Contenuto atipico del testamento e disposizioni di destinazione
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Cesare Valentino
Brevi cenni sul contenuto atipico del testamento, e sulla vexata quaestio concernente l´ammissibilità delle disposizioni con effetto di destinazione.
Sommario:1. Il negozio testamentario in generale: profili strutturali e contenutistici. La distinzione tra c.d. contenuto “tipico” e “atipico”; 2. La questione della generale ammissibilità di un vincolo di destinazione costituito tramite testamento. Analisi dell’atto di destinazione sotto il profilo degli effetti e della struttura e sottoposizione dello stesso al doppio giudizio di liceità-meritevolezza; 3. Il problema della forma testamentaria tramite cui costituire ex art. 2645-ter un vincolo di destinazione; 4. Analisi strutturale della disposizione testamentaria costitutiva del vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. Il problema della costituzione diretta e indiretta del vincolo; 5. Conclusioni sull’atto di destinazione ex art. 2645-ter c.c. di fonte testamentaria.
1. Il negozio testamentario in generale: profili strutturali e contenutistici. La distinzione tra c.d. contenuto “tipico” e “atipico”.
L’art. 587 c.c. definisce il testamento come “l’atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o parte di esse”[1].
Sotto il profilo strutturale, trattasi di atto negoziale mortis causa: i) mortis causa perché funzione o causa di tale negozio è quella disporre dei propri diritti per il tempo successivo alla morte, dopo la quale soltanto si produrranno i suoi effetti[2]; ii) avente natura negoziale[3] perché il testamento è espressione dell’autonomia privata, del potere di ciascuno di disporre dei propri beni[4].
Il testamento inoltre si caratterizza per essere un atto revocabile e non recettizio. E’ revocabile perché la persona può mutare in qualsiasi momento e senza limiti la volontà espressa nel testamento[5]. E’ atto non recettizio perché i suoi effetti si producono automaticamente, al momento della morte del de cuius, senza necessità che i beneficiari dei lasciti testamentari ne abbiano conoscenza. Il testamento inoltre, sino a tempi recenti si caratterizzava per la sua rigorosa tipicità, non ammettendosi altri negozi che avessero la stessa causa o funzione. Si è derogato al principio de quo tramite l’introduzione del patto di famiglia. Altri caratteri essenziali del testamento sono la unilateralità e la personalità. E’ atto unilaterale perché promana dalla sola volontà del testatore ed in quanto per la sua esistenza, validità e perfezione è richiesta la sola manifestazione di volontà del testatore. Il testamento è quindi perfetto senza il concorso della volontà del chiamato, cioè del soggetto designato a succedere[6].
Essendo un atto strettamente personale, non è ammessa la rappresentanza, né volontaria, né legale. Sempre per questo suo carattere personale, non è consentito il testamento congiuntivo, fatto da due o più persone nel medesimo atto, né a vantaggio di un terzo, né con disposizione reciproca. La ratio di ciò risiede nella circostanza che la legge vuole in tal garantire al massimo grado la libertà testamentaria, e in particolare la spontaneità delle determinazioni e la possibilità di revoca.
Sotto il profilo contenutistico, il testamento è anzitutto un atto a contenuto patrimoniale, che ha la funzione di determinare la sorte del patrimonio del testatore. Le disposizioni testamentarie che assolvono a tale funzione sono l’istituzione di erede e il legato, eventualmente arricchiti di un onere testamentario. Tali disposizioni costituiscono il contenuto tipico del testamento: il contenuto cioè che corrisponde alla causa dell’atto, alla funzione tipica e primaria dello stesso.
