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Pubbl. Mer, 22 Gen 2020

Rimessa alle Sezioni Unite la questione relativa all´interpretazione dell´art. 513 bis c.p.

Pierfrancesco Divolo


Il quesito rimesso Sezioni Unite è il seguente: “se, ai fini della configurabilità del reato di illecita concorrenza con minaccia o violenza, sia necessario il compimento di condotte illecite tipicamente concorrenziali o, invece, sia sufficiente il compimento di atti di violenza o minaccia in relazione ai quali la limitazione della concorrenza sia solo la mira teleologica dell’agente”. (Cass. Pen. n. 26870/2019)


Sommario: 1. La vicenda giudiziaria; 2. L’art. 513-bis c.p. Una breve analisi; 3. La sentenza della Corte: l’indagine sull’elemento oggettivo del reato; 4. Il primo orientamento: la norma punisce solamente le condotte concorrenziali; 5. Il secondo orientamento: la norma punisce anche le condotte di violenza o minaccia finalisticamente rivolte alla limitazione della concorrenza; 6. La rimessione alle Sezioni Unite della questione di diritto. 

Sommario: 1. La vicenda giudiziaria; 2. L’art. 513-bis c.p. Una breve analisi; 3. La sentenza della Corte: l’indagine sull’elemento oggettivo del reato; 4. Il primo orientamento: la norma punisce solamente le condotte concorrenziali; 5. Il secondo orientamento: la norma punisce anche le condotte di violenza o minaccia finalisticamente rivolte alla limitazione della concorrenza; 6. La rimessione alle Sezioni Unite della questione di diritto. 

1. La vicenda giudiziaria

La pronuncia in commento tra origine da una peculiare vicenda giudiziaria.

Secondo la ricostruzione dei fatti attuata dagli organi inquirenti, gli imputati rivolgevano alla persona offesa la frase “sei venuto a lavorare nella nostra zona, allontanati subito da qui e non far più ritorno a Pomigliano D’Arco per lavori di spurgo”. Avrebbero poi colpito con calci e pugni la persona offesa, che lavorava come dipendente per una ditta individuale fornitrice di servizi di spurgo nel medesimo territorio degli imputati, i quali ne rivendicavano l’esclusiva.

Il Tribunale di Nola condannava in primo grado due imputati per aver commesso, in concorso tra loro, atti di concorrenza illecita con violenza e minaccia nei confronti della persona offesa e li reputava responsabili dei delitti di cui agli artt. 110, 513 bis c.p. e 110, 582, 585 co. 1, 576 co. 1 c.p.

La Corte d’Appello di Napoli, dal canto suo, confermava la sentenza resa dal Giudice di prime cure.

Avverso tale pronuncia gli imputati proponevano ricorso per Cassazione deducendo due motivi.

Particolare rilievo assume il secondo motivo prospettato, consistente nella violazione dell’art. 606, co. 1, lett. b) ed e) c.p.p. in relazione all’art. 513-bis c.p.

L'ordinanza (Cass. Pen. sez. III, n. 26870 del 19.04.2019, depositata il 13.06.2019, Presidente Corbetta, Estensore Andreazza) ha il pregio di fornire una chiara descrizione della citata fattispecie di parte speciale e di evidenziare i diversi orientamenti che si sono succeduti nel tempo in relazione all’interpretazione da dare al discusso elemento oggettivo del delitto.

2. L’art. 513-bis c.p. Una breve analisi

Per comprendere appieno la riflessione operata sul punto dalla Suprema Corte, è opportuno offrire alcuni brevi cenni sull’art. 513-bis c.p.

La disposizione, rubricata “Illecita concorrenza con minaccia o violenza”, punisce con la reclusione da due a sei anni “chiunque, nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, compie atti di concorrenza con violenza o minaccia”.

Il secondo comma prevede un aumento di pena nel caso in cui gli atti di concorrenza riguardino un’attività finanziata in tutto o in parte ed in qualsiasi modo dallo Stato o da altri enti pubblici.

La norma è stata introdotta nel nostro ordinamento giuridico dall’art. 8 della L. n. 646/1982 per reprimere un comportamento di stampo tipicamente mafioso, come lo scoraggiamento della concorrenza attuato mediante esplosione di ordigni, ovvero attraverso danneggiamento o violenza alle persone.

