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Pubbl. Mar, 11 Feb 2020

Femminicidio, un´urgenza da codice rosso

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Mariangela Miceli
AvvocatoUniversità degli Studi di Palermo



Una disamina della violenza di genere fino al nuovo codice rosso. L´articolo è frutto della collaborazione con lo scrittore Ettore Zanca.


Sommario: ; 1. Definizione di femminicidio e entità del fenomeno; 2. Le diverse forme di violenza e il negazionismo; 3. Convenzione di Istanbul e disciplina italiana; 4 Codice rosso; 5. Famiglia e violenza 6. Conclusioni.

Abstract:  La condizione socio-giuridica della donna ha compiuto negli ultimi anni progressi che un tempo sarebbero stati considerati un miraggio. È doloroso realizzare e ammettere però che le donne, per milioni di anni, sono state e sono tutt'ora vittime inconsiderate di sottomissioni, soprusi e vessazioni da parte di uomini. È una triste realtà e la strada per un'effettiva parità sembrerebbe ancora lontana, ma ciò che un tempo era un miraggio oggi potrebbe lentamente diventare realtà, è su tale considerazione: tutto potrebbe sembrare possibile.

Abstract: The socio-legal status of women has made progress in recent years that would once have been considered a mirage. It is painful to realize and admit that women, for millions of years, have been and still are unconsidered victims of submission, abuse and harassment by men. It is a sad reality and the road to effective equality would still seem far away, but what was once a mirage today could slowly become reality, it is on this consideration: everything could seem possible.

1. Definizione di Femminicidio ed entità del fenomeno

Il neologismo "femminicidio" comincia a diffondersi in Italia, in seguito all’introduzione ed alla diffusione di un altro termine che deriva dall’inglese femicide, il quale veniva utilizzato per indicare l’omicidio di una donna. Esso, successivamente, fu tradotto anche in castigliano assumendo, però, un’accezione differente, mantenendo, comunque, alla base della stessa la motivazione legata alla violenza dell’uomo sulla donna.

A tal proposito, è inevitabile menzionare Marcela Lagarde, nonché una delle prime studiose femministe del Centro America che, in qualità di docente universitaria di sociologia e antropologia, venne considerata "la teorica del Femminicidio", diversamente da Diana Russell che, invece, fu “la teorica del Femmicidio”. Essa sosteneva che:

“La cultura in mille modi rafforza la concezione per cui la violenza maschile sulle donne è un qualcosa di naturale, attraverso una proiezione permanente di immagini, dossier, spiegazioni che legittimano la violenza, siamo davanti a una violenza illegale ma legittima, questo è uno dei punti chiave del femminicidio”.[1]

Fondamentalmente, abbiamo a che fare con un problema strutturale poiché riguarda tutte quelle forme di discriminazione e violenza di genere che sono in grado di annullare la donna nella sua identità e libertà non soltanto fisicamente, ma anche nella loro dimensione psicologica, nella socialità, nella partecipazione alla vita pubblica.

Secondo Lagarde, femminicidio è “La forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine - maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale - che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia”.[2]

La Lagarde, dunque, contestualizza il neologismo all’interno di un sistema di discriminazione di genere, sottolineando, da un lato, la violenza maschile sulle donne nelle sue forme più estreme, dall’altro, la totale assenza da parte delle Istituzioni, le quali, a loro volta, contribuiscono, attraverso un "concorso di colpa", in quanto pongono la donna in una situazione indifesa e di alto rischio, sottovalutando, in questo modo, ogni tentativo di omicidio o tentativo di omicidio nei confronti della stessa.

La mancanza di pene adeguate, infatti, ha fatto sì che molti uomini fossero, addirittura, immuni dinanzi alla commissione dei gesti discriminatori e carichi di violenza, indipendentemente dal fatto che essa fosse espressa in modo verbale, fisico o psicologico, alimentando quel fenomeno che Marcela Lagarde definì “violancia istitutional”.

Come anticipato nelle prime righe, un’altra studiosa, Diana Russell, si è espressa in tema di violenza sulle donne a ed è proprio a lei che dobbiamo, innanzitutto, la prima introduzione del termine criminologico femminicidio. Secondo la criminologa inglese, infatti: “il concetto di femmicidio si estende al di là della definizione giuridica di assassinio e include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l'esito/la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine”.

