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Pubbl. Sab, 22 Feb 2020

Il reato di stalking alla luce della recente giurisprudenza costituzionale

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Mirko Melella


Per la configurazione del reato di stalking, anche in assenza di un incontro fisico tra vittima ed imputato, sono sufficienti pochi messaggi via WhatsApp e una telefonata dal tono minaccioso, che portano a modificare le abitudini della persona offesa. Cass. 2 gennaio 2019, n. 61.


Sommario: 1. Premessa; 2. Breve analisi della fattispecie; 3. Una presunzione di colpevolezza per l’accusato di stalking? 4. La discussa sentenza n.61 del 2019; 5. Conclusioni. 

1. Premessa 

Con decreto legge n. 11 del 23 febbraio 2009, convertito in L. n. 38 del 23 aprile 2009, il nostro ordinamento, con ritardo rispetto ad altri, ha disciplinato il reato di Atti Persecutori, previsto dall’art. 612 bis c.p., meglio conosciuto come Stalking. La norma in questione ha colmato quel vuoto normativo volto alla tutela di quelle vittime di atti persecutori che, per la loro caratteristica di ripetitività e perduranza nel tempo, generano nelle persone colpite stati di ansia o paura per la propria incolumità costringendo, talvolta, ad alterare significativamente le proprie abitudini di vita.

Prima dell’entrata in vigore del cd. Stalking, il nostro ordinamento giuridico tutelava le condotte persecutorie con fattispecie di reato già presenti nel codice penale, quali, ad esempio, la molestia (660 c.p.), la minaccia (612 c.p.), la violenza privata (610 c.p.), ma che, tuttavia, non risultavano soddisfacenti stante la peculiarità delle condotte persecutorie che si protraevano inesorabilmente per lungo tempo, alterando sensibilmente la routine quotidiana di chi le subiva. Si è imposta, quindi, una rivisitazione in chiave normativa da parte del legislatore italiano che ha portato alla disciplina del reato di cui all’art. 612 bis c.p. e che, purtroppo, riscuotendo quel “successo sociale” da tempo immaginato, ha indotto la giurisprudenza a porsi numerose domande per evitare quella deriva criminalistica che una legislazione di emergenza come questa può sicuramente creare.

2. Breve analisi della fattispecie

Dalla lettura della norma di cui all’art. 612 bis c.p. si evince, sin da subito, che la stessa presenta caratteri ampi, atecnici quasi “atipici” con l’obiettivo dichiarato di ricomprendere tutte quelle situazioni che l’ordinamento giuridico non contemplava, rispettando, o cercando di rispettare, quel naturale principio di tassatività che l’ordinamento penale impone al fine di prefigurare antecedentemente quelle fattispecie che possono costituire reato.

La norma inizia con una clausola cd. di salvezza “Salvo che il fatto costituisca più grave reato” attribuendo al delitto in questione una valenza generica e sussidiaria rispetto ai reati di minaccia e molestia. Trattasi di un reato abituale, per la cui configurazione è necessaria una reiterazione delle condotte di minaccia o violenza, purché gli episodi siano legati da un contesto unitario; difatti la norma statuisce che: “è punito… chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”. Dalla lettura della stessa si evince, quindi, che le condotte suindicate devono necessariamente causare almeno uno degli eventi alternativi sopra riportati e, quindi, la configurazione della minaccia oppure della molestia sicché ciascuna di esse è idonea ad integrare il delitto de quo; trattasi, inoltre, di un reato di danno  in quanto l’alternatività delle condotte, così come confermato  da una puntuale interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità, rilevano anche successivamente dove si statuisce espressamente: “…in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura …” ovvero “… da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita” o, in alternativa,  si caratterizzano dalla presenza di un evento di pericolo consistente nel “fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva”. Ed è proprio la produzione di un evento di “danno”, come poc’anzi specificato, a differenziare il delitto in questione dai reati di molestie e minacce.

