Pubbl. Gio, 24 Ott 2019
Particolare tenuità del fatto e responsabilità degli enti
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Maria Erica Gangi
Può l’Ente delinquere? Può beneficiare dell’istituto di favore di cui all’art. 131 bis c.p.? All’uopo la Cassazione ha escluso l’estensione analogica dal privato all’Ente, piuttosto debbono sussisterne i presupposti e i requisiti di provato vantaggio conseguito. Il punto della Cassazione: Sentenze Cass. Pen. nn. 5821/2019 e 11518/2019
Sommario: 1. Art. 131 bis c.p.: il progetto di Riforma; 2. Requisiti oggettivi e soggettivi della causa di esclusione della punibilità: benefit o limiti; 3. Particolare tenuità e delinquente abituale”: binomio scarsamente conciliabile; 4. Attualità o superamento del principio “Societas delinquere non potest”; 5. Requisiti normativi di punibilità dell’Ente; 6. Interesse e vantaggio: due facce della stessa medaglia; 7. Le conclusioni della Corte Suprema sulla applicabilità della tenuità del fatto alla responsabilità degli Enti: analisi dei recenti arresti Pretori.
Abstract: Può l’Ente delinquere? Può beneficiare dell’istituto di favore di cui all’art. 131 bis c.p.? All’uopo la Cassazione ha escluso l’estensione analogica dal privato all’Ente, piuttosto debbono sussisterne i presupposti e i requisiti di provato vantaggio conseguito: ancora una volta ancestrale il binomio interesse/vantaggio. Il tema oggetto di odierno confronto di certo impone un’analisi ex professo che princìpi dalla consapevolezza di “dover scindere” le due macro categorie coinvolte nell’arresto pretorio in esame che si vuole trattare.
1. Art. 131 bis c.p.: il progetto di Riforma
Giova, talché, considerare e, dunque, debitamente trattare l’istituto della c.d. particolare tenuità del fatto introdotto nel nostro codice sostanziale con D.Lgs 64/2014 in attuazione della Legge Delega conferita all’esecutivo dal Parlamento al fine di realizzare uno strumento “smart” che avesse il potere/dovere di alleggerire i carichi giudiziali sottraendo dalla scure processuale quei reati c.d. bagattellari per i quali la misura detentiva, di certo, sarebbe risultata maggiormente controproducente che effettivamente rieducativa1.
Progetto ambizioso non v’è dubbio, che, tuttavia, non ha sortito i benefit sperati considerato, innanzitutto, un dato letterale ambiguo, poco lineare e poco apprezzato dai cultori e operatori del diritto stante la eccessiva vaghezza di cui lo stesso è pregno nonché il numerus di reati – blandi, di “poco” conto – cui l’istituto può essere applicato.
Deficit questo che ha fisiologicamente impedito una reale attuazione del progetto deflattivo tanto desiderato dagli scranni parlamentari.
2. Requisiti oggettivi e soggettivi della causa di esclusione della punibilità: benefit o limiti?
Compiuta detta doverosa premessa è d’uopo analizzare il dato testuale normativo, non foss’altro per consentirne un valido intercalare nella disciplina della Responsabilità degli Enti.
A tale scopo piaccia introdurre il corpo dell’articolo:
Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'articolo 133, primo comma, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.
L'offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità, ai sensi del primo comma, quando l'autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all'età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona. L'offesa non può altresì essere ritenuta di particolare tenuità quando si procede per delitti, puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive.
Il comportamento è abituale nel caso in cui l'autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.
Ai fini della determinazione della pena detentiva prevista nel primo comma non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale. In quest'ultimo caso ai fini dell'applicazione del primo comma non si tiene conto del giudizio di bilanciamento delle circostanze di cui all'articolo 69.
La disposizione del primo comma si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante.
Non volendo, né dovendo, spendere particolari energie intellettive sull’analisi normativa occorre, per completezza, darne atto e, per l’effetto, individuare i limiti – oggettivi e soggettivi – in essa indicati2.
Innanzitutto emerge un dato netto: l’istituto in commento è applicabile dal Giudice unicamente per quei reati la cui pena detentiva non sia nel massimo superiore ad anni cinque.
"Di tutta evidenza che il paniere sia, così, particolarmente scarno con conseguente scarso effettivo utilizzo pratico dell’art. 131 bis c.p. (...)" [2 bis]
3. “Particolare tenuità e delinquente abituale”: binomio scarsamente conciliabile
Ove venga superata la predetta scriminante temporale può, il Giudice, disporre l’applicabilità di detto Istituto nel caso in cui l’offesa – valutata ai sensi del libero convincimento di cui all’art. 133 c.p. – sia di particolare tenuità.
