicazione di una sanzione che può raggiungere anche un importo rilevante  e pertanto, non vi sarebbe alcuna ragione per escludere che un simile regime sanzionatorio debba essere escluso dall’ambito applicativo del principio di legalità penale di cui all’art. 7 della CEDU.

Ragionando in questi termini, ne consegue che la natura di garanzia convenzionale del principio della retroattività della lex mitior, unitamente all’inclusione dell’illecito amministrativo e delle relative sanzioni nella materia penale ai sensi della CEDU, comporta il constato con gli artt. 3 e 117 Cost. - per violazione del parametro interposto rappresentato dall’art 7 della CEDU - dell’art. 4, lettera b, legge 4 novembre 2010 n. 183 nella parte in cui non prevede la sua applicabilità retroattiva a fatti commessi antecedente alla sua entrata in vigore. 

Si aggiunge, inoltre, che la norma, una volta affermatane la natura sostanzialmente penale, pare in netto contrasto anche con il principio di cui all’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che stabilisce che se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima.

Non si ci può esimere dal rilevare la necessità di un intervento legislativo, idoneo, in via definitiva, a recepire le soluzioni della giurisprudenza sovranazionale.

Diversamente opinando, il giudice interno continuerà a rivestire ampi spazi di discrezionalità interpretativa, con un oggettivo rischio di lesione dei principi fondamentali di libertà e di uguaglianza.