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Pubbl. Ven, 12 Giu 2015
Sottoposto a PEER REVIEW

La nullità ”virtuale” dei contratti alla luce della più recente giurisprudenza di merito e di legittimità.

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Alessandro Schillaci


La riscoperta di un istituto evanescente nel "nuovo diritto dei contratti".


INDICE ANALITICO: 1. Natura e collocazione sistematica della c.d. nullità “virtuale”. – 2. Il significato di “norma imperativa” e l’attuale operatività dell’art. 1418 co. 1 cod. civ.  – 3. Nullità di protezione e nullità di protezione virtuale. – 4. Reati contratto e reati in contratto sotto la lente delle nullità virtuali. – 5. Nullità virtuale e illecito tributario nel revirement richiesto da Cass. Sez. III, ord. 3 maggio 2014, n. 37 alle Sezioni Unite. – 6. Nullità virtuali tra regole di validità e regole di comportamento. L’intervento delle  Sezioni Unite 2005 e 2007 in materia di obblighi informativi degli intermediari finanziari. – 7. Considerazioni critiche e rilievi conclusivi.

1. Come è noto, il catalogo delle nullità contrattuali si apre con una formula ellittica, ricavabile dall’art. 1418 co. 1 c.c., sulla quale si sono sviluppate diverse interpretazioni sia in dottrina che in giurisprudenza.

La norma in questione dispone che: “Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo la legge disponga diversamente. Al suo interno vengono fatte rientrare tutte le ipotesi di nullità c.d. “virtuale”, in contrapposizione con le nullità “strutturali” e quelle “testuali”. Quanto a queste ultime si può ricordare che l’art. 1418 co. 2 c.c. (nullità strutturali) stabilisce che: “Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall'art. 1325, l'illiceità della causa, l'illiceità dei motivi nel caso indicato dall'art. 1345 e la mancanza nell'oggetto dei requisiti stabiliti dall'art. 1346”. Diversamente l’art. 1418 co. 3 c.c. (nullità testuali), quale norma di chiusura, dispone che: “il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge”.

Ciò premesso si tratta, a questo punto, di definire la funzione e lo spazio applicativo che il legislatore ha riservato alle nullità previste dall’art. 1418 co. 1 c.c..

Sul punto, non si è mancato di rilevare come non siano infrequenti le possibilità di sovrapposizione tra discipline attinenti il profilo di nullità di volta in volta riscontrato nel contratto. Più in particolare si è riscontrato tale problema nei casi in cui, oltre alla violazione di norme imperative, sia emersa la nullità contrattuale per illiceità della causa o dell’oggetto, il motivo comune o la condizione.

La definizione dei diversi profili di nullità può apparire, in questi casi, problematica. In dottrina si è cercato di superare il problema osservando che, nell’ipotesi di nullità strutturale ex art. 1418 co. 2 c.c., il contratto è “illecito” per contrasto con la norma imperativa (e/o l’ordine pubblico o il buon costume) investendo direttamente la causa, l’oggetto, il motivo comune o la condizione.

Si considera “illegale”, invece, rendendo applicabile il disposto dell’art. 1418 co. 1 c.c., quindi come nullità virtuale, il contratto la cui contrarietà a norme imperative venga in rilievo sotto altri e diversi profili.

2. Tornando al dato normativo, le nullità di cui all’art. 1418 co. 1 c.c. si definiscono “virtuali” perché attinenti alla infrazioni di norme “imperative” per le quali, in caso di violazione, non è prevista espressamente alcuna sanzione. L’individuazione delle nullità virtuali non può dunque prescindere da un’operazione ermeneutica, avente quale parametro di riferimento la natura “imperativa” della norma violata. 

In relazione a ciò, secondo l’indirizzo prevalente, sono tali quelle che non possono essere derogate per volontà delle parti. Da qui la distinzione tra norme imperative e norme dispositive, queste ultime identificabili laddove il legislatore abbia inserito espressioni come “salvo patto contrario” o “salva diversa volontà delle parti”.

