Pubbl. Sab, 18 Gen 2020
Il compenso dell´avvocato varia in relazione al valore della controversia
Modifica paginaOve l’attore formuli, nell’ambito dello stesso processo, una pluralità di domande nei confronti del convenuto, il valore della causa si determina, ai fini della liquidazione degli onorari, sommando le domande.
Sommario: 1. La nozione di compenso professionale ed il D.M. 8 marzo 2018, n. 37; 2. Diverse tipologie di compenso; Liquidazione del compenso in sede giudiziale.
1. La nozione di compenso professionale ed il D.M. 8 marzo 2018, n. 37.
Il D.M. 8 marzo 2018, n. 37 ha la funzione di assicurare ai professionisti compensi “giusti” o congrui e proporzionati, per quantità e soprattutto per qualità, al lavoro concretamente svolto e, comunque, dignitosi per la professione.
Il citato D.M. pone, quindi, un freno alla discrezionalità o, meglio, all’arbitrio del giudice nella liquidazione processuale del compenso dell’avvocato prevedendo delle soglie minime percentuali di riduzione rispetto al valore parametrico di base (ossia, quello medio) al di sotto delle quali è vietato scendere.
Il compenso, d'altronde, costituisce un aspetto molto delicato nell’ambito del rapporto tra libero professionista e cliente in quanto collegato ad una precisa prestazione.
Al riguardo, una teoria francese della fine degli anni ’40 del secolo scorso pose l’accento sul problema della distinzione della prestazione del professionista (ad esempio, quella che lega il medico con il suo paziente: non poteva essere assicurata la guarigione con certezza, bensì le cure adeguate), che apriva nuovi scenari relativamente al criterio della responsabilità in capo al debitore che doveva adempiere la prestazione pattuita, soprattutto se la stessa fosse un’obbligazione “di risultato”, come spesso accadeva.
Questa nuova teoria fu vagliata in Italia con estrema attenzione [1]: alla fine si raggiunse la conclusione che anche nelle obbligazioni definite ‘‘di comportamento’’ il debitore deve comunque un risultato. Tale risultato, però, non è quello del raggiungimento del preciso obiettivo cui aspira il creditore (guarire dalla malattia, nell'esempio), perchè quest'ultimo non può essere ricavato in un’obbligazione, in quanto nessuno può garantire di raggiungerlo, ma si tratta del risultato di un comportamento al quale il professionista si attiene per conseguire l’obiettivo aspirato dal creditore, il cui esito dipende, però, da condizioni ulteriori, estranee al vincolo stipulato.
Così, con riferimento all'attività dell'avvocato, è chiaro che ogni sentenza è condizionata da molteplici fattori: per quanto possa essere statisticamente calcolabile la probabilità di vincere una causa, l’esito di essa è pur sempre condizionato da molti fattori, quali, ad esempio, l’apprezzamento del giudice, le prove introdotte o il comportamento delle parti.
L’aforisma latino “habent sua sidera lites”, utilizzato in alcune sentenze degli inizi del secolo scorso ed oggetto di molteplici discussioni da parte dei giuristi dell’epoca, esprime, nella sostanza, il pericolo dovuto alla imprevedibilità delle decisioni dei giudicici. Esso ci fa meglio comprendere che, anche in caso di mancata diligenza del professionista (nel rispettare scadenze, come nel proporre appello nei termini) a questi gli si potrà ascrivere, sempre e solo, la mancanza di proposizione di atti a lui imputabili, e non il mancato raggiungimento della vittoria della lite anelata dal cliente.
Pertanto, il professionista non potrà mai obbligarsi al risultato, se non di risultati inerenti ad atti come ad esempio la proposizione di un appello, la redazione di un atto in generale: egli non potrà mai obbligarsi al risultato della vittoria di una lite, che, come già detto, può essere influenzato da molteplici fattori.
Secondo il diritto romano, “onorario” (“honorarium”) indicava il dono che il cliente faceva spontaneamente al legale per ringraziarlo dell’opera intellettuale prestata la quale, poiché bene immateriale (il lavoro di ‘creazione mentale’ e la ‘architettura delle idee’), non era suscettibile di alcuna valutazione economica.
