Profili concreti di assistenza e tutela alla persona nell´amministrazione di sostegno
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Andrea Racca
Dal dibattito giurisprudenziale allo studio concreto.
Sommario: 1. Introduzione; 2. La fonte del dovere di cura e di assistenza; 3. L’analisi dei casi; 4. La questione della valutazione dell’autodeterminazione.
1. Introduzione
La persona che, per effetto di un'infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nell'impossibilità, anche temporanea, di provvedere ai propri bisogni o interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal Giudice Tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio. Questo è quanto previsto dall’art. 404, norma che apre il capo I, introdotto al Titolo XII, Libro Primo dalla L. n. 6 del 9 gennaio 2004[1] e dedicato all'istituto dell'amministrazione di sostegno, la cui finalità è proprio quella di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell'espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente[2]. In tal guisa, come ha recentemente affermato la Suprema Corte di Cassazione l'amministrazione di sostegno può essere disposta anche nel caso in cui sussistano soltanto esigenze di cura della persona, senza la necessità di una gestione patrimoniale, poiché l'istituto non è finalizzato esclusivamente ad assicurare tutela agli interessi patrimoniali del beneficiario, ma è volto, più in generale, a garantire protezione alle persone fragili in relazione all’effettive esigenze di ciascuna, limitandone nella minor misura possibile la loro capacità di agire[3].
In quest’ottica, nell’ambito di un progetto di ricerca in tema di disabilità presso le cliniche legali dell’Università degli Studi di Torino[4], gli studenti hanno cercato di esaminare e verificare l’effettivo ruolo di assistenza e cura alla persona, svolto in alcuni casi concreti presi in esame, dall’amministratore di sostegno nominato dal competente Tribunale per tutelare, ma anche assistere soggetti c.d. deboli, in situazioni delicate o di compromissione di alcuni loro diritti fondamentali. L’obiettivo prefissato di questa ricerca è stato, quindi, quello di fondare teoreticamente e giuridicamente la finalità cui tende l'istituto in esame, ovvero quella di proteggere le persone fragili, ovvero coloro che si trovano in difficoltà nel gestire le attività della vita quotidiana e i propri interessi, o che addirittura si trovano nell'impossibilità di farlo[5]. Pertanto, in definitiva, confutare quell’orientamento per cui l’istituto si rivolgerebbe in primo luogo alla tutela degli interessi patrimoniali, come si evincerebbe, a torto, dalla sentenza della Cass. penale sez. 5, 19/10/2015, n. 7974, secondo cui l'amministratore, di regola, assiste il beneficiario nella gestione dei suoi interessi patrimoniali, e non si occuperebbe, in linea di principio, della "cura" della persona e della sua "incolumità", omettendo di rilevare che quella decisione venne formulata non in termini preclusivi della possibilità che la misura sia volta alla cura della persona, ma riferita alla commissione del reato di cui all'art. 591 c.p.
In chiave teleologica, in virtù dell’impostazione stessa del codice in tema di capacità d’agire, nonché in virtù dei valori costituzionalmente garantiti, primo tra tutti il c.d. principio personalistico, che connota il fine ultimo di tutto l’ordinamento giuridico, ovvero la protezione della persona umana e della sua dignità; in caso di patologie o limitazioni funzionali alle capacità di un soggetto, devono predisporsi supporti che consentano il concreto esercizio dei suoi diritti, nonché adeguate risposte ai bisogni personali.
In casi di infermità lievi o comunque di problematiche che non incidano globalmente sul processo volitivo del beneficiario, si ravvisava infatti la necessità di adottare strumenti meno stringenti dell’interdizione, che risultassero in linea con le risultanze derivanti dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con disabilità (CRPD) del 2006, ove ribaltata la concezione di disabilità dal campo medico a quello sociale, si afferma che il soggetto con difficoltà diventa pienamente abile, se il contesto sociale si adatti ad esso. Ovvero solo attraverso l’inserimento sociale il disabile può sopperire alle proprie incapacità, realizzando così la propria personalità in un progetto di sviluppo dei proprie abilità e delle proprie prerogative[6]. Da questo punto di vista, l’amministrazione di sostegno viene quindi a qualificarsi tra gli strumenti di protezione già previsti dal Codice Civile (interdizione e inabilitazione), come istituto giuridico flessibile, rispettoso delle caratteristiche di ciascuno, sicuramente meno invasivo e diretto alla salvaguardia delle capacità residue di autodeterminazione del soggetto in difficoltà e alla concreta protezione, nonché allo sviluppo della sua persona e della sua sfera volitiva.