 È opportuno, altresì,  sottolineare che una parte minoritaria della dottrina contesta l’appartenenza dello Stalking alla fattispecie dei reati di danno, ritenendo che si tratti piuttosto di un reato di pericolo concreto[1]; tale corrente di pensiero ha posto l’accento sulla indeterminatezza e vaghezza degli eventi tipizzati in fattispecie (perdurante e grave stato di ansia o di paura, fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva) i quali sono eventi psicologici prettamente soggettivi e di non facile accertamento. A tal proposito, secondo i sostenitori di questa tesi, non si riuscirebbe a stabilire la linea di confine tra lecito ed illecito, dando all’interprete un ruolo determinante per la definizione di tale confine con il rischio di violare il fulcro del principio di uguaglianza qualora “la fisiologica diversità delle interpretazioni giurisprudenziali nello stabilire la soglia della tipicità si trasformi in patologico arbitrio in mancanza di chiari parametri di riferimento e in presenza di elementi la cui interpretazione è troppo incerta (come avviene in relazione a tutti gli eventi della fattispecie in esame, anche nell’ipotesi del cambiamento delle abitudini di vita)”[2].

Ferme restando le perplessità di cui sopra, il bene giuridico tutelato dalla norma penale incriminatrice non può che essere la libertà personale e morale della persona, intesa quale facoltà dell’individuo di autodeterminarsi; la fattispecie oggetto di analisi mira, inoltre, a tutelare gli ulteriori beni giuridici dell’incolumità individuale e della salute nonché la tranquillità psichica e la riservatezza dell’individuo, posto che ai fini della configurazione del reato  è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima[3].

L’analisi delle caratteristiche dell’elemento oggettivo del delitto de quo fornisce lo spunto anche per richiamare l’elemento soggettivo dello stesso, ossia il nesso psichico tra il soggetto agente e l’evento lesivo.

Leggendo la disposizione normativa, appare chiaro che il dolo sia l’elemento caratterizzante della stessa; infatti, la reiterazione delle condotte di minaccia o molestia è sintomatica della volontà del soggetto agente di compiere determinate azioni, oltre, naturalmente, all’unidirezionalità della condotta sopra richiamata, la quale dev’essere diretta verso la medesima persona. Più precisamente si discorre di un dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia o molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte – elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa – potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l’occasione[4].

Ma occorre fare un ulteriore passo in avanti per meglio comprendere la qualificazione giuridica del delitto in esame, onde evitare visioni distorte che possono indurre l’operatore del diritto a soluzioni affrettate. Non si può, pertanto, prescindere dalla lettura che, nel tempo, ne ha fatto la Suprema Corte di Cassazione, quale organo detentore della funzione nomofilattica.

3. Una presunzione di colpevolezza per l’accusato di stalking

Una vicenda giudiziaria culminata con la conferma, da parte della Corte di Appello di Torino, di una sentenza di condanna da parte del Giudice di Prime Cure per un imputato di atti persecutori, ha consentito alla Suprema Corte di Cassazione[5] di fare luce e, in un certo senso, ampliare la possibilità di tutela per le vittime del delitto de quo, creando uno spartiacque anche nella dottrina penalistica.

La questione ha permesso alla Suprema Corte di stabilire che le sole dichiarazioni della persona offesa dal reato possono essere poste a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, senza la necessità di riscontri estrinseci effettuando, però, una indispensabile verifica preliminare della credibilità soggettiva della persona offesa e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto che, naturalmente, dev’essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella a cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Non vi sono, quindi, elementi idonei atti ad identificare quei paletti entro cui muoversi o non muoversi e ciò determina sicuramente una situazione di “svantaggio” per l’imputato, costretto a “subire” dichiarazioni emotivamente piuttosto coinvolgenti. Tutto sembra rimesso, dunque, alla valutazione ex post del giudice che dovrà pur sempre accompagnare la decisione da idonea motivazione che, proprio in questi specifici casi, non appare così scontata.

4. La discussa sentenza n. 61 del 2019

La pronuncia in esame ha creato un vivace dibattito tra gli studiosi ed ha offerto lo spunto per soffermarsi sui nuovi principi espressi dalla Suprema Corte.

In primis la sentenza stabilisce un principio già ribadito in altre pronunce, generando quell’orientamento ormai consolidato secondo cui per la configurazione del reato di atti persecutori è necessario che la condotta tenuta dal reo destabilizzi l’equilibrio psichico della persona offesa indipendentemente dall’incontro fisico tra vittima ed imputato. Sin qui nulla quaestio se non che la sentenza in oggetto ha ulteriormente precisato che le condotte tenute dall’imputato assumono rilevanza penale indipendentemente dal limitato arco temporale (nel caso di specie: una telefonata e 12 messaggi WhatsApp!), andando a minare la già generica prescrizione normativa della reiterazione di cui all’art. 612 bis c.p. Partendo da questi presupposti, gli Ermellini hanno ritenuto integrato il delitto di atti persecutori posto che si era realizzato l’evento di danno richiesto dalla norma, escludendo, altresì, che il comportamento tenuto dall’imputato potesse rientrare nelle fattispecie meno gravi di molestie o minacce. Quindi con riferimento alla reiterazione, sebbene la stessa costituisce un elemento essenziale del reato, non è necessaria una lunga sequela di azioni delittuose, consolidandosi, così, il principio in base al quale si considera consumato il suddetto reato anche in presenza di due soli episodi di minaccia o violenza oltre, naturalmente, agli elementi susseguenti richiesti dalla fattispecie penale incriminatrice. Un salto in avanti non indifferente che, di fatto, amplia il “potere interpretativo” dei Giudici di merito chiamati a pronunciarsi su un delitto la cui reiterazione costituisce l’attività primordiale della configurazione dello stesso.

5. Conclusioni.

Senza la pretesa di voler prospettare soluzioni ma solo porre interrogativi, si può certamente dire che la recente giurisprudenza, se da un lato amplia la tutela per le vittime di stalking, dall’altro corre il rischio di piegare una vera e propria spada di Damocle sul capo dell’imputato che abbia realmente posto in essere condotte sì moleste ma che potrebbero essere annoverate in altre fattispecie di reato meno gravi.

Nel costante raffronto tra verità storica e processuale, il rischio è che quest’ultima venga “snaturata” sulla base delle sole dichiarazioni della persona offesa, stante la peculiarità della “percezione” del delitto in esame; non è un caso se la Cassazione[6], a più riprese, ha ritenuto di dover stabilire che ai fini dell’individuazione del cambiamento delle abitudini di vita, occorre considerare il significato e le conseguenze emotive della costrizione sulle abitudini di vita cui la vittima “sente di essere costretta” e non la valutazione, puramente quantitativa, della variazioni apportate.

La bilancia, dunque, sembra pendere da un solo lato rischiando di compromettere quella parità processuale ormai “inquinata” che svilisce il sacrosanto principio del contradditorio nella formazione della prova e, che, sicuramente genererà nel Giudice chiamato a pronunciarsi un ragionevole dubbio su cui, sicuramente, riflettere.

Note e riferimenti bibliografici

[1] Bonini S., Lo stalking come reato: il nuovo art. 612-bis c.p. e le fattispecie penali previgenti, anche in prospettiva comparata, in Lo stalking. Caratteristiche del fenomeno e strumenti di tutela, Provincia autonoma di Trento (a cura di),, 2011 in www.pariopportunita.provincia.tn.it, p. 21; Lo Monte E., Una nuova figura criminosa: lo “Stalking” (art. 612-bis c.p.). Ovvero l’ennesimo, inutile, “guazzabuglio normativo”, in Ind. pen., 2010, p. 494 s.;Venafro E., Disposizioni in materia di atti persecutori, in Legisl. Pen., 3, 2009, p. 486-487 ss., Maffeo V., Il nuovo delitto di atti persecutori (stalking):un primo commento al d.l. n. 11 del 2009 (conv. con modif. dalla l. n. 38 del 2009), in Cass. pen., 2009, p. 2725s.; Maugeri A.M., Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, Giappichelli, Torino, 2010, p. 133 s.,148 ss., 153 ss., 156 ss
[2] Maugeri A.M., Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, op. cit. , p. 151.
[3] Sent. Cass. n.8832/2011.
[4] Sent. Cass. V sez. penale, n.43085 del 24/09/2015.
[5] Sent. Cass. V sez. penale, n.57764 del del 28/12/2017.
[6] Sent. Cass. V sez. penale n.48055 8 luglio – 26 novembre 2019.