Parole centrali per la comprensione di detta figura giuridica atteso che proprio un fatto “lieve”, non particolarmente lesivo e/o aggressivo del bene giuridico tutelato è presupposto irrinunciabile perché il Giudice disponga la esclusione della punibilità.
Ed è evidente la ratio: non può sottrarsi alla pena costituzionalmente prevista quella condotta che offenda in maniera grave il bene della vittima; a contrario si determinerebbe un duplice profilo di danno verso la persona offesa che, non soltanto ha subito l’aggressione ad un proprio bene, ma deve “subire” l’esclusione della pena in capo alla persona che lo ha cagionato.
Non si dimentichi, invero, che il nostro ordinamento ha dismesso la c.d. funzione retributiva della pena in favore di quella rieducativa che, ad ogni buon conto, deve assicurare una giustizia non soltanto verso chi ha commesso il fatto di reato ma anche verso colui che ha subito l’altrui condotta criminosa.
Continuando nell’analisi normativa il legislatore presenta una prima impronta sibillina: finanche si dovesse trattare di offesa tenue, non può escludersi la punibilità quantunque l’autore sia c.d. “delinquente abituale”.
Ictu oculi l’anomalia: subordinare un istituto tipicamente pro reo a condizioni soggettive e non anche – come sarebbe dovuto essere – meramente oggettive3.
In verità, va detto, che il terzo comma del medesimo articolo fornisce una spiegazione circa la condotta e/o atteggiamento abituale: è tale nel caso in cui l'autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità.
Permane la discrasia dettata dal subordinare a condizioni e/o requisiti soggettivi un istituto che, così dato, difficilmente sarà attuativo.
Comprenderne la ragione è agevole.
I cc.dd. reati bagattellari4, statisticamente sono commessi maggiormente da quei soggetti “abituati” a contravvenire alle regole civiche di una Società normativamente regolata, ne discende che gli stessi saranno – gioco forza – esclusi dal benefit processuale.
Individuati i limiti soggettivi, tanto discussi e contestati in sede pretoria, di tutto interesse appare il secondo comma : espressione di quell’interesse proprio dello Stato a non garantire impunità indistintamente, ma funzionale a tutelare i soggetti deboli che possano “contare” su una pena giusta e repressiva di una condotta offensiva e altamente lesiva.
Ne consegue che la predetta esclusione della punibilità non si estende a quelle condotte in cui l'autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all'età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona.
Oculato dunque l’intervento normativo, prezioso, di certo ambizioso; seppur fortemente limitante e quindi di scarsa – reale – piena diffusione pratica5.
Soddisfatta l’analisi su quali siano gli elementi cardine componenti l’istituto in commento, può ritenersi di avere maggiori strumenti per trattare la Responsabilità degli Enti, le peculiarità di quello che – da sempre – si ritiene essere un settore a sé stante e, conseguentemente, giungere all’importante arresto pretorio che ha consacrato l’applicabilità dell’art. 131 bis c.p. al reato commesso dagli Enti purché in presenza di talune verifiche e accorgimenti che di seguito vorranno spiegarsi.
4. Attualità o superamento del principio “Societas delinquere non potest”6
Il brocardo latino con cui si sceglie di aprire la trattazione di questa seconda parte del contributo non è casuale, né è tale la scelta dell’interrogativo usato funzionale a comprendere se si tratti di una attualità dello stesso o se, a contrario, debba ritenersi superato.
Alla luce del D.Lgs 231/2001 può, ormai, asserirsi la piena punibilità degli Enti con contestuale superamento di quella errata convinzione secondo cui soltanto la persona fisica potesse essere centro di imputabilità di responsabilità penale.
L’Ente può commettere reati; l’Ente – nonostante persona giuridica e quindi agglomerato di singoli soggetti che coadiuvano la funzione sociale dello stesso – ha la propensione a delinquere; di ciò le cronache giudiziarie sono ben consapevoli.
Ed è stato proprio questo crescendo in termini di capacità di commettere reati che ha portato il legislatore ad intervenire disponendo un apposito testo che normasse i requisiti, unitamente ai presupposti, in presenza dei quali poter agire contro il soggetto giuridico e non soltanto verso quello fisico.