Si tratta tuttavia di un criterio di massima. Ed infatti, si è sostenuto che una norma  può essere ritenuta dispositiva, e non imperativa, anche in mancanza di un inciso che renda palese la sua natura se dal sistema in cui essa è collocata, appare evidente trattarsi di norma derogabile.

In ragione di ciò, si sottolinea che il concetto di norma imperativa ai fini dell’art. 1418  co. 1 c.c. racchiuda un quid pluris, che va oltre il carattere inderogabile della norma.

Sotto questo profilo, posto che la nullità è concepita dalla dottrina quale strumento di protezione dei valori fondamentali della collettività, le norme imperative sono identificate in base alla loro destinazione. In altre parole, si considerano tali se  destinate alla tutela di interessi generali, di rilevanza pubblica e non dei singoli contraenti.

Il carattere “imperativo” di una norma si può desumere valutando se essa è funzionale alla affermazione e tutela di un interesse pubblico o di un principio fondamentale dell’ordinamento.

Per rendere meglio l’idea di quanto appena descritto, si può richiamare l’interessante intervento con il quale il Tribunale di Firenze, con decreto 30 ottobre 2014, si è soffermato sulle conseguenze derivanti dal superamento della soglia massima di finanziabilità per la concessione di un mutuo fondiario (art. 38 t.u.b.). Nel caso di specie, si chiedeva al giudice di merito di valutare se i limiti alla finanziabilità del mutuo fondiario avessero carattere imperativo, rendendo applicabile, in caso di violazione, la normativa sulle “nullità non dichiarate” di cui all’art. 1418 co. 1 c.c.

Il Tribunale di Firenze, dando atto del più recente orientamento della Cassazione (n. 26672/2013) secondo cui i limiti prescritti dalla legge in tema di mutuo fondiario sono a tutela dell’interesse delle banche, in quanto volti ad impedire ingenti esposizioni finanziarie non bilanciate da adeguate contropartite e garanzie del mutuatario, ne ha formalmente preso le distanze sotto diversi profili: in particolare, ha osservato che la normativa in materia tutela anche l’interesse del ceto creditorio nel suo insieme, interesse che viene violato da un esercizio scorretto di erogazione del credito. Sotto questo profilo, ha aggiunto che l’interesse del ceto creditorio rientra nel più generale interesse al corretto andamento economico e quindi sociale, atteso che il mancato adempimento delle obbligazioni nei riguardi dei creditori meno tutelati crea un effetto a catena di fallimenti, perdite di posti di lavoro e crisi economica generale. Ha così concluso che la normativa che determina l’oggetto del contratto è “imperativa” e la sua violazione determina nullità ex art. 1418 co. 1 c.c.

A sostegno di ciò, il Tribunale di Firenze ha richiamato un precedente più risalente  della Cassazione (n. 9219/1995) secondo cui, laddove la legge regola con limiti  e vincoli l’attività creditizia, si tratta pur sempre di norme inderogabili e imperative, preordinate al regolare andamento dell’attività stessa, che è essenziale nell’economia nazionale.

Il carattere “imperativo” della normativa violata, ai fini dell’art. 1418 co. 1 c.c., è stato riconosciuto anche in ambiti differenti.

La giurisprudenza di legittimità ha infatti rimarcato che la mancanza di una prescritta autorizzazione a contrarre o le clausole dirette ad aggirare i divieti di contrattazione sono soggette al regime di nullità stabilito dall’art. 1418 co. 1 c.c.                        