In altri termini, quella del legale rappresentava una pretesa atipica, esclusa dal processo formulare dello ius civile che riguardava solo le res, e non patrimoniale, esclusa dalla tutela dello ius honorariu, incapace di entrare a comporre un rapporto di natura sinallagmatica: da qui l’idea malsana che il professionista intellettuale operava, in modo disinteressato, per meri fini altruistici.
Il rapporto tra professionista e cliente era, pertanto, ricondotto ad un contratto di mandato essenzialmente gratuito.
Nei secoli successivi, di rilevante entità fu un'ordinanza di FIlippo l'Ardito, pubblicata a Parigi il 23 ottobre 1274, che riguardava non solo gli aspetti del compenso dell’avvocato, ma anche alcuni obblighi: tale ordinanza, di fatti, obbligava gli avvocati di giurare sui santi evangeli, sul fatto che non si sarebbero presi in carico cause più che giuste, e che avrebbero immediatamente rifiutato quelle che avessero scoperto essere malvagie e cattive, ordinava inoltre che gli avvocati i quali non avessero prestato questo giuramento, fossero interdetti da ogni attività legata alla loro professione finché non l'avessero fatto. Gli onorari erano fissati da ordinanze e proporzionati all'importanza del processo e all'abilità dell'avvocato, ma non potevano in alcun modo superare la somma di trenta tornesi. In caso di contestazioni al riguardo, alla fine decideva comunque il giudice.
Va segnalato che nella vigenza del codice civile del 1865, parte della dottrina, rifiutando di ravvisare tra le parti un contratto (pur se gratuito), ha persino proposto di ricondurre le due prestazioni, ossia quella del professionista e quella del cliente, a due autonome obbligazioni naturali ex art. 2034 c.c.[2].
Tale interrogativo ha ricevuto pareri differenti nel corso del tempo. L’art. 57 della previgente legge professionale (Regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578), da leggersi unitamente all’art. 2233 c.c., definiva alcuni principi da applicarsi per la determinazione del compenso dovuto al professionista[3]:
- determinazione delle tariffe forensi con deliberazione biennale del C.N.F., con riferimento al valore della controversia, al grado dell’autorità chiamata a conoscerne, e, per i giudizi penali, anche alla durata di essi;
- minimi tariffari inderogabili: tuttavia, al giudice era riconosciuta la duplice facoltà di oltrepassare il limite massimo nei casi di eccezionale importanza e di attribuire con provvedimento motivato l’onorario in misura inferiore al minimo quando la causa era di facile trattazione;
- divieto del patto di quota lite.
I parametri forensi, di cui al D.M. n. 37/2018, si applicano quando, tra cliente e professionista non vi è una convenzione scritta sul compenso, che resta liberamente concordabile prima, al momento o dopo l’incarico, ed in caso di liquidazione giudiziale del valore dell’opera dell’avvocato[4].
La misura del compenso deve essere adeguata, oltre che all’importanza dell’opera, al decoro della professione.
Secondo la giurisprudenza, tali valori attengono, oltre che all’essenza del professionista, alla stessa “moralità della professione forense”, essendosi quindi in presenza di valori intrinseci (sfera dell’essere) che, quantomeno ai fini deontologici, impongono di ravvisare una loro lesione in re ipsa, considerato il fatto che un compenso inadeguato tradisce l’ontologico valore dell’istituzione di appartenenza e, prima ancora, la stessa dignità professionale dell’iscritto[5].
2. Diverse tipologie di compenso.
Il compenso, secondo le modalità anche contemplate dal codice deontologico, può essere pattuito a forfait o a tariffa oraria (art. 25, comma 1, cod. deont. for.).
Con il patto sul compenso a forfait, oltre a rendersi esigibile l’intero compenso - salvo, beninteso, diversa pattuizione espressa sin dall’inizio dell’esecuzione dell’incarico (art. 1183, comma 1, prima parte, c.c.) -, si dispensa il professionista dall’esposizione specifica dell’attività compiuta e delle spese sostenute, anche se il diritto a ricevere o trattenere il compenso non sussiste qualora nessuna prestazione sia stata eseguita[6].