La legge però ammette che l’atto di ultima volontà possa regolare interessi non patrimoniali, sempre in vista della morte del disponente: in particolare è previsto che il testamento possa prevedere decisioni relative al riconoscimento di figlio nato fuori dal matrimonio (art. 254 comma 1 c.c.); possa altresì contenere una dichiarazione espressa di riabilitazione dell’indegno (art. 466 c.c.) o la designazione del tutore dell’interdicendo, del curatore dell’inabilitando, o dell’amministratore di sostegno (art. 408 comma 1, art. 424 c.c.) o anche la designazione del beneficiario del contratto di assicurazione sulla vita o la revoca della designazione stessa (art. 1920, 1921 c.c.). Anche al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge si ammette che il testamento possa contemplare ulteriori disposizioni che non sono destinate a regolare direttamente interessi patrimoniali; pertanto il testamento può contenere decisioni relative al diritto morale d’autore o dichiarazioni di scienza, o la revoca di una fondazione. Tutte queste disposizioni costituiscono il contenuto atipico del testamento[7], estraneo cioè alla funzione primaria dell’atto. Esse possono trovar spazio in un atto che contenga le tipiche disposizioni testamentarie; ma un atto di ultima volontà, che abbia i requisiti formali propri al testamento, è valido anche se il suo contenuto è solo quello atipico (art. 587 c. 2 c.c.).
Sotto il profilo del regime giuridico, il contenuto atipico, però, proprio in quanto estraneo alla funzione primaria dell’atto, non sottostà interamente alle regole che valgono per il testamento in senso stretto: ad esempio il testamento è sempre revocabile, ma il riconoscimento di un figlio nato fuori del matrimonio contenuto in un testamento rimane efficace anche se il testamento è revocato (art. 256 c.c.)[8].
2. La questione della generale ammissibilità di un vincolo di destinazione costituito tramite testamento. Analisi dell’atto di destinazione sotto il profilo degli effetti e della struttura e sottoposizione dello stesso al doppio giudizio di liceità-meritevolezza.
Svolte tali premesse sul “contenuto atipico” del testamento, si può passare all’analisi delle disposizioni testamentarie con effetti di destinazione. A tal fine è necessario risolvere in via preliminare la questione della generale ammissibilità di un vincolo di destinazione costituito tramite testamento. Occorre dunque saggiare la compatibilità del negozio testamentario con l’istituto disciplinato dall’art. 2645-ter c.c.. Tale norma, sul versante sistematico, è collocata nel libro VI, titolo I, Capo I, rubricato “della trascrizione degli atti relativi ai beni immobili”. Essa è stata introdotta dall’art. 39 novies del d.l. n. 273/2005, convertito nella legge n. 51/2006. Tale collocazione consente di affermare che il legislatore ha disciplinato l’istituto de quo in primo luogo preoccupandosi della trascrivibilità dell’atto di destinazione, per i rilevanti effetti scaturenti dal medesimo. La norma de qua stabilisce che: “gli atti in forma pubblica, con i quali i beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a 90 anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone fisiche con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’art. 1322 c.c. comma 2, possono essere trascritti al fine di rendere opponibili a terzi il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato, anche durante la vita del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’art. 2915 c.c. primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo”.
Da una rapida lettura dell’art. 2645-ter c.c. se ne possono cogliere i profili salienti: i) forma dell’atto di destinazione; ii) oggetto e durata della destinazione; iii) funzionalità della destinazione riguardo la realizzazione di interessi meritevoli di tutela; iv) trascrizione dell’atto di destinazione; v) legittimato attivo per la realizzazione degli interessi de quibus; vi) impiego e suscettibilità di esecuzione dei beni conferiti e dei loro frutti.
Vi è da rilevare che la norma de qua, sotto un profilo strutturale, non offre all’interprete una fattispecie negoziale di riferimento con cui porre in essere l’atto di destinazione. Da qui le prospettazioni dottrinarie atte alla individuazione delle strutture negoziali più congeniali rispetto alla causa di destinazione.
In generale, la fattispecie perimetrata dall’art. 2645-ter c.c. costituisce, per l’effetto di destinazione collegato alla medesima, una limitazione al principio della responsabilità patrimoniale, codificato dall’art. 2740 c. 1 c.c. Già prima dell’introduzione della suindicata disposizione l’ordinamento positivo aveva cristallizzato ipotesi di vincoli di destinazione: si pensi al fondo patrimoniale (art. 167 c.c.), alla fondazione (art. 14 e ss. c.c.), alle pertinenze (art. 817 c.c.).