Il femmicidio rappresenta, secondo questa visione, l’insieme di quelle forme estreme di violenza, il quale trova fondamento nell’odio sessista dell’uomo che, a sua volta, si ritrova a combattere la paura di perdere il controllo che esercita sulla donna. In fondo, parlare di femmicidio significa trattare di una questione che si lega, al concetto di violenza contro una donna, in quanto tale.

2. Le diverse forme di violenza e il negazionismo 

La violenza psicologica mira a ledere l’identità della donna attraverso una serie di abusi quali:

  • Attacchi verbali come la derisione, la molestia verbale, l’insulto, la denigrazione, finalizzati a convincere la donna di “non valere nulla”, per meglio tenerla sotto controlloisolare la donna, allontanarla dalle relazioni sociali di supporto o impedirle l’accesso alle risorse economiche e non, in modo da limitare la sua indipendenza;
  • Gelosia ed ossessività: controllo eccessivo, accuse ripetute di infedeltà e controllo delle sue frequentazioni;
  • Minacce verbali di abuso, aggressione o tortura nei confronti della donna e/o la sua famiglia, i figli, gli amici;
  • Minacce ripetute di abbandono, divorzio, inizio di un’altra relazione se la donna non soddisfa determinate richieste;
  • Danneggiamento o distruzione degli oggetti di proprietà della donna;
  • Violenza sugli animali cari alla donna e/o ai suoi figli/e.[3]

La violenza fisica è determinata dall’insieme di quelle azioni che sono guidate dall’unico fine di arrecare un danno fisico, incutendo terrore; rientrano tra queste azioni: la violenza privata, il sequestro di persona, le lesioni personali e percosse, la violazione di domicilio. 

La violenza sessuale è quella più conosciuta e consiste nell’obbligo di pratiche e rapporti sessuali indesiderati, ottenuti con minacce di vario genere; questo tipo di violenza, in particolar modo, si nutre della dignità della donna, concretizzandosi in una profonda umiliazione e provocando nella stessa delle ferite non solo fisiche ma anche psicologiche.

Un altro tipo di violenza che risulta essere molto diffuso, inglobando entro la propria sfera di azione anche quelle menzionate fino adesso e che, sicuramente, risulta essere il peggiore fra tutte è la violenza domestica. Questa, infatti, si manifesta nell’ambito familiare, entro le quattro mura domestiche, le stesse che dovrebbero garantire sicurezza e tranquillità, piuttosto che disagio e maltrattamenti di ogni genere e, solitamente, è il marito ad esercitare questa violenza sulla vittima, distruggendo definitivamente quelle certezze che li avevano condotti alla realizzazione di un progetto di vita, chiamato matrimonio.

Ciascuna di queste violenze dovrebbe indurre la donna, vittima di abusi, a sporgere denuncia. Eppure capita, non di rado, che per paura e mancanza di coraggio, la donna rinunci alla sua dignità e alla sua libertà pur di proteggere i suoi malfattori, specie se, tra questi, ci sia proprio il marito.

Ma cosa succede esattamente?

E’ come se qualcosa esplodesse nella coppia, fino a bruciare e a ridurre in brandelli quella passione per la quale si è giurato amore eterno, ammettendo così che quella relazione non era fondata sulla gioia e sulla speciale cura l’uno dell’altra, piuttosto sulla radicale e sedimentata pretesa di controllo, dominio e possesso da parte dell’uomo sulla donna.

Affinché si possa parlare di maltrattamento è necessario che la donna subisca almeno 2 cicli completi di violenza. Il ciclo della violenza si caratterizza per la presenza di 3 fasi distinte e che si ripetono immancabilmente: nella prima fase vi sarebbe un accumulo di tensione emotiva da parte dell'uomo; nella seconda fase questa tensione esploderebbe contro la donna; nella terza fase, anche detta "fase della luna di miele", l'uomo si pentirebbe del suo gesto tornando ad essere dolce e premuroso con la donna”.[4]

E allora una domanda sorge spontanea: perché dopo il primo schiaffo non viene attuato alcun allontanamento da colui che ci sta minacciando? 

