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Pubbl. Mer, 8 Apr 2020

Il reato di inosservanza di un ordine teso ad impedire la diffusione di malattia infettiva

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Spetrillo Luigi



Il decreto legge 25 marzo 2020 n. 19 recante “Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19”, prevede la fattispecie penale della violazione della quarantena domiciliare, affidandone la repressione all´art. 260 r.d. n. 1265/1934, salvo che il fatto non costituisca reati ai sensi dell´art. 452 cp o altro reato più grave.


ENG Compliance with the restrictive measures to contain the spread of the pandemic by Covid – 19 was initially entrused to art. 650 cp, a rule that puniche the violation of rodersi leaglly iussed by Public Authority for reasons of safety, public order and hygiene. However, the succession of blatant and open violations of the measures imposed by the Government has led to the need to resort to other criminal cases, with greater deterrent force. Such norm is characterized by some Offices of the Prosecutor in art. 260 r.d. n. 1265 of 1934, norm that punishes the violation of the measures taken by the authority to prevent the spread of infectious diseases of man. The legislator has paid attention to the initiatives of the Public Ministry and Decree Law of 25 March 2020 n. 19 provided for the use of art. 26o r.d. n. 1265/1934 to punish those who violate the provisions of the home quarantine. 260 r.d. n. 1265 of 1934 to identify its characteristics and criticalities.

Sommario: 1. Introduzione. – 2. La fattispecie. – 3. Aspetti procedurali

1. Introduzione

Il contenimento della diffusione epidemica del virus Covid-19 ha messo in luce la necessità di assicurare il rispetto delle misure restrittive della libertà di circolazione, recentemente introdotte con i numerosi Dpcm, ordinanze delle amministrazioni centrali e locali.

L’osservanza delle misure introdotte è assicurata, o almeno dovrebbe esserlo, dall’art. 650 c.p., fattispecie contravvenzionale che punisce l’inosservanza dei provvedimenti legalmente emessi dell’Autorità.

La norma, infatti, punisce la condotta di chiunque disubbidisca ad un provvedimento legalmente emesso dall’Autorità per ragioni di sicurezza, ordine pubblico e di igiene, sanzionandolo, salvo che il fatto ascritto non costituisca un reato più grave, con una pena a fino a tre mesi di arresto o con la pena dell’ammenda fino ad euro 206.

Tuttavia, la minaccia dell’art. 650 c.p. sta sortendo scarsi effetti sul piano della prevenzione generale, dal momento che, nonostante i controlli sempre più serrati delle Forze dell’Ordine e l’elevato numero di persone denunciate, ancora troppi appaiono i casi di violazione delle restrizioni imposte dal Governo.

Ciò è dovuto, forse, anche alla tenue portata dissuasiva dell’art. 650 c.p., fattispecie contravvenzionale, punita con pena alternative dell’arresto o dell’ammenda piuttosto blande, i cui effetti negativi sulla sfera personale del reo possono essere comunque neutralizzati mediante l’oblazione ex art. 162 bis c.p..

L’oblazione, infatti, consentirà l’estinzione del reato versando la metà della pena pecuniaria massima prevista, pari ad € 103 oltre le spese del procedimento (salvo una particolare gravità del fatto).

Per questo, alcuni uffici del Pubblico Ministero, in particolare il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, ipotizzano di contestare, in luogo dell’art. 650 c.p., la fattispecie di cui all’art. 260 r.d. 27 luglio 1934, n. 1265 ,cd. Testo Unico delle leggi sanitarie (d’ora in poi TULS).

A tali iniziative non è rimasto sordo il Legislatore in sede di redazione del decreto legge 25 marzo n. 19, recante “Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19”, dal momento che l’art. 260 TULS richiamato espressamente dal Legislatore per punire le violazioni della quarantena domiciliare da parte di chi sia risultato positivo al Covid – 19.

