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Pubbl. Gio, 27 Dic 2018
Sottoposto a PEER REVIEW

La trasformazione di una S.r.l. in una S.p.A.: l´orientamento della Cassazione sul diritto di recesso

Cristian Totarofila


Quando una S.r.l. si trasforma in una S.p.A., la disciplina del recesso, esercitato a causa di questa operazione ed in assenza di una determinazione statutaria, deve essere quella dell’art. 2473 c.c., norma che non prevede un termine di decadenza. Sarà il giudice di merito a valutare la congruità del termine entro il quale è stato esercitato.


Sommario: 1. Premessa; 2. La controversia giuridica; 3. La trasformazione delle società: cenni sulla fattispecie giuridica; 4. Analisi del diritto di recesso nelle S.p.A. e nelle S.r.l.; 5. Il nodo interpretativo posto all’attenzione della Cassazione; 6. La soluzione offerta dalla dottrina predominante; 7. L’orientamento della Suprema Corte; 8. Conclusioni.

Sommario: 1. Premessa; 2. La controversia giuridica; 3. La trasformazione delle società: cenni sulla fattispecie giuridica; 4. Analisi del diritto di recesso nelle S.p.A. e nelle S.r.l.; 5. Il nodo interpretativo posto all’attenzione della Cassazione; 6. La soluzione offerta dalla dottrina predominante; 7. L’orientamento della Suprema Corte; 8. Conclusioni.

1. Premessa

Il diritto societario è una branca dell’ordinamento giuridico in perenne evoluzione, stante l’esistenza di una molteplice e variegata platea di esigenze ed interessi spesso confliggenti ma egualmente meritevoli di tutela, soprattutto per quello che concerne le operazioni straordinarie, le quali stanno ricoprendo un ruolo preponderante nell’organizzazione degli assets proprietari delle grandi società commerciali.

Il D. Lgs. 17 gennaio 2003 n. 6, in ossequio alla necessità di rivedere integralmente la disciplina delle società di capitali, in quanto bisognosa di un cambiamento atto a renderla più confacente alle attuali dinamiche imprenditoriali e finanziarie, ha approntato numerose modifiche alle norme riguardanti l’autonomia statutaria delle S.p.A. e delle S.r.l., l’accesso ai mercati, i sistemi di amministrazione e controllo e le società quotate.

In questo quadro legislativo s’inserisce la regolamentazione del diritto di recesso, da sempre uno dei temi più importanti e dibattuti in tema di cause di scioglimento del rapporto sociale, stante la sua natura di estremo strumento posto a salvaguardia delle ragioni dei soci di minoranza.

La vitale importanza di questo mezzo di tutela appare evidente nelle ipotesi in cui venga deliberata una trasformazione, una fusione o una scissione, operazioni capaci di stravolgere radicalmente la natura e l’organizzazione della società.

Mentre per le società per azioni il legislatore ha previsto una puntuale e specifica disciplina del diritto di recesso, le società a responsabilità limitata, soprattutto dopo l’entrata in vigore della riforma testé citata, si basano quasi totalmente sull’autonomia statutaria, in particolar modo rilevante per le modalità ed i termini entro i quali poter esercitare il recesso.

La presente nota ha come obiettivo quello di commentare l' orientamento della Suprema Corte di Cassazione, espresso nella sentenza n. 28987 del 12 novembre 2018 e meritevole di un’attenta analisi, necessaria per comprenderne sia la portata, sia il carattere a tratti innovativo, rispetto a quanto prospettato finora dal prevalente orientamento della dottrina. 

Secondo i giudici di legittimità, infatti, nell’eventualità in cui un socio decida di recedere da una società a responsabilità limitata che ha deliberato la propria trasformazione in una società per azioni, il termine di decadenza per poter validamente ed efficacemente esercitare questo diritto, in assenza di qualsivoglia determinazione statutaria ed in virtù della mancanza di una norma specifica per le S.r.l., deve essere valutato dal giudice di merito investito della controversia, il quale dovrà attenersi ai canoni di correttezza e di buona fede, non essendo applicabile in via analogica la disciplina prevista dall’articolo 2437-bis per le S.p.A.. 

2. La controversia giuridica

Il caso posto al vaglio della Suprema Corte prende le mosse dalla decisione, approvata a maggioranza e deliberata in data 24 febbraio 2004, di trasformare la Alfa S.r.l. in una società per azioni.

Dopo la rituale iscrizione della relativa delibera assembleare nel Registro delle imprese, avvenuta in data 2 aprile 2004, i soci Tizio e Caio, mediante due lettere raccomandate spedite rispettivamente in data 29 e 30 aprile 2004, comunicavano alla società Alfa la propria volontà di recedere dal contratto sociale.

A seguito di detta comunicazione, la società agiva in giudizio avverso il recesso di Tizio e Caio, così da farne dichiarare l’illegittimità. Secondo le argomentazioni giuridiche poste a fondamento della domanda summenzionata, infatti, i soci citati in giudizio avrebbero esercitato il proprio diritto di recesso in maniera tardiva, in virtù dello spirare del termine di decadenza di quindici giorni decorrente dalla data di iscrizione nel Registro delle imprese della delibera di trasformazione, così come stabilito dall’articolo 2437-bis c.c., applicabile in via analogica, a causa della mancanza di una specifica determinazione in merito alle modalità e alle tempistiche del recesso nello statuto della società Alfa.  

