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Pubbl. Mer, 18 Set 2019

La tutela dello straniero nel processo penale: il diritto all´assistenza consolare

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Riccardo Samperi
Dottorando di ricerca


La Corte internazionale di giustizia conferma l’orientamento secondo cui il cittadino straniero accusato di reati ha diritto all'assistenza consolare del proprio paese (India c. Pakistan, sentenza del 17 luglio 2019).


Sommario: 1. Introduzione. I fatti del caso Jadhav (India c. Pakistan). – 2. Le contestazioni mosse dal Pakistan: A) Abuso del processo. – B) Abuso del diritto. – C) Condotta illegale dell’India e principio “ex turpi causa non oritur actio”. – D) Inapplicabilità dell’articolo 36 nel caso di indagini su crimini di spionaggio. – 3. Violazione dell’articolo 36 della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari. Conclusioni.

Abstract: La mancata comunicazione al cittadino straniero, sottoposto a procedimento penale, del diritto all’assistenza consolare – sancito dall’art. 36 della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 1963 – costituisce inadempimento di un obbligo internazionale e legittima lo Stato di appartenenza ad agire in giudizio davanti alla Corte internazionale di Giustizia per la tutela del proprio cittadino.

Abstract: The lack of notification to the foreign citizen, subjected to criminal trials, of the right to receive consular assistance under the Vienna Convention on Consular relations (1963) constitutes breach of international obligations and entitles national State to apply to the International Court of Justice in order to protect its citizens.

1. Introduzione. I fatti del caso Jadhav (India c. Pakistan)

A partire dal 3 marzo 2016, il Sig. Jadhav – cittadino di nazionalità indiana – era stato sottoposto a custodia detentiva in Pakistan[1]. Le ragioni e le modalità dell’arresto sono apparse da subito poco chiare.

Secondo l’India, egli sarebbe stato rapito in Iran, dove risiedeva e lavorava regolarmente, e portato illegalmente in Pakistan.

Il Pakistan sosteneva, invece, che l’uomo era entrato illegalmente in territorio pakistano, sotto falso nome[2], e che era stato arrestato in Balochistan (regione pakistana al confine con l’Iran). In seguito, sarebbe stato arrestato per presunti atti di terrorismo e spionaggio.

Il 25 marzo 2016, il Pakistan rendeva ufficialmente nota la vicenda, diffondendo un video in cui l’imputato confessava di aver commesso i reati contestati, per conto dell’intelligence indiana (la “Research and Analysis Wing”, meglio nota come “R.A.W.”)[3].

È bene precisare che non sono state portate all’attenzione della Corte le modalità attraverso cui è stato svolto l’interrogatorio[4].

Il medesimo giorno, l’ambasciatore indiano ad Islamabad aveva inviato una serie di note orali (più di dieci!) al Ministro degli Esteri pakistano, evidenziando che - data la cittadinanza straniera del Jadhav - doveva essere applicato l’art. 36 della Convenzione di Vienna sulle Relazioni consolari del 24 aprile 1963[5] e, dunque, doveva essere consentita l’assistenza consolare da parte dell’India[6].

L’8 aprile 2016, la polizia pakistana aveva emesso un “F.I.R.” (First Information Report), documento ufficiale che contiene le notizie di reato. Nel caso di specie, gli inquirenti avevano iniziato l’interrogatorio poiché ritenevano che Jadhav fosse coinvolto in operazioni di terrorismo e spionaggio. Il 22 luglio dello stesso anno, l’indagato confessava di aver commesso i reati di cui era accusato[7].

Il processo iniziava il 21 settembre 2016 davanti ad una Corte marziale militare. Alcuni dettagli dello svolgimento del processo furono resi noti attraverso organi di stampa, nell’arco di tempo compreso tra il 10 e il 14 aprile 2017. Da notare che gli organi di stampa sono le uniche fonti attraverso cui la Corte ha avuto accesso a tali informazioni; il Pakistan non è stato disposto a collaborare[8].

Ad ogni modo, dopo l’inizio del processo, in base a quanto asserito dal Pakistan, all’imputato sarebbe stato concesso un periodo di tempo di tre settimane per la preparazione della difesa, della quale fu incaricato un avvocato specializzato[9].