2. La fattispecie

Il combinato disposto degli artt. 1 co 1 lett. e) e 4 co 6 d.l. n. 19/2020, prevede che la violazione del divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena, in quanto risultate positive al virus Covid – 19 è punito, salvo che il fatto non integri il delitto ex art. 452 cp o una fattispecie ancor più grave, ai sensi dell’art. 260 rd. 27 luglio 1934 n. 1265, Testo Unico delle Leggi Sanitarie (d’ora in poi TULS).

Gli elementi fondamentali del nuovo reato sono due: 1) la disposizione di una  misura quarantennale perché l’agente è risultato positivo al Covid-19; 2) la violazione della quarantena mediante abbandonando la propria abitazione o dimora.

Allo scopo di assegnare una maggior forza dissuasiva all’art. 260 TULS, ha previsto un innalzamento delle pene detentive e pecuniare previste dalle norme, prevedendo che le sanzioni dell’arresto fino a sei mesi e con l’ammenda da lire 40.000 a lire 800.000, sono sostituite con l’arresto da 3 mesi a 18 mesi e con l’ammenda da euro 500 ad euro 5.000, così previsto dall’art. 4 co 7 d.l. n. 19/2020.

Inoltre, resta ferma la disposizione dell’art. 260 co 2 TULS che prevede un aggravamento di pena, qualora il fatto sia commesso da persona esercente una professione o un’arte sanitaria.

L’art. 260 TULS è una contravvenzione collocata nel Titolo V, Capo I del TULS, dedicato alle misure adottate dall’Autorità con la diffusione delle malattie infettive dell’uomo.

La disciplina appare alquanto singolare, dal momento che il Legislatore affida al Ministro dell’Interno, e non a quello della Salute, la determinazione, con proprio provvedimento, sentito il Consiglio Superiore di Sanità, di quali siano le malattie infettive e diffusive che diano luogo all’adozione delle misure sanitarie.

Il Ministro, inoltre, è competente all’adozione delle ordinanze speciali per la visita e disinfezione delle case, per l’organizzazione di servizi e soccorsi medici e per le misure cautelari da adottare contro la diffusione della malattia stessa, ai sensi dell’art. 262 TULS.

Il rispetto degli ordini emessi dall’Autorità per il contrasto alla diffusione di una malattia infettiva è presidiato dall’art. 260 TULS.

Il bene giuridico tutelato dalla norma è quello della salute pubblica, minacciata dalla diffusione di malattie infettive, assicurando l’osservanza delle misure adottate dagli organi esecutivi medianti provvedimenti contingibili  ed urgenti[1].

La norma, inoltre, secondo l’interpretazione giurisprudenziale non si riferisce solo al caso di malattie in atto (come nel caso del Covid-19) ma anche a situazioni in cui la malattia sia “già cessata”, oppure situazioni in cui i provvedimenti sono adottati per la prevenzione di un morbo non ancora manifestatosi, al fine di impedirne l’insorgenza[2].

Tuttavia, come precisato dalla giurisprudenza, la norma richiede la sussistenza di un pericolo concreto ed attuale di una malattia infettiva[3].

La condotta descritta dall’art. 260 TULS è modellata su quella indicata dall’art. 650 c.p., dal momento che il fatto penalmente rilevante si sostanza nell’inosservanza di un comando o di un divieto legalmente dato dall’Autorità.

Il reato, imputabile sia a titolo doloso che colposo, secondo le indicazioni dell’art. 42 ult. co c.p., potrà essere integrato sia in forma commissiva che omissiva, a seconda che il provvedimento violato dall’Autorità sia un ordine o un divieto.

L’art. 260 TULS, al pari dell’art. 650 c.p., integra il classico modello della norma penale in bianco, il cui precetto rimanda necessariamente ad una fonte secondaria per integrare la descrizione della condotta penalmente punita.

