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Pubbl. Gio, 17 Gen 2019
Sottoposto a PEER REVIEW

Le molteplici possibili definizioni di terrorismo e terrorismo internazionale (Parte Seconda)

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Lorenzo Mariani


L´elaborazione di una definizione univoca di terrorismo, da parte di giurisprudenza, dottrina e legislazioni tanto domestiche quanto internazionali, incontra non pochi problemi e incertezze: ne derivano formulazioni con molti elementi in comune ma divergenti su alcuni punti importanti.


Questo articolo continua l'approfondimento iniziato con la Prima Parte.

Sommario: 1. Il fenomeno dei foreign fighters e le strategie adottate da Comunità Internazionale e singoli Stati per contrastarlo - 2. Ulteriori esempi da trattati internazionali e regionali, nonché da fonti di diritto comunitario, giurisprudenza di Tribunali Internazionali e opinioni di dottrina. La controversa distinzione tra uso legittimo della forza e violenza terrorista – 3. L’importanza della ricerca di una definizione univoca – 4. Gli elementi che compongono il concetto di terrorismo e i problemi relativi alla loro determinazione. Le riflessioni della dottrina e le conseguenti definizioni di terrorismo da essa proposte – 5. Conclusioni.

1. Il fenomeno dei foreign fighters e le strategie adottate da Comunità Internazionale e singoli Stati per contrastarlo.

Il caso Fathima, analizzato al termine del precedente articolo[1], ha avuto importanza dal punto di vista giuridico e mediatico poiché ha riguardato la prima donna foreign fighter nel nostro Paese. I foreign fighters sono definiti dall’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani (UNHCHR) come individui che lasciano il proprio Paese di origine o di residenza abituale, per motivi ideologici o religiosi, e partecipano alle ostilità nell’ambito di insurrezioni o nelle fila della parte non statale di un conflitto armato.[2] La loro particolarità sta proprio nella loro natura dinamica: essi compiono azioni terroristiche non solo nelle nazioni in cui si sono recati per addestrarsi, ma anche nei loro Paesi di origine e in altre nazioni occidentali. Come stimato dall’International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence (ICSR) nel 2015 il numero complessivo di combattenti partiti per l’Iraq e la Siria è di oltre 20.000 unità di cui almeno 5.000 provenienti dall’Europa Occidentale[3]. L’impiego dei foreign fighters da parte dello Stato Islamico si inserisce nell’ottica del suo obiettivo politico di proclamarsi “Patria dell’Islam” conquistando nuovi territori e richiamando combattenti di origine islamica residenti (e talvolta cittadini) in Occidente, spesso mossi ad aderire anche da un senso (e in alcuni casi, una reale condizione) di emarginazione sociale, umiliazione o sfruttamento. Questa strategia è un elemento che differenzia lo Stato Islamico dal precedente “modello” di Al-Qaida, basato solo su singoli casi di violenza compiuta da cellule distaccate.[4] 

La preoccupante crescita di questo fenomeno ha spinto le Nazioni Unite ad adottare due Risoluzioni: la 2170, e la 2178. La prima condanna il reclutamento di combattenti da parte del fronte Al-Nusra, l’ISIS e altre organizzazoni affiliate ad Al-Qaida[5]; la seconda introduce l’inedita definizione di foreign fighter: “Individuals who travel to a State other than their States of residence or nationality for the purpose of perpetration, planning, preparation of, or participation in, terrorist acts or the providing or receiving of terrorist training, including in connection with an armed conflict.[6]

Dall’analisi delle espressioni usate nella Risoluzione, possiamo ricavare le seguenti caratteristiche della definizione di foreign fighter: la provenienza straniera (foreign) del combattente; la sua appartenenza ad un gruppo terroristico; la sua partecipazione a un armed conflict (come abbiamo visto, di tipo non internazionale).

Questa definizione suscita alcuni dubbi interpretativi[7], in primis riguardo al concetto di “straniero”, visto che la Risoluzione fa riferimento a chi si sposta dal proprio Stato di residenza o nazionalità verso uno Stato differente. Dando un’interpretazione ampia, si ritiene riconducibile al concetto di foreign fighter anche lo straniero che dal suo Paese di residenza (ma non di nazionalità), ad esempio l’Italia, si rechi nel suo Paese di nazionalità, ad esempio la Siria.  In secondo luogo, complicata è la definizione di foreign fighter in relazione alla sua natura di “terrorista”: tutta l’attività del combattente, dal viaggio di addestramento alla pianificazione, debba essere orientata al perseguimento di un fine criminoso di stampo terrorista. A tal riguardo la dottrina non ha mancato di far presente che sarebbe stato conveniente elaborare una definizione univoca di terrorista. Casiello ritiene la si possa ricavare attualizzando il report di Scheinin per la promozione e la protezione dei diritti umani del 2010. Pertanto il terrorista avrebbe “il precipuo fine di compiere, o comunque di preparare, tramite addestramento, un’azione di matrice terroristica, eziologicamente orientata dall’intento di seminare il terrore a livello globale e/o di spingere il governo di uno Stato o un’organizzazione internazionale a fare o ad astenersi dal fare qualcosa.”[8]

Il foreign fighter si distinguerebbe dal mercenario perché le sue motivazioni non sono finanziarie o materiali.[9]

Al fine di adeguarsi a questa risoluzione, il legislatore italiano ha preso iniziative volte a neutralizzare il progetto politico dello Stato Islamico, criminalizzando una serie di condotte come i viaggi verso i luoghi di guerra e l’autoaddestramento su Internet. novellato l’articolo 270 quinquies con il D.L. 18 febbraio 2015, n. 7, convertito con modifiche dalla L. 17 aprile 2015, n. 4351, rendendo punibile anche “l’auto-addestramento, cioè la condotta di chi si prepara al compimento di atti di terrorismo, attraverso una ricerca e un apprendimento individuali e autonomi delle “tecniche” necessarie a perpetrare simili atti. […] In tal modo viene estesa l’area della punibilità anche ai terroristi che operano sganciati da sodalizi e da organizzazioni (cosiddetto lupo solitario)”[10]

L’articolo 1, comma 1 del decreto legge punisce il nuovo comportamento criminoso di arruolamento in un’associazione terrorista, condotta che prima non era considerata riprovevole, al contrario del ruolo dell’arruolante. Il legislatore ha così modificato lo status dell’arruolato, da soggetto passivo ad attore del reato perché non si sottrae a un’azione altrui: se solo lo avesse voluto avrebbe potuto evitare di condividere la condotta vietata. Alcuna dottrina (De Minico)[11] ha fatto notare che manca la definizione di chi sia l’arruolato e del momento di tempo a partire dal quale una persona possa essere considerata tale, difettando così quella chiarezza, precisione e determinazione richiesta già da tempo dalla Corte al legislatore a garanzia della consapevolezza della condotta del reo. Il destinatario del precetto penale deve avere la possibilità di scegliere in anticipo e consapevolmente se disobbedire od osservare la regola di comportamento. Questa scelta viene negata all’arruolato.

Il comma 2 dell’articolo 1 integra il nostro codice penale con l’articolo 270 quater-1 punendo con la reclusione dai cinque agli otto anni chiunque “organizza, finanzia o propaganda viaggi in territorio estero finalizzati al compimento delle condotte con finalità di terrorismo di cui all'articolo 270 sexies”. Anche in questo caso, la dottrina ha segnalato che la norma omette di tipizzare il comportamento.

Contestualmente, il legislatore ha inserito un articolo 2 bis alla legge 895/1967, il quale stabilisce che: “Chiunque fuori dei casi consentiti da disposizioni di legge o di regolamento addestra taluno o fornisce istruzioni in qualsiasi forma, anche anonima, o per via telematica sulla preparazione o sull’uso di materiali esplosivi, di armi da guerra, di aggressivi chimici o di sostanze batteriologiche nocive o pericolose e di altri congegni micidiali è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la reclusione da uno a sei anni”. Per questa fattispecie è sufficiente il dolo generico, mentre per quella delineata dall’articolo 270 quinquies dottrina e giurisprudenza ritengono sia necessario un doppio dolo specifico, dato dalla volontà di compiere atti di violenza o di sabotaggio di servizi pubblici essenziali e dalla finalità di terrorismo, indicata dall’articolo 270 sexies.

