Pubbl. Gio, 28 Nov 2019
In caso di detenzione sine titulo, può essere risarcito il danno figurativo riferito al valore locativo del bene
Modifica paginaLa Cassazione, con la sentenza n.18740 del 12 luglio 2019, riconosce il cd. danno figurativo se suffragato da indici atti a provare l´esistenza del danno derivante dall´indisponibilità materiale dei beni da parte dell´avente diritto.
Sommario: 1. Fatti di causa; 1.1. La decisione della Suprema Corte di Cassazione sul quinto motivo di ricorso; 2. Sulla possibilità di configurare il danno da occupazione sine titulo quale danno in re ipsa; 2.1. Quando si parla di occupazione sine titulo; 2.2. Quando si parla di danno in re ipsa; 2.3. Orientamenti giurisprudenziali.
La Corte di Cassazione, sezione terza civile, con la sentenza 12 luglio 2019, n. 18740 ha riconosciuto, in caso di detenzione sine titulo, il risarcimento del danno cd. figurativo, riferito cioè al valore locativo del bene, purché dedotto da indici atti a provare il pregiudizio derivante dall’indisponibilità materiale dei beni da parte dell’avente diritto.
1. Fatti di causa
In primo grado il Tribunale di Savona con sentenza del 8.02.2011 pronunciandosi su due cause riunite, rigettava le domande proposte, rispettivamente, da S.R.A (cui succedette la nipote) volta a far dichiarare la nullità o annullamento dell’atto pubblico con cui il nipote P.M., qualificandosi quale suo procuratore speciale, aveva concesso in enfiteusi per la durata di anni 20 e con il canone annuo di Lire 12.000.000 una serie di beni immobili di sua proprietà al padre G.M; e da G.M. volta a sentir dichiarare l’avvenuto acquisto per usucapione degli appezzamenti di terreno.
Il Tribunale accoglieva parzialmente le domande formulate dalla S.R.A. di accertamento dell’assenza di titolo per la detenzione dei beni da parte di G.M. e di condanna del medesimo al rilascio degli stessi; compensava le spese del giudizio.
La Corte d’Appello di Genova, adita in via principale da M.M.G., erede della defunta S.R.A., ed in via incidentale da P. e G.M, con sentenza non definitiva n. 976 del 16.07.2014, dichiarava l’invalidità del contratto di enfiteusi stipulato dal procuratore P.M. con il proprio padre G.; condannava i medesimi al risarcimento del danno in favore di M.M.G. da liquidarsi nel corso ulteriore del giudizio; dichiarava G.M. detentore sine titulo dei beni immobili e lo condannava al risarcimento dei danni per mancato godimento fino al giorno del rilascio, da determinarsi nell’ulteriore corso del giudizio; dichiarava, inoltre, inammissibile l’appello incidentale di G.M. e, riservando al definitivo la regolazione delle spese del giudizio, disponeva con ordinanza una CTU volta a definire il valore locativo dei beni da porre a base della liquidazione del danno, sia di quelli dati in enfiteusi sia di quelli comunque detenuti sine titulo da G.M..
La successiva sentenza sul quantum escludeva la presenza di migliorie apportate dall’enfiteuta, quantificava il danno per i terreni detenuti al di fuori dell’enfiteusi in € 165.508,38, per il periodo dal 1991 al 2011, mentre per i terreni in enfiteusi, rilasciati nel 2015, stimava il danno in complessivi € 1.782.336,32, oltre rivalutazione ed interessi.
Conclusivamente la Corte d’Appello di Genova condannava in solido P.M. e G.M. a corrispondere, a titolo risarcitorio, a M.M.G. la somma di € 1.782.336,32, oltre rivalutazione ed interessi; il solo G.M. a corrispondere a M.M.G. l’ulteriore somma di € 165.508,38, oltre rivalutazione monetaria ed interessi; e condannava i soccombenti alle spese del doppio grado del giudizio.
Avverso le due sentenze, relative all’an e al quantum, veniva proposto ricorso per cassazione dai soccombenti affidato a cinque motivi. Nessuno ha resistito al ricorso che veniva integralmente rigettato.
1.1. La decisione della suprema corte di cassazione sul quinto motivo di ricorso
Punto di partenza della presente analisi è l’argomentazione posta a base del quinto motivo di ricorso con cui i ricorrenti denunciavano la violazione e falsa applicazione degli articoli 2043, 1223, 1226, 2056 e 2697 c.c., nonché l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, consistente nella mancanza di un godimento diretto (o indiretto fonte di utilità) da parte del titolare dei beni occupati.