Successivamente al rigetto della domanda da parte del giudice di prime cure, la Alfa S.p.A. decideva di impugnare la relativa sentenza dinnanzi alla Corte d’appello di Messina, la quale confermava la decisione oggetto del gravame, ritenendo tempestivo il recesso de quo.

Visto l’esito negativo di entrambi i giudizi di merito, la Alfa S.p.A. esperiva ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa dalla Corte d’appello.

La linea difensiva seguita dalla ricorrente si basava precipuamente su tre motivi, uno dei quali inconferente alla presente disamina.

Quanto agli altri due motivi la ricorrente eccepiva dapprima la violazione degli articoli 2437, 2437-bis e 2473 c.c.. 

Secondo le doglianze espresse dalla Alfa S.p.A., infatti, la Corte d'Appello avrebbe errato nello stabilire che, anche a seguito della trasformazione della società ricorrente da S.r.l. in S.p.A., il diritto di recesso avrebbe dovuto seguire la disciplina applicabile prima di detta trasformazione, e cioè quella delle S.r.l., la quale risulta carente di alcuna disposizione circa il termine entro il quale esercitare il recesso, lasciando ampio spazio all’autonomia privata e, di conseguenza, alle norme presenti nello statuto di ciascuna società.

In sostanza, i giudici di merito non avrebbero preso debitamente in considerazione la circostanza che la nuova struttura organizzativa risultante dalla trasformazione avrebbe imposto l'applicazione della normativa prevista per le società per azioni e che avrebbe sicuramente condotto alla pronuncia di tardività del recesso, poiché posto in essere dai soci Tizio e Caio oltre il termine di quindici giorni dall’iscrizione della delibera di trasformazione, così come prescritto dall’articolo 2437-bis c.c.

Per dare maggior persuasività alle proprie doglianze, la Alfa S.p.A. asseriva che, anche a voler ritenere applicabile il regime legale previsto per le S.r.l., la mancanza di una previsione statutaria in merito alle modalità di esercizio del diritto di recesso avrebbe dovuto comunque condurre all'applicazione analogica dell'articolo 2437-bis c.c.

Alla base di questa considerazione, la ricorrente adduceva tre diverse giustificazioni.

In primo luogo, l'applicazione analogica dell'articolo 2437-bis c.c. alla fattispecie in esame troverebbe una ragion d'essere, in ossequio al disposto dell'articolo 12 delle preleggi, nell'identità di ratio tra l'ipotesi normata e quella da regolare. Secondo la prospettazione della Alfa S.p.A., dunque, nel diritto societario il ricorso all'analogia legis avrebbe dovuto essere preferito rispetto all'applicazione dei principi generali sui contratti, secondo i quali anche questa ipotesi ricade sotto l’egida del giudice di merito, che deve valutare i comportamenti delle parti secondo i canoni della buona fede e della correttezza.

In seconda battuta, l’applicazione della disciplina del diritto di recesso nelle S.r.l., stante l’assenza della previsione di un termine nello statuto della società Alfa e di una specifica determinazione legislativa, porterebbe all’assurdo e inconcepibile risultato di generare una situazione di grave incertezza in ordine alla permanenza di uno o più soci all’interno della compagine sociale.

Questa condizione di stallo, dovuta alla possibilità di esercitare un recesso senza un termine di decadenza certo e stabile, potrebbe ledere significativamente sia gli interessi degli stakeholders coinvolti nella società, cioè i quotisti (rectius gli azionisti) di maggioranza e i creditori sociali, sia le duplici necessità di salvaguardare il patrimonio destinato all'impresa e di garantire la stabilità della gestione societaria.

Infine, la Alfa S.p.A. contestava l’incongruenza della motivazione addotta dalla Corte d’appello per negare l’applicazione analogica della disciplina delle S.p.A. alle S.r.l.

L’assunto secondo il quale occorre valorizzare l'autonomia tipologica e la struttura personalistica della S.r.l., infatti, non dovrebbe necessariamente portare a per negare la possibilità di attingere analogicamente, ad integrazione della lacuna presente nell'articolo 2473 c.c., alla disciplina di cui all'articolo 2437-bis c.c., richiamando, invece, le regole dell'autonomia negoziale e dei principi di lealtà e correttezza.

In conclusione, alla luce di queste argomentazioni, la ricorrente insisteva per l’applicazione dell’articolo 2437-bis c.c., ricordando che la fissazione di tale termine non poteva essere rimessa all'arbitrio del socio recedente, né alla valutazione o determinazione del giudice e non poteva, altresì, essere sine die, ipotesi quest'ultima prevista esclusivamente per le S.r.l. a durata indeterminata.

Con il secondo motivo di ricorso, invece, la ricorrente censurava la sentenza impugnata, poiché emessa in violazione dell'articolo 1362 c.c., in relazione all'articolo 2473 c.c.

Secondo la tesi difensiva, l'indagine sulla comune intenzione delle parti in merito alla clausola dell'atto costitutivo in materia di recesso avrebbe dovuto essere orientata al momento in cui la società è stata costituita, ossia al 1987 e, dunque, anteriormente alla riforma del 2003, in un momento in cui il recesso nella S.r.l. seguiva la regola contenuta nell'articolo 2437 c.c. comma 2 vecchio testo.

Detto diversamente, l’articolo 21 dello statuto della società Alfa, in quanto contenente un generale rinvio alla disciplina delle S.r.l. previgente, la quale a sua volta rinviava alle norme previste in tema di S.p.A., avrebbe dovuto imporre l’applicazione del termine di decadenza di quindici giorni.