Durante il processo, il governo indiano ha più volte tentato, senza successo, di intervenire in favore dell’imputato. Il 10 aprile dello stesso anno, il Tribunale militare emetteva la sentenza di condanna a morte[10].

Il 7 maggio, l’India proponeva ricorso alla Corte internazionale di giustizia, denunciando presunte violazioni, da parte del Pakistan, della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari (in particolare dell’art. 36, v. nota 3)[11].

In fase di deposito delle memorie, il Governo indiano chiedeva alla Corte di accertare e dichiarare che il Pakistan, omettendo di informare il detenuto del diritto all’assistenza consolare, e trascurando di dare immediato avviso all’India, avrebbe violato l’art. 36 della summenzionata convenzione. L’India chiedeva altresì l’immediata cessazione della condotta lesiva da parte del Pakistan e la restitutio in integrum, ovvero l’annullamento della sentenza capitale emessa nei confronti di Jadhav e la sua estradizione in India[12].

2. Le contestazioni mosse dal Pakistan:

A) Abuso del processo

Con il primo motivo di controricorso, il Pakistan affermava che la pretesa avanzata dall’India costituiva un abuso del processo per due ragioni: in primo luogo, lo Stato indiano sarebbe rimasto colpevolmente inerte, pur potendo utilizzare uno strumento di tutela a favore del Jadhav predisposto dall’ordinamento giuridico pakistano. La Costituzione pakistana, infatti, all’articolo 45 contempla, in favore del condannato a morte, il diritto di chiedere la grazia al Presidente, da esercitare entro 150 giorni dalla pubblicazione della sentenza capitale[13]. A giudizio del Pakistan, il mancato esperimento di tale rimedio avrebbe denotato una sostanziale inerzia ed indifferenza dell’India nei confronti del proprio cittadino e, dunque, la pretestuosità ed abusività del giudizio [14].

In secondo luogo, l’India avrebbe omesso di utilizzare lo strumento messo a punto dagli articoli 2 e 3 del Protocollo addizionale alla Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari. Tali norme consentono allo Stato che ritenga violata una norma della Convenzione di darne comunicazione allo Stato che si assume responsabile, al fine di addivenire ad una risoluzione pacifica ed amichevole della controversia, senza la necessità di ricorrere alla Corte[15]. Da notare, però, che tale Protocollo è meramente facoltativo, cioè lascia liberi gli Stati parti della Convenzione di ratificarlo o meno; inoltre, agli Stati che lo hanno ratificato attribuisce un potere e non un dovere. In altri termini, il ricorso agli strumenti previsti dagli articoli 2 e 3 è meramente facoltativo e non costituisce affatto, come invece asserito dal Pakistan, un adempimento obbligatorio a pena di improcedibilità dell’azione davanti alla Corte internazionale[16].

La Corte, infatti, ha disatteso entrambi gli argomenti. In relazione al primo, ha ritenuto lo strumento della petizione di grazia un rimedio del tutto inadeguato ad assicurare una tutela effettiva al Jadhav; in relazione alla seconda argomentazione, ha, poi, evidenziato che le disposizioni del Protocollo addizionale non sono in alcun modo vincolanti e non costituiscono una condizione di procedibilità dell’azione[17].

B) Abuso del diritto

Il secondo motivo di doglianza proposto dal Pakistan poggia su tre argomentazioni[18].

Innanzitutto l’India non avrebbe provato la nazionalità del Jadhav (si ricorda che le autorità pakistane hanno affermato che l’imputato, al momento dell’arresto, sarebbe stato in possesso di un passaporto falso, che, tuttavia, non è mai stato prodotto in giudizio). Perciò l’India avrebbe avuto l’onere di provare la nazionalità dell’imputato e, non avendo adempiuto tale onere probatorio, avrebbe abusato del diritto di azione innanzi alla Corte.

In secondo luogo, l’abuso del diritto si sarebbe realizzato a causa della mancata cooperazione, da parte dell’India, allo svolgimento delle indagini condotte dalle autorità pakistane nei confronti del Jadhav per presunte attività terroristiche e di spionaggio. In altri termini, l’India avrebbe utilizzato la Corte per tutelare un soggetto sospettato di spionaggio e terrorismo.