Entrato in vigore detto compendio normativo gli interpreti si interrogarono su quale fosse la natura della “nuova” responsabilità che andava ad ingrandire le fila del nostro sistema.
Sul punto tre orientamenti:
- Una responsabilità tipicamente amministrativa;
- Una responsabilità sostanzialmente penale;
- Né l’una n’è l’altra: si trattava in verità di una responsabilità afferente ad un c.d. tertium genus per cui vi erano elementi propri tanto del settore penale che amministrativo tuttavia si trattava di una nuova branca alla quale riconoscere il giusto spazio e adeguata considerazione.
Ritenuto quest’ultimo filone quello maggiormente rispondente alla intentio del Legislatore, si convenne che con il D.Lgs n. 231/2001 di fatto si fosse creato un micro codice caratterizzato da norme adeguatamente afflittive, capaci di assolvere alla funzione rieducativa della pena al fine di scongiurare la rinnovata – rinnovabile – tendenza al delinquere7.
Ed è proprio la natura giuridica di detta responsabilità che ha rappresentato uno dei nodi da sciogliere per gli Ermellini.
Proprio su detta querelle è sorto ampio dibattito per “dettare” i termini entro cui può estendersi la responsabilità dell’Ente per il fatto commesso dai soggetti in posizione apicale.
5. Requisiti normativi di punibilità dell’Ente
Art. 5 L'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio:
a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).
2. L'ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi.
Irrinunciabile principiare l’analisi da detto articolo il quale apre il novero delle ipotesi in cui possa discutersi di responsabilità dell’Ente: in virtù del principio “cui prodest” perché la condotta delittuosa sia imputata al soggetto giuridico è necessario che la stessa sia stata realizzata per l’interesse dello stesso e non anche per un fine meramente personale scisso ed indipendente al miglior guadagno che l’Ente possa giovarne.
Considerata norma neutra perché indica le fondamenta entro cui ricercare i presupposti di responsabilità ed, all’uopo, analizza i soggetti perseguibili: coloro che abbiano funzione di rappresentanza, anche di mero fatto, che si spendano – all’esterno – per l’Ente, che agiscano nell’interesse di questo sfruttando la posizione apicale che occupano per conto dell’Ente medesimo.
Art. 6: Se il reato è stato commesso dalle persone indicate nell'articolo 5, comma 1, lettera a), l'ente non risponde se prova che:
a) l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
b) il compito di vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell'ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo;
c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione;
d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell'organismo di cui alla lettera b) (…)
Norma di interesse nevralgico perché cristallina espressione del c.d. rapporto di immedesimazione organica: L’Ente è sempre responsabile per i fatti che siano stati commessi dai soggetti assunti per perseguire l’interesse dello stesso e che occupino posizioni apicali.
Centrale è il fine ultimo perseguito: se per conto del soggetto giuridico, se funzionale a consentire un migliore guadagno per esso e, conseguentemente, anche per lo stesso soggetto di rappresentanza, allora l’Ente non potrà andare esente da responsabilità.
Detta regola, tuttavia, trova un corretto argine.
L’Ente non risponde se dimostri di aver approntato un adeguato sistema di controllo, i cui membri siano chiamati per ciò solo a vigilare il corretto funzionamento delle attività in capo all’Ente medesimo, a che nessuna condotta fraudolenta venga posta in essere.
Ebbene, in presenza di tutte dette circostanze il soggetto giuridico non risponderà della condotta antigiuridica realizzata dalla persona fisica atteso che la stessa è frutto di una particolare propensione a delinquere, di un atteggiamento fraudolento che ha posto in essere l’amministratore ai danni dell’Ente medesimo.
Ove ricorra una simile evenienza è chiaro che non soltanto all’Ente non potrà essere addebitato alcunché ma sarà parimenti autorizzato a costituirsi in giudizio contro l’Amministratore imputato per il danno cagionato all’Ente medesimo e, dunque, ottenere considerevole risarcimento del danno patito.
Art. 7. Nel caso previsto dall'articolo 5, comma 1, lettera b), l'ente è responsabile se la commissione del reato è stata resa possibile dall'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza.
2. In ogni caso, è esclusa l'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza se l'ente, prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
3. Il modello prevede, in relazione alla natura e alla dimensione dell'organizzazione nonché al tipo di attività svolta, misure idonee a garantire lo svolgimento dell'attività nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio.
4. L'efficace attuazione del modello richiede:
a) una verifica periodica e l'eventuale modifica dello stesso quando sono scoperte significative violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell'organizzazione o nell'attività;
b) un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.