Una possibile spiegazione per comprendere il perché molte donne facciano un’enorme fatica nel decidere di denunciare il maltrattamento è quella legata ad una sindrome ben precisa, chiamata “Procne” più comunemente conosciuta come “Sindrome della Donna Maltrattata”. Questa sindrome consta di una fase particolare quale quella della negazione, ove la vittima non solo tende a minimizzare il maltrattamento ma si rende inconsapevolmente complice del suo carnefice: […] le donne negano agli altri, e prima ancora a loro stesse, di essere vittime di violenza, giustificando il comportamento del partner con scuse quali “lui lavora tanto e quando torna a casa vorrebbe solo una buona cena. Sono proprio un'ingrata”; Continuano a restare loro accanto, preferiscono ripetersi “non sta succedendo a me” e prepararsi il giorno dopo a dire ai figli, poi ai colleghi, agli amici che non è niente, che hanno di nuovo sbattuto contro la porta”.[5]

E allora tutto si capovolge, destabilizzando le uniche certezze sulle quali vengono posti sogni e progetti.

3. Convenzione di Istanbul e disciplina italiana

In seguito alle continue richieste di tutela circa il fenomeno di violenza che coinvolge, principalmente, le donne, il legislatore cominciò a proporre una serie di normative che potessero contrastare ulteriormente il fenomeno.

“Partendo da un quadro normativo interno già ricco di strumenti di contrasto della violenza di genere, l'Italia ha nella scorsa legislatura firmato la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ovvero la cosiddetta Convenzione di Istanbul, aperta alla firma l'11 maggio del 2011.

Si tratta del primo strumento internazionale giuridicamente vincolante volto a creare un quadro normativo completo a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza. La Convenzione interviene specificamente anche nell'ambito della violenza domestica, che non colpisce solo le donne, ma anche altri soggetti, ad esempio bambini ed anziani, ai quali altrettanto si applicano le medesime norme di tutela.Per entrare in vigore, la Convenzione necessita della ratifica di almeno 10 Stati, tra i quali 8 membri del Consiglio d'Europa. L'Italia ha sottoscritto la Convenzione il 27 settembre 2012 e il Parlamento ha autorizzato la ratifica con la legge n. 77/2013.[6]

Fino al 2013, il sistema giuridico italiano non prevedeva delle misure specifiche per contrastare le condotte violente a danno delle donne, piuttosto si era sempre limitato ad infliggere delle aggravanti nel caso di omicidi che coinvolgevano le donne, in quanto vittime degli stessi, senza mai riconoscere effettivamente il c.d. femminicidio.

Ecco perché è stato necessario che il legislatore intervenisse per rafforzare il sistema giuridico attraverso degli strumenti penali più specifici che potessero contrastare la violenza di genere, con lo scopo, appunto, di limitare i delitti e i reati a sfondo sessuale per i quali le donne si trovano ad essere vittime incessanti.

Prima di giungere, quindi, alla firma della Convezione di Istanbul, la disciplina italiana si fece portavoce di un ordinamento giuridico più definito, capace di riconoscere pene più severe nel caso di violenza sessuale.[7]

Anche lo stalking cominciò ad essere riconosciuto come un reato perseguibile, motivo per cui il decreto-legge n. 11 del 2009 introdusse un articolo specifico nel codice panale, quale il 621-bis, disciplinando in questo modo gli atti persecutori e di molestie. [8]

Una volta applicato un maggior rigore nella formulazione di nuove normative più intransigenti nei confronti degli aggressori, si passò alla firma della Convenzione di Istanbul, il cui scopo era quello di creare un quadro globale ed integrato capace di provvedere alla tutela ed alla protezione delle donne, attraverso una cooperazione internazionale che si adoperi affinché tutte le norme presenti all’interno della Convenzione stessa vengano applicate, in nome del principio della parità tra i sessi.

L’Italia, a tal proposito depositò presso il Consiglio d’Europa una nota verbale ove dichiarava che avrebbe applicate le norme previste dalla Convenzione nel rispetto dei principi e delle previsioni costituzioni di cui essa si faceva promotore:

"Tale dichiarazione interpretativa - apposta anche a seguito di quanto chiesto al Governo con le mozioni approvate al Senato il 20 settembre 2012 - è motivata dal fatto che la definizione di "genere" contenuta nella Convenzione - l'art. 3, lettera c) recita: "con il termine genere ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini" - è ritenuta troppo ampia e incerta e presenta profili di criticità con l'impianto costituzionale italiano (si veda, al proposito, la relazione illustrativa al ddl 45 di autorizzazione alla ratifica - A.S. 3654 - presentato dal Governo Monti l'8 gennaio 2013).”[9]

Ad ogni modo, ad oggi la Convenzione è stata firmata da 32 Stati e ratificata da 8, indi per cui non ha ancora trovato ampia diffusione a livello internazionale.