La terza argomentazione era quella secondo cui Jadhav sarebbe stato ingaggiato proprio dall’India per svolgere attività di spionaggio e terrorismo in territorio pakistano.

La Corte ha notato una certa contraddittorietà tra la prima argomentazione e le altre due: da un lato il Pakistan affermava l’infondatezza dell’avversa pretesa in quanto non sarebbe stato adempiuto l’onere probatorio circa la nazionalità dell’imputato, dall’altro, però, affermava l’abusività del diritto esercitato dall’India poiché non avrebbe collaborato alle indagini su un proprio cittadino (seconda argomentazione) e, addirittura, lo avrebbe ingaggiato per compiere attività terroristiche e di spionaggio (terza argomentazione). È evidente che la seconda e la terza argomentazione presuppongono la cittadinanza indiana dell’imputato. Dunque la Corte ha ritenuto che dalle successive argomentazioni vi fosse una implicita rinuncia alla prima, per cui la cittadinanza indiana dell’imputato poteva considerarsi abbondantemente provata[19].

In riferimento alla seconda e alla terza argomentazione, il Pakistan affermava che l’esercizio dell’azione da parte dell’India era abusiva poiché essa avrebbe violato l’obbligo internazionale di collaborare nello svolgimento di attività antiterroristiche[20] e, addirittura, avrebbe incaricato l’imputato di compiere attività terroristiche in territorio pakistano. Al riguardo, la Corte ha evidenziato che tali accuse risultavano del tutto sfornite di prova e che, in ogni caso, non sussiste alcun tipo di legame funzionale tra l’obbligo di cooperazione internazionale contro il terrorismo e il diritto degli Stati di agire a tutela dei propri cittadini. L’eventuale inadempimento della prima obbligazione (cooperare nelle attività antiterrorismo) non si traduce, quindi, in una decadenza dal diritto di azione a tutela dei propri cittadini. In altri termini, ad uno Stato non può essere impedito di proteggere i propri cittadini, adducendo quale giustificazione l’asserita violazione di obblighi internazionali[21].

C) Condotta illegale dell’India e principio “ex turpi causa non oritur actio”

Con tale motivo di doglianza, il Pakistan chiedeva alla Corte di rigettare il ricorso attoreo sulla base della presunta condotta illegale dell’India[22]. Sostanzialmente veniva riproposta la stessa argomentazione di cui al secondo motivo (lett. B) sotto mentite spoglie: l’India non sarebbe stata legittimata ad agire in giudizio a tutela del Jadhav poiché si sarebbe rifiutata di collaborare alle indagini sul suo conto[23] e, anzi, lo avrebbe espressamente incaricato di svolgere, sotto falso nome, attività di spionaggio e terrorismo ai danni del Pakistan. In sostanza, per potere esercitare un diritto (quello all’assistenza consolare dei propri cittadini), ogni Stato dovrebbe prima adempiere i propri obblighi internazionali, anche quando questi nulla hanno a che vedere con la tutela dell’individuo[24].

Coerentemente con quanto stabilito in riferimento al precedente motivo di doglianza (lett. B), anche tale argomentazione è stata disattesa dalla Corte, la quale ha richiamato un precedente (caso Certain Iranian Assets, Iran c. U.S.A.), in cui ha statuito che “even if it were shown that the Applicant’s conduct was not beyond reproach, this would not be sufficient per se to respond to uphold the objection to admissibility raised by the Respondent on the basis of the clean hands doctrine[25].

Il Pakistan invocava il principio “ex turpi causa non oritur actio” sulla base della decisione adottata dalla Corte permanente di giustizia internazionale[26] nel caso Factory at Chorzòw del 26 luglio 1927[27].