In particolare, con la doglianza in esame - ritenuta infondata dalla Suprema Corte – i ricorrenti lamentavano l’erronea asserzione dei Giudici d’Appello sulla sussistenza del danno in re ipsa, in quanto determinato dalla semplice perdita di disponibilità del bene da parte del proprietario e dalla conseguente impossibilità per costui di conseguire l’utilità potenzialmente ricavabile in seguito a locazione o vendita. Quindi, i ricorrenti censuravano la sentenza per aver ritenuto applicabile, per il danno da occupazione sine titulo, la teoria del danno in re ipsa, il cui risarcimento può essere determinato sulla base di “elementi presuntivi semplici”, in netto contrasto con l’orientamento giurisprudenziale maggioritario della Corte.
In realtà, si evince dalla sentenza in commento, che la motivazione dell’impugnata sentenza di appello, pur contenendo un riferimento al danno cd. in re ipsa, è affidata ad indici atti a provare l’esistenza del danno derivante dall’indisponibilità materiale dei beni da parte dell’avente diritto. La motivazione, dunque, è adeguatamente riferita al valore locativo dei beni, ed è sorretta da un sufficiente onere di allegazione, in linea con la giurisprudenza più recente della Corte di Cassazione che, peraltro, come si legge nella pronuncia “non disdegna neppure una argomentazione presuntiva dell’esistenza del danno, basata sul cd. danno figurativo, cioè per l’appunto sul valore locativo del bene (Cass., 2, n. 20823 del 15/10/2015; Cass., 2, 20545 del 6/8/2018; Cass., 3, n. 15111 del 17/6/2013)”.
Ancora la sentenza impugnata, secondo i Giudici, risulta coerente anche con l’indirizzo giurisprudenziale più rigoroso della Suprema Corte circa la prova del danno, poiché contenente un riferimento esplicito alla circostanza riferita dalla S.R.A. di non aver potuto locare il bene e di non averlo potuto vendere ad un prezzo conveniente, quale sarebbe stato quello ottenuto quale corrispettivo dalla stessa proprietaria dalla vendita di un complesso immobiliare sito nella stessa zona, peraltro di dimensioni più modeste rispetto a quello oggetto di causa, ad altro acquirente.
2. Sulla possibilità di configurare il danno da occupazione sine titulo quale danno in re ipsa
Questione sottesa al caso e su cui la pronuncia in commento obbliga di soffermarsi concerne la possibilità, o meno, di configurare il danno da occupazione sine titulo di immobile altrui, quale danno in re ipsa.
2.1. Quando si parla di occupazione sine titulo
Si verifica un’occupazione sine titulo quando un terzo occupa e dispone dell’immobile senza che sia mai stato stipulato un contratto (di locazione o di compravendita) con il proprietario; quando un terzo e il proprietario dell’immobile abbiano stipulato un contratto legittimante la disponibilità da parte del terzo, ma il proprietario ne contesti l’originaria validità; quando un terzo e il proprietario dell’immobile abbiano stipulato un contratto inizialmente valido ed efficace, ma che successivamente abbia perso efficacia.
L’occupazione illegittima ricorre in tutte e tre le ipotesi; mentre la prima, però, si caratterizza per la totale assenza di un titolo legittimante l’occupazione, nelle altre esso è riscontrabile, anche se nullo, inefficace o scaduto.
2.2. Quando si parla di danno in re ipsa
Sovente nella casistica giurisprudenziale, emerge un uso non univoco di tale espressione.
Secondo una prima accezione, si parla di danno cd. in re ipsa quando non è richiesta la prova del danno, poiché il fatto di per sé è considerato un danno. Il danno costituisce, dunque, condizione imprescindibile della lesione, sicché, in presenza di quest’ultima, vi è di per sé, senza necessità di ulteriori allegazioni o prove, diritto al ristoro.
Sovente, invece, si fa riferimento al danno in re ipsa, per indicare il mero ricorso ad un ragionamento di carattere presuntivo; strumento, questo, che, lungi dall’essere stato bandito dal più recente orientamento, costituisce il perno attorno a cui dovrebbe ruotare l’istruttoria dei giudizi risarcitori.
La differenza tra le due accezioni appare evidente ove si ragioni sulla possibilità di fornire la prova contraria. Se il danno è esso stesso elemento della lesione, vi è un rapporto di inferenza necessaria in ragione del quale resta superflua sia la allegazione che la prova, restando l’autore dell’illecito obbligato al risarcimento senza alcuna possibilità di sostenere e provare il contrario. […] Se il danno è in re ipsa alcuna possibilità sarà concessa al responsabile di provare che, nel caso specifico, non vi era alcuna affezione tra i soggetti sì da escludere che alla lesione sia seguito un effettivo pregiudizio[1].
2.3. Orientamenti giurisprudenziali
Secondo il primo orientamento giurisprudenziale, minoritario, qualora si verifichi un’occupazione sine titulo di immobile altrui, il danno subito dal proprietario dell’immobile sarebbe da considerarsi in re ipsa, poiché si verificherebbe una soppressione delle facoltà di godimento e disponibilità del bene oggetto del diritto di proprietà determinando un danno che è insito nella lesione, cioè elemento costitutivo della stessa.
In forza di tale concezione, il danneggiato, al fine di ottenere il risarcimento di quanto patito a seguito di occupazione sine titulo del proprio immobile, dovrebbe semplicemente allegare la lesione del proprio diritto di proprietà.
In particolare, ai fini della quantificazione dell’entità del danno, costituisce elemento presuntivo semplice il valore locativo del bene, cd. danno figurativo, stabilito in base ai canoni che l’ente proprietario del bene avrebbe applicato all’immobile oggetto di causa se fosse stato locato ad altri soggetti.
Secondo il prevalente orientamento, antitetico rispetto al precedente, il danno da occupazione illegittima non può ritenersi sussistente in re ipsa e non può coincidere con il semplice evento dell’occupazione, che non rappresenterebbe un danno in sé e per sé, ma semplicemente la condotta produttiva dello stesso.
Di conseguenza, sarebbe onere del danneggiato, richiedente il risarcimento del danno causato dall’occupazione, provare l’effettiva entità del danno, ossia la concreta lesione derivante, ad esempio, dal non aver potuto locare l’immobile o venderlo a prezzo conveniente o, ancora, utilizzarlo personalmente.
Sul punto i giudici di legittimità, in diverse pronunce e sulla scorta di quanto affermato nel cd. “sbarramento nomofilattico” delle Sezioni Unite n. 26972 del 11 novembre 2008, hanno sempre confermato che ciò che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, il quale deve essere allegato e provato. Danno, questo, che va scisso dalla lesione dell’interesse protetto, che rappresenta l’evento-dannoso, ossia il danno-evento, così negando la sussumibilità del danno da occupazione sine titulo nella categoria del cd. danno in re ipsa poiché snaturerebbe “la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo”[2].
Va chiarito, tuttavia, ed è questo l’aspetto fondamentale della questione, che a restare preclusa – in quanto estranea al sistema civilistico del risarcimento del danno – è solo la ricostruzione di un rapporto di necessarietà assoluta tra lesione e danno, insuscettibile di confutazione a mezzo prova contraria, ossia la presenza di un danno insito nella violazione[3]. Al contrario, ciò che i giudici di legittimità recepiscono e, conseguentemente, applicano, con la sentenza in esame, è la concezione del danno in re ipsa per indicare il mero ricorso ad un ragionamento di carattere presuntivo, come di un danno, quantificabile sul valore locativo del bene, la cui prova sia di regola in re ipsa ma che può trovare nei singoli casi una smentita laddove si dimostrino circostanze dal quale desumere che la violazione effettiva del diritto non vi è stata. Si afferma l’importanza determinante dell’allegazione atta a concretizzare e fortificare il pregiudizio subito, riconoscendo comunque la possibilità di provare in capo al soggetto convenuto che, nel caso specifico, non vi sia stata alcuna affezione tra i soggetti sì da escludere che alla lesione sia seguito un effettivo pregiudizio.
Con riferimento al caso in esame, la sentenza della Suprema Corte ha ribadito ciò che precedentemente era stato già evidenziato nelle motivazioni della sentenza di secondo grado, ossia come parte attrice abbia correttamente adempiuto al suo onere di allegazione, fornendo, altresì, prove atte a dimostrare il concreto pregiudizio derivato dall’occupazione illegittima da parte del G.M, a tutti gli effetti conformandosi anche al più severo degli orientamenti giurisprudenziali in materia.
Note e riferimenti bibliografici
[1] Cfr. Rosanna Angarano, Giudice del Tribunale di Bari, sul “danno non patrimoniale”, paragrafo 2 “il tramonto del danno in re ipsa”.
[2] Tar Campania-Napoli, sez. IV, 4 Luglio 2013, n. 3438.
[3] Cfr. Rosanna Angarano, Giudice del Tribunale di Bari, sul “danno non patrimoniale”, paragrafo 2 “il tramonto del danno in re ipsa.