In sostanza, è una modalità di determinazione del compenso “non analitica”[7] ma “globale” (a corpo e non a misura), come complessivo corrispettivo unitario, tendenzialmente, fisso e invariabile, in considerazione, non dell’oggetto della prestazione legale concretamente necessaria, ma dal contenimento del rischio altrimenti assunto dal cliente di un costo superiore, non avendo alcun rilievo, in tale contesto, le differenze quantitative dell’attività concretamente svolta dal legale.
Pertanto, prevedendo una tale modalità di individuazione del compenso, il cliente si è voluto tutelare dal rischio di richieste di onorari eccessivi da parte del legale, fissandosi, in sostanza, ex ante la corresponsione di un importo onnicomprensivo e invariabile per tutta l’attività professionale relativa ad una data vicenda a prescindere dall’entità della prestazione imposta all’avvocato dalla soluzione della questione. Per tale ragione l’accordo sul compenso a forfait autorizza una “presunzione di indifferenza” del cliente “rispetto” alla minore entità e “al minor valore” dell’attività svolta dal professionista[8]. Il legale di contro, assumendosi l’alea della maggiore onerosità della gestione ordinaria, ha comunque inteso prevenire future discussioni sul valore della propria prestazione, liberandosi nel contempo dall’incombente di doversi precostituire sistematicamente la specifica prova di ogni attività ordinaria richiesta dal cliente e della relativa esecuzione per conto del medesimo assistito.
Invero si ritiene che, di fronte ad un onorario convenuto a forfait, al professionista è sufficiente dimostrare di aver compiuto anche solo un segmento dell’attività commissionatagli dal cliente affinché divenga esigibile, e per l’intero suo importo, il credito pecuniario riconosciutogli unitariamente dalla parte a titolo di compenso.
L’unica difesa per il cliente che voglia sottrarsi al pagamento è quella di contestare l’inadempimento al legale (non sorgendo alcun diritto al compenso dalla mera attribuzione dell'incarico professionale): a fronte della dimostrazione da parte dell’avvocato di aver intrapreso l’attività legale, spetta al cliente dimostrare l’inadempimento imputabile a controparte per vanificarne il diritto al compenso: ciò in quanto il patto sull’onorario “a corpo” determina una presunzione di indifferenza delle parti rispetto alla quantità di lavoro materialmente svolto dal professionista.
A questo punto, merita sottolineare che nei contratti con compenso unitario fissato “a corpo” non possono essere prese in considerazione differenze quantitative delle attività effettuate dal professionista[9] in quanto ciò che rileva è solamente il compenso globale dovuto al legale. D’altronde nel contratto a forfait il rischio costituisce elemento essenziale del contratto -che pure resta commutativo - limitandosi a presentare solo una più accentuata centralità dell’alea economica del negozio -, sicché è normale che esso ricada sull’una o sull’altra parte contraente.
Si consideri, ancora, che se il contratto con pattuizione dell’onorario a forfait, invece che riguardare la cura processuale di una singola vicenda controversa per i singoli gradi e stati del giudizio, si innesta in un rapporto di collaborazione continuativa di consiglio, consulenza ed assistenza, è allora opportuno delimitarne espressamente l’efficacia (per esempio, all’attività stragiudiziale e, in questo ambito, a quella ordinaria).
In quest’ultimo caso, la funzione del patto a forfait è quella di coprire il cliente, in generale, per tutti i rapporti ordinari intercorrenti con l’avvocato firmatario dell’intesa, escludendosi ogni rischio di autonomo esborso inerente alle singole prestazioni legali analiticamente considerate e commesse. La convenzione è qui diretta a dimensionare l’onorario dell’avvocato e a regolare il tempo del pagamento di tutte le prestazioni legali commesse dal cliente, riunificate nel loro complesso sotto un medesimo regolamento corrispettivo unitariamente convenuto “a corpo”.