Si veda, a titolo esemplificativo, il principio ribadito da Cass. 10 maggio 2005, n. 9767, secondo cui l’art. 2 D.L. n. 476/1965 (conv. L. n. 786 del 1956),  nella parte in cui fa divieto ai residenti in Italia di compiere qualsiasi atto idoneo a produrre obbligazioni  tra essi e non residenti, all'infuori dei casi di compravendita di merci per l'esportazione o l'importazione, senza l'autorizzazione ministeriale, fissa, per ragioni di ordine pubblico attinenti all'esigenza di evitare l'esodo di capitali, una prescrizione assoluta ed inderogabile, che non attiene soltanto alla fase dell'adempimento del debito, ma investe direttamente la costituzione del rapporto obbligatorio, ponendo quella autorizzazione come requisito della relativa fattispecie. Con la conseguenza che l’atto costitutivo di una delle dette obbligazioni è affetto, in mancanza di autorizzazione ministeriale, da nullità insanabile per contrasto con norma imperativa di legge, ai sensi dell'art. 1418, co. 1, c.c.. Con l’ulteriore precisazione che i negozi compiuti nel periodo di validità di detta disposizione sono nulli, non rilevando in contrario l’abrogazione a far data dall’1 gennaio 1989 della disposizione citata, atteso che la nuova normativa non incide in alcun modo sull’interpretazione della normativa previgente, che non richiede più, in base ad una insindacabile scelta legislativa, le rigorose restrizioni imposte dalla normativa valutaria del 1956 a tutela della valuta e della economia nazionale.

Stessa sorte pare il legislatore abbia riservato, giusta applicazione della norma sulle nullità virtuali, ai contratti conclusi in mancanza dei requisiti soggettivi di uno dei contraenti.

Così, ad esempio, Cass. 3 agosto 2005, n 16281 ha ritenuto fondata la censura del ricorrente relativamente al carattere imperativo della norma con cui sono stati fissati i requisiti di specifica esperienza professionale del soggetto che il direttore generale della ASL può scegliere come direttore amministrativo. A ciò consegue che la violazione della medesima normativa determina la nullità del contratto di lavoro stipulato con il soggetto designato. E infatti tale norma, nella sua rigidità, ha la finalità di assicurare alla fondamentale struttura sanitaria pubblica dirigenti di vertice di comprovata esperienza e capacità. D’altra parte, stante l’amplissima discrezionalità accordata al direttore generale nella individuazione dei suoi collaboratori e il ricorso allo strumento privatistico del rapporto contrattuale, solo la sanzione della nullità può ritenersi idonea ad assicurare effettività alla prescrizione legale.

Da ultimo, si ricordino ancora le clausole finalizzate a sottrarre una delle parti agli obblighi di controllo su di essa aggravanti (Cass. 8 luglio 1983 n. 4605).

3. Si è detto finora che, a sostegno della nullità virtuale, debba operare il riconoscimento  del carattere “imperativo” di una norma che in ambito contrattuale si assume violata. A ciò si è aggiunto che l’inderogabilità non è sufficiente a dare rilievo a tale requisito, poiché sotteso alla norma imperativa deve esserci, in ogni caso, un interesse generale, di rilevanza pubblica, in ciò differenziandosi dal carattere dispositivo delle norme poste a tutela dei diritti individuali delle parti.

Sotto tale profilo, non va però trascurata la crescente tendenza del legislatore italiano (e prima ancora comunitario) a fornire “protezione” in via diretta e immediata all’interesse di uno dei contraenti, introducendo cause di nullità che potremmo definire “speciali”.

Non è questa la sede per approfondire il tema delle nullità di protezione che negli ultimi anni sembra aver trovato un’importanza crescente nel diritto dei contratti. Ci si limita a ricordare che, da qualche tempo, si è posta - specie in dottrina - la questione sull’operatività delle nullità di protezione non soltanto nelle ipotesi “testuali”, ma anche in quelle “virtuali”. Del resto, a fondamento delle nullità di protezione vengono posti valori costituzionalmente rilevanti come il corretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost.) e l’uguaglianza formale tra contraenti forti e deboli (art. 3 Cost.), ergendo la protezione del contraente a parametro oggettivo – e a rilevanza pubblicistica – di valutazione della validità dell’atto (Cass. Sez. Un., 12 dicembre 2014, n. 26242).