Nonostante la disposizione punisca “chiunque”, è discusso se ci si trovi di fronte ad un reato comune o, piuttosto, ad un reato proprio. Al riguardo, la giurisprudenza ritiene da un lato che il soggetto attivo debba identificarsi nella persona che eserciti un’attività imprenditoriale; dall’altro non esclude che possa integrare il reato anche «chi non abbia i requisiti di organizzazione e professionalità tipici dell’imprenditore» (cfr. Cass. Pen. n. 2224/1996).

La ratio della norma consiste, come risulta evidente anche dall’esame dei lavori parlamentari,  nella volontà politica di «sanzionare quei comportamenti minacciosi e violenti finalizzati al controllo e condizionamento di attività commerciali e produttive che incidono sul funzionamento del libero mercato» (cfr. ancora Cass. Pen. n. 2224/1996).

Si tratta di un reato di pericolo a consumazione anticipata, che si integra «nel momento in cui vengono attuati atti di violenza o minaccia diretti ad impedire o a rendere più gravoso il libero esercizio dell’attività economica altrui, la cui commissione è considerata dal legislatore atto concreto di concorrenza sleale» (cfr. ancora la già menzionata Cass. Pen. n. 2224/1996).

La fattispecie costituisce esempio di reato a dolo specifico, poiché l’agente persegue «il fine di eliminare o scoraggiare l’altrui concorrenza» (cfr. Cass. Pen. n. 27681/2010).

3. La sentenza della Corte: l’indagine sull’elemento oggettivo del reato

Orbene la sentenza dei Supremi Giudici ha il pregio di soffermarsi a indagare dettagliatamente, nel reato in esame, l’elemento oggettivo, valutando i diversi orientamenti che, sul punto, si sono alternati.

La Corte prende spunto dalla presa di posizione della difesa dei ricorrenti, che nel ricorso eccepisce la violazione dell’art. 606 co. 1 lett. b) ed e) c.p.p. in relazione all’art. 513-bis c.p.  Secondo tale prospettazione, la fattispecie in esame punirebbe solo le condotte tipicamente concorrenziali (quali, esemplificamente, il boicottaggio, lo storno dei dipendenti, il rifiuto di contrattare…) attuate con atti di coartazione che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale ma "escluderebbe di punire atti intimidatori tout court, finalizzati a contrastare od ostacolare l’altrui libera concorrenza"

Pertanto - ancora secondo la ricostruzione difensiva - la fattispecie non sarebbe applicabile agli atti contestati nell'imputazione, caratterizzati unicamente da violenza e minaccia: nel caso concreto oggetto del ricorso, infatti, la limitazione della concorrenza costituirebbe per l’agente solo una semplice mira teleologica.

La Corte evidenzia che, sul punto, perdura da tempo un forte contrasto interpretativo, «segnalato da ben tre relazioni dell’ufficio del Massimario», concernente il perimetro applicativo dell’art. 513-bis c.p. Le opinioni discordano – sottolineano i Supremi Giudici – sul se la norma intenda reprimere unicamente le condotte concorrenziali ex art. 2598 c.c. poste in essere dall’imprenditore con violenza o minaccia, ovvero se la disposizione consideri anche gli atti intimidatori idonei comunque ad impedire all’operatore economico di autodeterminarsi nell’esercizio della propria attività imprenditoriale.

4. Il primo orientamento: la norma punisce solo condotte concorrenziali

Per un primo orientamento, maggiormente conforme al puro dato normativo, l’elemento oggettivo dell’art. 513-bis c.p. consiste nella repressione delle sole condotte illecite tipicamente concorrenziali e competitive (boicottaggio, storno dei dipendenti… ) realizzate con atti di violenza o minaccia che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale.

Non rientrano invece nell'area di repressione della norma le diverse condotte intimidatorie finalizzate ad ostacolare e contrastare l’altrui libera concorrenza tramite aggressione diretta ai beni o alla persona dell’imprenditore, costituendo tali fatti diverse fattispecie di reato (cfr. ex multis Cass. Pen. n. 49365/2016, Cass. Pen. n. 6541/2012, Cass. Pen. n. 46756/2007).