Tra il caso deciso nel 1927 e quello di cui si discute, tuttavia, intercorre una fondamentale differenza. Nel 1927, lo Stato ricorrente (Germania) si doleva dell’inadempimento di obblighi internazionali da parte della Polonia, però l’inadempimento (effettivamente verificatosi) era stato causato dalla condotta illegale dello Stato tedesco. In altre parole, in quel caso, uno Stato aveva tenuto una condotta illecita, ed era stata proprio quella condotta illecita ad obbligare l’altro a violare gli obblighi internazionali; per cui la Corte ha stabilito il generale principio secondo cui non è possibile dolersi di un illecito altrui, quando esso sia stato causato in via immediata, diretta e necessaria da un illecito proprio.

Nel caso di specie non è stata fornita alcuna prova degli asseriti comportamenti illeciti dell’India. Ed anche ammettendo che l’India avesse effettivamente commesso gli illeciti di cui è stata accusata, si sarebbe trattato, in ogni caso, di fatti non idonei ad obbligare il Pakistan a violare quella specifica norma di diritto internazionale pattizio (l’art. 36 della Convenzione). Per cui la condotta del Pakistan non può dirsi necessitata da illeciti posti in essere dall’India e ciò per due ragioni: innanzitutto non è stata fornita alcuna prova di tali illeciti e in secondo luogo perché, pur ammettendo la condotta illecita addebitata all’India, l’obbligo internazionale di cui all’articolo 36 non sarebbe venuto meno; in altre parole, si sarebbe comunque trattato di illeciti inidonei ad influire sulla prestazione che il Pakistan era tenuto ad adempiere in virtù del principio pacta sunt servanda[28]. Dunque la violazione dell’obbligo di cui all’art. 36 da parte del Pakistan non può essere giustificata. Per tali motivi, la Corte ha rigettato l’ulteriore motivo di gravame[29].

D) Inapplicabilità dell’articolo 36 nel caso di indagini su crimini di spionaggio

Il Pakistan ha eccepito l’inapplicabilità dell’articolo 36 nel caso di crimini di spionaggio. La mancata previsione dello spionaggio nella Convenzione avrebbe dovuto essere interpretata nel senso che l’obbligo di cui all’art. 36 viene meno quando lo straniero è accusato di spionaggio, e ciò perché la sicurezza nazionale costituirebbe una legittima ragione per derogare la norma[30].

L’India, dal canto suo, asseriva che proprio la mancanza, nei lavori preparatori, di qualsiasi riferimento allo spionaggio doveva indurre a ritenere applicabile al caso di specie l’art. 36[31].

Al riguardo, la Corte ha ribadito il principio, più volte affermato, secondo cui le norme devono essere interpretate letteralmente, vale a dire secondo il significato comune delle parole e delle composizioni grammaticali. Dalla formulazione letterale dell’articolo 36 non è possibile trarre alcun elemento che induca a ritenerlo inapplicabile in caso di spionaggio. Per tale ragione, l’art. 36 è stato considerato applicabile[32].

3. Violazione dell’articolo 36 della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari. Conclusioni

L’India lamentava la violazione dell’articolo 33 ad opera del Pakistan per molteplici ragioni: a) il Sig. Jadhav non era stato informato del diritto all’assistenza consolare, sancito dall’articolo 36, Paragrafo 1, Lett. B della Convenzione; b) l’India era stata informata in ritardo della detenzione di un proprio cittadino; c) alle autorità consolari indiane era stato impedito di fornire assistenza a Jadhav[33].

La mancata comunicazione a Jadhav del diritto all’assistenza consolare non è stata contestata dal Pakistan e ciò ha indotto la Corte a ritenere veritiera la circostanza[34].

Inoltre l’India era stata informata dell’arresto soltanto il 25 marzo 2016, ovvero più di tre settimane dopo il momento in cui era stato effettuato (3 marzo 2016)[35]. La Corte è stata quindi chiamata a decidere se tale arco di tempo doveva o no essere ricondotto alla nozione di “indugio” ai sensi dell’art. 36[36]. Il Pakistan adduceva a propria difesa che la tempistica della comunicazione doveva adattarsi alle norme dello Stato di residenza. La tesi non è stata condivisa dalla Corte, che ha ritenuto l’arco di tempo considerato eccessivo e, dunque, rientrante nella nozione di “indugio”. Per tale ragione, la condotta del Pakistan è stata ritenuta una violazione dell’obbligo di informare senza indugio l’India[37].