Occorre, infine, porre l’attenzione al caso in cui, nell’ambito di un contratto di collaborazione continuativa a forfait annuale che prevede varie tranche di pagamenti mensili con cui il legale si assicura un fisso periodico, l’avvocato lavora il primo mese dedicandosi ad una vicenda, nel secondo riceve una ingente mole di documentazione da esaminare per un’altra questione, nel terzo la analizza e rende il parere, quando, all’inizio del quarto mese, il cliente dà recesso. In tal caso ci si chiede se è dovuto al legale l’onorario per il secondo mese. Secondo un orientamento giurisprudenziale, la semplice disponibilità che il legale offre al cliente è circostanza priva di alcun rilievo giuridico[10], venendo implicitamente liquidata tale prestazione come insuscettibile di qualsiasi apprezzamento di ordine economico.
3. Liquidazione del compenso in sede giudiziale.
La liquidazione giudiziale viene eseguita sulla base dei nuovi parametri forensi purchè la prestazione del difensore, alla data in cui quei parametri divengono operanti, non abbia avuto inizio ovvera non sia ancora esaurita e si sia in parte svolta nella vigenza delle abrogate “tariffe”[11].
Resta il dubbio del significato da attribuirsi alla locuzione “non ancora esaurita” riferita alla prestazione professionale del difensore.
A tal proposito, è emblematico il contrasto che tutt’oggi si registra nelle pronunce dei giudici in ordine alla possibilità di considerare completata e conclusa l’attività dell’avvocato al termine di ciascun grado di giudizio.
Secondo la tesi affermativa, l’attività professionale deve ritenersi compiuta tutte le volte in cui sia intervenuta una sentenza che definisce un grado del giudizio[12].
Di avviso contrario è quella parte della giurisprudenza che, postulando l’unitarietà del processo ed escludendo la sussistenza di autonomia tra i diversi gradi di giudizio, nega che la prestazione dell’avvocato possa considerarsi esaurita al termine di ciascuno di essi, dovendosi il principio della soccombenza applicarsi all’esito globale della causa[13].
La posizione espressa dalla dottrina concorda con il primo orientamento giurisprudenziale cui si è accennato, affermandosi che la pronuncia della sentenza (o dell’ordinanza) che definisce il giudizio, benché impugnabile, comporti l’esaurimento della prestazione del difensore[14].
L’art. 5 del D.M. n. 55/2014, nell’indicare i criteri per la determinazione del valore della controversia ai fini della liquidazione dei compensi dell’avvocato, rinvia, salve le eccezioni ivi espressamente previste, e analogamente a quanto faceva l’art. 5 del D.M. n. 140/2012, al codice di rito e, per quanto qui interessa, all’art. 10, 2° comma, c.p.c.
La norma codiscistica, che enuncia i presupposti in presenza dei quali procedere alla somma dei valori delle plurime domande eventualmente proposte in giudizio, è espressamente richiamata dall'art. 104 c.p.c., il quale contempla la fattispecie del cumulo oggettivo (iniziale) delle azioni conseguente alla connessione soggettiva[15].
Ne consegue che ove l’attore formuli, nell’ambito dello stesso processo, una pluralità di domande nei confronti del convenuto, il valore della causa si determina, ai fini della liquidazione degli onorari, sommando le domande[16]. È questa l’ipotesi del cumulo oggettivo c.d. semplice[17], la cui rilevanza andrebbe ricercata nel maggior peso della pretesa complessivamente avanzata in giudizio giustificante, sotto il profilo della disciplina della competenza, l’attribuzione della cognizione della causa ad un giudice più qualificato[18].
Premesso che la regola non opera con riguardo a quelle domande che, seppur distintamente proposte, siano prive di autonomia, costituendo il presupposto o il mero sviluppo di altra domanda (si pensi, rispettivamente, al caso in cui l’accertamento dell’illegittimità di una costruzione sia richiesto in funzione strumentale alla domanda di demolizione[19] ed all’ipotesi in cui nel giudizio avente ad oggetto un’azione di regolamento di confini si pretenda, altresì, il rilascio del bene abusivamente posseduto dalla controparte[20]) si esclude in giurisprudenza che il valore della causa possa desumersi dalla “sommatoria” delle domande fra loro subordinate o proposte in via alternativa, dovendosi aver riguardo in tali casi a quella di maggior valore[21].
Sul punto una parte della dottrina[22] procedendo alla distinzione tra il cumulo condizionato in senso proprio, anche denominato cumulo “eventuale” o subordinato (in cui l’attore svolge in via principale una domanda e, per l’ipotesi che sia rigettata, ne propone un’altra) ed il cumulo alternativo (dove l’attore non esprime una preferenza tra due domande-[23]), sottolinea come – non potendo essere accolte entrambe le domande – non vi sia motivo per pervenire alla somma dei loro valori.
Parimenti è prevista la sommatoria delle domande nel caso di cumulo condizionato in senso improprio – altrimenti qualificato cumulo “successivo” o condizionale in senso stretto – dove colui che agisce richiede, in caso di accoglimento di una domanda, anche l’esame di un’altra in virtù della possibilità del loro contestuale accoglimento.
In senso favorevole alla somma dei valori delle domande alternativamente proposte si è invece espresso qualche autore, rimarcando come il relativo giudizio possa concludersi con una pronuncia di merito su entrambe le richieste, ha affermato non essere giustificata l’esclusione di tale operazione aritmetica[24].
Quanto alla domanda riconvenzionale, il suo ammontare non si somma con quello della principale, non ricorrendo nell’ipotesi considerata il presupposto comune agli artt. 10 e 104 c.p.c., che è dato dalla “unidirezionalità” delle domande. Ciò poiché la domanda riconvenzionale non si aggiunge bensì si contrappone alla domanda principale. Del resto, qualora se ne ammettesse la sommatoria, il convenuto si vedrebbe disincentivato all’esercizio del potere di proporre la domanda riconvenzionale atteso che la condanna alle spese, nel caso di soccombenza, risulterebbe più gravosa, parametrandosi anche al valore delle domande dell’attore, rispetto a quella derivante dall’esperimento della medesima azione in separato giudizio, con buona pace del principio di economia dell’attività giudiziale sotteso al disposto di cui all'art. 36 c.p.c..
Nonostante ciò, l’iniziativa così assunta dal convenuto non pare essere priva di conseguenze sotto il profilo della liquidazione dei compensi dell’avvocato.
In primo luogo, si è sottolineato che la proposizione della domanda riconvenzionale può comportare l’applicazione dello scaglione tariffario superiore qualora sia di valore maggiore rispetto alla domanda principale, in considerazione della sua attitudine ad ampliare il thema decidendum e ad imporre al difensore (dell’una e dell’altra parte) una più onerosa attività[25].
Sotto altro profilo, la prestazione dell’avvocato nella trattazione anche delle domande riconvenzionali – così ha affermato la suprema Corte[26] con riferimento all’art. 6 del D.M. 8 aprile 2004, n. 127 – ben può essere tenuta in conto in sede giudiziale attraverso il “parametro correttivo” del valore effettivo della controversia, quando risulti manifestamente diverso da quello presunto in applicazione dei criteri previsti dal codice di rito e degli interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti. Ed il principio è da ritenersi ancora attuale se si considera il tenore dell’art. 5, 1° comma, ultima parte del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, secondo il quale “in ogni caso si ha riguardo al valore effettivo della controversia, anche in relazione agli interessi perseguiti dalle parti, quando risulta manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile o alla legislazione".
Note e riferimenti bibliografici
[1] Trib. Taranto, Sez. III, 5 gennaio 2015 e Trib. Cagliari 25 maggio 2011; L. Mengoni, Obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di mezzi” (Studio critico), in Riv. dir. comm., 1954, 185 ss.
[2] G. Cattaneo, La responsabilità del professionista, Milano, 1958, 21 ss.
[3] A. Conz, A. Vanni, V. Ventura, “ Compendio di Ordinamento e Deontologia Forense”, Dike Giuridica 2019, p. 280.
[4] L. Crotti, "Il nuovo d.M. n. 37/2018 sui compensi forensi e il preventivo dell’avvocato", in Riv. "Dirito & Giustizia", n. 04/2019.
[5] Cass., Sez. III, 11 novembre 2003, n. 16943; Cass., Sez. II, 19 novembre 1997, n. 11485; Cass., SS.UU., 25 novembre 2014, n. 25012.
[6] Cass., Sez. II, 22 giugno 1994, n. 5987.
[7] Trib. Torre Annunziata 8 aprile 2003.
[8] Cass., Sez. II, 17 settembre 2015, n. 18263.
[9] Trib. Genova, Sez. VI, 14 febbraio 2014.
[10] Trib. Milano, Sez. V, 2 gennaio 2018.
[11] Cass., 19 dicembre 2017, n. 30529, in Mass. Giur. It., 2017; Id., 19 ottobre 2016, ivi, 2016; Id., 11 febbraio 2016, n. 2748, ibid; Id, 2 luglio 2015, n. 13628, ivi, 2015; Cass., Sez. un., 12 ottobre 2012, n. 17405, ivi, 2012; tra i giudici di merito v. Trib. Bologna, 2 ottobre 2012, in Foro It., 2012, I, 2837; Trib. Siena, 27 agosto 2012, ibid.
[12] cfr. Cass., 11 febbraio 2016, n. 2748, cit.; nella giurisprudenza di merito v. Trib. Verona, 27 settembre 2012, in Foro It., 2012, I, 2837.
[13] Cass., 19 dicembre 2017, n. 30529, cit.; Cass., 7 gennaio 2009, n. 50, in Mass. Giur. It., 2009.
[14] Lupano, Liquidazione del rimborso delle spese giudiziali, diritto intertemporale ed esaurimento del mandato, in Giur. It., 2013, III, 2317 e segg.; Danovi, Corso di ordinamento forense e deontologia, Milano, 2008, 212 e segg.; Perulli, Il lavoro autonomo, in Tratt. Dir. Civ. e Comm., a cura di Cicu-Messineo, Milano, 1996, 661; Ruperto, Gli onorari di avvocato e procuratore, Milano, 1991, 35 e segg.
[15] Mandrioli-Carratta, Diritto processuale civile, l, Torino, 2017, 183 e segg.
[16] Cass., 16 luglio 2003, n. 11150, consultabile su De Jure; Id., 24 ottobre 1983, n. 6236, in Mass. Giur. It., 1983.
[17] Celeste, sub art. 10 c.p.c., in Commentario al codice di procedura civile, a cura di Cendon, Milano, 2012, 186
[18] Cass., 10 luglio 1987, n. 6025, in Mass. Giur. It., 1987.
[19] Cass., 3 marzo 1994, n. 2106, in Mass. Giur. It., 1994.
[20]Cass., 10 marzo 1986, n. 1599, in Mass. Giur. It., 1986; si vedano sul tema anche Cass., 6 dicembre 1986, n. 7267, ibid.; Id., 29 giugno 1984, n. 3860, in Giur. It., I, 1, 1985, 1416; Id., 17 gennaio 1983, n. 360, Mass. Giur. It., 1983; Id., 14 maggio 1980, n. 3185, ivi, 1980.
[21] Cass., 3 marzo 1994, n. 2106, cit.; Id., 24 ottobre 1983, n. 6236, cit.; Id., 9 maggio 1981, n. 3076, in Mass. Giur. It., 1981.
[22] Luiso, Diritto processuale civile I, 2017, 99.
[23] Consolo, Il cumulo condizionale di domande, Padova, 1985, 428; Tarzia, Appunti sulle domande alternative, in Riv. Dir. Proc., 1964, 253 e segg.
[24] Celeste, op. cit., 186.
[25] Cass., 14 luglio 2015, n. 14691, cit.; Id., 27 gennaio 2003, n. 1202, Mass. Giur. It., 2003.
[26] Cass., 14 luglio 2015, n. 14691.