È un contributo normativo che incardina il c.d. modello dualista: perché l’Ente sia imputabile è necessario che il soggetto abbia operato nell’interesse dell’Ente.
Lo stesso, da solo, manca della idoneità a realizzare condotte delittuose, queste possono trovare estrinsecazione soltanto se realizzate, all’esterno, da un soggetto – persona fisica – che le attui provocando, così, un vantaggio all’Ente medesimo.
Art. 8 La responsabilità dell'ente sussiste anche quando:
a) l'autore del reato non è stato identificato o non è imputabile;
b) il reato si estingue per una causa diversa dall'amnistia.
2. Salvo che la legge disponga diversamente, non si procede nei confronti dell'ente quando è concessa amnistia per un reato in relazione al quale è prevista la sua responsabilità e l'imputato ha rinunciato alla sua applicazione.
3. L'ente può rinunciare all'amnistia.
Può definirsi norma di chiusura: incardina quella pan responsabilità dell’Ente che, comunque, risponde anche nel caso in cui l’autore rimanga ignoto, ma, ciononostante, sia indiscutibile il guadagno realizzato e maturato in capo alla persona giuridica8.
6. Interesse e vantaggio: due facce della stessa medaglia
I soggetti della cui condotta si è discusso debbono compiere il reato nell’interesse o a vantaggio dell’Ente8.
Si può ragionevolmente parlare di due diverse facce della stessa medaglia in quanto parimenti compongono l’agire del soggetto, persona fisica, seppur coinvolgendo due differenti ambiti: uno soggettivo e l’altro oggettivo.
L’interesse è alveo intimo dell’agente, è la stella polare che muove la sua condotta, è la prospettazione finalistica – valutabile ex ante – che sorge in capo al soggetto apicale di agire al fine ultimo di consentire un effettivo guadagno per l’Ente, a prescindere che lo stesso si sia o meno realizzato.
Il vantaggio è, invece, valutabile ex post sulla base di effettive risultanze economiche o di miglioria che l’Ente – in mancanza della condotta delittuosa – giammai avrebbe perseguito.
All’uopo appare di interesse rilevare che ai sensi dell’articolo 5 D. Lgs n. 231 del 2001, per poter attribuire l’illecito alla persona giuridica è necessario che questo sia commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente stesso; questo è presupposto indefettibile, tanto che lo stesso articolo 5 all’ultimo comma prevede che l’ente non possa subire alcuna conseguenza penale nel caso in cui l’autore materiale del reato abbia agito “nell’interesse proprio o di terzi”.
La stessa natura semantica conduce ad un’interpretazione univoca secondo cui il concetto di “interesse” indica genericamente una connessione teleologica tra il reato e il risultato che attraverso il medesimo ci si propone di conseguire, e il “vantaggio”, invece, debba essere inteso semplicemente come il beneficio che l’ente ha direttamente o indirettamente ottenuto dalla commissione del reato.
A questo proposito può essere esplicativo richiamare la statuizione delle Sezioni Unite della Cassazione nel caso ThyssenKrupp, secondo cui: “In tema di responsabilità da reato degli enti, i criteri di imputazione oggettiva, rappresentati dal riferimento contenuto nell’articolo 5 del Decreto Legislativo n. 231 del 2001 all’«interesse o al vantaggio», sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il criterio dell’interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile “ex ante”, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, mentre quello del vantaggio ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile “ex post”, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito”9.
Tuttavia con l’entrata in vigore dell’articolo 25 septies del Decreto Legislativo n. 231 del 2001 relativo ai reati di natura colposa commessi in violazione delle norme in tema di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, sono emersi in dottrina e in giurisprudenza forti dubbi sulla materiale possibilità di coordinare l’intenzione dell’ente di cui all’articolo 5 Decreto Legislativo n. 231 del 2001 con quei reati caratterizzati proprio dalla mancanza d’intenzione.
Notorio, infatti, che la colpa è mancanza di volontà e determinazione, dunque difficilmente conciliabile con l’intenzione quale preordinazione ad un dato agire funzionale a realizzare uno scopo ultimo.
A contrario, nessuna criticità è stata mai rilevata in relazione all’ontologico legame che intercorre tra i concetti di “interesse” e di “vantaggio” e i reati presupposto di natura dolosa, non si è giunti alle stesse pacifiche conclusioni in riferimento ai reati colposi.