4. Codice rosso

Gli interventi del nostro ordinamento in materia di violenza di genere non si sono fermati qui e, nell’agosto del 2019, la legge n. 69 ha segnato un momento di grandissima svolta e rilevanza giuridica.

La sopra citata legge è denominata, per il suo contenuto e la velocità delle tempistiche d’intervento, Codice Rosso. La legge si pone come obiettivo quello di porre un freno ai reati di violenza di genere, violenze domestiche, lo stalking e la violenza sessuale.

Più nello specifico, la novella normativa interviene nella legislazione già esistente apportando modifiche sia al codice penale sia al codice di procedura penale, introducendo nuove condotte sanzionabili. Il legislatore è intervenuto nuovamente in materia di violenza di genere a causa delle diffuse condotte violente ed anche per proseguire sulla linea di una maggiore difesa a tutela del soggetto debole.

Rispetto alla legislazione già esistente il legislatore è intervenuto non solo sulla riforma dei delitti sessuali ma anche sulla tratta di persone, sull’introduzione del reato di tortura fino ad arrivare, appunto, all’approvazione del cosiddetto Codice Rosso.

La novella legislativa è intervenuta soprattutto all’interno del reato di maltrattamenti in famiglia, reato già previsto nel codice penale all’art. 572. Questo delitto ha natura propria in quanto non può essere commesso da chiunque ma solamente da un soggetto familiare o, comunque, che tiene un rapporto ad esso assimilabile con la vittima. La ratio di tale assunto è da ricercarsi proprio nel rapporto con la vittima, infatti, la vittima in presenza di una violenza intrafamiliare è quasi sempre meno portata alla denuncia. 

Il maggiore intervento in tal senso si era avuto solo attraverso la legge del 4 aprile  2001, n. 154 intitolata “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari”.

Tale normativa aveva introdotto la nuova figura degli “ordini di protezione contro gli abusi familiari”, mediante l'aggiunta nel tessuto codicistico degli artt. 342 bis e ter c.p.

Con tale previsione si era concesso al giudice di poter intervenire sul cuore delle relazioni familiari, sia quelle riferibili direttamente ai coniugi, sia quelle riferibili alle relazioni genitori\figli.

Dall’emanazione della Costituzione, e quindi dalla proclamazione del principio di uguaglianza tra uomini e donne, la realtà ha così dimostrato come sia ancora lunga la strada da percorrere per quanto riguarda la possibilità di godere di pari diritti in rapporto agli uomini.

Si è discusso anche in particolar modo su cosa di dovesse intendere con il termine “familiare” ed  in particolar modo in riferimento ad altre figure di convivenza: la modifica del 2012, oltre all’inclusione espressa del convivente more uxorio, ha innalzato le pene per l’ipotesi base del reato e anche per la particolare aggravante nel caso di decesso involontario della vittima portandola, così, a ventiquattro anni di reclusione. La riforma è intervenuta altresì nel delitto di omicidio introducendo una particolare aggravante dove, invece, il decesso della vittima a seguito di maltrattamenti familiari sia volontario. Le riforme non si sono fermate qui, infatti, nel 2013 un’ulteriore riforma ha comportato l’introduzione di una circostanza aggravante nel caso in cui le condotte lesive siano poste in essere alla semplice presenza di un soggetto minore.

Il Codice Rosso è intervenuto inasprendo anche le pene già esistenti, oltre ad introdurre condotte nuove sanzionabili, ha abbreviato le tempistiche giudiziali, al fine di tutelare prima possibile la vittima. 

In particolar modo vengono introdotti dei termini certi per la polizia giudiziaria che, una volta acquisita notizia del reato, dovrà darne immediata comunicazione, anche in forma orale, al PM che è invece obbligato a raccogliere le dichiarazioni della vittima o di chi ha denunciato il reato entro tre giorni.

Il termine, particolarmente serrato, consente inoltre di fornire una sorta di "prelazione" della tutela, al fine di evitare il reiterarsi di condotte violente. Tuttavia, questo termine può essere disatteso per casi imprescindibili di necessità delle indagini, nell’interesse della persona offesa, o per tutelare minori coinvolti. Tale procedura coinvolge solo alcuni reati che attengono a forme di violenza sessuale, quelle cioè previste degli articoli 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies del codice penale, lo stalking e la violenza di genere.