Dal combinato disposto degli art. 404 e 409 c.c. emerge infatti che chiunque si trovi in uno stato di difficoltà tale che non riesca a far fronte alle esigenze delle propria vita (indipendentemente che ciò derivi per effetto di un’infermità o di una menomazione fisica e/o psichica), possa usufruire anche temporaneamente dell’ausilio di un amministratore di sostegno[7]. Nel caso di specie il rappresentante, non vuole sostituirsi al rappresentato, ma aggiungersi allo stesso integrando alle sue carenze o difficoltà; pertanto lo stesso decreto di nomina rappresenta un provvedimento ad hoc, volto a definire e qualificare le funzioni stesse dell’A.d.s. nei vari casi concreti, adattandosi come un “abito su misura” alle varie esigenze del beneficiario. Si può, dunque, ragionevolmente assumere che l’amministratore svolga una specifica funzione di assistenza personale, dovendo rappresentare ed aver cura della persona del beneficiario in tutti i rapporti del vivere quotidiano, provvedendo a compiere le azioni necessarie per la migliore gestione della sua persona e dei suoi beni, raffrontandosi in tutte le decisioni di straordinaria amministrazione al Giudice tutelare, sia con apposite istanze e relazioni, sia in sede di rendicontazione annuale ex art. 380 c.c.
Recentemente il Tribunale di Vercelli con provvedimento del 31 maggio 2018[8] ha infatti ricordato che, in ambito di trattamenti medici, la materia del consenso (o dissenso) informato agli accertamenti e ai trattamenti sanitari in favore di persone incapaci trova specifica disciplina nella legge 219/2017, e segnatamente all'art. 3; in particolare, per quanto qui rileva, i commi 4 e 5 della norma dispongono che "nel caso in cui sia stato nominato un amministratore di sostegno la cui nomina preveda l'assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, il consenso informato è espresso o rifiutato anche dall'amministratore di sostegno ovvero solo da quest'ultimo, tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere. Nel caso in cui […] l'amministratore di sostegno, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) di cui all'articolo 4, […] rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare su ricorso del rappresentante legale della persona interessata o dei soggetti di cui agli articoli 406 e seguenti del codice civile o del medico o del rappresentante legale della struttura sanitaria."
Il primo dei commi riportati riporta dunque in auge la bipartizione codicistica tra amministrazione cd. sostitutiva ed amministrazione cd. concorrente, di cui agli artt. 405, comma 5, nr. 3) e 4) e 409 c.c.: nel primo caso, pertanto, il consenso (o il dissenso) dovrà essere prestato dall'A.d.s. in nome e per conto del beneficiario-paziente; nella seconda evenienza, la relativa manifestazione di volontà dovrà provenire tanto dall'A.d.s., quanto dal beneficiario-paziente; il tutto, in ambo i casi, con la precisazione che le formalità di raccolta della dichiarazione di consenso (o dissenso) non potranno che essere quelle di cui all'art. 1, comma 4, della novella, idonee oltretutto a consentire ogni riscontro e controllo da parte del Giudice tutelare, laddove ciò si rivelasse necessario.
Il secondo dei commi riportati, dal canto suo, tratteggia lo specifico rimedio giurisdizionale per l'evenienza in cui (assenti le cd. DAT), nasca un "conflitto" tra A.d.s., beneficiario-paziente e sanitari in ordine alle scelte terapeutiche: la disposizione normativa, garantisce ai soggetti predetti, la legittimazione ad adire il Giudice tutelare proprio nel caso di un siffatto contrasto. Questa disposizione integra e specifica in detta materia il portato dell’art. 410 c.c., ampliando il novero di soggetti titolari del diritto ad adire al Giudice tutelare anche ai medici e sanitari, in vista del più alto bene giuridico oggetto di protezione, ovvero il benessere del Beneficiario.
Il Tribunale di Vercelli sul punto precisa, poi, che la norma citata parrebbe limitare il proprio campo di applicazione, e la conseguente possibilità di rivolgersi al Giudice, all’ipotesi di rifiuto (da parte del nuncius) delle cure proposte dal sanitario; tuttavia pare piuttosto evidente la "svista" del Legislatore nel non aver previsto un analogo meccanismo, al ricorrere dei casi di adesione del rappresentante alle cure proposte, per l'evenienza che il rappresentato-paziente, ossia proprio il soggetto della cui salute e della cui autodeterminazione si discute, intenda contestare la scelta terapeutica. Tale possibilità, in capo al beneficiario (ma, dovrebbe dirsi, in capo a qualsiasi persona incapace di agire, purché capace di discernimento), deve e può essere prevista in via pretoria, sulla scorta di un interpretazione costituzionalmente conforme della legge[9].
In definitiva, secondo questa interpretazione giurisprudenziale l’istituto in questione consente a qualunque avente diritto (beneficiario, parenti e operatori socio-sanitari), di disporre di uno strumento giuridico dotato di flessibilità ed efficacia per tutelare gli interessi della persona con diminuita autonomia, non soltanto quindi per tutelare gli aspetti patrimoniali, ma con specifica attenzione ai suoi bisogni e alle sue peculiarità, anche contingenti, nel più ampio rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo. La possibilità di allentare o stringere il vincolo tutelare rappresenta così una tutela garantistica di adattamento dell’ordinamento alla persona umana, che può riacquisire capacità, competenze e funzionalità, per le quali limitazioni eccessive alla sfera delle capacità-libertà, rappresenterebbero delle costrizioni che l’ordinamento non può imporre.[10] D’altro canto quando sono in gioco diritti inalienabili, il vincolo tutelare non può che rappresentare una salvaguardia e garanzia nel richiamo ai valori costituzionalmente garantiti, di cui lo stesso Giudice tutelare diviene arbitro.