L’elemento comune alle varie forme di destinazione viene comunemente ravvisato nella circostanza per cui la destinazione spiega i suoi effetti in punto di regime giuridico dei beni vincolati, in quanto: i) il proprietario del bene vede circoscritte le facoltà di utilizzazione del bene stesso, essendogli impedite forme di disposizione diverse da quelle funzionali allo scopo. Vi è dunque una restrizione ai normali poteri di godimento e disposizione del bene appartenenti al proprietario; ii) il patrimonio destinato è inaggredibile dai creditori per obbligazioni estranee allo scopo. Con riferimento al profilo sub ii), nell’ipotesi prevista dall’art. 2645-ter c.c., occorre rilevare che i beni destinati sono sottratti alla responsabilità patrimoniale generica, essendo gli stessi esposti ad esecuzione per i soli debiti contratti in ragione della finalità cui sono preordinati. Gli stessi pertanto possono essere oggetto di esecuzione solo per debiti assunti nel perseguimento della destinazione.
L’effetto della destinazione può venire in rilievo in relazione a due tipologie di vincolo, a seconda che sia previsto o meno il trasferimento della titolarità del bene. Nel primo caso è configurabile un vincolo statico, nel secondo un vincolo dinamico. L’ammissibilità di una attribuzione strumentale ad un gestore in caso di vincolo dinamico può sostenersi tenendo conto della non univocità delle espressioni adoperate dall’art. 2645-ter c.c. Occorre rilevare inoltre che non è essenziale ai fini della valida configurazione di una causa di destinazione la vicenda traslativa della titolarità del bene: quest’ultima rileva solo qualora sia strumentale rispetto alla stessa realizzazione dello scopo di destinazione. Nel caso di vincolo statico, ove non è previsto il trasferimento della titolarità del bene, l’atto di destinazione spiega i suoi effetti nella sfera giuridica del conferente.
Fatta tale preliminare analisi sulla fattispecie prevista dall’art. 2645-ter c.c., condotta sul piano degli effetti e della struttura dell’atto di destinazione, si può affrontare con maggiore chiarezza la vexata quaestio concernente l’ammissibilità di un vincolo di destinazione costituito tramite testamento.
Come anticipato, in base alla lettera del disposto dell’art. 2645-ter c.c., la destinazione deve essere fatta con un atto in forma pubblica. Da qui il susseguirsi di diverse prospettazioni dottrinarie in ordine al profilo strutturale dell’atto di destinazione, stante l’assenza di una chiara indicazione legislativa sul punto.
Secondo un primo orientamento[9], non è ammissibile un vincolo di destinazione costituito tramite testamento. Tale impostazione ricava argomenti dal tenore letterale della norma de qua, valorizzando i vari profili dell’atto pubblico, dell’interesse meritevole di tutela ex art. 1322 c.c., nonché il dato della legittimazione attiva in capo al conferente. Logico corollario di tale indirizzo è che l’atto di destinazione, sotto il profilo strutturale, deve essere necessariamente un atto inter vivos.
Sul versante giurisprudenziale[10], invece, si valorizza il profilo del rapporto con il principio enucleato dall’art. 2740 c.c. (c.d. responsabilità patrimoniale), e si afferma che la disposizione di cui all’art. 2645-ter c.c., in quanto norma che deroga a tale principio, è insuscettibile di interpretazione estensiva, oltre i limiti tracciati dalla norma, in quanto norma di stretta interpretazione. Logica implicazione di tale orientamento è l’inammissibilità di un vincolo di destinazione costituito tramite testamento. Trattasi dunque della stessa conclusione cui perviene l’impostazione dottrinaria in precedenza riportata, ma ricavata partendo da diversa premessa.