Con l’espressione “norme penali in bianco” si fa riferimento ad un tecnica normativa di redazione delle fattispecie criminose, in cui il contenuto del precetto è individuato da una norma diversa da quella che statuisce la pena[4].

Tale tecnica normativa è stata bersagliata da numerose critiche dottrinarie, le quali ritengono che il rinvio ad una fonte extrapenale, nella maggior parte dei casi di rango secondario o addirittura un provvedimento della PA, si ponga in contrasto con l’art. 25 cost, che individua nella legge la sola ed unica fonte delle norme penali.

La Corte Costituzionale, pur non affrontando direttamente la questione, ha ritenuto che le norme penali in bianco non siano in contrasto con la Costituzione.

Ed invero, nella sentenza n. 58/1975 della Corte Costituzionale, in relazione alla questione di legittimità dell’art. 1164 cod. nav. – censurato con riferimento agli artt. 25 e 70 Cost., in quanto, prevedendo una sanzione penale non solo per violazione di una legge, ma anche di regolamenti o di provvedimenti amministrativi, violerebbe il principio della riserva di legge in materia penale e conferirebbe una potestà legislativa ad un organo diverso da quello indicato dalla Costituzione – si legge, infatti, che <<a prescindere dal problema dogmatico sulla natura giuridica della norma penale in bianco>> è sufficiente richiamare l’indirizzo della Corte secondo cui <<il principio di legalità è violato solo quando non sia una legge (o un atto equiparato) dello Stato – non importa se proprio la medesima legge che prevede la sanzione penale o un’altra legge – a indicare con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell’autorità non legislativa, alla trasgressione dei quali deve seguire la pena>>[5].

La Corte, inoltre, ha successivamente escluso che il rinvio a diverse fonti in chiave di ulteriore specificazione valga di per sé a privare di autonomia precettiva la norma[6].

Pertanto, l’art. 260 TULS, si pone come una sorta “contenitore vuoto”, il cui interno sarà riempito dalle determinazioni assunte con l’ordine legalmente impartito dall’Autorità, sulla base dello stesso modello normativo delineato dall’art. 650 cp.

La possibilità che il precetto penale possa essere integrato da provvedimenti emessi dall’Autorità Amministrativa è stata ritenuta legittima dalla Corte Costituzionale, secondo cui <<la materialità della contravvenzione è descritta tassativamente in tutti i suoi elementi costitutivi e si pone in essere col rifiuto cosciente e volontario di osservare un provvedimento dato nelle forme legali dall’autorità competente per ragioni di giustizia, sicurezza, ordine pubblico, igiene. Spetta al giudice indagare, di volta in volta, se il provvedimento sia stato emesso nell’esercizio di un potere-dovere previsto dalla legge e se una legge dello Stato determini con sufficiente specificazione le condizioni e l’ambito di applicazione del provvedimento>>.[7]

Orbene, per stabilire se un determinato provvedimento integri un ordine dell’Autorità, bisognerà guadare al suo contenuto intrinseco ed al suo aspetto formale, tenendo presente che si tratta di ordini con cui l’Autorità può imporre obblighi di carattere di dare, fare o non fare a carico del singolo.[8][9]

Ed invero, nel caso dell’art. 650 cp,  come del resto anche per l’art. 260 TULS, la norma penale si pone come una norma incompleta in astratto, con la conseguenza che il provvedimento amministrativo si pone come elemento necessario per poter individuare la condotta penalmente irrilevante, in quanto lo stesso può costituire il presupposto, l’oggetto o il fine della condotta incriminata.