3. La trasformazione delle società: cenni sulla fattispecie giuridica

Prima di addentrarsi nell’esame della problematica supra accennata, è senz’altro opportuna una breve disamina della disciplina giuridica della trasformazione del diritto di recesso nelle società di capitali, analisi volta soprattutto ad evidenziare i profili di differenziazione esistenti tra le norme dettate per le S.r.l. e quelle previste in tema di S.p.A.

La trasformazione[1] consiste in una operazione straordinaria avente la finalità di perpetrare una modifica dell’atto costitutivo mediante la quale attuare un mutamento del tipo sociale, in ossequio a quanto stabilito espressamente negli articoli dal 2498 al 2500-novies c.c.

L’operazione de qua non consiste nell’estinzione di un soggetto giuridico e nella contestuale creazione di un altro soggetto, bensì configura una mera vicenda evolutiva e modificativa della società che l’ha deliberata[2]. In sostanza, uno dei cardini dogmatici della trasformazione, in virtù di quanto disposto dall’articolo 2498 c.c. ed in linea col carattere non novativo della stessa, consiste nella regola della continuità dei rapporti giuridici, principio secondo il quale l’ente trasformato conserva tutti i diritti e gli obblighi e prosegue tutti i rapporti esistenti in capo all’ente che ha deliberato la trasformazione.

Prima dell’avvento della riforma del diritto societario del 2003, questo istituto giuridico possedeva un ambito di applicabilità decisamente ristretto, essendo espressamente positivizzata solo la trasformazione di una società di persone in una società di capitali ed essendo imprescindibilmente vietata la trasformazione di una cooperativa in una società lucrativa (articolo 14 L. 127/1971). Particolarmente problematica era la fattispecie della trasformazione di un ente associativo in una società, stante l’inapplicabilità del principio di continuità prima menzionato.

Oggi la normativa di riferimento[3] per questa operazione straordinaria risulta radicalmente diversa rispetto a quella previgente, ciò sia a causa di una chiara regolamentazione della trasformazione da un tipo all’altro nell’insieme delle società lucrative, sia per un’apertura verso il mutamento di una società cooperativa in una società di capitali, possibile solo nelle ipotesi di mutualità non prevalente.

L’ordinamento giuridico disciplina due tipologie diverse di trasformazione: quelle omogenee, le quali consistono in un “semplice” mutamento del tipo sociale originariamente deciso nell’atto costitutivo; quelle eterogenee, le quali hanno lo scopo di trasformare una società lucrativa in un diverso tipo di ente non societario o in una comunione d’azienda.

Visto lo scopo di questo elaborato è opportuno soffermarsi sugli aspetti che caratterizzano la controversia decisa dalla Suprema Corte, cioè la trasformazione omogenea progressiva.

Perché una S.r.l. possa validamente trasformarsi una S.p.A. è necessario che venga rispettato un preciso procedimento, il quale ricalca quanto tassativamente indicato nel codice civile per le modifiche dell’atto costitutivo.

Preliminarmente, gli amministratori devono predisporre una relazione per motivare ed illustrare gli effetti e le regioni della trasformazione proposta, depositandone una copia presso la sede della società nei trenta giorni che precedono l’assemblea dei soci.

Successivamente, l’assemblea dei soci deve adottare una delibera di trasformazione, la quale deve sia essere redatta per atto pubblico, sia sottostare ai quorum stabiliti per gli atti di modificazione dell’atto costitutivo.

In seguito, la delibera dev’essere sottoposta ad un controllo di legittimità da parte del notaio che ha redatto il verbale dell’assemblea e, dopo ciò, deve essere iscritta nel Registro delle imprese.

Detto adempimento pubblicitario[4] ha natura costitutiva ed è volto a chiudere il procedimento di trasformazione, ‘sì da consentire alla stessa di riverberare i propri effetti.

In questa fase, precisamente a partire dal momento in cui la delibera di trasformazione è iscritta nel Registro delle imprese, i soci dissenzienti o assenti alla seduta assembleare hanno la possibilità di esercitare il diritto di recesso dal contratto sociale.

4. Analisi del diritto di recesso nelle S.p.A. e nelle S.r.l.

Il leitmotiv che contraddistingue l’intera vicenda posta al vaglio dei giudici di legittimità consiste nella spiccata divergenza della disciplina che regolamenta il diritto di recesso nelle società per azioni e nelle società a responsabilità limitata, così come riformata dalla celeberrima riforma del 2003.

Il recesso può essere definito come il negozio unilaterale recettizio mediante il quale un socio manifesta la propria volontà di sciogliere unilateralmente il rapporto sociale. Esso rientra nell’alveo delle forme di disinvestimento dalla partecipazione societarie[5] e può essere esercitato sia a causa di un particolare evento che ha indotto il socio uscente a prendere la decisione di non voler far più parte della compagine sociale, sia ad nutum, cioè senza una giustificazione specifica.

L’articolo 2473 c.c.[6], norma che disciplina il recesso nelle S.r.l., dev’essere interpretato alla luce della complessa ed intricata selva di posizioni ed interessi che l’ordinamento giuridico deve cercare di equilibrare e contemperare.

Nelle S.r.l., in particolare, il legislatore ha modificato la regolamentazione del recesso ispirandosi ai principi posti alla base delle società di persone, sia svincolando il tipo societario in esame dalla rigida disciplina delle S.p.A., sia risaltando il modello personalistico alla stregua del quale, in questa particolare forma societaria, la figura dei soci assume un ruolo pressoché preminente.