Altra dottrina[11] invero, muovendo nell’opposta direzione, ha mostrato maggiori aperture all’ammissibilità di un vincolo di destinazione predisposto tramite testamento. Si sostiene infatti che il vincolo de quo possa essere costituito tramite testamento pubblico. Si sottolinea di come l’atto pubblico non sia incompatibile con l’atto di ultima volontà, ma muova dall’esigenza legislativa di controllo della fase genetica del vincolo. Quest’ultimo infatti può riverberare i suoi effetti nella sfera giuridica sia delle parti che dei terzi. La forma dell’atto pubblico sarebbe dunque prodromica ad assicurare la pubblica fede dell’atto di destinazione medesimo. Tale prospettazione dunque, valorizzando il profilo della ratio sottesa alla forma dell’atto pubblico, mostra chiari segni di apertura alla costituzione tramite testamento di un vincolo di destinazione.
A parere di chi scrive, ulteriori argomenti per sostenere l’ammissibilità dell’atto di destinazione costituito tramite testamento derivano da ulteriori valutazioni condotte alla stregua dell’intero sistema, muovendo da alcune norme cardine e distinguendo tra regime di appartenenza e regime di utilizzazione del bene. Infatti il testatore può incidere sul primo in virtù dell’art. 922 c.c., e non si riscontra valida ragione ostativa ad un’incidenza sul regime di utilizzazione del bene stesso.
Altre argomentazioni “di sistema” possono ricavarsi valorizzando ulteriori profili emergenti dal tessuto normativo: i) l’atto costitutivo di fondo patrimoniale da parte del terzo deve avvenire tramite testamento; ii) la stessa fondazione può essere costituita con testamento. Un altro varco, che aprirebbe alla controversa ammissibilità del vincolo di destinazione costituito tramite testamento risiede nella valorizzazione del tenore letterale dell’art. 2645-ter c.c., con il quale, sotto il profilo strutturale dell’atto di destinazione, il legislatore non impone una determinata fattispecie tipica. Ulteriore elemento da valorizzare concerne la circostanza secondo cui solo la volontà del soggetto titolare dei beni ha l’idoneità a determinare l’effetto di destinazione e quindi, un eventuale negozio di destinazione, dovrebbe avere necessariamente struttura unilaterale.
Per superare l’impasse creato dall’elemento dell’interesse meritevole di tutela si può sostenere che la volontà del testatore è libera di prevedere un vincolo di destinazione. Tale vincolo, però, se origina da fonte testamentaria, è soggetto a due giudizi: i) il primo, quello di liceità; ii) il secondo, attinente alla meritevolezza dell’interesse perseguito[12]. In caso di esito positivo del primo e quindi, in caso di vincolo di destinazione ritenuto lecito, lo stesso può essere rientrare nella vicenda testamentaria. Ma al fine della produzione degli ulteriori effetti della destinazione obbligatoria e della segregazione patrimoniale è necessario che il vincolo de quo persegua interessi meritevoli di tutela. In altri termini, la meritevolezza degli interessi perseguiti tramite il vincolo di destinazione costituisce il filtro tramite cui lo stesso può produrre gli effetti previsti dall’art. 2645-ter c.c.
Per l’effetto di destinazione e di separazione patrimoniale non basta dunque il superamento del giudizio di liceità da parte del vincolo di destinazione, essendo necessario che lo stesso persegua interessi meritevoli di tutela.
3. Il problema della forma testamentaria tramite cui costituire ex art. 2645-ter un vincolo di destinazione
Una volta affermata l’ammissibilità di un vincolo di destinazione ex art. 2645-ter di fonte testamentaria, che abbia superato il doppio giudizio di liceità-meritevolezza dell’interesse perseguito, occorre verificare se a tal fine è idoneo il solo testamento pubblico o si può ricorrere ad altre forme testamentarie.