Quanto alla terza questione, la Corte ha acclarato che il Pakistan ha impedito (e continuato ad impedire durante il corso del giudizio) al personale consolare indiano di fornire assistenza al Jadhav[38].

In conclusione, la Corte ha ritenuto che il Pakistan si è reso protagonista di molteplici violazioni degli obblighi posti dall’art. 36 della Convenzione: 1) non ha informato Jadhav del diritto a farsi assistere dal proprio consolato; 2) ha comunicato con ritardo ingiustificato all’India lo stato di detenzione di un proprio cittadino; 3) ha impedito alle autorità consolari indiane di prestare assistenza[39].

La pronuncia conferma l’orientamento affermato dalla Corte nei casi Avena (Messico v. Stati Uniti) e LaGrand (Germania c. Stati Uniti), secondo cui l’articolo 36 della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari attribuisce allo Stato dello straniero, arrestato o detenuto all’estero, il diritto di agire in sua difesa e, all’individuo, il diritto (esercitabile immediatamente ed autonomamente rispetto allo Stato di appartenenza, e cioè iure proprio) di essere informato dallo Stato di residenza della possibilità di usufruire dell’assistenza consolare del proprio paese[40]. Lo Stato di residenza, quindi, ha un duplice obbligo: nei confronti dello Stato di invio è tenuto a comunicare senza indugio l’arresto o la detenzione del cittadino e a consentire l’intervento delle autorità competenti per l’assistenza consolare; nei confronti del cittadino straniero ha l’obbligo di informarlo del diritto a richiedere l’assistenza consolare del proprio paese.

La violazione di tali obblighi determina la responsabilità internazionale dello Stato di residenza, che legittima lo Stato di nazionalità del cittadino detenuto ad adottare contromisure (sanzioni economiche, interruzione delle relazioni diplomatiche, blocco dei flussi migratori tra i due paesi, ecc.) e a rivolgersi alla Corte internazionale di giustizia per ottenere l’accertamento dell’illecito e la condanna alle riparazioni necessarie[41].

Note e riferimenti bibliografici

[1] Par. 21, sentenza del 17 luglio 2019, n. 168, Jadhav case (India v. Pakistan).

[2] Le autorità pakistane riferiscono che, al momento dell’arresto, l’uomo era in possesso di un passaporto falso, ma di tale circostanza non è stata fornita alcuna prova.

[3] Par. 22 ibidem.

[4] E ciò ha fatto sorgere il legittimo dubbio che la confessione fosse stata estorta con violenza o tortura.

[5] L’art 36 della Convenzione, rubricato “Comunicazione con i cittadini dello Stato d'invio”, statuisce quanto segue: “1. Per agevolare l'esercizio delle funzioni consolari concernenti i cittadini dello Stato d'invio: a. il funzionario consolare deve avere la libertà di comunicare con i cittadini dello Stato d'invio e di recarsi da loro. 1 cittadini dello Stato d'invio devono avere la stessa libertà di comunicare con i funzionari consolari e di recarsi da loro; b. a domanda dell'interessato, le autorità competenti dello Stato di residenza devono avvertire senza indugio il posto consolare dello Stato d'invio allorché, nella sua circoscrizione consolare, un cittadino di questo Stato è arrestato, incarcerato o messo in stato di detenzione preventiva o d'ogni altra forma di detenzione. Ogni comunicazione indirizzata al posto consolare dalla persona arrestata, incarcerata o messa in stato di detenzione preventiva o d'ogni altra forma di detenzione deve parimente essere trasmessa senza indugio da tali autorità. Queste devono informare senza indugio l'interessato dei suoi diritti in conformità del presente capoverso; c. i funzionari consolari hanno il diritto di recarsi dal cittadino dello Stato di invio, che sia incarcerato, in stato di detenzione preventiva o d'ogni altra forma di detenzione, d'intrattenersi e corrispondere con lui e di provvedere alla sua rappresentanza in giudizio. Essi hanno parimente il diritto di recarsi da un cittadino dello Stato d'invio, che sia incarcerato o detenuto in esecuzione d'un giudizio nella loro circoscrizione. Nondimeno, i funzionari consolari devono astenersi dall'intervenire in favore d'un cittadino incarcerato oppure in stato di detenzione preventiva o di qualsiasi altra forma di detenzione, qualora l'interessato s'opponga espressamente. 2. I diritti di cui al paragrafo 1 del presente articolo devono essere esercitati nell'ambito delle leggi e di regolamenti dello Stato di residenza, ma è inteso che queste leggi e regolamenti devono permettere la piena attuazione degli scopi per i quali i diritti sono accordati in virtù del presente articolo”.