2. La fonte del dovere di cura e di assistenza
L’impostazione italiana in tema di tutela e protezione dei diritti dei soggetti gravati da infermità ha rappresentato un modello in ambito europeo, sin a partire dall’ambizioso progetto della riforma Basaglia del 1978[11] in cui si è sancito definitivamente di sfaldare la concezione paternalistica e manicomiale della disabilità, in ottica di salvaguardia dei diritti dei soggetti deboli e dei portatori di handicap, in virtù del principio generale di tutela della dignità umana. Da questo punto di vista lo stesso concetto di disabilità risulta superato, in quanto non è possibile definire positivamente la capacità soggettiva, rappresentando una qualità personale differente per ogni persona, alla quale anche i soggetti con minorazioni accedono in forma differente[12]. Non esiste infatti un soggetto incapace, ma differenti modi di relazionalità per le quali si accede differentemente al campo dell’agire. L’attenzione si rivolge indubbiamente al malato di mente, che ha da sempre suscitato un certo allarme sociale: la sua socializzazione ha consentito la creazione di piani terapeutici mediante forme di attività sociale che stimolassero le capacità residuali del soggetto, nel pieno rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali.
L’introduzione nel 2004 dell’amministrazione di sostegno si inserisce pienamente in questo progetto di potenziamento delle capacità del disabile, segnando il passaggio da una limitazione complessiva della capacità giuridica ad una valorizzazione delle capacità residuali mediante il loro supporto e assistenza, perseguendo la tutela della persona a partire dalle “isole, più o meno vaste, relative agli atti che l'interessato non può compiere”[13] autonomamente. Si può giustamente ritenere che l’amministratore svolga prima di tutto una funzione socio relazionale, la quale è volta a garantire, ancora prima della tutela giuridica, la salvaguardia dell’integrità personale del beneficiario, promuovendone la piena realizzazione mediante l'instaurazione di un rapporto di confidenza e ascolto. La relazione con l’amministratore rappresenta, così, nell’amministrato un duplice punto di riferimento, prima di tutto relazionale, ma anche istituzionale.
Dal punto di vista relazionale la funzione principale dell’A.d.s. comprende la c.d. curatela, ovvero la collaborazione al progetto di vita dell'amministrato, in cui diviene fondamentale la sua adesione, in virtù di un rapporto fiduciario tra amministratore e amministrato. In tal guisa, la curatela deve intendersi come “interessamento continuo e costante”[14], cioè un'attenzione al benessere della persona ed una visione complessiva delle molte attività dell'amministrato. Ciò viene calato nella quotidianità del beneficiario e si estrinseca in un'organizzazione dei suoi vari aspetti, tra cui abitazione, assistenza sanitaria, tempo libero, relazioni sociali e religiose. Come afferma giustamente Latti, il fondamento del diritto alla progettualità della propria vita si incardina a partire all'art. 14 della L. 328/2000, la quale prevede il coordinamento tra i diversi interventi di inclusione negli ambiti socio-assistenziali, mediante la predisposizione di «progetti individuali della persona con disabilità fisica, psichica, e/o sensoriale, stabilizzata o progressiva»[15] in adesione ai bisogni, ai desideri e alle aspirazioni del beneficiario. A tal titolo l'amministratore collabora con tutti i soggetti che intervengono nella sfera relazionale e affettiva dell’amministrato, curandone l’adeguata situazione abitativa, il contesto lavorativo, il percorso di studi, la coltivazione dei rapporti socio-familiari, oltre che la salvaguardia medico sanitaria, surrogandosi ove necessario un potere di rappresentanza nei rapporti giuridico amministrativi, che tuttavia non deve sminuire la personalità e l’autodeterminazione dell’amministrato.
Dal punto di vista istituzionale, l’amministratore garantisce i rapporti con il Giudice tutelare e il Tribunale, per il quale svolge una funzione di delega operativa[16]. Il beneficiario si ritrova, così, inserito in una procedura volta alla tutela della sua persona, ove il vincolo tutelare rappresenta il carattere programmatico e prescrittivo del progetto di vita. L’autorizzazione del Giudice ne sancisce l’effettività e la vincolatività, che permettono all’amministratore un controllo costante, in virtù quasi di una funzione di pubblico ufficiale. L’obbligo di riferire costantemente al magistrato rappresenta infatti un dovere dell’amministratore, affinché la sua posizione possa essere sempre caratterizzata da una terzietà, che ne garantisce la non commistione con l’emotività personale dell’amministrato e l’obbiettività nella valutazione nelle scelte di vita del beneficiario.
3. L’analisi dei casi.
Nel tentativo di una maggiore contezza delle difficoltà derivanti dalla concretezza dei casi, nel corso del laboratorio gli studenti si sono cimentati nel confronto con le esperienze concrete di due soggetti sottoposti a vincolo di amministrazione di sostegno presso il Tribunale di Cuneo, che per facilità espositiva chiameremo Claudia e Nicola, dal cui racconto delle esperienze personali è emersa proprio la necessità della propria comprensione, che deve essere alla base delle attività di cura personale dell’amministratore.
Dalla storia di Claudia è emerso, infatti, come il supporto dell'amministratore sia stato indispensabile nella decisione di intraprendere un percorso di vita autonoma e soprattutto nella sua organizzazione materiale. L'amministratore, che la segue dal 2012, ha dovuto affrontare un iniziale contrasto tra l'amministrata e lo psichiatra in merito alla decisione di una soluzione abitativa alternativa alla casa familiare, ove Ella prima risiedeva in una difficile situazione di degrado socio-relazionale. Il cambiamento di abitazione, da sempre poco accettato dall’amministrata ha rappresentato, tuttavia, il punto di partenza per ridefinire il progetto di vita autonoma di Claudia, che inizialmente attraverso la predisposizione di un programma assistenziale e la prescrizione di costanti controlli medico-sanitari, ha acquistato maggiore consapevolezza della propria condizione personale. Il precedente rapporto quasi morboso di dipendenza con gli anziani genitori, si è allentato permettendo una distensione nei rapporti anche con il fratello, di cui in passato vi erano stati forti conflitti.
La scelta, sicuramente difficile, di allontanarla dal contesto familiare, per collocarla in un appartamento di gruppo, a circa 10 chilometri dal contesto familiare, in una struttura semi protetta con spazi condivisi da altri soggetti, anch’essi portatori di disabilità, ha rappresentato un punto cruciale per ridefinire gli obbiettivi di vita di Claudia, mediando tra le esigenze di cura indicate dallo psichiatra e le sue stesse aspirazioni. La decisione si è intrapresa, operando mediante un delicato bilanciamento dei diritti: limitare parzialmente il piano della libertà personale in favore dell’integrità della persona, basata sulla sua salute (art. 32 cost.) e sulla sua dignità personale (art.3).
La condivisione del progetto di vita, tra l’amministratore, lo psichiatra e i servizi sociali, hanno permesso la creazione di una rete di servizi direttamente accessibili dal beneficiario, quali l’accompagnamento sul posto di lavoro al mattino, il servizio di mensa presso la casa di riposo ove era ricoverata l’anziana madre, la costante sottoposizione a visite mediche, nonché gli incontri quasi settimanali con l’A.d.s., che sono diventati luogo di confronto e di valutazione dello stile di vita. Da questo caso si evince quindi come “la relazione tra beneficiario e amministratore non sia costruita in termini di soggezione del primo nei confronti del secondo”[17], ma anzi, non limitandosi all'ambito prettamente giuridico-patrimoniale, sia funzionale alla promozione delle inclinazioni personali dell'amministrato. In tutto ciò si denota anche la sua funzione di interlocutore in situazioni relazionali complesse, a partire dall'ambito medico-amministrativo per arrivare a quello familiare.
Sempre dal racconto di Claudia è emerso anche un ruolo atipico dell’amministratore, il quale pare aver operato quasi da mediatore nel conflitto tra la stessa e il fratello. La forte divergenza che si era venuta a creare negli anni, anche a seguito delle forti spese che l’amministrata aveva fatto con parte del patrimonio familiare, ne aveva denotato un rapporto conflittuale che aveva alimentato nella donna paure e timori. A seguito della morte degli anziani genitori le problematiche relazionali si riproponevano in modo molto sentito per la divisione e successione ereditaria. Anche in questo caso l’amministratore attraverso un’attività di ascolto delle parti e la sottoposizione al Giudice tutelare di una serie di proposte di divisione, riusciva a scongiurare la trasposizione della conflittualità in sede giudiziale e a far conciliare le pretese ereditarie con un accordo che tenesse conto dei contrasti passati, ma che soprattutto andasse a ripartire in modo equo il patrimonio familiare. Anche in questo caso il rimando di ogni decisione finale all’autorizzazione del Giudice tutelare ha rappresentato un punto di forza nell’adesione alla transazione: il rimando finale delle scelte concordate dalle parti al Giudice tutelare permetteva che queste acquistassero la forza e la vincolatività derivante dall’istituzione adita. Nella trattazione è dunque emersa chiaramente la duplice funzione dell’amministratore prima delineata: la tutela della sfera socio-relazionale, mediante un’assistenza personale incentrata sull’ascolto e la comprensione, volta alla tutela dell’integrità psico-sociale della persona, e una tutela giuridica patrimoniale derivante dalle gestione diretta dell’amministratore delle disponibilità e dalla valutazione delle scelte patrimoniali dal competente Giudice tutelare.
Un’altra importante riflessione è derivata dall’esame del caso di Nicola, il quale a seguito della morte dei genitori ha iniziato a soffrire di depressione, successivamente sfociata in episodi di schizofrenia. Dopo essere stato in cura dal competente distretto di psichiatria si è aperta per Lui un’amministrazione di sostegno dal competente Tribunale. Con la predisposizione di un progetto lavorativo, attraverso la compartecipazione del distretto sanitario e del comune di residenza, Nicola è stato inserito attivamente nel contesto socio-lavorativo della comunità comunale. Il progetto è proseguito per tre anni, finché a un certo punto il Beneficiario non si è più recato al lavoro accusando problematiche di salute. L’improvvisa scelta di interrompere il progetto lavorativo che gli garantiva un piccolo, ma importante guadagno è risultato un motivo di preoccupazione per lo stesso amministratore, il quale a seguito di una serie di incontri è riuscito a comprendere come col tempo la mansione di operatore ecologico affidata dal Comune aveva causato nell’amministrato una fonte di malessere e di scarsa autorappresentazione di sé. Nell’occorso Nicola riteneva più dignitoso vivere senza il sussidio derivante dall’attività lavorativa, con meno disponibilità economica, ma senza dover effettuare delle mansioni che riteneva noiose e degradanti. Di tutt’altro punto di vista era l’amministratore che riteneva molto utile per le esigenze di bilancio annuale quel piccolo guadagno derivante dall’attività lavorativa e motivo di costante socializzazione.
Anche in questo caso l’amministratore di sostegno riferendo tempestivamente al Giudice la decisione intrapresa da Nicola, si proponeva a valutare, compatibilmente alle possibilità, un cambio delle mansioni lavorative, o eventualmente un altro ambiente di lavoro, qualora l’amministrato avesse prestato il consenso. Infatti sebbene l’A.d.s. non approvava la scelta di interrompere l’attività lavorativa non aveva nessuna facoltà di imporre alcuna decisione, ciò in quanto rientrava nelle prerogative stesse dell’amministrato. L'art. 410 secondo comma. 2, recita infatti che l'amministratore debba sempre informare il Giudice tutelare in caso di dissenso dell'amministrato e in questi casi il magistrato tutelare, valutatati i motivi del contrasto tra la volontà dell’amministratore e quella del amministrato, con decreto motivato adotterà i provvedimenti opportuni, anche previo ascolto di entrambi.
Anche in questo caso veniva così superata la problematica della divergenza di prospettive, con l’ascolto e la comprensione della situazione di Nicola, permettendogli una periodo di astensione da qualsiasi attività e garantendo comunque all’uomo la stessa disponibilità economica mensile, oltre a ricercare un nuovo progetto assistenziale con un inserimento lavorativo al di fuori del Paese di residenza, ove l’amministrato si sentiva comunque giudicato. In tal caso, il bilanciamento dei diritti è stato attuato in senso contrario a quello precedentemente esaminato, ovvero favorire l’aspetto della libertà individuale, permettendo l’interruzione del rapporto lavorativo anche se ciò strideva con le esigenze del bilancio e di tutela patrimoniale. Nel caso di specie, la volontà di Nicola di interrompere l’attività lavorativa assumeva la propria validità giuridica in base al principio di autodeterminazione, per cui le prospettive dell’amministratore non potevano assumere carattere costrittivo, poiché la sua attività di rappresentanza e assistenza ben possono trovare un espresso limite nel dissenso del beneficiario[18], il quale può essere superato solo attraverso il necessario rimando al Giudice, il quale deve intraprendere decisioni incentrate sui diritti fondamentali e sulle concrete esigenze del soggetto.
4. La questione della valutazione dell’autodeterminazione.
L’introduzione nel sistema civilistico dell’amministrazione di sostegno nell’ambito degli strumenti di tutela del soggetto con limitazioni alla capacità giuridica ha, dunque, segnato la fine della dicotomia e del dualismo tra capacità e incapacità legale, categorie concettuali sedimentate all’interno della tradizione gius-positivistica, che trasforma la persona concreta in soggettività giuridica. Da questa consolidata e rigida categorizzazione è tradizionalmente discesa la difficoltà di classificare entro schemi consolidati la misura protettiva dell’A.d.S, essendo assai diffuso un modo di ragionare alla don Ferrante: il personaggio manzoniano, marito di Donna Prassede, umbratile letterato abituato a classificare i fatti della vita entro categorie concettuali rigide. Don Ferrante resta a tal punto imprigionato dal suo sclerotizzato modo di ragionare dal negare fino all'ultimo l'esistenza della peste che flagellava Milano, tanto che, come argutamente scrive Manzoni, egli non adottò alcuna precauzione, prese la peste che lo condusse a letto a morire, “come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle”[19] .
Da questo punto di vista se la tutela vuol essere effettiva, non bisogna sicuramente ragionare per categorizzazioni, intravedendo l’amministrazione di sostegno come uno strumento di assistenza verso tutti coloro, che indipendentemente dalla tipologia delle limitazioni alla propria capacità, si trovano in una situazione di difficoltà tale da compromettere la propria auto-determinazione[20]. La giurisprudenza di legittimità e le istituzioni si muovono dunque all'unisono con la nuova concezione di disabilità, proposta dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, che sottolinea le potenzialità di questi soggetti, non considerandoli più come vittime di uno “stato naturale insuperabile che ostacola l'esercizio dei loro diritti”[21], ma bensì soggetti da integrare nel tessuto sociale al fine di potenziare le loro capacità. Questo cambiamento di approccio ha, dunque, permesso il passaggio da una mera visione di assistenza sanitaria a politiche inclusive, che presuppongono di rivolgersi alle persone disabili come destinatari consapevoli e sempre titolari del diritto all'autodeterminazione.
Quanto detto trova un rafforzamento nell'articolo 12 c. 3 della CRPD nel quale è previsto che gli Stati assumano “appropriate misure”, volte a garantire il sostegno alle persone con disabilità nell'esercizio della propria capacità legale. Inoltre, al quinto comma, si prevedono misure efficaci poste in ausilio alle persone con “fragilità” nel controllo delle proprie finanze. Quindi, alla luce della Convenzione, trova conferma questa “presunzione relativa di capacità di intendere e di volere”[22], in attuazione del “rispetto della dignità intrinseca, dell'autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte, e dell'indipendenza delle persone” (ex art. 3). Pertanto, quando siamo in presenza di soggetti deboli in cui vi sia il rischio di imporre arbitrariamente delle scelte o degli stili di vita, occorre sempre ragionare in tema di bilanciamento dei diritti, considerando quale fine ultimo la tutela della persona senza compromettere la sua sfera di auto-determinazione, mantenendo impregiudicati quegli ambiti di libertà caratterizzati da autonoma capacità, dall’intromissione di soggetti terzi.
La ricostruzione delle principali fonti interne, sovranazionali ed internazionali, che hanno introdotto nell'ordinamento il principio di autodeterminazione terapeutica, mette infatti in luce una «copiosa produzione, che disvela l'attenzione sempre più avvertita alla tutela della persona tout court ed al rispetto della sua volontà». Il principio della volontarietà del trattamento sanitario è correlato al valore della dignità che, «riferito sia al soggetto capace, sia all'incapace, si esprime nell'autodeterminazione»[23]. Punto di partenza non possono che essere gli artt. 32, 2 e 13 cost., rafforzati dagli artt. 2, 3 e 35 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Opportuno risulta anche il richiamo alla convenzione di Oviedo, il cui art. 9 è ripreso dall'art. 38 del codice di deontologia medica del 2006, pure di particolare rilevanza nel rapporto tra paziente e medico, di cui in via analogica possiamo estendere all’amministrazione di sostegno. La Cassazione si riferisce, inoltre, alle disposizioni della convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006 (spec. artt. 3, 17 e 12) che sottolineano la necessità di rispettare la dignità, l'autonomia e l'integrità fisica e psichica delle persone disabili, anche attraverso il sostegno dello Stato nell'esercizio della loro legal capacity in tutti gli aspetti dell'esistenza. Altre fonti, non vincolanti, ma senz'altro autorevoli nel supportare l'interpretazione proposta, sono la risoluzione del Parlamento europeo del 18 dicembre 2008 recante raccomandazioni alla Commissione sulla protezione giuridica degli adulti (2008/2123 -INI), ed il parere del Comitato nazionale per la bioetica del 18 dicembre 2003, sulle «Dichiarazioni anticipate di trattamento ». Vanno aggiunti i documenti con cui il Consiglio d'Europa si è espresso in generale sul tema della protezione giuridica degli adulti e, più in particolare, a favore della regolamentazione normativa e della promozione negli Stati membri degli istituti delle disposizioni anticipate (advanced directives/living will) e del «mandato» in previsione della propria futura incapacità (continuing powers of attorney).
Da questo orientamento consolidato si può dunque ritenere che in tutte le situazioni in cui, valutate le capacità potenziali del soggetto, ovvero l’effettiva capacità di porre in essere azioni valide, che siano in grado di dispiegarsi nel tessuto sociale senza arrecare pregiudizi a chi le compie, il soggetto terzo che si surroga nella sfera personale del c.d. soggetto debole non deve imporre costrizioni, che risulterebbero di per sé limitazioni alla sfera delle libertà del beneficiario. L’amministrazione di sostegno si tratta infatti di un’assistenza al beneficiario disposta in ragione di una sua limitazione parziale, funzionale alla difesa dell’auto-determinazione della persona[24], non di una sostituzione del soggetto che deve intraprendere una scelta sulla propria sistenza. Non si tratterebbe di una rinuncia alla capacità, come sostiene parte della dottrina, in quanto alla luce della nuova lettura dell'istituto, esso si pone come strumento di adattamento della società alla persona “disabile” e non viceversa. Sarebbe infatti stato illegittimo e contrario al fine della L. 6/2004, che il legislatore avesse definito aprioristicamente le caratteristiche, rectius, menomazioni dei soggetti che legittimati ad accedere all'istituto, evitando così che “l'amministrazione di sostegno si potesse trasformare in un ulteriore strumento di omologazione della diversità”[25].
Pertanto, l’amministrazione non è riducibile solamente ad uno strumento giuridico di rappresentanza e/o di amministrazione patrimoniale, in quanto come evinto dai casi esaminati, l’amministratore svolge un importantissimo ruolo extra-giuridico, quello di supporto alla persona in difficoltà, che si estrinseca in un rapporto fiduciario con il beneficiario, in cui l’ascolto e la cura della persona diventano strumento principale, affinché il soggetto possa superare le proprie limitazioni in un percorso che partendo dall'inserimento relazionale, passando per l'integrazione, arriva all'inclusione sociale, in una funzionale intesa che possa permettere di sfaldare la concezione di disabilità, come incapacità, per approdare ad un concetto di libera capacità, ove ciascun soggetto può esprimere la propria personalità nei modi e nelle forme che gli permettono di sentirsi maggiormente persona, con la inderogabile garanzia della tutela dei propri diritti.
Note e riferimenti bibliografici
[1] L.6/2004 - Introduzione nel libro primo, titolo XII, del codice civile del capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388, 414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 del codice civile in materia di interdizione e di inabilitazione, nonché relative norme di attuazione, di coordinamento e finali" in G.U. n. 14 del 19/01/2004.
[2] Cfr. art. 1, L. n. 6/2004.
[3] Cassazione civile sez. VI, 26/07/2018, n.19866.
[4] Il presente studio è stato svolto nel laboratorio delle cliniche legali sulla disabilità presso l’Università degli Studi di Torino a.a. 2016-2017 dal gruppo di lavoro composto da Irene Formento, Ambra dalle Molle, Francesca Bichiri, Tutor Avv. Andrea Racca.
[5] Cassazione civile n. 22602 del 2017.
[6] La Convenzione sui diritti delle persone con disabilità è stata adottata il 13 dicembre 2006 durante la sessantunesima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione A/RES/61/106. Il suo fine è quello di promuovere la tutela dei diritti fondamentali per tutti i soggetti con disabilità, nella consapevolezza che, nonostante l’impegno sociale, le persone con disabilità continuano a incontrare barriere nella loro partecipazione come membri eguali della società e violazioni dei loro diritti umani in ogni parte del mondo (Cit. Preambolo).
[7] L’amministratore di sostegno viene nominato con un decreto di nomina dal competente Giudice Tutelare che per individuarlo compie una discernita prima nell’ambito della famiglia e qualora ciò non sia possibile effettua la scelta nell’ambito dei professionisti che ne hanno dato la disponibilità, in ogni caso considerando la volontà dell’interessato. Inoltre, con apposito atto pubblico, o scrittura privata autenticata, ogni cittadino ha la possibilità di individuare in anticipo la persona di cui vorrebbe essere amministrato nell’eventualità di un’impossibilità, anche temporanea, a svolgere le funzioni proprie della vita quotidiana.
[8] cfr. Ilfamiliarista.it 28 SETTEMBRE 2018, nota di Masoni Roberto.
[9] Allo stesso modo il Giudice Tutelare del Tribunale di Pavia (dott.ssa Fenici – RG. 933/2008) con l'ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale del 24.3.2018, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 commi 4 e 5 della legge 219/2017 nella parte in cui stabiliscono che l’amministratore di sostegno, la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento, possa rifiutare, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato, ritenendo le suddette disposizioni in violazione degli articoli 2, 3, 13, 32 della Costituzione.
[10] Anche per le persone nei cui confronti vi è già stata sentenza di interdizione o inabilitazione è possibile promuovere procedimento per ottenere la revoca del vincolo tutelare maggiormente restrittivo e richiedere la nomina di un amministratore di sostegno.
[11] La legge Basaglia, del 13 maggio 1978 n. 180, è da tutti riconosciuta come la legge che ha chiuso i manicomi, mentre essa si occupa più specificatamente dello svolgimento Trattamenti Sanitari obbligatori e volontari. Essa assume un significato molto più esteso nella storia della legislazione in materia di disabilità, in quanto primo tentativo legislativo di deistituzionalizzazione della presa in carico dei pazienti psichiatrici, o dei disabili più in generale, mettendo al centro dell’attenzione la cura del soggetto e non solamente la sua repressione.
[12] M. NUSSBAUM, Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone, Il Mulino, Bologna 2002.
[13] F. GILDA, L.LENTI (a Cura di), Soggetti deboli e misure di protezione: amministrazione di sostegno e interdizione, Giappichelli, Torino 2006, cit., pag. 17.
[14] M. F. COCUCCIO, L'amministrazione di sostegno come strumento prioritario di protezione e “progetto di sostegno” della persona con disabilità, in Il Diritto di famiglia e delle persone, 2010, fasc. 3, pt. 1, cit., pag 553.
[15] G. LATTI, I diritti esigibili. Giuda normativa all’integrazione sociale delle persone con disabilità, Angeli Edizioni, Milano 2010, cit., pag. 57.
[16] L'A.d.s., infatti, nell'amministrare il patrimonio del beneficiario, caso tipico e più rilevante dell'istituto, ha l'obbligo di adempiere con la diligenza del bonus pater familias, sottolineando che si tratta di una diligenza qualificata, in virtù dei poteri conferiti direttamente dal Giudice tutelare. Come specificato dalla legge l'amministratore può essere sia una persona legata da legami di parentela (o stabile convivente) che un professionista, tuttavia nel secondo caso la diligenza dovrà essere conformata alla natura dell'attività dallo stesso espletata, configurandosi quindi una responsabilità aggravata per il professionista. Tale interpretazione viene ricavata dal combinato disposto degli articoli 1176 e 382 c.c., il primo relativo alla diligenza nell'adempimento e il secondo alla responsabilità del tutore nella gestione del patrimonio. Vd. L. GASSO, Note critiche in tema di amministrazione di sostegno, in Giurisprudenza italiana, 2009, fasc. 11. pp. 2432 – 2436. E B. DI GIOVANNI, T. FERRUCCIO, Dell'amministrazione di sostegno, Milano, Giuffrè, 2008, pp. 387- 388. Collana Il codice civile. Commentario.
[17] F. GILDA, L. LENTI, (a Cura di), Soggetti deboli e misure di protezione: amministrazione di sostegno ed interdizione, Torino, Giappichelli, 2006, cit., p.32.
[18] D. GIANNONE, Dieci anni di amministrazione di sostegno: poteri del giudice tutelare, rilevanza del consenso e del dissenso del destinataria di provvedimenti di protezione, in Famiglia e Diritto, 2012, fasc. 6, pp. 637-644.
[19] R. MASONI, L’amministrazione di Sostegno a Modena dopo Guido Stanzani, in Diritto di famiglia e delle Persone, fasc. 2, 2015 cit. 791.
[20] La Corte di Cassazione con Sent. 23707 del 20.12.2012 ha infatti escluso l'accesso all'amministrazione di sostegno a soggetti che, al momento della domanda, non presentino una menomazione della capacità o una patologia tale da impedirgli di provvedere ai propri interessi autonomamente.
[21] V. BONGIOVANNI, La tutela dei disabili tra carta di Nizza e Convenzione delle Nazioni Unite, in Famiglia e Diritto, 2011.
[22] Ibidem.
[23] Il percorso giurisprudenziale che ha portato al consolidarsi di tali princìpi trova il suo culmine nelle pronunce richiamate dalla Cassazione, 16 ottobre 2007, n. 21748, anche in Foro it., 2007, I, c. 3025 ss., con nota di Casaburi; nonché nell'orientamento della Corte Cost. consolidato almeno a partire da Corte cost., 26 giugno 2002, n. 282, in Giur. cost., 2002, p. 2012, che ha portato alla sentenza del 23 dicembre 2008, n. 438, in Giur. cost., 2008, p. 4970 ss. L'interpretazione data dalla giurisprudenza interna ai princìpi costituzionali è conforme alle indicazioni della Corte europea diritti dell’uomo sul diritto al rispetto della vita privata e sul diritto alla vita. Vd. il caso Pretty richiamato dalla Cassazione (29.4.2002, ric. 2346/02). Per gli ulteriori sviluppi: Council of Europe-European Court of Human Rights, Research Division, Research Report on Bioethics and the case-law of the Court, Strasbourg, 2012, in www.echr.coe.int. Sul rapporto tra dignità, integrità della persona e consenso al trattamento medico nella Carta dei diritti dell'Ue, per tutti: Rodotà, Dal soggetto alla persona, Napoli, 2007. E Zatti, Il corpo e la nebulosa dell'appartenenza, in Nuova giur. civ. comm., 2007, II, p. 1 ss.; sul legame tra riferimenti costituzionali ed obblighi internazionali: Marini, Il consenso, in Ambito e fonti del biodiritto, a cura di Rodotà e Tallacchini, in Trattato di biodiritto, diretto da Rodotà e Zatti, Milano, 2010, p. 361 ss.
[24] G. LISELLA, Questioni tendenzialmente definite e questioni ancora aperte in tema di amministrazione di sostegno, in La Nuova Giurisprudenza Civile, 2013.
[25] F. GILDA, L.LENTI (a Cura di), Soggetti deboli e misure di protezione: amministrazione di sostegno e interdizione, Giappichelli, Torino 2006, cit., p. 113.