E’ stata prevista anche una maggiore forma di tutela già all’interno del pronto soccorso, potendo sporgere querela entro dodici mesi rispetto ai sei precedentemente previsti, mentre è stata introdotta una nuova forma di delitto il c.d. ”revenge porn”, all’articolo 612-ter del codice penale (cfr. YouTube). La nuova fattispecie delittuosa sanziona, con la multa da cinquemila a quindicimila euro e la reclusione da uno a sei anni: “chiunque diffonda senza il consenso della persona interessata contenuti multimediali di natura pornografica, avendoli ricevuti, creati o sottratti se gli stessi fossero dovuti rimanere privati.

La legge n. 69/2019 ha introdotto anche una precisa tutela per quei delitti commessi con l’acido. La nuova fattispecie, infatti, prevista dall’articolo 583-quinquies, sanziona con la reclusione da otto a quattordici anni “chiunque cagioni una lesione personale dalla quale derivano la deformazione o lo sfregio permanente del viso”. Vi è da precisare che se dal fatto deriva la morte della vittima, è prevista la pena dell’ergastolo.

Altrettando importante appare l’ipotesi delittuosa prevista dall’articolo 558-bis del codice penale e diretta a punire quei soggetti che, ledendo la libertà personale di altri, impongono il matrimonio. Nello specifico, viene sanzionato: “chiunque, con costrizione o minaccia, costringa una persona a contrarre matrimonio o unione civile”, in tale ipotesi la pena prevista è la reclusione da uno a cinque anni.

Il Codice Rosso, da ultimo, è intervenuto apportando ai reati oggetto di odierna disamina un generale aumento sanzionatorio, sia per il reato di maltrattamenti sia per i delitti di stalking e violenza sessuale che, ora, comportano rispettivamente la reclusione da un minimo di un anno a un massimo di sei anni e sei mesi e da un minimo di sei anni ad un massimo di dodici anni.

Dal punto di vista strettamente procedurale si può rilevare, invece, come il legislatore abbia consentito lo svolgimento delle indagini connesse ai c.d. reati di genere, permettendo alla polizia giudiziaria di riferire la notizia di reato al  PM immediatamente e anche in forma orale (art. 1), prevedendo che l’attività di indagine delegata dal Pubblico Ministero alla polizia giudiziaria debba essere eseguita “senza ritardo” (art. 3).

Inoltre, quando si procede per i predetti reati, il PM entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato deve assumere informazioni dalla persona offesa e da chi ha presentato denuncia, querela o istanza, salvo sussistano imprescindibili esigenze di tutela di minori degli anni diciotto, della riservatezza delle indagini, o della persona offesa (art. 2).

Promuovendo inoltre uno sforzo di contrasto alla violenza di genere è stato introdotto tra le norme di attuazione, coordinamento e transitorie del codice di procedura penale l’articolo 64 bis, rubricato “Trasmissione obbligatoria degli atti al giudice civile[11]. Infine sulla stessa linea dell'articolo appena citato, all’articolo 9 comma 4 viene estesa l’applicabilità delle misure di prevenzione al delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi, in un’ottica di prevenzione generale anticipata della predetta categoria di reati [12].

5. Famiglia e violenza

Connie Fletcher scrisse il libro “Sulla scena del crimine” nel 2010. Era un testo in cui l’autrice voleva descrivere e demolire tutti i luoghi comuni sulle indagini poliziesche, venuti fuori dalle serie tv. Dall’uso indiscriminato del luminol ai tempi ristretti per risolvere i casi.
In questo libro, un ispettore di polizia di New York parla proprio dei litigi domestici che sfociano nell’omicidio di uno dei due coniugi e sostiene una tesi semplicistica forse, ma molto pragmatica: Gli omicidi in famiglia  spesso avvengono nella stanza da letto o in cucina, questo perché si litiga per soldi (e se ne parla in cucina) o per sesso. Suggerisce con ironia che quando si capisce che la lite sta per degenerare, bisogna spostarsi in stanze dove non c’è pericolo, tipo armi bianche in bagno o coltelli e chiude proprio dicendo “magari dove c’è la tv, al massimo ci si tira addosso un telecomando”.

A parte le considerazioni portate con amarezza, il nucleo familiare è un posto talmente ambivalente e particolare da poter diventare rifugio e al contempo un arsenale e il covo dove si nascondono i peggiori nemici. E ognuno può assurgere a un ruolo determinante anche solo per le dinamiche che la famiglia stessa ha dettato.