[6] Par. 23, ibidem.

[7] Par. 24, ibidem.

[8] Par. 25, ibidem.

[9] Par. 25, ibidem.

[10] Par. 29, ibidem.

[11] Il ricorso dell’India è consultabile, in inglese, all’indirizzo https://www.icj-cij.org/files/case-related/168/168-20170508-APP-01-00-EN.pdf. La Corte ha reso pubblica la notizia attraverso il comunicato del 9 maggio 2017, n. 16, consultabile all’indirizzo https://www.icj-cij.org/files/case-related/168/19420.pdf: “The Republic of India institutes proceedings against the Islamic Republic of Pakistan and requests the Court to indicate provisional measures. THE HAGUE, 9 May 2017. On 8 May 2017, the Republic of India instituted proceedings against the Islamic Republic of Pakistan, accusing the latter of “egregious violations of the Vienna Convention on Consular Relations” (hereinafter the “Vienna Convention”) in the matter of the detention and trial of an Indian national, Mr. Kulbhushan Sudhir Jadhav, sentenced to death by a military court in Pakistan. The Applicant contends that it was not informed of Mr. Jadhav’s detention until long after his arrest and that Pakistan failed to inform the accused of his rights. It further alleges that, in violation of the Vienna Convention, the authorities of Pakistan are denying India its right of consular access to Mr. Jadhav, despite its repeated requests. The Applicant also points out that it learned about the death sentence against Mr. Jadhav from a press release. India submits that it has information that Mr. Jadhav was “kidnapped from Iran, where he was carrying on business after retiring from the Indian Navy, and was then shown to have been arrested in Baluchistan” on 3 March 2016, and that the Indian authorities were notified of that arrest on 25 March 2016. It claims to have sought consular access to Mr. Jadhav on 25 March 2016 and repeatedly thereafter. According to the Applicant, on 23 January 2017, Pakistan requested assistance in the investigation of Mr. Jadhav’s alleged “involvement in espionage and terrorist activities in Pakistan” and, by a Note Verbale of 21 March 2017, informed India that “consular access [to Mr. Jadhav would] be considered in the light of the Indian side’s response to Pakistan’s request for assistance in [the] investigation process”. India claims that “linking assistance to the investigation process to the grant[ing] of consular access was by itself a serious violation of the Vienna Convention”. India accordingly “seeks the following reliefs: (1) [a] relief by way of immediate suspension of the sentence of death awarded to the accused[;] (2) [a] relief by way of restitution in interregnum by declaring that the sentence of the military court arrived at, in brazen defiance of the Vienna Convention rights under Article 36, particularly Article 36[,] paragraph 1 (b), and in defiance of elementary human rights of an accused which are also to be given effect as mandated under Article 14 of the 1966 International Covenant on Civil and Political Rights, is violative of international law and the provisions of the Vienna Convention[;] and (3) [r]estraining Pakistan from giving effect to the sentence awarded by the military court, and directing it to take steps to annul the decision of the military court as may be available to it under the law in Pakistan[;] (4) [i]f Pakistan is unable to annul the decision, then this Court to declare the decision illegal being violative of international law and treaty rights and restrain Pakistan from acting in violation of the Vienna Convention and international law by giving effect to the sentence or the conviction in any manner, and directing it to release the convicted Indian National forthwith.” As the basis for the Court’s jurisdiction, the Applicant invokes Article 36, paragraph 1, of the Statute of the Court, by virtue of the operation of Article I of the Optional Protocol to the Vienna Convention on Consular Relations concerning the Compulsory Settlement of Disputes of 24 April 1963. On 8 May 2017, India also filed a Request for the indication of provisional measures, pursuant to Article 41 of the Statute of the Court. It is explained in that Request that the alleged violation of the Vienna Convention by Pakistan “has prevented India from exercising its rights under the Convention and has deprived the Indian national from the protection accorded under the Convention”. The Applicant states that Mr. Jadhav “will be subjected to execution unless the Court indicates provisional measures directing the Government of Pakistan to take all measures necessary to ensure that he is not executed until th[e] Court’s decision on the merits” of the case. India points out that Mr. Jadhav’s execution “would cause irreparable prejudice to the rights claimed by India”. India further indicates that the protection of its rights is a matter of urgency as “[w]ithout the provisional measures requested, Pakistan will execute Mr. Kulbhushan Sudhir Jadhav before th[e] Court can consider the merits of India’s claims and India will forever be deprived of the opportunity to vindicate its rights”. The Applicant adds that it is possible that the appeal filed by the mother of the accused on his behalf may soon be disposed of. India therefore requests that, “pending final judgment in this case, the Court indicate: (a) [t]hat the Government of the Islamic Republic of Pakistan take all measures necessary to ensure that Mr. Kulbhushan Sudhir Jadhav is not executed; (b) [t]hat the Government of the Islamic Republic of Pakistan report to the Court the action it has taken in pursuance of sub-paragraph (a); and (c) [t]hat the Government of the Islamic Republic of Pakistan ensure that no action is taken that might prejudice the rights of the Republic of India or Mr. Kulbhushan Sudhir Jadhav with respect of any decision th[e] Court may render on the merits of the case”. Referring to “the extreme gravity and immediacy of the threat that authorities in Pakistan will execute an Indian citizen in violation of obligations Pakistan owes to India”, India urges the Court to deliver an Order indicating provisional measures immediately, “without waiting for an oral hearing”. The Applicant further requests that the President of the Court, “exercising his power under Article 74, paragraph 4[,] of the rules of the Court, pending the meeting of the Court . . . direct the Parties to act in such a way as will enable any Order the Court may make on the Request for provisional measures to have its appropriate effects”.