È opportuno ricordare, inoltre, che nelle società a responsabilità limitata, a differenza delle società per azioni, le partecipazioni sociali non hanno un mercato attraverso il quale il socio può agilmente liberarsene.

Sulla scorta di tutto quanto detto, appare normale ed anzi corretto che il legislatore abbia deciso di rimettere quasi integralmente la disciplina del recesso nelle S.r.l. all’autonomia statutaria[7], sede in cui i contrapposti interessi dei soggetti coinvolti nella costituenda società possono trovare la miglior composizione e tutela.

In sostanza, la succitata norma suggella esclusivamente le cause improrogabili che legittimano il recesso, la possibilità di recedere in ogni momento dalle società contratte a tempo indeterminato, il termine entro il quale esercitare il recesso ad nutum, le regole e le modalità mediante le quali la partecipazione dev’essere liquidata e gli effetti del recesso nel caso in cui la causa che l’ha scatenato venga meno. Tutto il resto è lasciato alla libera volontà delle parti, espressa nel momento in cui la società viene ad esistenza.

Nelle S.p.A., invece, il quadro normativo appare decisamente più orientato ad una maggiore positivizzazione del recesso, il quale è disciplinato in ogni singolo aspetto, lasciando molto meno spazio di manovra all’autonomia statutaria. Questa divergenza normativa si spiega facilmente: mentre le S.r.l. sono rette principalmente dal principio personalistico, le S.p.A. sono comandate dall’opposto dogma capitalistico, secondo il quale la salvaguardia e la tutela del patrimonio societario sono valori da prediligere rispetto alla garanzia dei soci di minoranza, i quali hanno sempre la possibilità di cedere le loro partecipazioni, stante la natura aperta di questo modello societario. Detto diversamente, la regolamentazione del recesso nelle società per azioni, prevista dagli articoli 2437 – 2437-sexies c.c., si contraddistingue per la sua precisione sia nella previsione delle cause che legittimano l’esercizio di questo diritto, sia per quello che concerne le modalità e la tempistica che i soci uscenti devono rispettare.

5. Il nodo interpretativo posto all’attenzione della Cassazione

Questo breve excursus della disciplina della trasformazione e del recesso è servito per introdurre il nodo gordiano sottoposto all’esame della Suprema Corte.

Dalla disamina dell’articolo 2473 c.c., infatti, appare evidente l’esistenza di una lacuna normativa per quello che concerne le tempistiche e le modalità che il recedente deve rispettare per poter validamente esercitare il proprio diritto.

La questione, dunque, è la seguente: qual è il termine di decadenza entro il quale un socio di una S.r.l. deve esercitare il diritto di recesso?

Ovviamente, la problematica non sussiste qualora sia lo statuto a prevedere una siffatta regolamentazione, in ossequio alla possibilità prevista dal primo comma della norma prima richiamata. Però è possibile che ciò non avvenga, soprattutto alla luce del fatto che l’assenza di una simile determinazione non costituisce una causa di nullità del contratto sociale, non essendo richiesta obbligatoriamente dalla legge.

Mentre per l’ipotesi di recesso ad nutum è la stessa norma a venire in soccorso all’interprete, prevedendo esplicitamente un preavviso di almeno 180 giorni per poterlo esercitare efficacemente; nell’eventualità in cui si avveri una causa stabilita o dalla legge o dallo statuto è necessario valutare attentamente la soluzione da adottare.

È opportuno evidenziare che, nel caso di specie, esiste un’ulteriore complicazione, data dall’avvenuta procedura di trasformazione da S.r.l. in S.p.A.

6. La soluzione offerta dalla dottrina predominante

Secondo l’orientamento maggioritario offerto dagli interpreti[8], la difficoltà pocanzi rilevata dev’essere affrontata e risolta applicando analogicamente la norma prevista per quanto concerne il diritto di recesso nelle società per azioni, cioè l’articolo 2437-bis c.c.

Secondo questa dottrina, infatti, se è vero che la riforma del 2003 ha inteso valorizzare il profilo personalistico della società a responsabilità limitata e potenziare il diritto di recesso, è anche vero che, in assenza di una qualsivoglia determinazione legislativa o statutaria, il termine entro il quale esercitarlo non può rimanere indeterminato.

In virtù della necessità di un termine certo e ben definito, appare chiaro come l’unica soluzione effettivamente prospettabile sia, secondo il ragionamento giuridico addotto da questi interpreti, la disciplina dettata per le società per azioni, applicabile analogicamente per “rimediare” alla duplice lacuna della norma e della volontà dei soci.

7. L’orientamento della Suprema Corte

La Suprema Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, ha espresso un orientamento quanto mai innovativo, aprendo alla possibilità di applicare il principio della buona fede integrativa anche nella branca del diritto delle società di capitali.

La Corte, allo scopo di donare solidità alle argomentazioni addotte nella pronuncia de qua, ha effettuato una precisa ricostruzione dei principi che hanno ispirato la pluricitata riforma del 2003, sottolineando come la S.r.l. sia stata riconfigurata e “trasformata”.

Quest’ultima, da essere valutata alla stregua di una sottoclasse della S.p.A., è assurta al rango di una vera e propria tipologia societaria degna di una sua dignità, considerazione corroborata da un’espansione non indifferente della normativa ad essa dedicata.

