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Pubbl. Gio, 4 Apr 2019

Analisi normativa dell´art. 131 bis c.p. alla luce dei principi di proporzionalità e sussidiarietà della pena

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Mauro Giuseppe Cilardi
AvvocatoUniversità degli Studi di Bari


Il rilievo ordinamentale dei principi di proporzionalità e sussidiarietà della pena nell´applicazione pratica: uno sguardo alla disciplina della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p. che dà attuazione ad ambedue i principi in un’ottica rieducativa della pena


Sommario: 1. Premessa; 2. La proporzionalità della pena in un'ottica costituzionale ed eurounitaria; 3. Il ruolo sussidiario del diritto penale; 4. L'art. 131 bis cod. pen. come attuazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità; 5. Osservazioni finali.

1. Premessa.

Il principio di proporzionalità e il principio di sussidiarietà della sanzione penale arricchiscono il nucleo dei principi-cardine su cui si fonda il sistema punitivo nazionale, unitamente ai principi di legalità, di irretroattività sfavorevole, di tassatività e di offensività.

Pur attenendo alla sfera della repressione penale, i due principi operano in due fasi tra loro separate ed autonome.

Invero, la proporzionalità riguarda il momento della quantificazione della sanzione, mentre la sussidiarietà inerisce all’an, ossia all’opportunità di prevedere in via astratta il rimedio punitivo.

2. La proporzionalità della pena in un'ottica costituzionale ed eurounitaria.

Il canone della proporzionalità impone che il quantum della pena sia proporzionato alla gravità del fatto di reato commesso. Tale criterio rappresenta una proiezione applicativa del principio di offensività, che informa l’intera materia penalistica e postula che la sanzione repressiva sia la risposta dell'ordinamento ad un fatto lesivo, in termini di offesa o messa in pericolo, di un bene giuridico costituzionalmente protetto.

Nel dettaglio, proporzionalità ed offensività condividono il medesimo referente costituzionale: l’art. 27, comma 3, in forza del quale la pena deve tendere alla rieducazione del reo. È evidente, dunque, che il presupposto affinché sia attuabile una siffatta propensione teleologica è che il condannato avverta come giusta, e quindi proporzionata all’entità del fatto posto in essere, la sanzione prevista e comminata. Solo, così, infatti, può avere avvio quel processo di risocializzazione che l’Assemblea Costituente ha deciso di porre alla base del periodo di espiazione della sanzione criminale.

Non deve, però, sottacersi che il canone della proporzionalità assume una rilevanza giuridica autonoma. A conferma, vige il disposto di cui all'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'uomo, immanente nell'ordinamento nazionale in virtù del richiamo al rispetto degli obblighi comunitari di cui all'art. 117, comma 1 Cost. Sul punto, la norma comunitaria statuisce espressamente che le pene devono essere proporzionate rispetto al reato e, quindi, rapportate alla sua gravità oggettiva.

Corollario di quanto descritto è che la proporzionalità gode di una duplice dimensione, sia astratta sia concreta. In altre parole, il principio de quo può dirsi rispettato solo se la pena è proporzionata alla serietà del fatto sia nell’astratta previsione legislativa sia nella concreta applicazione giudiziaria.

La portata dirimente del canone in questione emerge, inoltre, sul versante giurisprudenziale e alla luce del dato normativo.

In primo luogo, giova precisare che l’orientamento consolidato della Corte dei diritti dell’uomo eleva la proporzionalità a criterio di valutazione della natura afflittiva della sanzione. Secondo il Giudice di Strasburgo, cioè, l’aspetto della proporzionalità è talmente connaturato alla pena che uno degli indici rivelatori della natura repressiva della sanzione è rappresentato dall’entità delle conseguenze sanzionatorie normativamente previste. Emerge, al riguardo, la concezione sostanzialistica della pena a cui aderiscono i Giudici di Strasburgo, evincibile dai famosi criteri Engel elaborati nel 1976, in forza dei quali la verifica della natura di una sanzione non si basa sul nomen attribuito alla medesima dall'ordinamento interno, ma è correlata alla presenza di determinati indici sostanziali, tra i quali viene in rilievo il grado di afflittività della misura.