[12] Con la memoria del 13 settembre 2017, consultabile all’indirizzo https://www.icj-cij.org/files/case-related/168/168-20170913-WRI-01-00-EN.pdf, l’India chiedeva: “a) A relief by way of immediate suspension of the sentence of death awarded to the accused. b) A relief by way of restitutio in integrum, by declaring that the sentence of the military court arrived at, in brazen defiance of the Vienna Convention rights under Article 36, particularly Article 36 paragraph 1(b), and in defiance of elementary human rights of an accused, which are also to be given effect as mandated under Article 14 of the 1966 International Covenant on Civil and Political Rights, is violative of international law and the provisions of the Vienna Convention, and c) Restraining Pakistan from giving effect to the sentence awarded by the military court, and directing it to take steps to annul the decision of the military court as may be available to it under the law in Pakistan, d) If Pakistan is unable to annul the decision, then this Court to declare the decision illegal being violative of international law and treaty rights and restrain Pakistan from acting in violation of the Vienna Convention and international law by giving effect to the sentence or the conviction in any manner, and directing it to release the convicted Indian National forthwith”.

[13] La norma, rubricata “President’s power to grant pardon, etc.”, prevede che “the President shall have the power to grant pardon, reprieve and respite, and to remit, subspend or commutate any sentence passed by any court, tribunal or other authority”.

[14] Par. 41, ibidem.

[15] L’art. 2 del Protocollo così dispone: “Le parti possono convenire, nel termine di due mesi dalla notificazione dell’una all’altra parte che c’è a suo parere un conflitto, d’applicare di comune accordo, in luogo di fare capo alla Corte internazionale di Giustizia, una procedura davanti a un tribunale arbitrale. Decorso tale termine, ciascuna parte può, mediante petizione, sottoporre la controversia alla Corte”. L’art. 3 stabilisce che “1. Le parti possono parimente convenire, nel medesimo termine di due mesi, di ricorrere a una procedura di conciliazione, prima d’adire la Corte internazionale di Giustizia. 2. La Commissione di conciliazione deve fare le raccomandazioni nei cinque mesi che seguono la sua costituzione. Se esse non sono accolte dalle parti in conflitto entro due mesi dal giorno in cui sono state fatte, ciascuna parte ha facoltà di sottoporre alla Corte, mediante petizione, la controversia”.