I giudici di legittimità, inoltre, hanno sottolineato quanta importanza abbia rivestito l’ampliamento dell’autonomia statutaria, la quale è da considerarsi come una delle caratteristiche chiave della “nuova” S.r.l., capace di adattarsi al concreto atteggiarsi degli interessi ad essa sottesi, diversi da quelli nelle società per azioni, incentrati precipuamente sulla tutela del capitale in essa investito.

Il D.Lgs. 6/2003, in particolare, ha modificato ed integrato le disposizioni circa il diritto di recesso nelle società a responsabilità limitata. A differenza del previgente articolo 2494 c.c., il quale rinviava pedissequamente alla disciplina delle S.p.A., il novello articolo 2473 c.c. detta una disciplina specifica e divergente rispetto a quella prevista dall’articolo 2437 c.c.

L’obiettivo di questa diversificazione altro non è se non quello di tutelare i soci delle S.r.l., società queste contraddistinte da una ristretta compagine societaria, dal carattere spesso familiare dell’investimento, dalla natura chiusa del modello societario e dalla difficile trasferibilità a terzi della quota. In questo frangente, il recesso può essere interpretato come l’unico strumento esperibile avverso le decisioni non condivise prese dai soci di maggioranza.

Successivamente a questa pregevole premessa, la Cassazione ha espresso il proprio convincimento in ordine ai motivi di ricorso eccepiti dalla Alfa S.p.A.

In prima battuta, i giudici di legittimità hanno eliminato ogni dubbio circa l’applicabilità della disciplina delle società per azioni in sostituzione di quella delle società a responsabilità limitata, doglianza questa mossa dalla ricorrente in virtù dell’avvenuta trasformazione ed in forza del fatto che il recesso sia avvenuto successivamente a detta operazione straordinaria.

Questo motivo di ricorso, secondo quanto riportato in sentenza, deve essere rigettato, poiché contrario alla ratio ispiratrice del primo comma dell’articolo 2473 c.c.

Sarebbe contraddittorio, infatti, applicare la nuova disciplina delle S.p.A., imponendo cosi al socio dissenziente, titolare del diritto al recesso, di esserne comunque assoggettato.

Dunque, le norme applicabili alla fattispecie concreta, ed in generale alle ipotesi di recesso esercitato in virtù di una delibera che modifica il tipo societario, sono quelle previste per la società ante-trasformazione.

Il cuore pulsante della decisione, però, riguarda l’inesistenza di una lacuna normativa nel dettato legislativo dell’articolo 2473 c.c.

Secondo i giudici di legittimità , il fatto che l'art. 2473 c.c. non preveda espressamente un termine per esercitare il diritto di recesso nell’ipotesi in cui né lo statuto né l’atto costitutivo alcunché dispongano sul punto, non costituisce una lacuna normativa da colmare mediante l’applicazione analogica della disciplina delle S.p.A., in virtù dell’art. 12 delle Preleggi.

La base sulla quale poggia l’istituto dell’analogia legis consiste nel fatto che tra la norma da applicare ed il caso non compiutamente disciplinato dalla legge sussiste una comunanza di motivazione, in virtù del noto brocardo latino “ubi eadem legis ratio, ibi eadem legis dispositio[9].

È facile notare, tuttavia, che fra il modello societario della società a responsabilità limitata e quello della società per azioni non sussiste più un legame forte e inscindibile come quello che cingeva i due tipi prima dell’avvento della riforma del 2003.

Ad oggi, dunque, appare alquanto difficile asserire che il recesso nella S.r.l. risponda alla medesima ratio del recesso nella S.p.A., istituto caratterizzato da un’accentuata necessità di tutelare i soci di minoranza, sulla scorta del diverso principio ispiratore delle società a responsabilità limitate, avente stampo preminentemente personalistico.

Il corollario logico e giuridico di questa affermazione è che, in mancanza di una espressa previsione statutaria circa i termini di decadenza entro i quali esercitare il recesso, occorrerà adoperare i principi del diritto contrattuale “comune”.

Riprendendo le parole adoperate dai supremi giudici, è possibile enunciare il seguente principio di diritto : “nel caso in cui l’atto costitutivo non determini le modalità e, in particolare, i tempi attraverso le quali il recesso può essere esercitato, non si potrà fare ricorso all’analogia, che presuppone una lacuna dell'ordinamento, ma si farà ricorso ai principi propri del diritto comune riguardanti l’interpretazione e l'esecuzione del contratto secondo buona fede, artt. 1366 e 1375 c.c., principi che operano anche come fonte di integrazione della regolamentazione contrattuale, art. 1374 c.c. La funzione della buona fede come regola d'’interpretazione ed esecuzione del contratto, ma anche come sua fonte integrativa, infatti, consente di preservare l'assetto giuridico ed economico stabilito dai contraenti anche in mancanza di regole negoziali specifiche. Pertanto, fa sì che l'ordinamento statutario si auto completi al fine della realizzazione dell'operazione economica programmata col contratto e di assecondare gli interessi a questo sottesi.”

Adoperando il mezzo dell’integrazione e dell’interpretazione del contratto secondo buona fede[10] è possibile, infatti, preservare e tutelare tutti gli interessi che costituiscono il substrato dell’intera fattispecie giuridica, eventualità che verrebbe inutilmente frustrata dalla semplice applicazione analogica dell’articolo 2437 bis c.c.