Quanto alla posizione del Giudice penale rispetto ad un provvedimento integrativo di un norma penale in bianco, la giurisprudenza maggioritaria della Cassazione come anche la dottrina più recente, ha ormai affermato che il Giudice è chiamato ad una verifica della legittimità dell’ordine dell’Autorità che si assume violato: in tale sindacato, infatti, si realizza l'accertamento della sussistenza di un elemento normativo della fattispecie; il relativo potere in capo al giudice rientra in quello di accertamento della conformità del fatto allo schema legale del reato nel quale consiste l'essenza stessa della giurisdizione penale.[10]

Viceversa, la dottrina più risalente individuava la fonte di tale potere di sindacato del giudice nel disposto dell'art. 5, L. 20.3.1865, n. 2248, all. E (LAC) a norma del quale l'autorità giudiziaria ordinaria applica “gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi”, disapplicandoli in caso contrario.

Il sindacato così esercitato era iscritto nell'area della pregiudizialità, ritenendosi che la cognizione sulla legalità del provvedimento fosse esercitata da parte del giudice penale per occasionemincidenter tantum, al fine di stabilire l'esistenza di un presupposto del fatto che costituisce reato, a differenza del sindacato del giudice civile, che giudica principalemente sulla legittimità del provvedimento ai fini della eventuale disapplicazione di esso[11].

Tuttavia, il ricorso al potere di disapplicazione è stato sconfessato dalle SSUU n. 11653/1993 (Imp. Borgia) il sindacato del giudice penale sui provvedimenti amministrativi non ha nulla a che vedere con la disapplicazione di questi secondo il dettato dell’art. 5 L.A.C[12].

Il provvedimento, infatti, non è presupposto formale della sanzione penale ma solo elemento costitutivo della norma incriminatrice.

Il giudice, pertanto, è chiamato “semplicemente” ad accertare se sussistano gli estremi del reato attraverso l’opera di sussunzione del fatto concreto al di sotto della norma incriminatrice; opera, questa, che costituisce il proprium della funzione giurisdizionale penale.

Pertanto, a partire dalle Sezioni Unite Borgia,  è costante l'affermazione della giurisprudenza che il potere di sindacato del giudice penale sulla legalità del provvedimento attenga al più generale potere di tale giudice di accertare la rispondenza del fatto alla fattispecie descritta nella norma penale, sia per quanto riguarda la legalità formale quanto la legalità sostanziale del provvedimento, con esclusione del controllo sulla discrezionalità, intesa come necessità, opportunità, convenienza e speditezza del provvedimento[13].

Può ritenersi ormai consolidato, infine, l'insegnamento che ritiene sindacabile dal giudice penale il vizio di eccesso di potere, insieme a quelli tradizionali dell'incompetenza e della violazione di legge[14].

Questa giurisprudenza della Cassazione ha trovato larghissima applicazione nei procedimento in cui all’imputato era contestata una violazione degli ordini dell’Autorità ai sensi dell’art. 650 cp.

Particolarmente indicativa sul punto è la sentenza n. 9157 del 2012.

Nel caso di specie, l’imputato era rinviato a giudizio per la contravvenzione ex art. 650 cp per non aver ottemperato alle prescrizioni contenute in un ordinanza contingibile ed urgente ai sensi dell’art. 54 d.lgs n. 267/2000.

In sede di legittimità, la Corte, esercitando un controllo di legittimità sul provvedimento asseritamente violato, aveva escluso che lo stesso fosse stato legalmente emesso, in quanto difettavano i requisiti della contingibilità e dell’urgenza.

L’illegalità dell’ordine, pertanto, si rifletteva altresì sulla configurabilità del reato ex art. 650 cp, che, in assenza di un ordine legalmente emesso dall’Autorità, non poteva in alcun modo sussistere con conseguente assoluzione dell’imputato[15].

Orbene, trasferendo i suddetti principi alla fattispecie in esame, il provvedimento amministrativo che integrerebbe il precetto dell’art. 260 TULS, letto in combinato con gli artt. 1 co 1 lett. e) e 4 co 6 d.l. n. 19/2020, sarebbe l’ordine dell’Autorità che dispone la quarantena domiciliare a carico di   un soggetto risultato positivo al Cobvid – 19.