Nell’ambito di alcuni ordinamenti stranieri certa dottrina si è chiesta[12] se l’addestramento necessiti di una componente di risultato, cioè se l’addestrato debba avere un dominio effettivo sulla tecnica trasmessa. Tale dottrina ha svolto un'analisi comparata rilevando che in Germania una corrente dottrinale minoritaria ha individuato la necessità di questo requisito. La dottrina Austriaca, al contrario, tenendo conto dell’opinione maggioritaria tedesca, la esclude. Si configurerebbe quindi un reato di mera condotta, per il quale non è necessaria la realizzazione di un determinato risultato.Per quanto riguarda la giurisprudenza italiana, invece, con la pronuncia n. 26970 del 20/07/2011 la sez. VI Penale della Suprema Corte di Cassazione rinviene la necessaria presenza, oltre che del doppio dolo già menzionato, della oggettiva idoneità della condotta a realizzare l’evento costituente l’obiettivo.     

Anche rispetto alla fattispecie dell’autoaddestramento, prevista dal comma 3 dell’articolo 1 la già citata De Minico ha mosso rilievi critici: essendo l’autoaddestramento reato di pericolo, con una condotta che presenta una scarsa materialità rispetto ai reati di danno, considerare offensivi addirittura gli atti diretti a una condotta di pericolo significa far arretrare l’antigiuridicità fino a ricomprendervi gli atti preparatori all’autoaddestramento stesso, di regola considerati penalmente irrilevanti. In questo modo viene punito il pericolo del pericolo, rendendo evanescente il confine tra la materialità della condotta e proposito criminoso, arrivando così a punire la sola intenzione priva di fattualità estrinseca. Secondo la dottrina in parola, la disposizione potrebbe persino non superare l’eventuale vaglio della Corte Costituzionale. All’articolo 2 comma 1 il decreto prevede come aggravante speciale la circostanza che il reato sia commesso con l’uso di strumenti informatici o telematici, non prevedendo la necessità di un accertamento in concreto se l’effettivo aumento della pericolosità sia dipeso o meno dall’uso dell’internet, quasi che il legislatore abbia considerato disvalore sociale il semplice uso di tale mezzo. [13] Ciò deriverebbe dalla volontà di arretrare la soglia di rilevanza penale delle condotte criminose “sino a ricomprendere comportamenti remoti, da un punto di vista strumentale, rispetto alla realizzazione di attività definibili di stampo terroristico.”[14]

In Australia[15], l’emergente figura del foreign fighter ha spinto il legislatore ad approvare il Counter-Terrorism Legislation Amendment (Foreign Fighters) Act del 2014, il quale ha come scopo il perseguimento in patria di attività compiute all’estero, in particolare failed states e territori privi di giurisdizione. Questa legislazione ha modificato 22 precedenti atti, tra cui il Criminal Code Act del 1995, inserendo la nuova divisione 119 che elimina il requisito di provare che un particolare paese straniero sia il “target destination[16] di un aspirante terrorista, così da consentire la punibilità di condotte compiute in territori senza giurisdizione e failed states. Sono inoltre introdotte due misure:

“(1)(a) a person commits an offence if the person enters a foreign country with the intention of engaging in hostile activity in that or any other foreign country.”

“(2)(a) a person commits an offence if the person engages in hostile activity in a foreign country.”

2. Ulteriori esempi da trattati internazionali e regionali, nonché da fonti di diritto comunitario, giurisprudenza di Tribunali Internazionali e opinioni di dottrina.  La controversa distinzione tra uso legittimo della forza e violenza terrorista.

Nel precedente articolo si è fatta menzione della Decisone quadro 2002/475/GAI. [17]
Essa rappresenta il fondamento delle politiche anti-terrorismo dell’Unione Europea.[18] Infatti, oltre a fornire una definizione di terrorismo, indica anche una serie di reati terroristici e le condotte di direzione e partecipazione ad associazioni terroristiche, nonché un elenco di reati “connessi” ad attività terroristiche, cioè compiuti allo scopo di favorire la commissione di un reato di natura terroristica. La Decisone quadro, facendo riferimento all’Azione comune adottata il 21 dicembre 1998, riguardante la partecipazione a un’organizzazione criminale, definisce gruppo terroristico “un’organizzazione strutturata di più di due persone, stabilita da tempo, che agisce in modo concertato allo scopo di commettere atti terroristici”[19]. Per “organizzazione strutturata” si intende una associazione che non è stata istituita appositamente al fine di commettere un preciso atto criminoso e che non contempla necessariamente la previsione di un ordinamento gerarchico interno con membri a cui siano stati conferiti compiti specifici, né necessita di un apparato strutturale complesso o la continuità nella composizione. L’elasticità di questa definizione risulta evidente se si osserva il carattere variegato delle organizzazioni considerate terroriste nell’elencazione compilata dal Consiglio e dagli organi di polizia operanti in Europa.  Alcune, tra le suddette liste, sono rese note e hanno lo scopo di favorire le procedure di confisca o blocco dei beni delle associazioni indicate; altre, come quelle stilate dall’Europol, vengono tenute segrete e hanno lo scopo di coordinare la raccolta di informazioni e fornire un parametro di giustificazione per l’utilizzo di tecniche speciali d’indagine. [20]

Per quanto riguarda il contenuto delle attività terroristiche, la Decisione-quadro elenca una serie di fattispecie già presenti e sanzionate dal diritto penale interno. Infatti, l’articolo 1 recita[21]:

“1. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché siano considerati reati terroristici gli atti intenzionali di cui alle lettere da a) a i) definiti reati in base al diritto nazionale che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno a un paese o a un'organizzazione internazionale, quando sono commessi al fine di:

- intimidire gravemente la popolazione, o

- costringere indebitamente i poteri pubblici o un'organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto, o

- destabilizzare gravemente o distruggere le strutture politiche fondamentali,

costituzionali, economiche o sociali di un paese o un'organizzazione internazionale:

a) attentati alla vita di una persona che possono causarne il decesso;

b) attentati gravi all'integrità fisica di una persona;

c) sequestro di persona e cattura di ostaggi;

d) distruzioni di vasta portata di strutture governative o pubbliche, sistemi di trasporto, infrastrutture, compresi i sistemi informatici, piattaforme fisse situate sulla piattaforma continentale ovvero di luoghi pubblici o di proprietà private che possono mettere a repentaglio vite umane o causare perdite economiche considerevoli;

e) sequestro di aeromobili o navi o di altri mezzi di trasporto collettivo di passeggeri o di trasporto di merci;

f) fabbricazione, detenzione, acquisto, trasporto, fornitura o uso di armi da fuoco, esplosivi, armi atomiche, biologiche e chimiche, nonché, per le armi biologiche e chimiche, ricerca e sviluppo;

g) diffusione di sostanze pericolose, il cagionare incendi, inondazioni o esplosioni i cui effetti mettano in pericolo vite umane;

h) manomissione o interruzione della fornitura di acqua, energia o altre risorse naturali fondamentali il cui effetto metta in pericolo vite umane;

i)minaccia di realizzare uno dei comportamenti elencati alle lettere da a) a h). “

La differenza tra le stesse fattispecie di reato previste già dal diritto penale e quelle contemplate dalla Decisione-quadro sta nello scopo di destabilizzare e abbattere le istituzioni dello Stato, tipico delle attività terroristiche. Secondo quanto disposto dalla Decisione-quadro, i crimini riconducibili al terrorismo sono “i reati commessi intenzionalmente da singoli individui o gruppi di persone contro uno o più Paesi, contro le loro istituzioni o popolazioni a scopo intimidatorio e al fine di sovvertire o distruggere le strutture politiche, economiche o sociali del Paese.[22]

In sostanza, il punto differenziale è fondato su una valutazione puramente soggettiva della finalità dell’azione commessa. Come la Bassu fa notare[23], molte delle attività indicate come manifestazioni terroristiche, dunque soggette a particolari regimi sanzionatori, sono strumenti tipicamente utilizzati dai gruppi di contestazione sociale, come i lavoratori nelle vertenze sindacali o gli studenti nelle manifestazioni di protesta. Si pensi alle occupazioni di luogo pubblico, di infrastrutture e di mezzi di trasporto, o l’interruzione di fornitura di acqua o energia elettrica che rappresentano i metodi più comuni di lotta civile e rischiano così di essere puniti come atti di terrorismo.

Spostando la nostra attenzione sul versante della giurisprudenza internazionale, dobbiamo di certo menzionare il Tribunale Speciale per il Libano. Costituito nel 2007 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per perseguire i perpetratori del bombardamento che nel 2005 uccise l’allora presidente Rafiq Hariri e altre venti persone, fu la prima Corte internazionale ad avere giurisdizione sul terrorismo.[24] Nel caso STL-11-01/I del 16/02/2011 la sua Camera d’Appello ha dichiarato che nonostante l’opinione di molti studiosi sia orientata verso la inesistenza di una definizione unitaria di terrorismo, uno scrutinio più attento consente di determinare che tale definizione è in realtà emersa gradualmente.[25] Sulla base di una profonda ricerca della prassi statale e di indicatori di opinio juris, il Tribunale ha ritenuto che nel diritto internazionale consuetudinario siano rinvenibili le seguenti caratteristiche:

  • la perpetrazione di un atto criminale (come omicidio, rapimento, presa di ostaggi, incendio e così via) o la minaccia di compierlo,
  • l’intento di spargere terrore tra la popolazione (il che comporta la costituzione di un pericolo pubblico) o costringere un’autorità nazionale o internazionale a fare o non fare qualcosa,
  • la presenza di un elemento transnazionale comportato dall’atto.

Come già visto nella parte prima in un esempio di giurisprudenza del Tribunale di Napoli, per la Camera d’Appello la definizione di cui sopra varrebbe quantomeno in tempo di pace.[26]

Il Tribunale Speciale per il Libano individua in alcune precedenti pronunce di Corti nazionali il presupposto di una prassi definitoria del concetto di “terrorismo”: tra di esse, il caso Suresh v. Canada (Corte Suprema del Canada), il già citato caso Bouyahia Maher Ben Abdelaziz et al. della Corte di Cassazione del nostro Paese e il Primo “Judge of Amparo” sugli affari penali nel Distretto Federale del Messico – Suprema Corte, caso Cavallo n. 140/2002  -  il quale ha asserito che: “"the multiple conventions to which reference has been made, provide that the crimes of genocide, torture and terrorism are internationally wrongful in nature and impose on member States of the world community the obligation to prevent, prosecute and punish those culpable of their commission".[27] Ancora, viene citata la opinione concorrente del giudice Antonio Boggiano alla decisione della Corte Suprema Argentina nel caso Enrique Lautaro Arancibla Clovel del 2004, il quale ha definito il terrorismo un crimen juris gentium che comporta la commissione di crudeltà contro persone innocenti e indifese, così da causare sofferenza non necessaria e porre in pericolo la popolazione civile; un sistema di sovversione dell’ordine e della sicurezza pubblici che si è recentemente caratterizzato per il fatto di ignorare i confini delle nazioni che ne sono colpite, così da costituire una seria minaccia per tutta la comunità internazionale. Pertanto è interesse ed obbligo di tutti gli Stati e della comunità internazionale cooperare per combattere tale minaccia.[28]

Ancora, è citata la giurisprudenza statunitense nel caso United States v Yunis del 1991, in cui la Circuit Court of Appeals del Distretto di Columbia ha notato che sulla base di un principio universale gli Stati possono prescrivere e perseguire "certain offenses recognized by the community of nations as of universal concern. such as piracy. slave trade. attacks on or hijacking of aircraft. genocide. war crimes. and perhaps certain acts of terrorism” anche se assente ogni connessione tra lo Stato e l’offesa.[29]

Inoltre, la Corte d’Appello del Tribunale Speciale del Libano riporta un consistente numero di convenzioni da cui è ricavabile la nozione di reato di terrorismo e terrorismo internazionale, tra cui la già analizzata Convenzione del 1999 sul contrasto al finanziamento del terrorismo e diversi trattati regionali; nonché trattati regionali come la già vista Decisione-quadro 2002/475/JHA sulla lotta al terrorismo e la Convenzione per la prevenzione e la lotta al terrorismo firmata ad Algeri nel 1999 dagli Stati membri della Organizzazione per l’Unità Africana, la quale, all’articolo 3, definisce “Terrorist acts”:

“(a) any act which is a violation of the criminal laws of a State Party and which may endanger the life, physical integrity or freedom of, or cause serious injury or death to, any person, any number or group of persons or causes or may cause damage to public or private property, natural resources, environmental or cultural heritage and is calculated or intended to:

(i) intimidate, put in fear, force, coerce or induce any government, body, institution, the general public or any segment thereof, to do or abstain from doing any act, or to adopt or abandon a particular standpoint, or to act according to certain principles; or

(ii) disrupt any public service, the delivery of any essential service to the public or to create a public emergency; or

(iii) create general insurrection in a State;

(b) any promotion, sponsoring, contribution to, command, aid, incitement, encouragement, attempt, threat, conspiracy, organizing, or procurement of any person, with the intent to commit any act referred to in paragraph (a) (i) to (iii).”[30];

nonché la Covenzione della Organizzazione della Conferenza Islamica sulla Lotta al Terrorismo Internazionale, che definisce “terrorismo”:

[A]ny act of violence or threat thereof notwithstanding its motives or intentions perpetrated to carry out an individual or collective criminal plan with the aim of terrorizing people or threatening to harm them or imperiling their lives, honor, freedoms, security or rights or exposing the environment or any facility or public or private property to hazards or occupying or seizing them, or endangering a national resource, or international facilities, or threatening the stability, territorial integrity, political unity or sovereignty of independent States”;

e “crimine terrorista”:

[A]ny crime executed, started or participated in to realize a terrorist objective in any of the Contracting States or against its nationals, assets or interests or foreign facilities and nationals residing in its territory punishable by its internal law.”[31]

Ancora, è fatto riferimento alla Convenzione del 2001 di Shangai per la Lotta al Terrorismo, il Separatismo e l’Estremismo[32], che definisce “terrorismo”:

[A]ny […] deed aimed at causing death of any civil person or of any other person not taking active part in hostilities in the situation of an armed conflict, or causing him a serious bodily injury, and causing a considerable material damage to any material object, as well as the organization, the planning of such a deed, assistance in its commitment, incitement to it, when the purpose of such deed due to its character or nature, consists in intimidation of the population, breaching the public security or forcing state authorities or an international organization to commit any action or refrain from its commitment, and that are subject to criminal prosecution in accordance with the national legislation of the Parties.”[33]

 E vi accomuna i concetti di “estremismo” e “separatismo”. Il primo consiste in atti violenti volti all’infrazione dell’unità territoriale o alla sua disintegrazione, nonché la pianificazione di questi atti e l’incitamento a compierli. Il secondo nel violento ottenimento o mantenimento del potere o al violento cambio dell’ordine costituzionale nonché la violazione della sicurezza pubblica tramite l’organizzazione di formazioni illegali.[34]

Così come le Convenzioni precedentemente menzionate affermano la ingiustificabilità del terrorismo in qualsiasi circostanza, il Trattato in esame estende questa premessa anche alle fattispecie di “estremismo” e “separatismo”: entrambe, come il terrorismo, caratterizzate dall’uso della violenza.

Altra fonte regionale menzionata come fondamento della definizione consuetudinaria di terrorismo è la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla Prevenzione del Terrorismo del maggio 2005, che nel preambolo afferma che il terrorismo ha lo scopo per sua natura o contesto di intimidire seriamente la popolazione o spingere ingiustamente  un governo o un’organizzazione internazionale a prendere o astenersi dal compiere un’azione o destabilizzare o distruggere le fondamenta politiche, economiche e sociali di uno Stato o un’organizzazione internazionale. [35]

Possiamo concludere che una definizione di terrorismo a livello di diritto internazionale sarebbe rinvenibile solo attraverso una attenta raccolta e analisi di fonti molteplici ed eterogenee; non mancando comunque, come abbiamo avuto modo di vedere, incertezze e posizioni di dottrina e giurisprudenza divergenti su aspetti cruciali della questione, come la natura del terrorismo “in tempo di guerra” e l’ambito di applicabilità di determinate norme.


È degno di nota, inoltre, il fatto che non mancano nelle fonti internazionali (alcune delle quali già esposte) espliciti riferimenti alla legittimità dell’uso della forza nelle lotte di liberazione dalla occupazione straniera. Ad esempio la Convenzione della Organizzazione della Conferenza Islamica sulla Lotta al Terrorismo Internazionale riporta:

“Confirming the legitimacy of the right of peoples to struggle against foreign occupation and colonialist and racist regimes by all means, including armed struggle to liberate their territories and attain their rights to self-determination and independence in compliance with the purposes and principles of the Charter and resolutions of the United Nations”.[36]

Si pensi poi che proprio la Carta delle Nazioni Unite fa esplicito riferimento all’autodeterminazione dei popoli[37] e che i Paesi membri dell’ONU sono attenti a cercare una distinzione tra battaglie lecite portate avanti da popoli oppressi e atti di terrorismo. A tal proposito rileva il contenuto della Risoluzione dell’Assemblea Generale del 9 dicembre del 1991, la quale precisa che in nessun caso le misure introdotte per il contrasto al terrorismo debbano pregiudicare libertà e indipendenza dei singoli e dei popoli.[38]

Boaz Ganor[39], autore di cui Bassu cita e condivide in parte alcune riflessioni[40], afferma che nel discorso politico e giuridico globale vi è una certa tendenza a tenere separati i concetti di lotta per la liberazione nazionale e terrorismo. Egli prende come esempio il discorso dell’allora presidente siriano Hafez el-Assad alla ventunesima Convention dei Sindacati in Siria del 17 novembre 1986:

“We have always opposed terrorism. But terrorism is one thing and a national struggle against occupation is another. We are against terrorism […] Nevertheless, we support the struggle against occupation waged by national liberation movements.”

O le dichiarazioni rilasciate da Abu Iyad (nome di battaglia di Salah Khalef), uno dei leader di Fatah e di Settembre Nero.

By nature, and even on ideological grounds, I am firmly opposed to political murder and, more generally, to terrorism. Nevertheless, unlike many others, I do not confuse revolutionary violence with terrorism, or operations that constitute political acts with others that do not”.[41]

Ganor commenta le parole di Abu Iyad definendole “tactic of confounding terrorism with political violence.” [42] Abu Iyad cercherebbe di far passare terrorismo e violenza politica come due fenomeni completamente diversi e non connessi. Secondo questa logica, a legittimare e rendere accettabile la violenza sarebbe il motivo politico.

Di fatto, un punto cruciale della dissertazione di questo autore è la “assunzione errata”, ritenuta valida da molti in Occidente, che liberazione nazionale e terrorismo siano due estremi in una scala di uso legittimo della violenza. Sicché la prima apparirebbe nobile perché mossa verso uno scopo nobile che, come si suol dire, giustifica i mezzi; mentre il secondo sarebbe in sé negativo e odioso. Rintracciare la giustezza o scorrettezza dei metodi (dunque qualificarli come “terrorismo” o “lotta di liberazione”) sulla base del fine comporta l’impossibilità logica di un movimento terrorista che abbia però come scopo la liberazione nazionale.

In opposizione a questa idea, Ganor fa presente che le definizioni di terrorist e freedom fighter non sono reciprocamente contraddittorie e che spesso la politica utilizza caratteri enfatici per identificare il discrimine tra queste due attività, approdando talvolta a conclusioni illogiche. A tal proposito, riporta un commento del presidente di Israele Benjamin Netanyahu, il quale definì terrorismo “the deliberate and systematic murder, maiming, and menacing of the innocent to inspire fear on political ends”[43], per poi “correggersi” anni dopo, sostituendo “innocent” con “civilians”[44].

 Quella di “innocente”, argomenta Ganor, è una concezione soggettiva, influenzata dal punto di vista di chi la utilizza. Pertanto non può essere posta alla base di una definizione di terrorismo. A riguardo, l’autore menziona nuovamente Abu Iyad[45], il quale sostiene di ripudiare la violenza contro civili che non siano direttamente coinvolti nel conflitto Arabo-Israeliano, ma di non sentire alcun rimorso riguardo agli attacchi contro elementi politici e militari di Israele che, compiendo uno “slaughter of innocent victims”, muovono guerra contro il popolo palestinese, implicando così – continua Ganor – che vittime innocenti siano soltanto i civili non direttamente coinvolti nel conflitto, mentre i civili israeliani non lo sarebbero. A tal proposito, può essere interessante notare l’uso di questa parola anche in alcune fonti di dottrina, ad esempio Begorre Bret: “Terrorism is a ‘blind’ violence because […] it strikes at random, innocent people.[46]

Il problema del terrorismo islamista è stato affrontato in Spagna, Paese segnato da un passato di attentati da parte di organizzazioni come i separatisti baschi dell’ETA[47], modificando il Codigo Penal nella sezione dei reati relativi al terrorismo (articoli 571-580) attraverso l’Atto 2/2015. Nel preambolo a tale legge si sottolinea che le modifiche ivi previste sono prese in rispetto delle già menzionate Risoluzione ONU 2178 e Decisioni-quadro 2002/475/JHA e 2008/919/JHA del Consiglio dell’Unione Europea. Sin dall’entrata in vigore della Costituzione nel 1978 la legislazione spagnola ha considerato il terrorismo una fattispecie ordinaria caratterizzata da due elementi: la natura della condotta e lo scopo dell’agente. Infatti, l’articolo 573 prevede che:

“1. Se considerarán delito de terrorismo la comisión de cualquier delito grave contra la vida o la integridad física, la libertad, la integridad moral, la libertad e indemnidad sexuales, el patrimonio, los recursos naturales o el medio ambiente, la salud pública, de riesgo catastrófico, incendio, contra la Corona, de atentado y tenencia, tráfico y depósito de armas, municiones o explosivos, previstos en el presente Código, y el apoderamiento de aeronaves, buques u otros medios de transporte colectivo o de mercancías […]

E specifica che tali condotte integrino il “delito de terrorismo” quando l’agente ha la finalità di:

“1.ª Subvertir el orden constitucional, o suprimir o desestabilizar gravemente el funcionamiento de las instituciones políticas o de las estructuras económicas o sociales del Estado, u obligar a los poderes públicos a realizar un acto o a abstenerse de hacerlo.

2.ª Alterar gravemente la paz pública.

3.ª Desestabilizar gravemente el funcionamiento de una organización internacional.

4.ª Provocar un estado de terror en la población o en una parte de ella.”[48]

È utile notare che la precedente legislazione considerava inerenti al reato di terrorismo il fine di sovvertire l’ordine costituzionale o interrompere la pace pubblica o terrorizzare gli abitanti di una comunità o una corporazione politica, sociale o professionale. Il paragrafo 2 prevede inoltre che siano considerate terrorismo alcune condotte relative l’uso di computer e sistemi informatici.

Per quanto riguarda il tema dei foreign fighters, il paragrafo 3 dell’articolo 575 del Codigo Penal è parzialmente coincidente con la già vista Risoluzione 1278 del 2014, ma delimita l’ambito spaziale a un “territorio controllato da un gruppo o una organizzazione terrorista”. Un foreign fighter può intervenire in un conflitto armato sia prendendo direttamente parte alle ostilità (cioè imbracciando le armi e affrontando la fazione opposta) oppure, come prevede ora la Legge spagnola, semplicemente trovandosi in un territorio controllato da una organizzazione terrorista e ricevendo addestramento o indottrinamento.[49]
Eventuali cittadini o residenti spagnoli che partecipino a un conflitto armato contro le forze armate di tale stato e siano fatti prigionieri non solo potrebbero perdere la protezione come civili per aver imbracciato le armi (come previsto dall’articolo 51 comma 3 del primo Protocollo Aggiuntivo alle Covenzioni di Ginevra), ma non godrebbero neppure del connotato di “essere stranieri” (foreignness) stabilito dall’articolo IV della quarta Convenzione di Ginevra. Dato che questi soggetti si ritrovano eccezionalmente nelle mani di una delle parti in conflitto della quale sono cittadini, dovrebbero per tanto essere sotto il diretto controllo delle autorità spagnole, in qualità di quel che certa dottrina ha definito unlawful civilians[50], mutuando l’espressione dai unlawful combatants, coniata dalla amministrazione Bush in seguito alla detenzione nel 2002 di combattenti talebani in Afghanistan che furono poi trasferiti a Guantánamo. Con la differenza che la prima espressione fa riferimento a individui non soggetti al diritto internazionale umanitario ma al diritto domestico spagnolo, la seconda a individui posti in un vuoto normativo che ne avrebbe consentito la mancata tutela di alcuni diritti umani. Si avrà modo di ritornare sulla controversa concezione di unlawful combatant nel terzo capitolo di questa trattazione.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti d’America,[51] il Code of Federal Regulations del Federal Bureau of Investigation (FBI) statunitense definisce Terrorism “the unlawful use of force and violence against persons or property to intimidate or coerce a government, the civilian population, or any segment thereof, in furtherance of political or social objectives.” E divide questo crimine in due categorie: domestico e internazionale.

 Il primo riguarda “groups or individuals operating entirely within the United States, Puerto Rico or other U.S. territories without foreign direction."

Il secondo riguarda atti che “occur outside the United States, or transcend national boundaries in terms of the means by which they are accomplished, the persons they appear intended to coerce or intimidate, or the locale in which their perpetrators operate or seek asylum”.
Queste definizioni sono filtrate attraverso due serie di linee guida dell’attorney general, a seconda che l’investigazione sia internazionale o domestica. Le Attorney General’s Guidelines on General Crimes, Racketeering Enterprise and Terrorism EnterpriseInvestigations stabiliscono le regole per aprire una investigazione e i limiti dei suoi obiettivi. Le investigazioni dell’FBI per terrorismo possono essere aperte solo in determinati casi. Ad esempio le circostanze devono ragionevolmente indicare che “  ‘two or more persons are engaged in an enterprise for the purpose of” using violence to further political or social goals[52]

3. L’importanza della ricerca di una definizione univoca.

Nonostante le summenzionate difficoltà, dare una definizione di terrorismo è un compito da cui politica, dottrina e legislazione non dovrebbero astenersi. La sua mancata determinazione comporterebbe a considerarlo un flatus vocis[53],privo di un contenuto effettivo. Ma in assenza di una determinazione del concetto di terrorismo, non è possibile sapere neanche quale organizzazione e quali persone ne siano propugnatori, sicché risulta difficile o impossibile ostacolare la loro violenza. Senza contare che se tale determinazione fosse lasciata alla totale discrezionalità di tutti gli Stati, la violenza, considerata o meno come terroristica a seconda di ciascuno degli infiniti punti di vista diversi, continuerebbe incontrastata proprio perché “indefinita”: il ciclo di attacchi e repressione di risposta non troverebbe mai fine perché ciascuna parte, in autonomia, sosterrebbe che la propria forza sia giusta e non terroristica. A tal proposito, la dottrina ha sottolineato che: “questa incertezza a livello delle Nazioni Unite ha condotto, infatti, molti Stati ad estendere in modo spropositato l’interpretazione della nozione «terrorista» destinatario delle misure preventive e repressive di cui alla risoluzione 2178.” [54]

4. Gli elementi che compongono il concetto di terrorismo e i problemi relativi alla loro determinazione. Le riflessioni della dottrina e le conseguenti definizioni di terrorismo da essa proposte.

Gran parte della dottrina che ha accolto la sfida di stabilire cosa sia il terrorismo è giunta spesso a conclusioni piuttosto simili, ma non certo equivalenti.   
Al fine di pervenire a una definizione generale è necessario indagare alcune questioni, relative a “elementi” compositivi dell’idea di terrorismo.

Una prima questione riguarda la condotta o le condotte considerabili come “terroriste”. Begorre-Bret ha fatto presente[55] che, nonostante la maggior parte della dottrina e delle fonti legali considerino il terrorismo come un atto di violenza, alcuni[56] come Young e proprio Begorre-Bret hanno sottolineato che talvolta i terroristi, ad esempio in Sri Lanka, compiono attacchi anche contro proprietà e beni materiali; e che obiettivo di un atto terroristico potrebbe essere anche una infrastruttura civile, come un ponte o una ferrovia,  o un’opera d’arte o architettonica d’importanza culturale simbolica.[57]In secondo luogo, la violenza terrorista non è necessariamente omicida. Infatti, molte attività diverse dall’omicidio, come rapimenti, dirottamenti, mutilazioni, sono stati condotti da terroristi. Insomma non si tratta solo di violenza effettiva, ma anche potenziale. A tal proposito, anche lo stupro e la riduzione in schiavitù sessuale vanno sicuramente annoverate tra le “strategie” impiegate almeno da alcune organizzazioni terroristiche per il raggiungimento dei loro obiettivi. Si veda[58]il caso dell’organizzazione jihadista nigeriana Boko Haram, che ha fatto della violenza sessuale e del rapimento a scopo di riduzione in schiavitù sessuale le tattiche principali nella sua campagna di terrore attraverso il Paese africano. Tale forma di violenza non solo annichilisce la dignità di chi ne diviene vittima, ma colpisce anche la società nigeriana, dove grande importanza è attribuita alla castità della donna. Ciononostante, pur avendo la Nigeria una legislazione anti-terrorismo – e avendo la giurisprudenza dei Tribunali internazionali per il Rwuanda e l’Ex Yugoslavia individuato la definizione legale e i precedenti per la determinazione dello stupro in tempo di guerra come crimine contro l’umanità [59] -  il “terrorismo sessuale” non è in alcun modo coperto dall’ordinamento della Nazione, la cui Costituzione, oltretutto, alla sezione 34 stabilisce che nessuno può essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti o alla tortura né essere ridotto in schiavitù né sottoposto a lavoro forzato. I rapimenti e gli stupri perpetrati da Boko Haram violano la dignità delle donne che ne restano vittime e, spesso, sono ridotte in schiavitù. A ciò va aggiunto che tali atti costituiscono violazioni di altri diritti costituzionalmente tutelati, come il diritto alla libertà personale (sezione 35), alla libertà di coscienza, di parola e di movimento.

Il Terrorism Prevention Act del 2011 (emendato nel 2013) è stato il primo atto legislativo che in Nigeria ha stabilito un framework per la lotta al terrorismo. Esso considera alcune condotte come “atti terroristici”, ad esempio l’uccisione o il rapimento di persone internazionalmente protette; fornire istruzioni o addestramento a terroristi; fornire apparecchiature ai terroristi; la presa di ostaggi. Nonostante l’Act indichi il rapimento come atto di terrorismo, esclude che a esso siano riconducibili motivazioni diverse dalla richiesta di un riscatto, come l’abuso sessuale o la riduzione in schiavitù.[60] Inoltre è regola non scritta nel sistema processuale del Paese che le accuse di violenza carnale siano “corroborate” da una testimonianza di una persona terza, la  quale deve sostenere non solo che il fatto si sia verificato come indicato dalla testimonianza della vittima ma che sia stato compiuto dalla persona accusata. Questa “corroborazione”, come indicato nel caso Olaleye v The State, può essere soddisfatta da un referto medico, ma nei casi di violenza sessuale perpetrata come forma di terrorismo può essere difficile se non impossibile per la vittima fornire tale “corroborazione”.

Oltre alla natura delle singole condotte riconducibili al terrorismo, nella ricerca di una definizione generale, è necessario considerare ulteriori elementi. Infatti, tenuto conto di alcuni punti in comune di molte definizioni rinvenibili nel diritto domestico e internazionale, appare chiaro che il terrorismo differisca da altre forme di violenza criminale per via del suo “status” politico. Invero esso è un tipo di violenza che cerca di influenzare le decisioni di leader e cittadini su regole e modi di vivere della società. Sul punto, però, non vi è concordia. Sempre Begorre-Bret riporta le opinioni dissenzienti di Gayrault, Sénat e Waltzer[61], i quali sostengono che il terrorismo moderno non ha in realtà alcuno scopo politico perché non mira a istituire un nuovo ordine sociale o politico, quanto piuttosto a distruggere la sfera politica in sé. Per i primi due autori, la prova di questa depoliticizzazione è rappresentata dalla moderna compenetrabilità tra terrorismo e criminalità organizzata; per il terzo, dal fatto che Al-Qaida non avrebbe né una struttura centralizzata né un piano univoco né un programma unificato. Ancora, gli obiettivi dei terroristi - come suggerisce il termine - sono perseguiti attraverso l’uso della paura. Essi creano una situazione di terrore costante, finalizzato a limitare la libertà della società attaccata perché mettono alla prova la sua capacità di garantire la funzione fondamentale di proteggere i cittadini. Per ottenere questo effetto, il terrorismo attacca direttamente la popolazione civile. E lo fa con una violenza indiscriminata, nel senso che non segue la distinzione di jus in bello tra combattenti e non combattenti, ma attacca la popolazione generale. Il terrorismo non istaura una situazione di tipo bilaterale, in cui due nemici sono in contrapposizione. Piuttosto, comporta un rapporto trilaterale: il fine del terrorismo è mirare a un gruppo distinto da quello delle sue vittime immediate. Esso colpisce la popolazione al fine di influenzare i leader della popolazione.
Anche su questo punto si è detto[62]che il potenziale accesso delle organizzazioni terroristiche ad armi di distruzioni di massa comporta la possibilità che in futuro gli attacchi siano finalizzati direttamente ed esclusivamente all’eccidio (“mass murder”), nulla più rilevando l’elemento psicologico del terrore di massa.   
Non vi è unanimità neppure sulle qualità caratterizzanti le vittime del terrorismo. Come abbiamo già visto e avremo modo di vedere, è opinione maggioritaria di dottrina, fonti normative ed esperti che la violenza terrorista venga indirizzata verso la popolazione generale, composta da soli civili. Da essa si discosta chi, come Reinares[63], ha fatto presente che le vittime di terrorismo internazionale sono spesso soldati, membri della sicurezza e leader politici: obiettivi scelti per la loro importanza simbolica.

Anche Ganor[64] propone una definizione di terrorismo:

[T]he intentional use of, or threat to use, violence against civilans or against civilan targets, in order to attain political aims.”

Essa è fondata su tre elementi:

  • La violenza o la minaccia dell’uso della violenza, così da escludere manifestazioni pacifiche.
  • Il fine politico (nel senso più ampio possibile, così da comprendere fini ideologici o religiosi): ad esempio cambiare il regime o le persone al potere, cambiare politiche sociali o economiche. Di conseguenza, un atto di violenza contro dei civili non motivato politicamente sarebbe solo “criminal delinquency, a felony or simply an act of insanity unrelated to terrorism”. [65]
  • Gli obiettivi dei terroristi, che devono essere civili. Così si potrebbe distinguere il terrorismo da altre forme di violenza politica (guerriglia, insurrezioni civili, ecc.), che non sfruttano la paura incussa dagli attacchi come uno strumento in sé. Infatti: “The proposed definition emphasizes that terrorism is not the result of an accidental injury inflicted on a civilian or a group of civilians who stumbled in a area of violent political activity, but stresses that this is an act purposely directed against civilians.”[66] Non sarebbe terrorismo il danno collaterale provocato a civili usati come scudi umani durante attacchi rivolti originariamente contro obiettivi militari.

L’autore delinea inoltre le differenze tra terrorismo e guerriglia, sulla base dell’obiettivo che si intende colpire. Se un attacco colpisce deliberatamente i civili, esso sarà considerato terrorismo. Al contrario, se l’obiettivo è personale militare o di sicurezza, sarà considerato guerriglia. Ciò in concordanza con un criterio qualitativo di distinzione tra i due fenomeni: se un movimento ha attaccato dei civili, esso è identificabile come terrorista, anche se ha partecipato ad attività di guerriglia. Un criterio qualitativo prevedrebbe invece una comparazione tra il numero di attentati terroristici con il numero totale di attività violente in cui è coinvolta l’organizzazione. In particolare sarebbe possibile distinguere quattro categorie: il terrorismo individuale, il terrorismo indiscriminato, la guerriglia rurale e la guerriglia urbana. La guerriglia rurale consiste nello “use of violence against military personnel and security forces in their area of deployment, activity and transport, in order to attain political aims." La guerriglia urbana sarebbe “targeting a specific urban military facility/security forces, or a political leader at the decision-making level, in order to achieve political aims.” Il terrorismo indiscriminato comporta “using violence against a civilian target, without regard to the specific identity of the victims […], mentre il terrorismo individuale comporta “using violence against a specific civilian target, or attacking a civilian who embodies a symbol to the public, to the attackers but does not function as a political leader at the decision-making level.[67]. Dunque la differenza tra terrorismo individuale e guerriglia urbana sarebbe rintracciabile nella identità dell’attaccato. Un attacco contro personale militare o una personalità politica potrebbe essere considerato guerriglia urbana; un attacco contro un obiettivo civile che non è coinvolto nei processi decisionali ma è comunque un importante simbolo politico o sociale (uno scrittore, un artista, un giudice ecc.) sarebbe terrorismo individuale. In quest’ottica, l’obiettivo perseguito è irrilevante. Il terrorista e il guerrigliero potrebbero avere lo stesso obiettivo, ma scelgono mezzi diversi per perseguirlo. In tal modo perde di veridicità la nozione, avversata dall’autore, per cui chi è terrorista per qualcuno è un combattente per la libertà agli occhi di qualcun altro.

Certa dottrina[68], preso atto del grande mutamento di approccio al terrorismo da parte della comunità internazionale e dei governi di molti paesi, ha invece sindacato sulla opportunità di considerarlo, da un punto di vista legale, una minaccia differente da altre grandi rete criminali organizzate. Il 9/11 ha portato gli Stati Uniti ad adottare una strategia“neoconservativa”[69] di War On Terror, in cui i terroristi sono identificati come una sub-categoria di combattenti ai quali non si applicano la protezione e i privilegi della legge domestica. Il Giudice Stephen Sedley[70] ha definito “pseudo-giurisprudenza” quella secondo cui i terroristi non hanno diritti e possono essere detenuti per un tempo indefinito e addirittura sottoposti a tortura. Anche il Regno Unito ha adottato una posizione non troppo diversa dagli USA, identificando il pericolo del terrorismo come grave e in qualche modo differente da precedenti casi di violenza politicamente motivata. Questo perché la violenza di Al-Qaida prima e ora dell’ISIS è (o quantomeno è percepita) su scala mai immaginata prima, al punto da identificare (politicamente, culturalmente e soprattutto legalmente) una presunta nuova minaccia per la quale, con le parole dell’allora primo ministro Tony Blair, “le regole del gioco stanno cambiando[71]. E cambiamento significa soprattutto restrizione e rinuncia, in misura variabile, a garanzie e diritti fondamentali. In tal senso si vedano le recenti dichiarazioni del premier britannico Theresa May sulla necessità di cambiare quelle leggi a tutela dei diritti umani che dovessero ostacolare la lotta al terrorismo.[72]

Riportando il pensiero di Tesòn, Williams si interroga su cosa renda il terrorismo diverso dalla minaccia di altre forme di criminalità organizzata come la mafia (vengono citate le italiane Camorra e Cosa Nostra). Allo stesso tempo, contesta la conclusione a cui giunge Tesòn, secondo cui il terrorismo attacca la società piuttosto che le semplici persone. Williams trova infatti questa definizione fin troppo semplicistica: molte azioni criminali possono danneggiare la società tanto gravemente quanto un atto di terrorismo. “Minaccia alla società” non è certo un’espressione usata per riferirsi solo a quest’ultimo: i giudici nelle corti penali la usano regolarmente per descrivere soggetti colpevoli di diversi reati particolarmente gravi, così da giustificare l’imposizione di lunghe pene detentive[73].Ancora, i sostenitori di una distinzione tra terrorismo e crimine fanno leva sulla natura globale della contemporanea violenza terroristica, la quale richiede l’impiego di livelli di collaborazione internazionale tra le forza di polizia mai necessitati prima, nonché la necessità di infiltrarsi in network informatici. Ma anche fenomeni criminosi come il traffico mondiale di pedo-pornografia o di droga o il riciclaggio richiedono lo stesso dispiego di mezzi. Come è già stato accennato, l’identificazione del terrorismo come “cosa a sé” rispetto alla criminalità può portare (e, sostiene appunto Williams, ha portato) alla identificazione del terrorista come soggetto ai quali si applicherebbero in misura minore, o addirittura non si applicherebbero, le garanzie di uno stato di diritto. In questo senso, ha fatto notare la dottrina, si è mossa la legislazione statunitense con il famigerato Patriot Act e il fenomeno delle extraordinary rendition, che talvolta hanno comportato l’estorsione di informazioni tramite la tortura. Per questo, in alternativa, si dovrebbe[74] ridurre il concetto di terrorismo all’insieme dei singoli atti criminosi compiuti dai terroristi, e non un generale comportamento destabilizzante dell’ordine. Inoltre[75], un libertario civile, interessato alla preservazione dei principi dello stato di diritto, relativamente al terrorismo dovrebbe sostenere un ritorno al linguaggio del diritto penale e l’abbandono della metafora militare per descrivere un fenomeno che riguarda invece la criminalità, così da mostrare che tutte le minacce poste dal terrorismo possono essere affrontate efficacemente tramite il procedimento penale. Senza contare, continua Williams, che porre la figura del terrorista oltre i confini della legge ordinaria ha come effetto collaterale quello di elevarlo a uno stato di “supercriminale”, grazie al quale poter ottenere la pubblicità e la notorietà di cui ha bisogno per i suoi fini politici, oltre a quello di favorire un clima di sospetto, paura, sfiducia e reazioni di panico nella stessa popolazione che dovrebbe essere protetta da questa politica. E, come già abbiamo visto, l’instaurazione di un perpetuo stato di paura è uno dei fini perseguiti (o quantomeno degli strumenti utilizzati) dal terrorismo.

Alexander Schmid e Albert Jongman, citati da Carla Bassu, in un loro studio hanno preso in considerazione le diverse definizioni esistenti di terrorismo e hanno cercato di estrapolare gli elementi più efficaci di ognuna per addivenire a una summa che si dimostri esauriente. Ne è risultata la seguente definizione[76]:

“Il terrorismo è un metodo diretto a creare paura, che consiste in ricorrenti azioni violente, impiegate da individui, gruppi (semi-)clandestini o attori statali, che dipendono da idiosincrasie, da ragioni criminali o politiche e nelle quali – diversamente dall’assassinio – il bersaglio diretto della violenza non è il bersaglio principale. Le vittime immediate della violenza sono generalmente scelte a caso (bersagli di opportunità) o in modo selettivo (bersagli rappresentativi o simbolici) tra la popolazione colpita, e hanno la funzione di comunicare messaggi specifici. I processi di comunicazione (che sono basati sulla violenza o sulla minaccia) tra terroristi (organizzazione), le vittime (esposte al pericolo) e i bersagli principali sono adottati per manipolare il bersaglio principale (audience), trasformandolo in un bersaglio da terrorizzare, al quale inviare certe richieste o dal quale ottenere attenzione, a seconda che lo scopo primario sia l’intimidazione, la coercizione o la propaganda”.

L’intento dei due autori è, evidentemente, rintracciare dei criteri identificativi chiari e lineari, che lascino il minor spazio possibile a una interpretazione estensiva. È però necessario notare che, nonostante questa definizione contempli le diverse e già evidenziate sfaccettature del fenomeno terrorista, essa risulta comunque difficilmente traducibile in una norma giuridica.

5. Conclusioni.

Riassumendo, la definizione di terrorismo non può essere ricavata univocamente da una sola fonte giuridica e la sua elaborazione, da parte di dottrina, corti ed esperti del fenomeno, incontra un numero consistente di problemi e incertezze che portano inevitabilmente a risultati simili per molti aspetti ma divergenti su alcuni punti importanti. Tenendo conto delle fonti normative, della giurisprudenza e della dottrina citati in questo articolo e nella precedente parte prima, possiamo affermare che vi è la tendenza a considerare terrorismo: condotte violente motivate da ragioni politiche o religiose o ideologiche e finalizzate a spingere la società o lo Stato a fare o non fare qualcosa, colpendo la generica popolazione civile (o, secondo altre interpretazioni, anche il personale militare o politico, quest’ultimo a titolo di singoli individui dalla posizione simbolica; nonché beni materiali e infrastrutture) per instillare in essa uno stato di terrore perpetuo il quale, a seconda delle interpretazioni, può essere uno strumento per il raggiungimento di ulteriori obiettivi oppure un fine in sé.
Affini o, a seconda delle fonti o delle interpretazioni, ricomprese nella nozione di terrorismo sono alcune condotte come il finanziamento di organizzazioni terroriste. 

Ancora, possiamo dire che il terrorismo internazionale (o transnazionale) è una forma di terrorismo caratterizzata da una capillarità e decentralizzazione che assicurano alle associazioni che lo praticano una diffusione su scala globale. In questo frangente storico, esso converge con il terrorismo di matrice islamica radicale e nel diritto internazionale viene inquadrato nell’ottica di un conflitto a carattere “non internazionale”, poiché un conflitto di carattere “internazionale” implica la presenza di due o più nazioni e, nonostante le sue velleità statali, l’organizzazione Stato Islamico  non può identificarsi con i territori della Siria, dell’Iraq e della Libia che occupa e sta recentemente perdendo, né può dirsi che tali territori costituiscano effettivamente uno Stato.

La minaccia del terrorismo, specie nella sua odierna fase globalizzata, spinge le nazioni e la Comunità Internazionale ad adottare misure drastiche di prevenzione e repressione, spesso a costo di comprimere i diritti fondamentali e allentare i vincoli costituzionali al potere esecutivo, tipici di un contemporaneo Stato di diritto. Questa graduale compromissione del sistema democratico viene giustificata da giuristi, politici e commentatori sulla base della natura emergenziale ed eccezionale del pericolo terrorista. Come vedremo nei prossimi articoli dedicati alla tutela dei diritti fondamentali dinnanzi alla minaccia del terrorismo internazionale, molti Paesi hanno risposto al fenomeno terroristico attivando veri e propri "stati di emergenza" previsti dalle loro Costituzioni, mentre altri hanno comunque fatto ricorso a decretazioni d'urgenza e dottrine giuridico-politiche legittimanti la compressione dei diritti fondamentali e delle garanzie democratiche in nome della lotta al terrore. 

Note e riferimenti bibliografici

[1] L. Mariani, Le molteplici possibili definizioni di terrorismo e terrorismo internazionale (parte prima), in Riv. Cammino Dirit. 1,19, para. 3

[2] C. Casiello, La strategia di contrasto ai foreign terrorist fighters e la revoca della cittadinanza, in Diritto Pubblico Comparato ed Europeo, fascicolo 2, aprile-giugno 2017, op.cit., p. 2.

[3] P.R. Neumann, Foreign fighter total in Syria/Iraq now exceeds 20,000; surpasses Afghanistan conflict in the 1980s, in ICSR, 26.1.2015.

[4] G. De Minico, Costituzione Emergenza e Terrorismo, Napoli, Jovene Editore, 2016, p. 186.

[5] S. Krahenmann, Foreign Fighters under International Law and National Law, in 20 Recueils de la Societe Internationale de Droit Penal Militaire et de Droit de la Guerre 249 (2015), p. 250.

[6] S/RES/2178 (2014), preambolo.

[7] C. Casiello, op. cit., pp. 344-ss.

[8] C.Casiello, op. cit., pp. 345.

[9] S. Krahenmann, op. cit., pp. 255.

[10] Disegno di legge di conversione (C. 2893), 6.

[11] G. De Minico, op. cit., pp. 188-ss.

[12] R. Wenin, Una riflessione comparata sulle norme in materia di addestramento per finalità di terrorismo, in Diritto Penale Contemporaneo, vol. 4, 2016, pp.120-ss.

[13] G. De Minico, op. cit., p. 190.

[14] A. Varvaressos, Decreto-legge 18 febbraio 2015, n.7 conv. In legge 17 aprile 2015, n. 43, recante "misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale" (in GU n.41 del 19.2.2015 e GU n.91 del 20.4.2015), in La legislazione penale, 15.1.2016.

[15] L. Henderson-Lancett, The Foreign Fighter Legislation of 2014, in Alternative Law Journal, vol. 4, 2016, pp. 48-51.

[16] L.Henderson-Lancett, op. cit. p. 49.

[17] L. Mariani, Le molteplici possibili definizioni di terrorismo e terrorismo internazionale (parte prima), in Riv. Cammino Dirit. 1, 19, para. 3.

[18] R. Bertolesi, Il caso Fathima e le condotte di supporto ad un’organizzazione terroristica – Nota a GUP Milano 23 febbraio 2016, n. 598/2016 giud. Banci Buonamici, in Diritto Penale Contemporaneo, 2016, p. 10.

[19] Gazzetta ufficiale delle Comunità Europee, 29 dicembre 1998, p.1.

[20] C. Bassu, op. cit., p.34.

[21] Consultabile sul sito della Camera dei Deputati.

[22] Decisione-quadro del Consiglio del 13 giugno 2002, p.8.

[23] C. Bassu, op. cit., p.35

[24] M.P. Scharf, How the War Against ISIS Changed International Law, in Case Western Reserve Journal of International Law, vol. 48, 2016, pp. 39-ss.

[25] Tribunale Speciale per il Libano, Case STL-11-01/I, 16/02/2011, Interlocutory Decision on the Applicable Law: Terrorism, Conspiracy, Homicide, Perpetration, Cumulative Charging, para 82.

[26] Case STL-11-01/I para 85.Vedi L. Mariani, Le molteplici possibili definizioni di terrorismo e terrorismo internazionale (parte prima), in Riv. Cammino Diritt. 1, 19, para. 3

[27] P. 392 della versione tradotta dal Tribunale Speciale per il Libano.

[28] Paragrafi 21-22 della versione tradotta dal Tribunale Speciale per il Libano.

[29] US District Court for the District of Columbia - 681 F. Supp. 896 (D.D.C. 1988) 
12/02/1988, citato in Tribunale Speciale per il Libano, Case STL-11-01/I, 16/02/2011, para. 86 nota 143. 

[30] Consultabile Sul sito dell'African Union. 

[31] Titolo I paragrafi 1,2.

[32] Consultabile sul sito dell'Eurasian Group

[33] Art. I para 1 lettera b).

[34] Art. I para 2 e 3.

[35] Tribunale Speciale per il Libano, Case STL-11-01/I, 16/02/2011, para. 88.

[36] Consultabile sul sito Lawphil

[37] Art.1 paragrafo 2.

[38] 46/51, Measures to Eliminate International Terrorism, para.15.

[39] B. Ganor, Defining Terrorism – Is One Man’s Terrorist Another Man’s Freedom Fighter? in International Institute for Counter-Terrorism Papers, 2002. Per il mio articolo ho consultato la versione pubblicata sul sito dell'International Institute for Counter-Terrorism. 

[40] C. Bassu, op.cit., p.36.

[41] A. Iyad, Without a Homeland. Tel Aviv, Mifras, p. 146.

[42] B. Ganor, op. cit, para. "Terrorism or Revolutionary Violence?"

[43] B. Netanyahu, Terrorism: How the West Can Win, Farrar, Strauss and Giroux, New Work, 1987.

[44] B. Netanyahu, Fighting Terrorism, Farrar, Strauss and Giroux, New York, 1995.

[45] A. Iyad, Without a Home, Mifras, Tel-Aviv, 1983.

[46] C. Begorre-Bret,The Definition of Terrorism and the Challenge of Relativism, in Cardozo Law Review, Marzo 2006, p.1996, corsivo mio.

[47] Capt. R. L. Ponce De Leòn, Feigning Fighters or Unlawful Civilians? An Overview of Foreign Fighters in Spanish Law, in Military Law and the Law of War Review, vol. 54, 2015-2016.

[48] Consultabile sul sito del Boletin Oficial de Estado

[49] R.L.P. De Leòn, op. cit., p.  93.

[50] R.L.P. De Leòn, op. cit., pp.  94-ss.

[51] C. A. Shields, K. R. Damphousse, and B. L. Smith, How 9/11 Changed the Prosecution of Terrorism, in The Impact of 9/11 and The New Legal Landscape, edit. Mattew J. Morgan, 2009, Palgrave Macmillan, cap. IX.

[52] C.A.Shields et. al, op. cit., p. 127

[53] C. Begorre-Bret, op. cit, p. 1994

[54] C. Casiello, op. cit., p. 345

[55] C.Begorre-Bret, op. cit., pp. 1996-ss.

[56] C. Begorre-Bret, op. cit., p. 1999.

[57] C. Begorrre-Bret, op. cit., p. 2001.

[58] C. E. Attah, Boko Haram and sexual terrorism: The conspiracy of silence of the Nigerian anti-terrorism laws, in African Human Rights Law Journal, 2016, pp. 388-ss.

[59] K. A. Koenig, R. Lincoln, L. Groth, The jurisprudence of sexual violence - Sexual Violence & Accountability Project Working Paper Series, Human Right Center University of California Berkeley, 2011, p. 10.

[60] C. E. Attah, op. cit., pp. 401-ss.

[61] C. Begorre-Bret, op. cit., pp. 1997-ss.

[62] C. Begorré-Bret. op. cit., pp. 10-ss.

[63] Citato in C. Begorré-Bret, op. cit., p. 1998.

[64] B. Ganor, op. cit.

[65] B. Ganor, op. cit., para. "Proposing a Definition of Terrorism", punto 2.

[66] B. Ganor, op.cit., para. "Proposing a Definition of Terrorism", punto 3. 

[67] B. Ganor, op. cit., para. "Individual Terrorism and Urban Guerrilla Warfare".

[68] D. Williams,The Logic of Suspending Civil Liberties, in The Impact of 9/11 and The New Legal Landscape, 2009, cap. II.

[69] D. Williams, op. cit., p. 28.

[70] Lord Justice (retired) S. Sedley, Terrorism and Security: back to the future?,  in Secrecy, National Security and the Vindication of Constitutional Law, edit. Cole, Fabbrini, Vedaschi, Edward Elgar Publishing, 2012, cap I.

[71] Prime Ministerial Press Conference on August 5, 2005.

[72]Consultabile sul sito della BBC

[73]F. R. Tesón, “Liberal Security”, in Human Rights in the “War on Terror", ed. Richard A. Wilson, p. 59. Citato in  D. Williams, op. cit., p. 29.

[74] D. Williams, op. cit. pp. 31-ss.

[75] C. Gearty, Rethinking Civil Liberties in a Counter-Terrorism World, in European Human Rights Law Review vol. 1, 2007 pp. 117-119. Citato in D. Williams, op. cit., p. 31. 

[76] A.P. Schmid, A.J. Jongman, Political Terrorism, Transaction Publishers, London, p. 28.La traduzione del passo è riportata in C. Bassu, op. cit., p. 35.