Inoltre, con la sentenza n. 236 del 2016 la stessa Corte costituzionale ha valorizzato la proporzionalità della pena, omologando gli effetti sanzionatori previsti dai due commi dell’art. 567 c.p., che incrimina il delitto di alterazione di stato e consacrando, così, l'immanenza nel sistema del suddetto canone. Particolare risalto assume la pronuncia ricordata, in quanto per la prima volta il Giudice delle leggi afferma che la pena astrattamente prevista dal legislatore deve essere connotata da intrinseca ragionevolezza, in modo che sia data attuazione agli artt. 3 e 27, comma 1 e 3 Cost., che consacrano, rispettivamente, i principi di ragionevolezza, della responsabilità penale personale e del finalismo rieducativo della sanzione repressiva. 

Sul piano normativo, poi, deve considerarsi che la proporzionalità non ha ad oggetto soltanto la pena in senso stretto. Ne è conferma l’art. 275, c. 2, c.p.p., in virtù del quale il giudice è vincolato a disporre misure cautelari personali che risultino proporzionate all’entità del fatto incriminato. Invero, sebbene la misura cautelare e la pena siano rimedi strutturalmente differenti, entrambe producono una limitazione della libertà individuale, derogando alla regola dell’inviolabilità sancita dall’art. 13 Cost. Di conseguenza, il legislatore ha avvertito l’esigenza di restringere il potere discrezionale del giudice anche con riferimento alla scelta delle misure cautelari, sebbene si tratti di un potere esercitato nella fase che precede l’eventuale condanna dell’imputato.

Per ciò che concerne, invece, le pene in senso stretto, la correlazione tra pena e disvalore del fatto è oggetto di espressa considerazione nell’art. 133, comma 1 c.p., che conforma il potere discrezionale del giudice di commisurazione della pena, riconducendolo all’osservanza del criterio-guida della gravità del fatto commesso, desumibile da una serie di indici tassativamente elencati.

3. Il ruolo sussidiario del diritto penale.

Chiarito il rilievo della proporzionalità, deve evidenziarsi che la medesima importanza va attribuita al principio di sussidiarietà della pena. Si tratta di un principio che connota la natura della sanzione penale, la quale, per la sua incidenza negativa sulla libertà personale, trova applicazione soltanto in caso di inefficacia delle sanzioni civili, amministrative, disciplinari o di altra natura.

L'impianto costituzionale si innesta, infatti, sulla generale inviolabilità della libertà individuale, di cui l'art. 13 Cost. ammette il sacrificio solo in forza delle garanzie stabilite dalla legge. Sul punto, non può sottacersi che la Carta costituzionale consacra una serie di diritti fondamentali, che promanano indirettamente dalla norma richiamata: a titolo esemplificativo, si ricordano la libertà della corrispondenza (art. 15.), la libertà di circolazione (art. 16), la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21). Poiché l'irrogazione della pena è idonea a comprimere ciascuno degli interessi fondamentali riconosciuti all'individuo, essa deve essere prevista dal legislatore solo quando il soggetto si rende responsabile della commissione di fatti offensivi di un bene giuridico di almeno pari rilevanza costituzionale.

Il diritto penale è, quindi, per sua conformazione una branca dell’ordinamento di carattere sussidiario. Appurato ciò, si consideri che tale connotazione emerge, in particolar modo, dalla previsione normativa delle cosiddette cause di non punibilità in senso stretto o esimenti.

Con tale espressione si fa riferimento a fattispecie, in presenza delle quali il fatto di reato, pur rimanendo tipico, antigiuridico e colpevole, viene ritenuto dal legislatore non meritevole di pena, in forza di una scelta di opportunità politica. Si tratta, cioè, di valutazioni discrezionali, che non possono essere sindacate dalla Corte costituzionale, laddove non superino il limite della manifesta ragionevolezza ex art. 3 Cost.

Esempi di cause di non punibilità sono la desistenza volontaria di cui all'art. 56, comma 3 cod. pen. e le condizioni obiettive di punibilità ex art. 44 cod. pen.

4. L'art. 131 bis cod. pen. come attuazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità.

Nell'ambito delle cause di non punibilità stricto sensu intese, viene in rilievo l'istituto previsto dall’art. 131 bis cod. pen., incentrato sulla particolare tenuità del fatto di reato commesso.

Introdotta nel codice dalla legge n. 28 del 2015, tale norma assolve due precipue funzioni, l'una di carattere processuale, l'altra di interesse sostanziale.

Da una parte, infatti, viene soddisfatta la finalità deflattiva, che anima i più recenti interventi normativi in materia penale, in un’ottica che disincentiva l’attivazione dei processi, con contestuale risparmio delle risorse pubbliche relative all'amministrazione della giustizia.