Muovendo da ciò, secondo la teoria della nullità di protezione virtuale, quando un accordo è stipulato in violazione di una norma che ha come finalità la tutela del contraente debole, la mancata previsione di una sanzione diversa dalla nullità, non può che favorire il riconoscimento e l’applicazione di quest’ultima, sia pure attraverso un’operazione interpretativa. Pertanto, accanto alle previsioni “testuali”, si possono riscontrare anche ipotesivirtuali” di nullità di protezione.

4. Chiarito ciò, tornando al disposto dell’art. 1418 co. 1 c.c., si può aggiungere che il carattere imperativo della norma violata può trarre fondamento da indici testuali  (quale ad esempio, l’indicazione espressa di inderogabilità), ma può ricavarsi anche da alcuni dati extratestuali, a fronte di un giudizio di rilevanza sociale degli interessi che la norma protegge.

Sotto tale profilo, non è messa in dubbio la natura “imperativa” delle norme penali, la cui rilevanza degli interessi tutelati è addirittura presidiata da una sanzione penale. E tuttavia, anche in ordine a tali disposizioni, si sono poste alcune limitazioni rispetto ad un’applicazione automatizzata della normativa di cui all’art. 1418 co. 1 c.c..

L’unico dato pacifico è che le norme penali sono norme imperative. Il fatto che un precetto sia penalmente sanzionato esprime senz’altro il più alto grado imperatività e dimostra che lo stesso è posto a salvaguardia di un valore di rilevante importanza.

Ciò non toglie, laddove il reato abbia riflessi sul piano civilistico, che si debba valutare l’interesse protetto dalla norma.

Si distingue, in proposito, il c.d. reato contratto dal reato in contratto. Si fa riferimento nel primo caso alle ipotesi in cui è la stessa stipulazione del contratto ad essere vietata dall’ordinamento giuridico. Con la conseguenza che il contrasto con la norma imperativa si spinge oltre lo stretto ambito penale, per approdare anche in quello civilistico, determinando la nullità del contratto in tal modo concluso. Nel secondo caso, la condotta illecita si colloca nella fase delle trattative o durante l’esecuzione del contratto stesso, di per sé non vietato dalla legge. Il problema che si pone in quest’ultimo caso è dato dall’applicazione dell’inciso “salvo che sia diversamente stabilito dalla legge”, espresso dall’art. 1418 co. 1 c.c.. Non è infrequente infatti che, pur nella sua rilevanza penale, la condotta del soggetto contraente riguardante la fase delle trattative o durante l’esecuzione del contratto  possa avere come conseguenza l’applicazione della disciplina sulla risoluzione, rescissione e annullamento del contratto.

Così, ad esempio, la stipula di un contratto legata ad una frode nell’esercizio del commercio è sanzionata dall’art. 515 c.p., ma sul piano contrattuale ha come conseguenza la risoluzione e il risarcimento dell’eventuale danno patito. D’altra parte, dovendosi riscontrare la condotta illecita nella fase esecutiva del contratto che è  sorto privo di vizi, ne consegue sul piano civilistico un inadempimento che, per la sua gravità, apre la strada al rimedio di cui all’art. 1453 c.c.. Un ulteriore argomento portato a sostegno di tale orientamento è dato dalla nota distinzione tra norme di comportamento e norme di validità contrattuale, ricollegando solo a queste ultime l’applicazione dell’art. 1418 co. 1 c.c. (vedi infra).

Sulla scia di tale ragionamento si pone anche la vexata questio relativa alla circonvenzione dell’incapace, in cui all’orientamento “estensivo” della giurisprudenza  di legittimità tradizionale (Cass. Sez. II, 7 febbraio 2008, n. 2860) si sostituisce il più recente, avallato soprattutto dai giudici merito, secondo il quale il contratto concluso con soggetto che, al momento della stipula, era incapace naturale, deve essere ricondotto sotto la disciplina dell’annullamento ex art. 428 c.c.. (Trib. Verona, sent. 8 gennaio 2015).

Si sottolinea, in particolare, che la nullità virtuale opera laddove la contrarietà a norme imperative investa direttamente il negozio giuridico in sé considerato e non il comportamento delle parti nella fase delle trattative o di esecuzione del contratto. Ad ulteriore sostegno, si valorizza l’inciso dell’art. 1418 co. 1 c.c. “salvo che il legislatore disponga diversamente”, ricollegandolo all’art. 428 c.c., norma questa che in modo inequivoco sancisce l’annullamento (e non la nullità) del contratto concluso con soggetto incapace di intendere e di volere. 

Allo stesso modo, si ammette che nei casi di truffa contrattuale ex art. 640 c.p. non necessariamente trovi applicazione il regime delle nullità virtuali. Ed anzi, proprio in ragione della previsione di cui all’art. 1439 c.c., il suddetto contratto debba ritenersi annullabile per dolo di uno dei contraenti. Non a caso si è sostenuto che il dolo costitutivo del delitto di truffa non è ontologicamente, né sotto il profilo intensivo, diverso da quello che vizia il consenso negoziale, entrambi risolvendosi in artifizi o raggiri adoperati dall’agente e diretti ad indurre in errore l’altra parte e così a viziare il consenso.

Rientra pertanto nei c.d. reati in contratto anche quello affetto da usura ai sensi dell’art. 644 c.p., in forza dello specifico rimedio previsto dall’art. 1815 co. 2 c.c., in  base al quale, se sono convenuti interessi usurari la clausola è nulla, ma il contratto rimane comunque in piedi senza l’applicazione dei dovuti interessi.

Merita qualche cenno anche la frode fiscale che, nonostante la penale rilevanza, non comporta necessariamente la nullità del contratto. L’argomento di fondo è più o meno lo stesso: si tratta di un illecito che trova solo nel sistema tributario la propria sanzione e non importa, pertanto, l’invalidità dei negozi con i quali viene commessa. Se ne deduce che le norme fiscali non modificano quelle civilistiche sui contratti ai quali si riferiscono, ma determinano gli effetti tributari di questi ultimi.

5. Eppure non si può fare a meno di segnalare il revirement – per il momento solo “annunciato” nell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, inerente il contratto di locazione che prevede un canone maggiore e diverso da quello registrato al momento della stipula (Cass. Sez. III, ord. 3 maggio 2014, n. 37).

La vicenda prende spunto dalla stipula di un contratto di locazione di un immobile ad uso abitativo per un corrispettivo di 378,35 Euro al mese e un accordo integrativo che aumentava il canone a complessivi 1.700 euro. Il primo veniva registrato, il secondo rimaneva in forma scritta nella cognizione delle parti.

Come era prevedibile, il conduttore provvedeva al pagamento del canone limitatamente alla misura del minor importo fissato nel contratto registrato. Il locatore promuoveva così un giudizio di sfratto per morosità, lamentando il mancato pagamento di più mensilità del (maggior) canone concordemente pattuito. In un separato giudizio (poi riunito), il conduttore chiedeva ed otteneva l’accertamento  del canone dovuto nella sola misura stabilita dal primo patto scritto e registrato, sul presupposto della nullità del secondo accordo, peraltro successivamente  registrato, riguardante il maggior canone.

Il locatore proponeva quindi ricorso per Cassazione, avverso la pronuncia  d’appello, lamentando la violazione del principio enunciato da Cass. 27 ottobre 2003, n. 16089, secondo il quale: “in tema di locazioni abitative, deve escludersi che l’art. 13 co. 1 L. n. 431/1998 sanzioni con la nullità, in conseguenza della mancata registrazione, la pattuizione di un canone superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato, dovendosi intendere riferita tale disposizione … non all’ipotesi della simulazione parziale del contratto di locazione relativa alla misura del canone, bensì al caso in cui nel corso di svolgimento del rapporto [quindi successivamente] venga pattuito un canone più elevato rispetto a quello risultante dal contratto originario, che deve restare invariato, a parte l’eventuale aggiornamento ISTAT, per tutta la durata del rapporto legalmente imposta”.

Come è noto, l’art. 13 co. 1 L. n. 431 del 1998 prevede la nullità di “ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato”.

Secondo la Cassazione del 2003, la norma in questione trova applicazione nei soli casi in cui, nel corso dello svolgimento del rapporto, venga pattuito un canone più elevato rispetto a quello risultante dal contratto originario. La causa di nullità non opera invece nell’ipotesi di simulazione relativa del contratto, quando cioè non si configura un vero e proprio contrasto tra due canoni, perché il canone riconosciuto e voluto dalle parti è uno e solo, così come risulta nella controdichiarazione. Si tratta dunque di una divergenza nel canone “pattuita” al momento della stipula, che non sopravviene affatto nel corso del rapporto locatizio.

A questo orientamento aderisce quella dottrina che sottolinea l’irrilevanza della violazione degli obblighi tributari ai fini della validità del contratto. La violazione degli obblighi fiscali costituisce infatti una mera irregolarità fiscale non comportante alcuna nullità civilistica, sotto profili diversi (da quelli civilistici) sanzionata.

La tesi non convince il giudice rimettente che, nel portare la quaestio iuris all’attenzione delle Sezioni Unite, si affida sinteticamente ai seguenti argomenti: il patto che prevede una maggiorazione del canone rispetto a quello registrato, anche quando avviene  al momento della stipula, non può riconoscersi come valido ed efficace, perché è diretto a realizzare un risultato vietato, che determina una lesione di un interesse pubblicistico sotteso alla norma fiscale elusa

Muovendo da tale ragionamento, si ribadisce che la norma tutelante interessi pubblicistici si profila per ciò stesso come imperativa ed inderogabile non soltanto nei rapporti tra P.A. e privato ma anche nei rapporti tra privati. Inoltre, in considerazione anche dello scopo pratico delle parti (e in particolare del locatore), si può notare come tale stipulazione debba considerarsi invalida anche sotto il profilo della causa (in concreto), essendo connotata dalla vietata finalità di elusione fiscale.

A tale stregua, l’imposta dovuta va allora determinata con riferimento all’importo del canone indicato nel contratto scritto e registrato, sicché al locatore non è  consentito percepire legittimamente un canone maggiore di quello (originariamente) assoggettato ad imposta.

6. Siamo in grado, a questo punto, di affrontare forse l’aspetto più controverso relativo alle nullità virtuali.

Ci si riferisce all’operatività delle stesse nel caso in cui la norma violata sia di tipo comportamentale e non investa direttamente la struttura del contratto.

Si è fatto cenno all’orientamento, secondo cui i comportamenti tenuti nel corso nel corso delle trattative o durante l’esecuzione del contratto rimangono estranei alla fattispecie negoziale, sicché non danno luogo a nullità (Cass. 9 gennaio 2004 n. 111; 25 settembre 2003, n. 14234).

Il principio è stato affermato dalle Sezioni Unite (sent. 29 settembre 2005, n. 19024)  in materia di violazione da parte degli intermediari finanziari degli “obblighi  di condotta” su di essi gravanti durante la stipula del contratto. Si è valorizzato l’assunto secondo il quale la nullità ex art. 1418 co. 1 c.c. può derivare soltanto dalla violazione di regole che attengano al contenuto del contratto, e non già di regole che  prescrivano comportamenti che uno dei contraenti deve tenere in relazione alla formazione del contratto. L’interpretazione nei termini suindicati adottata, non ha avuto molta fortuna e anzi ha attirato molte critiche in dottrina. Si è in particolare osservato che, ancorando le nullità virtuali ai casi di violazione di norme disciplinanti il contenuto del contratto, si rischia di appiattire se non abrogare interpretativamente l’operatività del co. 1 in favore del co. 2 dell’art. 1418 c.c..

Tale rilievo è stato tenuto presente nel successivo intervento, sempre a Sezioni Unite (sent. 19 dicembre 2007, n. 26724) laddove si è sottolineato come possa dar luogo a nullità non solo la violazione di regole relative al contenuto del contratto (c.d. nullità strutturale) ma anche la violazione di altre regole dalle quali si desuma comunque il divieto di concludere il contratto. Ne consegue che la violazione di norme che   invece riguardano elementi estranei a quel contenuto o struttura può dar luogo a nullità ex art. 1418 co. 1 c.c.

Si pensi ai casi, peraltro già citati, di mancanza di una prescritta autorizzazione a contrarre o di clausole concepite in modo da consentire l'aggiramento di divieti a contrarre o di mancanza di necessari requisiti soggettivi di uno dei contraenti oppure in caso di contratti le cui clausole siano tali da sottrarre una delle parti agli obblighi di controllo su di essa gravanti.

Emerge da tali esempi (e da analoghi che si potrebbero fare) come l’area delle norme inderogabili che danno luogo a nullità virtuale sia più ampia di quanto potrebbe suggerire il riferimento al solo contenuto del contratto medesimo.

Vi sono ricomprese sicuramente anche le norme che, in assoluto, oppure in presenza o in difetto di determinate condizioni oggettive o soggettive, direttamente o indirettamente, vietano la stipulazione stessa del contratto.

E’ il caso dei contratti conclusi in assenza di una particolare autorizzazione al riguardo richiesta dalle legge, o in mancanza dell'iscrizione di uno dei contraenti in albi o registri cui la legge eventualmente condiziona la loro legittimazione a stipulare quel genere di contratto, e simili.

Orbene, se il legislatore vieta, in determinate circostanze, di stipulare il contratto e, nondimeno, il contratto viene stipulato, è la sua stessa esistenza a porsi in  contrasto con la norma imperativa. E non v’è dubbio che debba riscontrarsi una nullità radicale, ancor più di quella strutturale del co. 2 dell’art. 1418 c.c..

Le Sezioni Unite precisano però che neppure in tali casi si tratta di norme di comportamento afferenti alla concreta modalità delle trattative prenegoziali o al modo in cui è stata data attuazione agli obblighi contrattuali gravanti su una delle parti, per le quali la violazione configura una responsabilità precontrattuale (con conseguente obbligo di risarcimento del danno) oppure una responsabilità contrattuale con possibilità di ottenere la risoluzione per inadempimento (oltre  agli obblighi risarcitori).

E’ stato così saldamente ribadito il principio di separazione tra regole di validità e regole  di comportamento. A sostegno di tale principio si segnala una recente pronuncia di merito (Trib. Salerno, Sez. I, 4 novembre 2014) a proposito dell’invocata nullità  virtuale delle operazioni di investimento per violazione di norme imperative.  In tale occasione il giudice di merito ha ricordato come l'art. 21 ss. d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 individui una serie di doveri comportamentali che tipizzano, nel settore delle attività professionali di intermediazione finanziaria, le regole di condotta conformi a criteri di correttezza in rapporto alla natura professionale delle prestazioni rese nell'ambito del servizio.

L'inderogabilità di tali doveri non è idonea a ingenerare un automatico conflitto tra l'atto negoziale (al quale i doveri afferiscono) e la norma comportamentale imperativa. E ciò in quanto non è l'atto (ossia il regolamento d'interessi in esso ricevuto) a violare la norma di riferimento, bensì la condotta dei contraenti nella fase precontrattuale o in quella dell'esecuzione.

Muovendo da tale prospettiva, il Tribunale di Salerno ha affermato che l'ambito applicativo dell'art. 1418 c.c. concerne le ipotesi in cui, in assenza di un'espressa comminatoria di nullità, sia direttamente il regolamento d'interessi concordato dalle parti a ledere un interesse protetto dalla norma imperativa ovvero ad attuare una regolamentazione che contrasta con quella legale.

In altri termini, le norme di condotta che assistono la fase prodromica alla formazione dell'accordo e quello della sua successiva attuazione non introducono requisiti di validità del contratto, ove non abbiano influito sul suo contenuto, rendendolo riprovato dalla  norma imperativa.

 7. Il principio di separazione tra norme di comportamento e validità, affermato a più riprese dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, è andato incontro a critiche da parte della dottrina.                     

A questo proposito mi limito a riportare quanto il Prof. GIOVANNI D’AMICO, in un noto saggio, ha illustrato in risposta al principio enucleato dalle Sezioni Unite del 2007.

Il primo equivoco di fondo riscontrato è indotto dalla espressione “regole di comportamento” che si assume possa contrapporsi alle “regole di validità”, alla cui violazione soggiace un trattamento differenziato in ambito contrattuale.

La distinzione sopra citata verrebbe a perdere qualsiasi significato ove si riconoscesse, a livello di teoria generale, che tutte le regole giuridiche sono “regole di condotta” e che tali devono considerarsi anche le “regole di validità”. Lo dimostra, ad esempio, la circostanza che l’annullabilità per dolo o per violenza consegue certamente alla violazione di tipiche “regole di condotta”.

Il secondo equivoco è dato dal fatto che il principio di separazione è volto ad espungere le sole regole di mero comportamento, di correttezza o buona fede o altre come la ragionevolezza, trasparenza, onestà. Per esse non potranno discendere conseguenze attinenti l’invalidità dell’atto. D’altra parte non possono essere ricavate dal giudice regole di validità in sede di concretizzazione della clausola generale di buona fede, violazione dalla quale potranno discendere conseguenze diverse.

L’autore ritiene infine che il problema possa essere risolto per altra via, e cioè valorizzando altri profili, come lo scopo della norma violata e la direzione del divieto, evitando così di affidarsi al principio di separazione indebitamente invocato dalla giurisprudenza prevalente.

In particolare il “criterio della direzione del divieto” si propone di distinguere l’ipotesi in cui la norma imperativa vieti il comportamento di entrambe le parti (nel qual caso, alla sua violazione conseguirà la nullità del contratto, dovendosi ritenere vietato il contratto in sé) da quella in cui la norma vieti il comportamento di uno solo dei contraenti  (nel qual caso il rimedio della nullità non potrà essere invocato).

In conclusione, il tema delle nullità virtuali e della loro concreta operatività ha fortemente risentito dell’interpretazione restrittiva accordata dalla giurisprudenza di legittimità in ambito contrattuale.

La questione non può tuttavia ritenersi definita alla luce dei criteri sopra indicati, se non altro perché appare sempre più frequente la tendenza del legislatore italiano (ma anche e soprattutto di quello comunitario) a predisporre norme a carattere imperativo o comunque a protezione di particolari categorie di soggetti per le quali, in assenza di una specifica indicazione delle conseguenze derivanti dalla loro violazione, si impone la necessità di valutare caso per caso i possibili effetti invalidanti sul contratto.


Per approfondimenti:

C. MIRIELLO, La nullità virtuale, Padova, 2011.

V. ROPPO, Il contratto, in Trattato di diritto privato a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2011.

G. D’AMICO, Nullità virtuale e nullità di protezione (variazioni sulla nullità), in Contratti, 2009, 7, 732.

S. PAGLIANTINI, Spigolando a margine di Cass. 26242 e 26243/2014: le nullità tra sanzione e prisma delle prime precomprensioni interpretative, in Persona e Mercato,       2014, 4.

C. FIN, Fideiussione prestata dall'incapace naturale: per il Tribunale di Verona il negozio è unilaterale e deve quindi essere annullato ex art. 428, co. 1, c.c., in Dir. civ. cont., 28 marzo 2015.

F. GIGLIOTTI, Locazione non registrata e regime giuridico del rapporto. A proposito di un revirement (annunciato) dalla Cassazione - il commento, in Contratti, 2014, 10, 914.

G. MASTROPASQUA, Art. 1418 co. 1 c.c.: la norma imperativa come norma inderogabile, in www.juscivile.it, 2013, 12.

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