Tuttavia, da una un’analisi della normativa di settore nonché di tutti i vari provvedimenti emergenziali recentemente emessi, emerge un palese vulnus normativo, dal momento che non vi è alcuna norma che disciplini la quarantena individuale.

Unico elemento certo è che alla base della disposizione di quarantena vi dovrebbe essere un necessario accertamento medico che attesti la positività del soggetto al Covid – 19.

A questo accertamento, purtroppo, non segue alcuna disposizione normativa che disciplini compiutamente il procedimento di quarantena, come avviene invece in casi simili, come per esempio per esempio per il trattamento sanitario obbligatorio (T.S.O.) disposto ai sensi degli artt. 33 e ss l. n.833/1978.

Il T.S.O., infatti, è disposto con provvedimento del Sindaco, dietro proposta motivata di un medico, che a sua volta deve essere convalidata da un medico della unità sanitaria  locale, con contestuale obbligo di motivazione, ai sensi dell’art. 34 co 3 l. 833/1978.

A sua volta, il provvedimento sindacale di disposizione del T.S.O., deve essere emanato entro quarantotto ore dalla convalida del medico di cui sopra, correlato dalla proposta medica motivata che dispone il  trattamento, e successivamente notificato entro le quarantotto ore successive al competente giudice tutelare.

Il giudice tutelare, assunte  le informazioni e disposti  gli  eventuali  accertamenti,  provvede  con decreto motivato, da emettersi entro quarantotto ore, a convalidare o non convalidare il  provvedimento  e ne dà comunicazione al sindaco.

In  caso  di mancata convalida il sindaco dispone la cessazione del trattamento sanitario  obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera.

Orbene, appare chiaro che la previsione di un così compiuto iter procedimentale nonché del previsto intervento del Giudice, è conseguenza necessaria della grande incisività che un T.S.O. possa avere sul diritto al salute,  in particolare sul diritto a non essere obbligati ad una cura, nonché sulla libertà personale.

Tuttavia, a differenza del T.S.O., la legge non disciplina in alcun modo la disposizione della misura quarantennale, la quale, benché disposta per ragioni di tutela della salute pubblica, incide in modo rilevante sulla libertà personale, tutelata dalle guarentigie della riserva di legge e della riserva di giurisdizione di cui all’art. 32 Cost.

Ad essere precisi, le sole disposizioni utili per ricostruire l’iter procedimentale della quarantena sono rinvenibili nell’art. 1 dell’ordinanza emessa dal Ministero della Salute in data 22 febbraio 2020, in cui si prevede che < Autorità sanitarie territorialmente competenti è fatto obbligo di applicare la misura della quarantena con sorveglianza attiva, per giorni quattordici, agli individui che abbiano avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva Covid-19>>

Tra l’altro, quest’ordinanza ha un’efficacia temporanea fino a novanta giorni dalla sua adozione.

Il potere di disporre la quarantena è stato poi integrato dalla successiva circolare n.. 5443 del Ministero della salute che dà agli operatori della sanità pubblica – in presenza di soggetto riscontrato positivo al tampone per SARS-COV-2 ed al momento asintomatico – il potere di disporre la quarantena domiciliare con sorveglianza attiva per giorni quattordici.

La predetta circolare è stata poi esplicitamente dal Dpcm del 4 marzo 2020 che, all’art. 2, disciplina i casi nei quali scatta “la sorveglianza sanitaria” e in cui la persona è sottoposta ad isolamento sanitario (che l’art. 2, comma 2, DPCM 4 marzo 2020 definisce “isolamento fiduciario”).

 L’art. 2, comma 4, DPCM 4 marzo 2020 prevede che l’operatore di sanità pubblica <<allo scopo di massimizzare l’efficacia della procedura sanitaria” deve “informare sul significato, le modalità e le finalità dell’isolamento domiciliare al fine di assicurare la massima adesione e l’applicazione delle seguenti misure: 1) mantenimento dello stato di isolamento per quattordici giorni dall’ultima esposizione; 2) divieto di contatti sociali; 3) divieto di spostamenti e viaggi; 4) obbligo di rimanere raggiungibile per le attività di sorveglianza>>.