L’orientamento in esame valorizza una ratio normativa protesa a tutelare la concorrenza e ritiene “atti di concorrenza” soltanto le condotte concorrenziali civilisticamente illecite. Non sarebbe pertanto ravvisabile un atto di concorrenza in una intimidazione in quanto tale, seppur finalisticamente rivolto alla limitazione della concorrenza economica. Di conseguenza, secondo tale orientamento gli atti di violenza o minaccia teleologicamente rivolti alla limitazione della concorrenza non integrano il reato ex art. 513-bis c.p.

5. Il secondo orientamento: la norma punisce anche le condotte di violenza o minaccia finalisticamente rivolte alla limitazione della concorrenza

All’orientamento descritto se ne contrappone un secondo che, interpretando diversamente la voluntas legislatoris, amplia la portata punitiva della norma.

Secondo tale concezione il delitto ex art. 513-bis c.p. è configurabile ogni qualvolta sia realizzato un comportamento che, attraverso l’uso strumentale della violenza e/o della minaccia, sia in grado di impedire al concorrente di autodeterminarsi nell’esercizio della propria attività produttiva o commerciale.

In tal senso, assumono rilievo ai fini della consumazione del descritto reato tutti i comportamenti, non solo attivi ma anche impeditivi dell’altrui concorrenza che, commessi con violenza o minaccia, siano idonei a falsare il mercato consentendo all’imprenditore di acquisire, in danno del concorrente, illegittime posizioni di vantaggio, «senza alcun merito derivante dalla propria capacità operativa» (cfr. ex multis Cass. Pen. n. 18122/2016; Cass. Pen. n. 3868/2015).

Un’interpretazione, quest'ultima, la quale all’evidenza intende reprimere tutte le forme di intimidazione che, «nello specifico ambiente della criminalità organizzata, specie di stampo mafioso, tendono a controllare e/o a condizionare le attività commerciali e imprenditoriali» (cfr. Cass. Pen. n. 26870/2019).

I Supremi Giudici specificano che tale secondo orientamento non vuole assolutamente restringere la portata applicativa della norma punendo le sole operazioni di criminalità organizzata. In ciò la disposizione si avvicina piuttosto a quanto prevede l’art. 2598 c.c., che distingue i casi di concorrenza attiva da quelli che, con una norma di chiusura, definisce  comportamenti contrari ai principi della correttezza professionale e idonei a danneggiare l’altrui azienda.

Secondo tale orientamento, dunque, rientrano nell’ambito di applicabilità dell’art. 513-bis «non solo le condotte tipicamente concorrenziali, ma anche tutti gli atti intimidatori finalizzati a contrastare l’altrui libertà» di iniziativa economica privata (cfr. ex multis Cass. Pen. n. 50084/2018 e Cass. Pen. n. 30406/2018).

6. La rimessione alle Sezioni Unite della questione di diritto

Analizzati i due diversi orientamenti giurisprudenziali, la Suprema Corte evidenzia come il contrasto appaia fortemente radicato e mai sopito, tanto che – come supra indicato– ha già ricevuto una triplice segnalazione da parte dell’Ufficio del Massimario.

I Supremi Giudici dunque, considerato solamente il secondo motivo del ricorso perché valutato preliminarmente rilevante, ritengono di non poter decidere e rimettono la questione alle Sezioni Unite affinché la Corte, nella sua funzione nomofilattica, dipani il perdurante contrasto.

Il quesito di diritto sottoposto alle Sezioni Unite è dunque il seguente: “se, ai fini della configurabilità del reato di illecita concorrenza con minaccia o violenza, sia necessario il compimento di condotte illecite tipicamente concorrenziali o, invece, sia sufficiente il compimento di atti di violenza o minaccia in relazione ai quali la limitazione della concorrenza sia solo la mira teleologica dell’agente” (cfr. ancora Cass. Pen. n. 26870/2019).

Spetterà alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nella loro funzione nomofilattica, fornire prossimamente sulla delicata questione un chiarimento definitivo.