In sostanza, il compito di valutare la congruità del termine entro il quale è stato esercitato il diritto di recesso, in mancanza di alcuna determinazione della legge o dello statuto, spetterà al giudice di merito, il quale dovrà ponderare tanto le esigenze di certezza della società, assicurandosi che l'esercizio del diritto di recesso sia riconducile temporalmente alla causa che lo ha provocato, quanto gli interessi dei soci di minoranza, censurando i termini di recesso così brevi da rendere eccessivamente oneroso l'esercizio del diritto[11].

Le motivazioni in base alle quali la Corte ha ritenuto di non poter accogliere questo motivo di ricorso, valutando negativamente le prospettazioni effettuate dalla ricorrente circa l’analogia ex articolo 12 Preleggi, sono due.

Da un lato, l'istituto del recesso nella S.p.A. si atteggia diversamente rispetto alla S.r.l. in ragione dei diversi interessi sottesi ai due tipi societari: nella prima, sono preponderanti quelli della dei soci di maggioranza, attenti alla stabilità del vincolo associativo e alla possibilità di modificare l'assetto societario in relazione alle mutevoli esigenze del mercato; nella seconda, invece, il singolo partecipante, in qualità di soggetto più debole, deve essere fornito di alcuni strumenti di exit, fondamentali nel caso di scelte societarie pregiudizievoli al suo investimento.

Dall’esame degli interessi pocanzi esposti appare palese che l’istituto del recesso non possa essere valutato in maniera acritica ed indifferenziata, essendo capace di variare in funzione sia del contesto in cui trova concretamente applicazione, sia del modello societario nel quale viene esercitato, potendo valorizzare tanto il profilo capitalistico della società, in tal caso imponendo una serie di limiti e restrizioni al suo esercizio, quanto il profilo personalistico, prediligendo la tutela del disinvestimento di una quota che può aver perso i caratteri essenziali dell'impresa scelta dall’investitore.

Dall’altro lato, l'applicazione analogica dell'art. 2437-bis c.c. assume i caratteri dell’analogia in malam partem, in ragione dei ridotti termini previsti dalla norma.

In ultima analisi, la Corte di Cassazione ha deciso di non accogliere anche la censura circa l’applicabilità della disciplina del recesso nelle S.p.A. poiché costituente il modello legalmente in vigore anche per le S.r.l. nel momento in cui l’atto costitutivo e lo statuto della Alfa S.r.l. (oggi S.p.A.) vennero redatti.

Il criterio che ha determinato il rigetto de quo consiste sempre nel principio contrattualistico della buona fede: il richiamo effettuato dall’allora vigente articolo 2494 c.c. alle norme delle società per azioni, infatti, non indica che le parti abbiano voluto assoggettarsi ad esso, ma potrebbe più realisticamente stare a significare che i soci abbiano deciso di rinviare alla disciplina legalmente prevista per le S.r.l. per tutto ciò che non era stato determinato in sede di costituzione. Questo comporta che la normativa applicabile sia quella delle società a responsabilità limitata, sempre in virtù del diniego dell’analogia verso le norme dettate per le S.p.A.

In conclusione, la Corte ha affermato il seguente principio di diritto: “anche in caso di trasformazione da società a responsabilità limitata a società per azioni, la disciplina del diritto di recesso applicabile ai soci a seguito della trasformazione è quella dettata dall'art. 2473, primo comma, c.c. per le s.r.l., che non prevede termini di decadenza. Pertanto, in detta ipotesi, il diritto di recesso del socio di s.r.l. trasformata in S.p.A. va esercitato nel termine previsto nello statuto della s.r.l., prima della sua trasformazione in S.p.A., e, in mancanza di detto termine, secondo buona fede e correttezza, dovendo il giudice del merito valutare di volta in volta le modalità concrete di esercizio del diritto di recesso e, in particolare, la congruità del termine entro il quale il recesso è stato esercitato, tenuto conto della pluralità degli interessi coinvolti.

8. Conclusioni

La pronuncia in esame è senza ombra di dubbio “figlia” di un importante filone giurisprudenziale[12] teso ad intervenire con un’incisività crescente e pressante nell’alveo dei rapporti negoziali, legittimando un’opera di ingegneria contrattuale da parte dei giudici di merito, capaci di imprimere una direzione all’autonomia dei cives in nome dell’integrazione del contratto secondo buona fede.

Nello specifico caso in commento, però, la Suprema Corte ha rivoluzionato un pressoché pacifico orientamento, rimettendo in gioco l’intero istituto del diritto di recesso nel campo delle società di capitali.

La pronuncia de qua ha il merito di aver reso giustizia ad una situazione certamente di difficile composizione, irta di difficoltà e caratterizzata da un’incertezza intollerabile, la quale avrebbe potuto danneggiare irreparabilmente i soci uscenti, “colpevoli” di aver esercitato il recesso non tempestivamente, ma innocenti poiché un termine preciso e circostanziato non era stato né previsto né determinato.

A sommesso parere dello scrivente, questa decisione ha una portata quasi “rivoluzionaria”, sia perché apre alla possibilità di applicare l’integrazione secondo buona fede anche alla materia societaria, sia perché, nonostante si ponga in aperto contrasto con l’ordinamento pressoché prevalente della dottrina, è capace di riequilibrare un contesto in cui soventemente i soci di minoranza vengono soverchiati dalle decisioni e dagli interessi della maggioranza. Queste categorie, essendo portatrici di interessi opposti ed antitetici, necessitano di un contemperamento, attuabile o mediante una determinazione preventiva presente nello statuto o con l’ausilio del giudice.