Orbene, appare chiaro che la base legale per l’emissione di un misura quarantennale è costituita da un’ordinanza contigibile ed urgente del Ministero della Saluta, da una circolare dello stesso e da un D.p.c.m.

Tuttavia, per i motivi sopraesposti, tali disposizioni sono insufficienti ad integrare un fondamento normativo, rispettoso dei dettami della Costituzione di cui agli artt. 13, 16 e 32 Cost..

In primo luogo, manca una diposizione normativa di rango primario che giustifichi una privazione della libertà personale, seppur disposta per ragioni sanitarie.

Inoltre, manca la previsione di un intervento dell’Autorità Giurisdizionale, quantomeno sotto il profilo dell’emissione di un provvedimento di convalida della limitazione.

Tali rilievi, pertanto, gettano una consistente ombra sulla legittimità del provvedimento che dispone la quarantena individuale.

Ne consegue, che la misura quarentenale che si assumerebbe violata da parte del soggetto positivo al Covid – 19, si presenterebbe gravemente viziata sotto un profillo di legittimità.

Pertanto, il Giudice che sarà chiamato a giudicare su di una contestazione elevata ai sensi dell’art. 260 TULS e artt. 1 co 1 lett. e) e 4 co 6 d.l. n. 19/2020, dovrebbe escludere che il provvedimento sia stato legalmente dato, con conseguente assoluzione dell’imputato perché il fatto non costituisce reato, in quanto l’assenza di un provvedimento dell’Autorità legalmente dato integra il venir meno di un elemento costitutivo del reato.

All’esito di tali conclusioni, è auspicabile che il Legislatore intervenga quanto prima sull’impianto normativo, eliminando un vulnus normativo abbastanza evidente.

 3. Aspetti procedurali

L’art. 260 TULS rientra nella competenza del tribunale in composizione monocratico, ed è sottoposto al regime della procedibilità d’ufficio.

Inoltre, data la sua natura contravvenzionale, non saranno applicabili all’art. 260 TULS le disposizioni in tema di arresto, fermo ed misure cautelati personali.

Tuttavia, potranno essere le misure cautelari reali, come per esempio il sequestro preventivo di generi alimentari, la cui vendita è vietata da un provvedimento dell’Autorità emesso per contrastare la diffusione di un’epidemia.

La circostanza che l’agente sia punito con una pena detentiva concorrente ad una pena pecuniaria, sottrae l’art. 260 TULS  dal novero dei reati oblabili, sia a sensi dell’art. 162 cp che dell’art. 162 bis cp.

Tuttavia, l’imputato potrà sempre optare per tutti gli altri procedimenti speciali attivabili a sua iniziativa, e cioè il giudizio abbreviato, l’applicazione della pena su richiesta delle parti e la messa alla prova.

Infine, qualora ne ricorrano i presupposti, l’imputato potrà richiedere l’archiviazione o il proscioglimento ai sensi dell’art. 131 bis cp. 

 


Note e riferimenti bibliografici

[1] Cass. Pen. Sez. IV, 17/02/1978, in Cass. Pen. 1979, 730. Nella fattispecie esaminata,le misure cautelari erano state adottate con un’ordinanza del Sindaco diretta a proteggere l’igiene degli alimenti esposti in vendita e dettata dall’esigenza di tutelare la comunità dall’epidemia del colera.

[2] Cass. Pen. Sez. VI, 27/04/1978, in Cass. Pen. 1979, 1349. Applicazione del principio suindicato in tema di inosservanza di misure cautelari anticolerose adottate con decreto ministeriale dopo la cessazione dell’epidemia colerica.