Per una prima prospettazione dottrinaria, il vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. può essere validamente costituito con qualsiasi forma testamentaria, e dunque si può ricorrere al testamento olografo, segreto o pubblico. Ciò viene affermato in primo luogo facendo leva sul principio di equivalenza delle forme testamentarie, sotto il profilo degli effetti derivanti dalle stesse[13]. Si adduce inoltre un rilievo di tipo sistematico: si afferma infatti che, in caso di fondazione testamentaria, è indubbio che la stessa può essere costituita, sia tramite testamento pubblico, sia tramite un testamento olografo.
Tenuto conto che nella fase genetica della formazione del vincolo occorre assicurare affidabilità, nonché la consapevole formazione della volontà testamentaria destinatoria, preferibile è l’impostazione che ritiene che per una valida costituzione per testamento di un vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. non si possa prescindere dalla forma pubblica[14], che consente inoltre l’opponibilità del vincolo. Corollario dell’impostazione accolta è che il testatore può anche procedere alla costituzione del vincolo tramite testamento olografo. Ma in tal caso, nonostante la volontà testamentaria abbia superato il giudizio di liceità, non può sortire gli effetti di cui all’art. 2645-ter c.c., e dunque la destinazione non può tradursi in separazione patrimoniale.
Ma il requisito della meritevolezza dell’interesse perseguito funge da ulteriore filtro anche in presenza di un testamento pubblico, con il quale il testatore impone destinazioni vincolate per la realizzazione di finalità che non siano meritevoli di tutela. Anche in tal caso, sebbene il vincolo di destinazione sia rispettoso della forma pubblica, lo stesso non può spiegare gli effetti di cui all’art. 2645-ter c.c. e quindi, neppure in tal caso la destinazione può tradursi in separazione patrimoniale. E in questo caso si coglie appieno il perimetro di validità entro cui deve muoversi il vincolo di destinazione costituito tramite negozio testamentario.
4. Analisi strutturale della disposizione testamentaria costitutiva del vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. Il problema della costituzione diretta e indiretta del vincolo.
A questo punto rimane da analizzare il profilo strutturale della disposizione testamentaria costitutiva del vincolo di destinazione.
In precedenza si è ipotizzato che la fattispecie di cui all’art. 2645-ter c.c. può operare sotto due forme di vincoli: i) vincolo “statico”; ii) vincolo “dinamico”. La distinzione tra le due afferisce alla circostanza che nella prima non si verifica il trasferimento della titolarità del bene, che ha luogo solo in caso di vincolo dinamico.
I riflessi della distinzione de qua riguardano in primo luogo la produzione degli effetti dell’atto, che in caso di vincolo statico involgono la sola sfera giuridica del conferente. Nell’ipotesi di vincolo dinamico, invece, si ha un trasferimento “strumentale” della titolarità del bene, in virtù del quale il terzo gestore acquista la titolarità di una proprietà destinata alla realizzazione di uno scopo. Vi è dunque in quest’ultima ipotesi un’attribuzione dei beni al terzo gestore. Si configura una fattispecie per molti versi simile a quella che rileva in caso di trust, in quanto in entrambi i casi vi è un’attribuzione caratterizzata da: i) strumentalità; ii) temporaneità; iii) orientamento finalistico.
L’attribuzione al terzo gestore trova causa nel programma di destinazione, e non in quello successorio. Non vi è alcuna volontà liberale del testatore avverso il terzo gestore, cui non viene offerta una delazione, ma al quale viene conferito un incarico fiduciario funzionale alle esigenze del vincolo di destinazione. E il trasferimento dei beni è funzionale all’adempimento del vincolo de quo. La proprietà attribuita al gestore è dunque funzionale agli scopi della destinazione. Trattasi dunque di una attribuzione strumentale che risulta essere incompatibile con la qualificazione in termini di erede o di legatario del terzo gestore, proprio per il ruolo che quest’ultimo è chiamato a svolgere. Il gestore, infatti, nel programma divisato dal testatore, si limita semplicemente ad attuare la volontà di quest’ultimo. E l’assenza di un intento esclusivamente attributivo consente di escludere che lo stesso possa essere qualificato come legatario, pur quando consegua beni determinati. Ove infatti si qualificasse detta attribuzione in termini di istituzione di erede o legato, gravi implicazioni ne deriverebbero sotto il profilo della responsabilità patrimoniale. Infatti se il terzo gestore (attuatore) fosse qualificato come erede, i principi vigenti in materia successoria comporterebbero che egli risponda (ultra vires o, in caso di accettazione con beneficio di inventario, intra vires), di tutti i debiti ereditari, e ciò anche con i beni vincolati nella destinazione; ove, invece, lo si qualificasse legatario, in caso di concorso con i creditori ereditari, il terzo gestore verrebbe posposto. Logica conseguenza è che nell’eventuale liquidazione dell’attivo andrà ricompreso anche il bene oggetto di destinazione.
Dalle osservazioni svolte si può rilevare che i principi vigenti in materia successoria sembrano collidere con quelli dettati dall’art. 2645-ter c.c. Nel caso di terzo gestore istituito erede o legatario infatti, con l’istituzione del vincolo di destinazione da parte del testatore difficilmente si riuscirebbe a pervenire ad un effetto di separazione (come quello configurabile ai sensi e per gli effetti dell’art. 2645-ter c.c.). E ciò porta con sé il rischio che i creditori ereditari possano “attaccare” la stessa attribuzione al terzo gestore. In tal modo la vicenda destinatoria corre il rischio di veder prevalere le istanze dei creditori ereditari su quelle dei creditori della destinazione.
Nel caso, invece, di vincolo statico, la disposizione testamentaria si limita ad imporre il fine destinatorio ex art. 2645-ter c.c.; successivamente, la vicenda attributiva del bene così vincolato, seguirà unicamente i principi vigenti in materia successoria, potendo avvenire a titolo di eredità o di legato.
Un’ultimo profilo merita attenzione e concerne la costituzione del vincolo da parte della disposizione testamentaria, che può essere diretta o indiretta. E’ configurabile una costituzione diretta del vincolo (riconducibile al all’art. 2645-ter c.c.) solo allorquando essa si riferisca a determinati beni (immobili o mobili registrati).
Il problema sorge allorquando si è in presenza di una disposizione testamentaria a titolo universale, con cui il testatore si è limitato genericamente a costituire un vincolo di destinazione, riferito a tutti i cespiti che all’apertura della successione, siano compatibili con la fattispecie di cui all’art. 2645-ter c.c. Si pone dunque una questione che involge il profilo della determinatezza dell’oggetto del vincolo. Si può ritenere che il vincolo di destinazione costituito tramite testamento può dirsi formato correttamente solo quando abbia ad oggetto beni individuati dal testatore. E ciò in quanto, solo in tale circostanza, sugli stessi può compiersi la valutazione di meritevolezza degli interessi prescritta dalla norma in commento.
Allorquando il testatore fa obbligo, all’erede o al legatario, di destinare ex art. 2645-ter c.c., uno o più beni a beneficio di terzi determinati, il testamento si pone come fonte indiretta del vincolo di destinazione. In tal caso il vincolo di destinazione sorgerà tramite un atto inter vivos posto in essere al fine di adempiere all’obbligazione testamentaria e dunque la disposizione testamentaria si profila come fonte mediata del vincolo de quo. La disposizione in oggetto attribuisce al terzo beneficiario il diritto a pretendere che l’onerato costituisca il vincolo de quo: trattasi di legato di comportamento negoziale, definito, con espressione descrittiva, «legato di vincolo di destinazione»[15].
5. Conclusioni sull’atto di destinazione ex art. 2645-ter c.c. di fonte testamentaria.
In conclusione, è stata dimostrata l’ammissibilità di un vincolo di destinazione costituito tramite testamento, e ciò alla luce di argomenti tratti dall’art. 2645-ter c.c. nonché dal sistema nel suo complesso (arg. ex art. 922 c.c.). In secondo luogo, al fine di imprimere maggiore certezza ad un simile negozio, si è sostenuta la necessità di condurre un doppio giudizio sul vincolo di destinazione costituito tramite negozio testamentario, ovvero il giudizio di liceità, nonché quello di meritevolezza degli interessi perseguiti. Solo in caso di esito positivo degli anzidetti giudizi un tale vincolo di destinazione può spiegare gli effetti previsti dall’art. 2645-ter c.c. Posta l’esigenza di assicurare affidabilità nella fase genetica di formazione del vincolo di destinazione è stata affermata la necessità di ricorrere alla forma testamentaria pubblica.
Note e riferimenti bibliografici
[1] Il testamento è un atto tipico, in quanto è l’unico atto in forza del quale un soggetto può disporre validamente delle proprie sostanze dopo la sua morte: ciò però non vuol dire tipicità del suo contenuto, che può essere, come si dirà, il più eterogeneo. Perché un atto possa essere qualificato come testamento, è richiesto solo che esso persegua la sua funzione istituzionale tipica, quella di disporre dei rapporti facenti capo al de cuius per il tempo in cui egli avrà cessato di vivere. In via generale, ai fini della validità ed efficacia delle disposizioni testamentarie assumono carattere decisivo i referenti soggettivi ed oggettivi in termini di certezza della volontà del testatore e di sicura individuazione dei destinatari delle attribuzioni.
[2] Come precisa parte della dottrina F. Alcaro, Diritto privato, Terza edizione, pag. 718, “è da precisare che l’evento-morte, considerato come fatto cui viene subordinata l’efficacia dell’atto (il testamento), incide sul nucleo causale di questo, quale presupposto essenziale di rilievo giuridico, per la sua efficacia, e non quale elemento di fatto, di puro carattere temporale”.
[3] Da considerare, per le implicazioni che ne derivano, è la disciplina del testamento quanto al trattamento delle invalidità, prospettando essa alcune specificità nel confronto con la disciplina del contratto, e ciò in virtù del particolare rilievo attribuito alla volontà testamentaria e della esigenza della sua possibile massima conservazione e nel contempo, della più ridotta o insussistente ragione di tutela dell’affidamento del terzo. Conseguentemente, l’invalidità di singole disposizioni non si estenderà all’intero testamento, ritenendosi sul presupposto di una scindibilità della volontà dispositiva, come non apposta la condizione (sospensiva) impossibile e quella illecita (art. 634), così come il modus illecito, salvo che quelle clausole abbiano costituito il solo motivo illecito che ha indotto il testatore a disporre e risulti dal testamento, così come è rilevante l’errore sul motivo che abbia in carattere ora indicato.
[4] Come rileva parte della dottrina, M. Paradiso, Corso di istituzioni di diritto privato, decima edizione, pag. 777: “E’ perciò riconosciuto come meritevole di tutela il fine di dare assetto ai rapporti patrimoniali per il tempo successivo alla morte, ma nel rispetto dei limiti generali e specifici previsti dalla legge. In particolare, tale autonomia, che trova un esplicito riconoscimento costituzionale (art. 42 c. 4 Cost.), accanto ai limiti generali della figura incontra il limite specifico della solidarietà familiare espresso dalla successione necessaria”.
[5] La caratteristica della revocabilità discende dalla tutela della “signoria della volontà” che domina il campo successorio e dalla configurazione del testamento quale atto di ultima volontà, come tale efficace solo al momento della morte del disponente. Dal principio di revocabilità, espressione della libertà testamentaria, deriva la nullità delle eventuali clausole derogatorie, sancita dall’art. 679 c.c., secondo cui “non si può in alcun modo rinunziare alla facoltà di revocare o mutare le disposizioni testamentarie: ogni clausola o condizione contraria non ha effetto”. Nessun valore pertanto può essere riconosciuto alle eventuali dichiarazioni del de cuius volte a eliminare o limitare la facoltà di revoca.