Un profilo di criticità da non sottovalutare, però, consisterebbe nella probabile e poco auspicabile situazione di incertezza nella quale le S.r.l. afflitte dalla medesima mancanza statutaria si troverebbero se si giungesse all’applicazione standardizzata di questo nuovo orientamento giurisprudenziale. Sarebbe alquanto scomodo e irragionevolmente tedioso dover agire in giudizio per scoprire quale sia il termine congruo per considerare tempestivo il recesso esercitato dal socio uscente, tanto in considerazione della lentezza della giustizia italiana (la controversia in commento è durata svariati anni), quanto in virtù dell’esistenza di un termine espressamente previsto per le società per azioni, il quale potrebbe essere adoperato alla stregua di una “bussola”, in grado di orientare i soci desiderosi di recedere nella valutazione delle tempistiche entro le quali azionare il proprio diritto.

Note e riferimenti bibliografici

[1] P. Cappellini, R. Lugano, “Operazioni straordinarie", IPSOA, Milano, 2018, pp. 799-803; G. F. Campobasso, "Diritto commerciale 2. Diritto delle società", UTET, Torino, 2013, pp. 642-653. Per una attenta disamina di tutte le novità introdotte dalla riforma, M. Piras, “Trasformazione: dopo la riforma novità tutte da esplorare”, in Amministrazione e Finanza, 11, 2004, p. 17 e ss.
[2] Cass. civ. Sez. I, 19 maggio 2016, n. 10332; Cass. Civ. Sez. II, 07 maggio 2013, n. 10598.
[3] M. Pace, “La «società» si trasforma", in PMI, 12, 2004, p. 14 e ss.;
[4] G. Trapani, “La trasformazione omogenea tra S.r.l. e S.p.A.”, in Notariato, 5, 2004, p. 498 e ss., secondo il quale “La pubblicità dell'atto di trasformazione gioca un ruolo del tutto essenziale in ordine alla validità del medesimo: non solo, infatti, la trasformazione cd. "omogenea” ha effetto dall'ultimo degli adempimenti pubblicitari di cui all'art. 2500, secondo comma c.c., ma addirittura, da tale momento non può più esser pronunciata in alcuna sede giudiziaria la sua invalidità, fermo restando, comunque, il "diritto al risarcimento del danno eventualmente spettante ai partecipanti dell'ente trasformato e ai terzi, danneggiati dalla trasformazione". La deliberazione, insomma, produce effetti solo dal momento della sua iscrizione nel registro delle imprese e tale atto ha un effetto preclusivo della impugnazione della delibera. Si verifica, in altre parole, la traslazione dell'invalidità dell'atto di trasformazione dal "piano dell'impugnativa a quello del risarcimento del danno". La norma è dettata in modo evidente dall'esigenza di non travolgere effetti che con la pubblicità appaiono consolidati, lasciando comunque salvo il diritto di coloro che abbiano subito lesioni patrimoniali di fare valere tali ragioni in sede risarcitoria. La stessa relazione governativa segnala che, in buona sostanza, la norma in commento è stata inserita nel testo di legge per lo scopo di salvaguardare la certezza del diritto e con essa i diritti dei terzi. Un tale assunto - nuovo per la materia della trasformazione - inibendo la caducazione dell'operazione, impedisce l'insorgere dei gravissimi problemi che deriverebbero dal possibile ripristino delle situazioni precedenti, ma non risolve (né avrebbe, d'altro canto, potuto risolvere) "l'esatta identificazione della fattispecie generatrice del danno risarcibile". L'art. 2500 c.c. ricalca, in particolare, l'art. 2436 quinto comma c.c. nella parte in cui dispone che la deliberazione modificativa dello statuto non produce effetti "se non dopo l'iscrizione". La pubblicità, insomma, acquista un carattere costitutivo e determina l'irreversibilità della fattispecie. È possibile, al proposito, segnalare che la disciplina della trasformazione non pone, inoltre, alcun ordine cronologico in relazione al susseguirsi degli adempimenti, a differenza dell'ultimo comma dell'art. 2504 c.c. in tema di fusione che dispone espressamente che "il deposito relativo alla società risultante dalla fusione o di quella incorporante non può precedere quelli relativi alle altre società partecipanti alla fusione": la questione, di maggior rilievo in ambito di trasformazione cd. eterogenea, appare invece del tutto teorica in ipotesi di trasformazione di società di capitali in altra società di capitali. Non sembra possano esservi, infine, dubbi in relazione alla possibilità di sottoporre l'operazione di trasformazione ad un termine dal quale far decorrere gli effetti di essa (diverso da quello normativamente imposto di cui all'ultimo comma dell'art. 2500 c.c. o dall'art. 2500-novies c.c.). Le esigenze della compagine sociale possono, infatti, imporre un tale differimento che non sembra incontrare alcun ostacolo nel dettato positivo, ma semmai nella emersione di tale elemento dalla pubblicità dal Registro Imprese. Quest'ultima considerazione non è tuttavia sufficiente ad escludere la configurazione della ipotesi. Deve, invece, intendersi assolutamente esclusa, con conseguente nullità della relativa delibera, con la previsione della retroattività dell'operazione di trasformazione.”
[5] M. d’Albora, E. Tartaglia, "Il recesso nel diritto societario", Aracne editrice, Roma, 2011, p. 7.