[3] Cass. Pen. Sez. I, 27/07/2000, n. 8578, in Cass. Pen. 2001, 1208. Il Collegio, nella parte motiva, ha richiamato sul medesimo punto le sentenze emesse dalla Cassazione, III Sezione Penale, nn . 99246; 29/01/1965 – rv. 99449, 16/05/1968 – rv 108635.

[4] Arconzo, Commento all’Art. 25 della Costituzione, in Commentario alla Costituzione, Vol I, a cura di Bifulco, Celotto, Olivetti, Torino, 2006.

[5] Corte Cost. n. 58 del 1975 in www.cortecostituzionale.it.

[6] Corte Cost. n. 199 del 1993, in www.cortecostituzionale.it.

[7] Corte Cost. n. 168 del 1971; conf. Ord. n. 11 del 1977, in www.cortecostituzionale.it.

[8] Cass. Pen. Sez. Sez. VI, 20/03/1982, n. 3128, CED 152899. In applicazione di detto principio la Cassazione ha ritenuto che le disposizioni di cui al D.M. 14 novembre 1973 sulla vendita dei molluschi  e concernenti i comportamenti da osservare per impedire il sorgere o il propagare del colera vadano inquadrati nella categoria degli ordini.

[9] Cass. Pen. Sez. I, 27/07/2000, n. 8578 in Cass. Pen.  2001, 1208. La mancata osservanza dell’ordinanza con la quale il sindaco abbia intimato a taluno di sottoporre i figli minori alle vaccinazioni previste dalla legge, oltre a non integrare – in manca di un concreto ed attuale pericolo di diffusione di malattie infettive – la contravvenzione prevista dall’art. 260 TULS, non integra neppure la contravvenzione prevista dall’art. 650 cp, atteso che tale ultimo reato è configurabile, quando trattasi di provvedimenti emanati dal singolo, solo a condizione che essi rientrino tra quelli contingibili ed urgenti adottati “extra ordinem” ai sensi dell’art. 38 co .1 l. 8 giugno 1990 n. 142 , mentre l’ordinanza in questione è classificabile fra quelle che l’Autorità comunale può adottare in conformità alla leggi ed ai regolamenti, la cui violazione è sanzionata solo in via amministrativa.

[10] R. Galli, Corso di diritto amministrativo, II, Padova, 2001, 1494.

[11]A Battaglini, Le ordinanze prefettizie di necessità o d'urgenza e l'art. 650 Cod. pen., in GP, 1953, II, 891.

[12] Il dibattito sul sindacato del giudice in ordine alla legittimità del provvedimento amministrativo, quale elemento della fattispecie criminosa è stato egregiamente ricostruito da G. Basile “La disapplicazione del provvedimento amministrativo da parte del giudice penale” in www.salvisiuribus.it e F. Prete “Il sindacato del giudice penali sugli atti amministrativi nell’abuso d’ufficio e nei reati edilizi” in www.penalecontemporaneo.it

[13] Cass. Pen. Sez. Feriale, 30/07/2004 in CED.

[14] Ex multis Cass. Pen. Sez. I, 8/03/2012 n. 9157 in CE

[15] Ex multis Cass. Pen. Sez. I, 8/03/2012 n. 9157 in CED. Sul punto si richiama la parte saliente della motivazione della Suprema Corte «è evidente che non sussistevano i presupposti di adozione dell'ordinanza contingibile e urgente, mancando qualsiasi obiettiva indicazione delle ragioni di igiene, poste a tutela della collettività e non di singoli soggetti interessati quali, nel caso di specie, i confinanti, che non consentivano di ricorrere alla via ordinaria e imponevano una pronta tutela degli interessi pubblici a fronte di una condizione di mera trascuratezza di un fondo con vegetazione. L'illegalità dell'ordine, costituente il presupposto del reato, si riflette sulla configurabilità dello stesso. Per tutte queste ragioni s'impone, quindi, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste».