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Pubbl. Lun, 28 Ott 2019

L´elemento psicologico nel delitto tentato

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Armando Iadevaia


Brevi riflessioni sulla compatibilità tra il dolo eventuale e il tentativo


Sommario: 1. Premessa; 2. Il delitto tentato; 3. La giurisprudenza

1. Premessa

L’azione criminosa si spiega, generalmente, secondo un preciso iter criminis, il cui epilogo determina la consumazione del reato, con conseguente lesione del bene-interesse protetto dalla disposizione incriminatrice.

La definizione del delitto tentato, pertanto, risulta intrinsecamente connessa al processo di realizzazione dell’illecito, che si snoda in quattro fasi differenti la cui disamina consente di cogliere l’area di rilevanza del tentativo punibile.

In primo luogo, si assiste all’ideazione del fatto di reato, quale rappresentazione psichica dell’illecito, di per sé penalmente irrilevante ove non culmini nella risoluzione ad agire o ad omettere, in virtù del principio “cogitationis poenam nemo patitur”, il quale rinviene il suo fondamento codicistico nella previsione di cui all’art. 115 c.p., che esclude la punibilità nei casi di accordo criminoso non eseguito o di istigazione non accolta, da cui si evince la necessità che la condotta si riverberi nel mondo esterno e non resti confinata nella progettualità del soggetto agente.

Tipica di alcuni reati particolarmente complessi e, dunque, mera fase eventuale è quella di preparazione ed allestimento dei mezzi, di cui l’autore si avvale per porre in essere il proprio piano criminoso.

In ossequio al principio di materialità, il reato deve manifestarsi nella realtà pratica mediante la sua esecuzione, che rappresenta la fase corrispondente all’attivazione o al non impedimento dei decorsi causali che conducono, sul piano oggettivo, all’offesa del bene giuridico tutelato dall’ordinamento.

In ordine agli istanti conclusivi dell’illecito, la dottrina più autorevole è solita discernere tra perfezione e consumazione del reato. Nel primo caso s’intende alludere alla predisposizione degli elementi necessari e sufficienti per la venuta ad esistenza del reato. Diversamente, la consumazione dell’illecito si realizza nel momento in cui l’offesa si protrae fino alla sua massima gravità, di talché il reato possa ritenersi cessato. Lungi dal rilevare solo sul piano della dosimetria della pena ex artt. 132 e 133 c.p., come pure taluni hanno sostenuto, la distinzione in esame non è scevra di condizionamenti pratici: la perfezione del reato esclude ogni margine per l’operatività del tentativo, della desistenza e del recesso attivo mentre la consumazione designa il momento ultimo entro il quale sono ammissibili il concorso di persone e quello di reati, la flagranza, la scriminante della legittima difesa. Inoltre, occorre guardare alla consumazione del reato ai fini della individuazione del tempus commissi delicti, del momento a partire dal quale decorre il termine iniziale della prescrizione nonché per la determinazione della competenza territoriale.

Alla luce della suddetta analisi è agevole intuire che l’ambito di rilevanza del tentativo oscilla tra la fase di preparazione dei mezzi e quella di esecuzione del reato. Sebbene prima del perfezionamento in tuti i suoi elementi costitutivi la fattispecie penale non possa ritenersi integrata, non può escludersi che, a determinate condizioni, il comportamento dell’agente possa assumere rilevanza penale.

Al cospetto di condotte particolarmente insidiose, il legislatore ha predisposto un’anticipazione della soglia di punibilità attraverso la previsione di reati di pericolo, per mezzo dei quali si intende scongiurare una lesione effettiva.

2. Il delitto tentato

L’archetipo dei reati di pericolo è delitto tentato. Disciplinato dall’art. 56 c.p., alquanto discusso è il suo fondamento politico – criminale, che ha visto il fronteggiarsi di opposte ricostruzioni ermeneutiche.

L’impostazione soggettivistica ha propugnato un’equiparazione del tentativo al reato consumato, atteso che entrambe le fattispecie si connotano per una volontà di ribellione del reo rispetto al precetto legislativo.

Di contrario avviso, le teorie di matrice oggettiva le quali, valorizzando la dimensione dell’offesa, ravvisano nel tentativo gli estremi per muovere un giudizio di minore riprovevolezza, derivante dalla mancata verificazione dell’evento lesivo. A sostegno di detta prospettazione si è soliti addure le seguenti argomentazioni: impunità del tentativo inidoneo ex art. 49 co 2 c.p. e l’attenuazione della pena per il delitto tentato rispetto alla corrispondente fattispecie consumata.

Nel dibattito tra le opposte ricostruzioni è prevalsa un’accezione mista, volta a riconoscere il giusto rilievo al profilo sia oggettivo che soggettivo, giacché solo nella seguente prospettiva è possibile giustificare la punibilità del tentativo doloso e non anche di quello colposo.

Sul piano strutturale, pur derivando dalla combinazione dell’art 56 c.p. con la norma incriminatrice di parte speciale e acquisendo il nomen iuris della corrispondente fattispecie consumata, il delitto tentato è pacificamente inteso dalla dottrina più recente in termini di autonomo titolo di reato.

La qualificazione del tentativo in termini di autonoma tipologia di illecito porta con sé evidenti implicazioni pratiche, specie in ordine all’elemento psicologico idoneo a sorreggere la fattispecie de qua.

È noto che dal punto di vista soggettivo, il delitto tentato si atteggia come fattispecie necessariamente dolosa. Ciò lo si desume sia dalla struttura dell’azione del “tentare”, la quale richiede un atto intenzionalmente diretto al conseguimento di un certo risultato, sia dalla lettera dell’art 56 c.p., che implica la proiezione soggettiva degli atti verso la commissione del delitto.

D’altro canto l’elemento psicologico doloso si connota per il carattere intellettivo, dato dalla previsione anticipata dell’autore delle possibili conseguenze di operare nel mondo esterno, e per il carattere volitivo, che si identifica nell’atto di impulso con il quale l’autore mette in moto le energie idonee a produrre l’evento.

Ne consegue che in nessun caso potrebbe ipotizzarsi un delitto colposo tentato, poiché difetterebbe, tra l’altro, una espressa previsione legislativa.

Ciò posto, una peculiarità che caratterizza la fattispecie tentata attiene alle modalità di accertamento del dolo. Se, infatti, nel reato consumato la valutazione dell’elemento psichico segue l’esito positivo della rilevanza oggettiva dell’illecito, invece, nel delitto tentato l’accertamento psicologico precede la dimensione oggettiva. In altri termini, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale è possibile accreditare l’idoneità e l’univocità degli atti posti in essere solo in relazione allo scopo che muove il soggetto agente.

Risulta, invece, dibattuto se il dolo della fattispecie tentata sia identico a quello della corrispondente condotta consumata. La questione non è meramente teorica, in quanto involge la dibattuta compatibilità del tentativo con il dolo eventuale.

L’intensità del dolo si presta a differenti manifestazioni nel caso concreto. Con riguardo alla componente volontaristica, la dottrina avallata dalla giurisprudenza di legittimità è unanime nel distinguere tre livelli decrescenti di intensità dolosa.

Al livello più elevato, si colloca il dolo intenzionale o di primo grado, riscontrabile allorché la volontà dell’agente sia preordinata al conseguimento dell’evento pregiudizievole, fine ultimo della condotta.

In una posizione intermedia si staglia il dolo diretto o di secondo grado, che ricorre quando l’evento, pur voluto dal reo, non costituisce lo scopo ultimo della propria condotta, ma diviene accessorio e collaterale alla finalità che muove il soggetto agente.

Infine il dolo eventuale, che occupa il livello più basso delle modalità di manifestazione del suddetto elemento psicologico, sussiste ogni volta che il reo, pur ritenendo in concreto la realizzazione dell’evento una possibile ma dubbia conseguenza della propria condotta, non si astiene dall’agire ovvero non si attiva per impedire l’omissione ed accetta consapevolmente il rischio del suo verificarsi.

Di qui i dubbi interpretativi in ordine alla configurabilità del tentativo con dolo eventuale.

3. La giurisprudenza 

Fino ad un recente passato, la giurisprudenza di legittimità ha costantemente evidenziato che le fattispecie consumate non differiscono, sotto il profilo psicologico, da quelle consumate. A sostegno di tale impostazione si è evidenziata l’assenza di disposizioni normative riguardanti il delitto tentato. Pertanto, il mancato intervento legislativo sul punto, lungi dal costituire una lacuna normativa, rappresenta la scelta di far valere le regole generali di cui agli artt. 42 e 43 c.p.

Inoltre, parte della dottrina ha stigmatizzato che non esiste un dolo di tentativo, ma l’agente si rappresenta e vuole sempre il delitto consumato, la cui mancata realizzazione è ascrivibile a fattori indipendenti dalla sua volontà. Se così non fosse, la condotta dell’agente non integrerebbe il modello tipico descritto dal legislatore, per difetto dell’elemento soggettivo.

Seguendo tale approccio interpretativo, la linea di demarcazione tra delitto tentato e quello consumato non attiene al profilo psichico che resta univoco, ma riguarda la materialità della condotta.

 Ne deriva quale logico precipitato che il tentativo costituisce una forma minorata del reato consumato, che giustifica la punibilità del tentativo anche se sorretto da dolo eventuale.

In tempi più recenti, si è pervenuti ad un sostanziale revirement giurisprudenziale.

L’indirizzo ormai divenuto maggioritario, da sempre sostenuto in dottrina, è, invece, pervenuto ad una soluzione opposta, che esclude la compatibilità tra dolo eventuale e tentativo. In primo luogo, è stata enfatizzata l’autonomia strutturale del delitto tentato rispetto a quello consumato. A connotare il tentativo punibile è altresì la considerazione secondo cui la proiezione finalistica della condotta deve essere certa tanto sul piano materiale quanto sul versante psicologico. Diversamente opinando, il soggetto che agisce senza il proposito di cagionare l’evento delittuoso sarebbe punito senza essersi attivato mediante “l’azione del tentare”.

In altri termini, il dolo eventuale, contrassegnato da un’intrinseca opinabilità in ordine alla verificazione dell’illecito, si rivela inidoneo a sorreggere il delitto tentato, in quanto “ontologicamente incompatibile con la direzione univoca degli atti compiuti nel tentativo”, che presuppongono almeno gli estremi del dolo diretto.

Note e riferimenti bibliografici

S. BELTRANI, La compatibilità del dolo eventuale con il delitto tentato tra orientamenti e disorientamenti in Cass. pen., pp. 1729 e ss.;

G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, VII edizione, Zanichelli editore; pp.492 e ss;

C. FIORE, Diritto penale parte generale, III edizione,UTET giuridica, pp. 476 e ss;

F. MANTOVANI, Diritto penale, X edizione, Wolters kluwer Italia , pp. 435 e ss;

T. PADOVANI, Diritto penale, VIII edizione, Giuffrè, Milano 2006, pp. 73 e ss.;

Cass., Sez., II, 13 aprile 2012, n.14034

Cass., SS.UU., 18 giugno 1983, n.6309