[6] Per un’attenta disamina della disciplina del recesso nelle società di capitali, F. Rossi Ragazzi, “Il recesso del socio di società di capitali: profili civilistici”, in Il Fisco, 21, 2014, p. 2091 e ss.; V. Salafia, “Questioni minime in tema di recesso dei soci di società di capitali”, in Le Società, 4, 2013, p. 407 e ss.; G. Agrusti, R. Marcello, “Il recesso del socio nelle s.r.l.: modalità, termini, efficacia e liquidazione della quota”, in Le Società, 5, 2006, p. 569 e ss.; G. Bernoni, “Il nuovo diritto di recesso”, in Impresa Commerciale Industriale, 1, 2006, p. 54 e ss.
[7] A. Ragni, “I nuovi statuti delle srl all’insegna di una maggiore autonomia”, in PMI, 1, 2004, p. 17 e ss., la quale evidenzia come “Nella predisposizione della nuova disciplina delle Srl sono stati realizzati al massimo livello i principi ispiratori dell’opera di revisione normativa. Infatti, come si evince anche dalla Legge Delega, la riforma doveva mirare a potenziare l’imprenditorialità valorizzando lo statuto societario come strumento di maggiore autonomia; autonomia ritenuta indispensabile per favorire la nascita, la crescita e la competitività delle imprese anche attraverso il loro accesso ai mercati dei capitali interni ed internazionali.”
[8] Fra i molti autori che hanno sostenuto questa posizione, M. Tanzi, Commento all’art. 2473, in Società di capitali. Commentario. Artt. 2449 - 2510, a cura di Niccolini e Stagno d'Alcontres, vol. III, Napoli, 2004, p. 1537; M. Perrino, “La rilevanza del socio” nella s.r.l.: recesso, diritti particolari, esclusione”, in Giurisprudenza Commerciale, 2003, 30, p. 824; O. Cagnasso, “Le società a responsabilità limitata”, in Trattato di diritto commerciale, diretto da G. Cottino, 2014, vol. V, tomo I, p. 1843; E. Zanetti, “Confronto fra s.p.a. e s.r.l.: diritto di recesso del socio”, in Pratica Fiscale e Professionale, 48, 2004, p. 29; G. Bianchi, “Il diritto di recesso nelle società a responsabilità limitata”, in Le Società, 8, 2007, p. 940; G. Campobasso, cit., p. 580; G. A. M. Trimarchi, “Il recesso del socio dai tipi societari capitalistici e applicativi notarili”, Consiglio Nazionale del Notariato Studio n. 188-2011/I, in www.notariato.it, il quale afferma testualmente che “quando il recesso nella S.r.l. sia causato da una delibera da iscriversi nel registro delle imprese, ovvero da una delibera sprovvista di tale pubblicità, o più semplicemente da un “fatto”, non vi sono ragioni per non attingere all’analogia rispetto all’omologa disciplina adottata in tema di S.p.A. Il che vale quanto dire che il socio di S.r.l. ha quindici giorni per spedire la propria comunicazione di recesso allorché si tratti di diritto nato in dipendenza di una delibera soggetta a pubblicità, ovvero trenta giorni dalla conoscenza che egli ne abbia, se si tratta di delibera non soggetta a regole pubblicitaria o di altri “fatti””.
9] Per un approfondimento sull’argomento, N. Bobbio, L’analogia nella logica del diritto, Istituto giuridico della R. Università di Torino, 1938.
[10] È possibile definire la buona fede integrativa come quel dovere che “impone a ciascuna parte l'adozione di comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere del neminem laedere, senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico, siano idonei a preservare gli interessi dell'altra parte.” Cfr. Cass. civ. sez. I, 13 luglio 2007, n° 15669.
[11] La Cassazione, nella pronuncia in commento, ha specificato che “è opportuno precisare che il ricorso al principio di buona fede non determina un'estensione dell'ambito applicativo del recesso ad nutum, previsto al secondo comma dell'art. 2473 c.c. solo per le società contratte a tempo indeterminato. Infatti, il recesso deve essere ancorato al verificarsi delle condizioni previste dal legislatore o dallo statuto ex art. 2473, primo comma, c.c. ed il limite di tempo per il suo esercizio dovrà essere calibrato sulla specificità del caso concreto, evitando ingiustificati effetti dilatori che si risolverebbero in un pregiudizio perla società.
[12] Fra le tante, Cass. civ. Sez. III, 05 marzo 2009, n. 5348, secondo la quale “l'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale - la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica, proprio per il suo rapporto sinergico con il dovere inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., che a quella clausola generale attribuisce forza normativa e ricchezza di contenuti - applicabile, sia in ambito contrattuale, sia in quello extracontrattuale. In questa prospettiva, si è giunti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo o integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi”; per una esauriente trattazione dell’argomento, A. Scrima, “Buona fede come fonte di integrazione dello statuto negoziale: Il ruolo del giudice nel governo del contratto.”, Relazione Telematica della Corte Suprema di Cassazione, Ufficio del Massimario e del Ruolo, 10 settembre 2010, n. 116, www.cortedicassazione.it. In dottrina, vedasi, fra i molteplici contributi in materia, M. Franzoni, “commento sub art. 1374 e sub art. 1375”, in “Degli effetti del contratto, vol. II – Integrazione del contratto. Suoi effetti reali e obbligatori”, in Il Codice Civile. Commentario fondato da P. Schlesinger e diretto da F.D. Busnelli, ed. II, Milano, Giuffrè, 2013.

BIBLIOGRAFIA
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