[16] Par. 42, ibidem.

[17] L’articolo 2 statuisce “The parties may agree, within a period of two months after one party has notified its opinion to the other that a dispute exists, to resort not to the International Court of Justice but to an arbitral tribunal. After the expiry of the said period, either party may bring the dispute before the Court by an application”. Quanto all’articolo 3, “1. Within the same period of two months, the parties may agree to adopt a conciliation procedure before resorting to the International Court of Justice. 2. The conciliation commission shall make its recommendations within five months after its appointment. If its recommendations are not accepted by the parties to the dispute within two months after they have been delivered, either party may bring the dispute before the Court by an application”.  La Corte ha altresì rammentato che nella storica sentenza del 1980 sul caso dei diplomatici americani sequestrati da studenti integralisti islamici (Judgment, I.C.J. Reports 1980, pp. 25-26, para. 48), gli articoli 2 e 3 del Protocollo addizionale non costituiscono una precondizione per l’accesso alla Corte.

[18] Par. 52, ibidem.

[19] Par. 53, ibidem.

[20] Obbligo, quest’ultimo, sancito dalla Risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite n. 1373 del 2001.

[21] Par. 57 – 58, ibidem.

[22] Par. 59, ibidem.

[23] Sulla base della dottrina delle “clean hands” e dei principi “ex turpi causa non oritur actio” e “ex injuria jus non oritur”.

[24] Moss S., Does a Doctrine od “clean hands” Exist in International Law?, Graduate Institute of International and Development Studies, 2009, pag. 1 – 58. Sauvant K. P., Yearbook on International Investment Law & Policy 2011-2012, Oxford University Press, pag. 590 e ss.

[25] Preliminary Objections, Judgment of 13 February 2019, par. 122.

[26] La Corte permanente di giustizia internazionale (in inglese Permanent Court of International Justice), talvolta chiamata World Court (Corte mondiale), era la Corte internazionale della Società delle Nazioni fondata nel 1922. Fu sostituita nel 1946 dalla Corte internazionale di giustizia.

[27] Jurisdiction, Judgment No. 8, 1927, P.C.I.J., Series A, No. 9, p. 31.

[28] Natalino Ronzitti, Introduzione al diritto internazionale, Torino, 2009, pp. 235-236.

[29]Par. 63 – 65, ibidem.

[30] Par. 69, ibidem.

[31] Par. 70, ibidem.

[32] Par. 75, ibidem.

[33] Par. 99, ibidem.

[34] Par. 101, ibidem.

[35] Par. 103, ibidem.

[36] Si ricorda che l’art. 36, comma 1, lett. B sancisce che “a domanda dell'interessato, le autorità competenti dello Stato di residenza devono avvertire senza indugio il posto consolare dello Stato d'invio allorché, nella sua circoscrizione consolare, un cittadino di questo Stato è arrestato, incarcerato o messo in stato di detenzione preventiva o d'ogni altra forma di detenzione”.

[37] Par. 113, ibidem.

[38] Par. 119, ibidem.

[39] Par. 133, ibidem.

[40] Jeremy White, A New Remedy Stresses the Need for International Education: The Impact of the Lagrand Case on a Domestic Court's Violation of a Foreign National's Consular Relations Rights Under the Vienna Convention, su Washington University Global Studies Law Review, Volume 2, January 2003, pagg. 295 - 312. Carsten Hoppe, Trends and Trials: The Implementation of Consular Rights a Decade After LaGrand, su Oxford Scholarship Online, Marzo 2011.  Mark Shaffer, No reprieve for German killer: International focus on Arizona case, in The Arizona Republic, February 24, 1999, p. 1A. Martin Mennecke e Christian J. Tams, Lagrand Case (Germany v United States of America), in The International and Comparative Law Quarterly, Vol. 51, N. 2 (Apr., 2002), pagg. 449-455.

[41] Benedetto Conforti, Diritto internazionale, X Edizione, Napoli, 2014, pag. 385 e ss.