Pensateci un attimo: si può andare dalla “semplice” persona con forti disagi psichici, che ha trasformato il rapporto con figure genitoriali in una autonegazione del cibo o in una sua croce, anoressia e bulimia trovano il loro focolaio nella struttura domestica in gran parte, ma si può anche arrivare al delitto, passando però per abusi psicologici, minacce, atti lesivi. La famiglia è un micromondo in cui ognuno crea una propria struttura e in cui se non si è equilibrati, fioriranno il tiranno, la vittima, il carnefice e la preda.

Ma esiste un sommerso che non figura agli atti e non fa parlare le cifre. Quello delle sottovalutazioni, quei rapporti sul filo dell’abuso e della manipolazione psicologica. Che sono ambosessi e che magari sfociano in uno dei due coniugi costretto a subire angherie. Un sommerso  fatto di violenze a donne o pressioni psicologiche agli uomini in cui sono messi in mezzo i figli. E che sfociano nell’urlo disperato di una giustizia negata, troppo tardi. Oppure sono rapporti forzati, chiesti controvoglia e concessi, che viaggiano a metà tra il dovere coniugale e lo stupro acclarato.

Il fenomeno dello Stalking comincia non solo ad essere preoccupante, come rilevato nello scorso settembre dall’Osservatorio Nazionale Stalking (ultimi dati settembre 2019), ma fino a pochi anni fa sembrava una prerogativa maschile. Adesso cominciano a venir fuori anche esempi sempre più pressanti di stalking a firma  femminile [10] e si stanno sempre tardivamente studiando contromisure. Il sistema penale italiano infatti, nell’approntare misure di tutela, risulta troppo spesso essere farraginoso, come anche dimostrato nel tradivo mutamento del tipo di reato contro la morale o contro la persona per lo stupro e la pedopornografia online, diventata reato soltanto nel 2006 (L. 38/2006).
Chiaro che comunque se si vanno a guardare una serie di dati Istat, prevale la frequenza di atti violenti rivolti dall’uomo alla donna, per cui purtroppo pur essendoci una casistica di violenza senza genere, essa si riversa comunque per le più disparate motivazioni a danno delle categorie più deboli.

Un capitolo a parte lo meritano gli uomini e le donne di domani. I figli. Praticamente l’hamburger umano schiacciato tra due pressioni emotive quando la vita in famiglia è piena di contrasti.

La loro esposizione al pericolo delle famiglie con dinamiche sbagliate si articola purtroppo in diverse sfumature. Si va dalla perversione sessuale, rivolta da genitore o parente, in un clima che a volte può essere di omertà, fino ad arrivare all’uccisione sempre più frequente, per sfregio all’altro coniuge o unitamente all’omicidio di quest’ultimo.

Infatti non è raro assistere a vendette sui figli per separazione dal genitore. Uccisioni o sparizioni degli stessi. Oppure appunto, vengono trascinati nel gorgo della vendetta assassina, insieme alla madre.

Purtroppo la violenza in famiglia è un fenomeno incontrollabile. Non siamo di fronte ad organizzazioni criminali che svolgono attività illecite. Vengono ad avere un risultato simile agli attentati terroristici, definiti a previsione zero, significa che nonostante tutte le possibilità di prevenire, in effetti non si sa dove e come si colpirà.

Perché il fenomeno è trasversale, va dal dermatologo che uccide la moglie per gelosia, lui ricco e famoso, al carabiniere che spara con la pistola d’ordinanza, passando per il normale impiegato che stermina la famiglia e simula una rapina, perché invaghitosi di una collega. Unico denominatore, ecco, quello forse sarebbe materiale su cui lavorare, la pressante presenza di un delirio di onnipotenza e narcisismo, che porta a volersi disfare delle persone che si dovrebbe amare, piuttosto che concedere la libertà di odiare e allontanarsi.