Dall’altra, sul versante materiale, la norma costituisce esplicazione del principio di sussidiarietà della sanzione penale. Infatti, il legislatore, in omaggio al finalismo rieducativo della pena, considera inopportuna l’applicazione della sanzione afflittiva a fatti che mostrano un’attitudine offensiva marginale. Di conseguenza, per reati sottoposti a pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni o a pena pecuniaria sola o congiunta a tale pena, esclude che il fatto sia punibile, qualora, in base ad un giudizio complessivo sulla modalità della condotta e sull’esiguità del danno o del pericolo, il giudice ritenga che l’offesa sia di particolare tenuità e il comportamento non risulti abituale.

Deve, però, precisarsi che la sussidiarietà non costituisce soltanto la ratio della disposizione di cui si discorre, ma permea altresì l’intera disciplina, come emerge dall’analisi dei relativi commi.

Al riguardo, è necessario sottolineare che il legislatore, per evitare un’impronta giudiziaria eccessivamente discrezionale, si premura di guidare l’autorità giusdicente nell’operazione di verifica delle condizioni in presenza delle quali è possibile dichiarare il fatto non punibile.

Invero, il comma 2 precisa che l’offesa non può essere di particolare tenuità se la condotta penalmente rilevante è stata animata da motivi abietti o futili, è stata posta in essere con crudeltà o sevizie o dalla medesima sono conseguite la morte o le lesioni gravissime della vittima.

Tale presunzione assoluta di non tenuità permette, allora, di individuare un preciso margine operativo del canone di sussidiarietà della pena. Infatti, tutte le caratteristiche menzionate attribuiscono all’illecito una particolare carica lesiva, sicché la previsione e l’applicazione di sanzioni civili o amministrative non dispiegherebbero quella efficacia dissuasiva propria della sanzione penale.

Sullo stesso solco si pone il successivo comma 3, che prevede le tassative ipotesi in cui il giudice è tenuto a considerare abituale il comportamento, non potendo, di conseguenza, ritenere integrata la causa di non punibilità de qua. Si tratta, nel dettaglio, di fattispecie dalle quali è agevolmente rintracciabile da parte del reo una notevole propensione al crimine e che rendono, dunque, indispensabile il ricorso alla pena, in chiave non solo dissuasiva, ma anche general-preventiva e special-preventiva.

La sussidiarietà non è, tuttavia, l’unico principio al quale la nuova causa di non punibilità mostra di aderire. Viene, sul punto, in rilievo il cardine della proporzionalità della sanzione criminale.

Ciò è pacifico se si considera che il comma 1 impone al giudice di operare una valutazione globale della carica lesiva del fatto criminoso, sulla base dell’art. 133 c.p., primo comma, in nome del quale la gravità del reato assurge a criterio informatore dell’operazione giudiziaria di commisurazione della pena. In tal modo, quindi, la valutazione circa la gravità del reato non è più soltanto funzionale alla determinazione della quantità di pena, ma incide sulla scelta di applicare o meno un istituto dalle evidenti conseguenze favoreli per il reo.

A conferma viene, inoltre, in rilievo il comma 4, ai sensi del quale le circostanze non rilevano ai fini della determinazione della pena detentiva di cui al primo comma e, quindi, ai fini dell’applicabilità dell’esimente, eccettuate le circostanze autonome e le circostanze ad effetto speciale, ossia quelle per le quali è prevista una pena di specie differente o un mutamento superiore ad un terzo rispetto alla sanzione statuita per la figura base del reato.

Emerge, così, l’importanza assunta dall’entità del fatto criminoso al fine della perimetrazione della pena: infatti, ambedue le circostanze anzidette sono espressive di una particolare modalità di verificazione del reato, a cui il legislatore riconnette un aumento o una diminuzione della sanzione, in misura derogatoria rispetto alla regola del mutamento pari ad un terzo della pena base.

5. Osservazioni finali.

Alla luce di quanto precede, risulta che l’ordinamento penale è imperniato sul rispetto della proporzionalità e della sussidiarietà della pena. A sostegno di tale assunto si colloca la causa di non punibilità ex art. 131 bis cod. pen. Siffatta esimente, incentrata sulla particolare tenuità del fatto di reato, dà attuazione ad ambedue i principi, confermando che la pena rappresenta un’extrema ratio del sistema e che la sua determinazione deve essere effettuata in rapporto al livello di gravità del fatto commesso, in un’ottica di individualizzazione delle conseguenze sanzionatorie e nel rispetto della propensione rieducativa del castigo.

Riferimenti bibliografici

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F. Viganò, Un'importante pronuncia della Consulta sulla proporzionalità della pena, in penalecontemporaneo.it, 11/2016