(…) Ci si è chiesto, infatti, quale vantaggio può trarre un’impresa dalla morte o dalle lesioni di un proprio operaio, o addirittura quale interesse può coltivare in prospettiva della realizzazione dell’evento di danno.
Sul punto si sono succedute numerose teorie atte a determinare una plausibile congiunzione tra l’articolo 5 del Decreto Legislativo n. 231 del 2001 e l’articolo 25-septies del medesimo decreto, e la più corretta è sicuramente quella che facendo leva su un’interpretazione puramente oggettiva della norma, si è soffermata esclusivamente sull’analisi della condotta dell’agente poiché considerata unico elemento idoneo a integrare un beneficio in favore dell’ente. Viene, così, abbandonato ogni aspetto “soggettivo” che invece è tipico dei reati dolosi.
Tale tesi è sicuramente quella che ha trovato il maggior numero di consensi sia in dottrina che in giurisprudenza, in quanto riconosce effettivamente come il vantaggio ottenuto dall’ente sia esclusivamente di carattere oggettivo, consentendo pacificamente di incardinare il percorso di ascrizione della responsabilità della persona giuridica in piena conformità con l’art. 5, Decreto Legislativo n. 231 del 2001.
È pur vero che i delitti colposi delle persone giuridiche si connotino per una commistione fra dolo e colpa consentendo di ribadire quel concetto secondo cui non c’è dolo senza colpa e viceversa10. Infatti, la violazione delle norme antinfortunistica deve essere sempre cosciente e volontaria (in caso contrario non si potrebbe determinare il perseguimento di un interesse o di un vantaggio), ma l’evento non può essere mai voluto (altrimenti il delitto sarebbe doloso). Ne deriva che si può correttamente qualificare come una sorta di “delitto aggravato dall’evento”, essendo chiaro come il fulcro della violazione stia nella condotta, non è nell’evento, ed essendo quest’ultimo solamente una - non voluta- conseguenza.
7. Le conclusioni della Corte Suprema sulla applicabilità della tenuità del fatto alla responsabilità degli Enti: analisi dei recenti arresti Pretori
L’analisi così compiuta consente di “entrare nel merito” di quanto statuito in occasione dei recenti arresti Pretori: con essi gli Ermellini consacrano una commistione importante tra il D.Lgs 231/2001 ed il principio di favor contenuto a norma dell’art. 131 bis c.p.
In proposito è di interesse considerare il punto di partenza da cui prende le mosse la Cassazione: la decisione n. 9072/2018 secondo cui «in tema di responsabilità degli enti ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, qualora nei confronti dell’autore del reato presupposto sia stata applicata la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131 bis c.p. il giudice deve procedere all’autonomo accertamento della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso, che non può prescindere dalla verifica della sussistenza in concreto del fatto di reato, non essendo questa desumibile in via automatica dall’accertamento contenuto nella sentenza di proscioglimento emessa nei confronti della persona fisica». Fuorché irrilevante il principio di diritto elaborato atteso che, con questo, si consacra il c.d. principio dualistico che regola – o, rectius, che dovrebbe essere chiamato a regolare – il complesso rapporto esistente tra il singolo persona fisica operante presso l’Ente e l’Ente medesimo.
Perché nessuna sanzione amministrativa venga comminata all’Ente è necessario appurare l’effettiva estraneità dell’Ente, la inidoneità della condotta realizzata a produrre un benefit, un vantaggio – ex post valutabile – che il soggetto giuridico possa aver conseguito.
Non è meramente sufficiente che la causa di non punibilità si possa applicare e/o sia stata dichiarata in favore dell’amministratore o del responsabile che materialmente abbia eseguito la fattispecie.
Invero entrambi gli arresti in commento presentano il medesimo fil rouge12: deve propendersi per l’esclusione di ogni automatismo tra l’eventuale riconoscimento della particolare tenuità del fatto nei confronti dell’autore del reato e l’accertamento della responsabilità dell’ente, la cui autonomia è stabilita dal già citato art. 8 d.lgs. 231/2001, nel quale, si afferma che la responsabilità dell’ente sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile, nonché quando il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia.
Perché l’Ente vada esente da responsabilità, invero, è necessario che dimostri – con dovizia e puntualità – di aver realizzato tutto il dovuto perché i fatti di causa non venissero ad esistenza; che, all’uopo, adeguato comitato di vigilanza fosse stato predisposto e che lo stesso – a sua volta – tutto ha realizzato per evitare il verificarsi di fatti delittuosi; che gli stessi si sono registrati per mezzo di condotte truffaldine univocamente realizzate dal soggetto persona fisica e, soprattutto, che dalle medesime nessun vantaggio e/o utile e/o interesse sia pervenuto alla persona giuridica.