Le cifre parlano chiaro. Le vittime dell'atto finale, del gesto estremo, sono in prevalenza. Sono state 179 le vittime della violenza maschile nel 2013, che ha rappresentato l’«anno nero» per il femminicidio nel nostro Paese, il più cruento degli ultimi sette. Mai la percentuale delle donne uccise era stata così elevata rispetto al totale degli omicidi (502): il 35,7% , oltre di un terzo. Nel 92,4% dei casi a colpire è una mano maschile e due volte su tre (66,4%, 81 m delitti su 122) si tratta della mano del partner: che sia il coniuge o il convivente (45,1%, 55 uccise); l’ex (14,8%, 18 vittime) oppure il fidanzato (6,6%, 8 casi). L’Eures li chiama «femminicidi del possesso» e spiega che dipendono, in genere, dalla decisione femminile di interrompere la relazione: sono oltre 400 le donne uccise in Italia, dal 2000 a oggi, per aver lasciato il proprio partner. Una scelta a cui la controparte reagisce, osserva il rapporto, con il «più alto grado di violenza e rancore». L’ex abbandonato e geloso picchia (5,6%), strangola (10,6%), soffoca (12,3%): così, a mani nude, è stata uccisa una donna su tre. Cifre da brividi. I dati non contano le cosiddette "violenze di genere", cioè percosse a donne e bambini, violenze psicologiche ambosessi. In prevalenza però sono proprio i "sessi deboli" a rimetterci (Fonte Eures).
Ma il problema globale coinvolge anche uomini, che stando alle cifre, quando si comportano non in maniera estrema, e ce ne sono tanti, pagano comunque violenze psicologiche che si vergognano di denunciare, diffamazioni e annientamenti. Insomma non si salva nessuno.

La prevalenza omicidiaria maschile purtroppo è schiacciante, 9 omicidi su 10 in famiglia sono fatti da uomini. Nel 49 per cento dei casi, l'omicida è il compagno. In totale, a prescindere dal sesso della vittima in dieci anni in Italia abbiamo avuto più di 1800 morti per omicidio volontario nella sfera familiare (Eures). In tutto questo emerge recentemente una notizia desolante.

6. Conclusioni

Dalla disamina appena esposta si può evincere come il legislatore nell'ottica di una tutela diffusa,  sia voluto intervenire con un  provvedimento repressivo e dare una pronta risposta alla violenza di genere, modificando sia la disciplina sostanziale che processuale. I dati riportati dimostrano come, purtroppo,  la famiglia sia un termine che può avere molteplici significati e che possa diventare luogo di violenza fin'anche di delitto. Ad oggi il sistema punitivo di cui all'art. 575 cp si era dimostrato inefficace, tanto più che in materia di violenza di genere, il delitto di femminicidio si perpetra nei confronti della donna - come sostenuto dalla stessa Marcela Lagarde, autrice di numerose pubblicazioni sul tema e ideatrice del neologismo  -  nei confronti di una donna, in quanto donna. 

Note e riferimenti bibliografici

Per approfondimenti sul tema del femminicidio si consiglia il Corso online "Principi di criminologia forense e neuro-criminologia emotiva" sulla piattaforma Formazione Cammino Diritto.

[1] M. Lagarde, Genero y Feminismo, ed. Sigloveintuno, 2018

[2] Ibidem 

[3] A. Giangrande, Chi comanda il mondo? ed. Ginagrande, 2017

[4] Walker L.E., The batter woman" Harper Perennial, 2007 

[5] Ibidem.

[6] Documentazione per le Commissioni RIUNIONI INTERPARLAMENTARI Violenza sulle donne – Una sfida per tutti Bruxelles, 5 marzo 2014

[7] Ibidem.

[8] Ibidem

[9] Ibidem

[10]  Daniela Acquadro Maran: il fenomeno stalking, UTET

[11] Ai fini della decisione delle cause di separazione personale tra coniugi, ovvero concernenti minori di anni diciotto o la potestà genitoriale, la predetta disposizione prevede la trasmissione senza ritardo al giudice civile procedente delle ordinanze che applicano, revocano o sostituiscono misure cautelari personali, degli avvisi di conclusione delle indagini preliminari nonché dei provvedimenti di archiviazione e delle sentenze emessi nei confronti di una delle parti in merito ai c.d. reati di genere (art. 14).

[12] L’articolo 15 estende l’obbligo delle comunicazioni di cui all’art. 90  ter c.p.p. al difensore e alla persona offesa dei reati di genere. Il medesimo articolo modifica anche la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, permettendo l’utilizzo della particolari modalità di controllo di cui all’articolo 275 bis c.p.p., il quale come noto consente alla polizia giudiziaria di monitorare il rispetto della misurate cautelare in atto tramite mezzi elettronici o altri strumenti tecnici, quali ad esempio il c.d. Braccialetto elettronico.


Note e riferimenti bibliografici