[6] L’accettazione, necessaria ai fini dell’acquisto dell’eredità (art. 459 c.c.), non è infatti richiesta per il perfezionamento dell’atto, ma solo perché questo abbia concreta attuazione. Come rileva F. Alcaro, in op. ult. citata: “L’accettazione è quindi un atto unilaterale autonomo che, a differenza di quanto avviene nella disciplina dei contratti, non si configura quale risposta ad una proposta, ma esplicazione di volontà destinata a dare esecuzione ad una definita disposizione altrui”.
[7] Sul versante giurisprudenziale, in tema di contenuto atipico del testamento si segnala: i) Cass. sent. n. 1584/1969, che ha ritenuto valido un testamento contenente le sole disposizioni relative all’incenerimento della salma; ii) Cassazione civile, sez. II, sent. n. 1993/2016, con cui la Suprema Corte ha statuito che "la possibilità che il testamento esaurisca il suo contenuto in disposizioni di carattere non patrimoniale impone comunque che sia ravvisabile un testamento in senso formale, rilevante la funzione tipica del negozio testamentario. Perché sia individuabile un testamento in senso formale occorre che l'atto esprima un'intenzione negoziale destinata a produrre i suoi effetti dopo la morte del disponente. […] A questo scopo la legge richiede ad substantiam che il testamento, seppur a contenuto soltanto non patrimoniale, venga redatto in una delle forme espressamente stabilite (art. 601 c.c. e ss.). […] Perché un atto possa qualificarsi come testamento, pur non essendo necessario l'uso di formule sacramentali, è necessario riscontrare in modo univoco dal suo contenuto che si tratti di ultima volontà, di un negozio mortis causa, in maniera da distinguerlo da una mera enunciazione dei fatti in sé".
[8] In questi termini P. Zatti, Manuale di Diritto Civile, Sesta edizione, pag. 1356
[9] A. Merlo, “Brevi note in tema di vincolo testamentario di destinazione”, in Riv. Not., 2007, pag. 512
[10] Trib. Roma, VIII Sez., 18 maggio 2013: “Il legislatore non indica il testamento quale titolo costitutivo della destinazione, mentre per istituti affini, quali le fondazioni e il fondo patrimoniale, ha espressamente previsto la costituzione sia per atto pubblico che per testamento. Rafforza il convincimento in tal senso, la specifica previsione contenuta nell’art. 2 l. 364/1989, per cui il costituente può adottare l’uno o l’altro strumento negoziale (atto tra vivi o mortis causa). Il carattere essenziale dell’intervento normativo, appare significativo di una volontà legislativa volta a risolvere, innanzitutto, il problema della opponibilità della limitazione della responsabilità. L’argomento letterale che fa leva sulla riconducibilità del testamento pubblico alla categoria degli atti pubblici prova troppo”.
[11] M. Bianca-M. D’Errico-A. De Donato-C. Priore, L’atto notarile di destinazione, Milano, 2006, pag. 13
[12] Parte della dottrina, F. Alcaro, op. ult. citata, rileva che per superare il vaglio di meritevolezza ex art. 1322 c. 2 c.c., “è peraltro necessario che lo scopo di destinazione, rimesso all’autodeterminazione dei privati, non sia futile o inconsistente: non deve necessariamente trattarsi di una finalità espressiva di un valore dominante in via assoluta, secondo il comune sentire della società civile, rispetto agli interessi dei creditori generali che dalla destinazione sono inevitabilmente pregiudicati. Può conclusivamente ritenersi che la meritevolezza sia apprezzabile in un giudizio comparativo con altri interessi rispetto ai quali possa valutarsi in termini di preminenza, e ciò può giustificare l’opponibilità a terzi del vincolo di destinazione”.
[13] S. Meucci, La destinazione di beni tra atto e rimedi, Milano, 2009, p. 308
[14] G. Gabrielli, «Vincoli di destinazione importanti separazione e pubblicità nei Registri immobiliari», in Riv. dir. civ., 2007, p. 336
[15]G. Capozzi, Successioni e donazioni, 2009, pag. 807