Ciò posto pare opportuno dare atto delle considerazioni che hanno condotto gli Ermellini alla elaborazione del principio di diritto recensito con la Pronuncia n. 11518/2019.
Invero nella fattispecie, oggetto di analisi del predetto arresto, l’esercizio dello scarico in assenza di autorizzazione aveva consentito alla società di continuare a percepire utili dall’attività aziendale, la quale, altrimenti, avrebbe dovuto essere ritardata o interrotta in attesa dell’autorizzazione ed, inoltre, il superamento del limite tabellare, dovuto al trascinamento di fanghi, era conseguenza della precisa scelta aziendale, basata su un calcolo di costi e benefici, di non adottare accorgimenti idonei ad evitare un simile accadimento.
Ne discende la condotta pienamente irresponsabile dell’ente che ha – in concreto – prestato il fianco alla realizzazione di una condotta lesiva e preclusiva per l’ambiente.
Ma v’è di più.
Finanche, la piena consapevolezza riscontrabile in capo all’Ente è da stigmatizzare: soltanto per un mero vantaggio (la prosecuzione dell’attività aziendale) la persona giuridica ha protratto la propria attività in mancanza di autorizzazione – procedura questa che, contrariamente, avrebbe determinato il sorgere di lungaggini burocratiche e contestuali embasse produttivo.
Pertanto, e ciò analizzato, è ormai da ritenersi principio plebiscitariamente accolto quello secondo cui nessun valido ricorso alla applicazione analogica dell’art. 131 bis c.p. può aversi: questa, nonostante norma di favore, necessita di apposita ermeneusi che conduca ad applicare l’istituto anche all’Ente, non per mera estensione ma ove, fattivamente, ne ricorrano i presupposti di interesse, vantaggio, nesso causale, sopra attenzionati.
Fuor di dubbio che l’economia internazionale, l’avvento del capitalismo, il dichiarato e mai celato interesse delle grandi o medie società di conseguire facili guadagni ha condotto – in un’ottica riformista – il Legislatore ad intervenire, prima con un corpus normativo e, successivamente, ad incrementare costantemente lo stesso attraverso incessanti interventi atti ad ampliare il novero dei reati presupposto la realizzazione dei quali consenta di intervenire contro l’Ente ove questo – lo si ribadisca – ne abbia conseguito vantaggio o la cui realizzazione sia stata giustificata dalla volontà di perseguire un interesse da parte dell’autore.
Scopo ultimo vorrebbe essere quello di creare un importante deterrente avverso condotte dannose, fraudolente, volte ad incrementare guadagni a discapito di beni superiori non sacrificabili né mai mortificabili.
Auspicio è il buon senso degli amministratori, dei soggetti che operano presso l’Ente perché canalizzino il loro operato verso l’optimus produttivo e mai scellerato.
Note e riferimenti bibliografici
- R. Garofoli; Manuale di Diritto Penale; Nel Diritto editore – XIV Edizione;
- A. Pagliaro; Principi di diritto penale parte generale; Ed. Giuffré 2016; [2 bis] l'analisi in nota riportata si deve al contributo di: R. Bartoli - "l'esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto" tratto da Diritto penale e processo 6/2015; pagg. 659 - 671;
- M. Di Pirro; Compendio di Diritto Penale; Ed. La Tribuna 2015;
- G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta; Manuale di diritto Penale parte Generale; Giuffré 2019;
- “Presupposti e limiti dell’istituto ex art. 131 bis c.p.”; Contributo tratto da Diritto Penale Contemporaneo;
- R. Garofoli; Manuale di Diritto Penale; Nel Diritto editore – XIV Edizione;
- R. Giovagnoli; “La responsabilità da reato degli Enti (D.Lgs 231/2001)”;
- G. Catanzaro; “Brevi considerazioni sull’interesse e il vantaggio dell’ente in materia di delitti colposi”; Contributo tratto da Filodiritto;
- Cassazione Penale, Sezioni Unite, 18 settembre 2014 n. 38343;
- “Il Dolo e la Colpa”; Contributo a cura del Prof. F. Mantovani.
- Su tutto, imprescindibile l’analisi del D.Lgs 231/2001 e degli articoli, dalla scrivente, ritenuti cardine (vd. Artt. 5/6/7/8);
- Sent. Cass. Pen. nn. 5821/2019 e 11518/2019.