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Pubbl. Sab, 15 Dic 2018
Sottoposto a PEER REVIEW

Brevi riflessioni in ordine al concetto giuridico di equità

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Samuele Miedico


L´equità rappresenta un importante strumento che il legislatore, talvolta, pone nelle mani dell’interprete. Lo scopo del presente elaborato è di riflettere circa le modalità con cui il concetto di equità viene impiegato da parte del legislatore e della giurisprudenza, evidenziando il significato che, volta volta, esso tende ad assumere.


Sommario: 1. Premessa; 2. Clausole generali; 3. L'equità; 3.1. L'impiego normativo del concetto di equità; 3.2. I possibili utilizzi del concetto di equità; 4. Giurisprudenza in tema di equità; 4.1. La riduzione ad equità della clausola penale; 4.2. La valutazione in via equitativa dell'indennità dell'agente; 5. Considerazioni conclusive.

1. Premessa

Attribuire una definizione univoca al termine "equità" è questione delicata e complessa. Il concetto è largamento impiegato all'interno del codice civile, ma si registrano evidenti difficoltà nel comprendere il significato che il legislatore intende, di volta in volta, attribuire a tale espressione. Nessuna delle norme del codice indica, infatti, cosa sia l’equità e quando un determinato comportamento o un dato assetto di interessi possa definirsi effettivamente equo.

Il presente lavoro ha come scopo quello di offrire una breve riflessione sul concetto di equità e sul rilievo di detta clausola nella valutazione del contegno delle parti di un rapporto contrattuale. Saranno analizzate, inoltre, alcune recenti sentenze che consentono di apprezzare come il concetto di equità trovi concreta applicazione.

2. Clausole generali

L’equità si avvicina molto, a causa della sua conformazione, alle clausole generali[1]. Dette clausole rappresentano importanti chiavi di lettura e di giudizio dell’attività negoziale posta in essere dalle parti e rilevano, altresì, nell’ambito dell’attività di interpretazione delle norme giuridiche[2]. La dottrina maggioritaria tende ad escludere che l’equità possa essere attratta nell’ambito del genus delle clausole generali[3], ma ciò nonostante ne condivide senz’altro alcuni aspetti importanti.

Valutare il comportamento dei soggetti sotto il profilo dell’equità, della buona fede o dell’abuso del diritto significa, in particolare, riservarsi una chiave di valutazione della condotta, tenuta dalle parti, alla luce delle formule e dei paradigmi che sono ricomprese nell’ambito del concetto delle singole clausole medesime.

La riflessione in ordine al concetto di equità, così come per le clausole generali, presuppone una considerazione circa l’ordinamento giuridico vigente. Questo non può essere valutato facendo esclusivo ed assoluto riferimento alla lettera della legge, ma bisogna andare al di là del dato normativo. È necessario, in sostanza, riflettere sul concetto di sistema giuridico, sul suo modo di porsi nel tempo e nello spazio e di interagire con la realtà circostante[4].

Le norme poste alla base della pacifica convivenza civile sono volte a regolare i molteplici e variegati aspetti della realtà concreta. L’ordinamento si compone, infatti, di diversi strumenti per assicurare l’aderenza tra le norme giuridiche e le vicende quotidiane della vita.

Vengono in rilievo, anzitutto, l’astrattezza e la vaghezza del linguaggio impiegato, generalmente, dal legislatore. Ciò garantisce una certa elasticità, un certo margine di manovra, mediante una diversa lettura dei concetti espressi nelle norme giuridiche[5]. I suddetti caratteri, ed in particolare l’astrattezza, rendono le regole giuridiche in grado di adattarsi al meglio alla complessità della odierna società: il diritto muta la propria forma e si adegua alle esigenze concretamente avvertite, riuscendo a restare al passo con una realtà altamente dinamica ed in costante divenire[6].

Un ruolo fondamentale, nell’ambito del procedimento che porta la norma giuridica a adeguarsi costantemente ed inesorabilmente alla mutevole complessità sociale, è giocato dall’interprete e, segnatamente, dall’attività da esso svolta. L’interpretazione del diritto consiste, infatti, in un’attività creativa, che consente di ritagliare la norma sì da regolare al meglio l’episodio di vita concretamente verificatesi. L’interpretazione attribuisce un senso alla disposizione normativa, consentendo alla regola generale e astratta di disciplinare il caso concreto e particolare.

All'interpretazione è affidata, dunque, una particolare funzione. Spetta all’interprete il compito di dare applicazione al diritto, regolando i diversi casi della vita e consentendo, pertanto, l’apertura alla complessità di un sistema che nasce come tendenzialmente chiuso. L’apertura così realizzata appare, peraltro, necessaria alla sopravvivenza del sistema stesso, poiché senza di essa il diritto diverrebbe obsoleto ancor prima di essere cristallizzato in fonti scritte[7].

In altre parole, l’attività interpretativa consente di rimediare al problema posto dalle creazioni normative che, nella loro complessità e nella logica emergenziale che, negli ultimi tempi, connota il nostro ordinamento, non riescono a stare al passo con le esigenze della società moderna. 

È in questo complesso e mutevole contesto che assumono rilevanza le clausole generali ed il riferimento all’equità. È possibile affermare, infatti, che l’ordinamento giuridico vigente si fonda in maniera prevalente su concetti e clausole generali e astratte che, come tali, orientano l’atteggiamento valutativo dell’interprete. Detto altrimenti, nell’ambito di un rapporto negoziale, l’interprete ha il compito di valutare il comportamento posto in essere dalle parti alla luce di canoni e di concetti il cui contenuto non risulta essere prestabilito. Ciò consente di fornire una valutazione complessiva della condotta tenuta dalle parti che va al di là del rigido formalismo che caratterizza le regole giuridiche. 

L’attività creativa e valutativa dell’interprete, in definitiva, è guidata costantemente da principi e clausole generali. Lo studio di queste ultime, dunque, coinvolge la più ampia questione dell'apertura del sistema giuridico, di per sé rigido, alla mutevolezza della odierna società[8].

3. L’equità

Le clausole generali consentono, da un lato, di adattare il contenuto della norma alla realtà in costante e continuo divenire, e, dall’altro, di fornire una valutazione dell’attività tenuta dalle parti di un rapporto contrattuale basata su concetti ampi ed elastici.

Spostando l’attenzione sul concetto di equità, è possibile affermare che individuare quando un giudizio sia effettivamente equo rappresenta, a ben vedere, una sorta di mistero. Ciò perché, in sostanza, si possono avere una molteplicità di valutazioni con riferimento al comportamento equo.

In prima battuta, il riferimento all’equità rievoca il concetto di giustizia, nel senso che ciò che è equo è senz’altro giusto. Offrire una valutazione in termini equitativi, dunque, significa valutare se una determinata condotta è, o meno, giusta.

La giustizia e l’equità, equivalendosi, comportano entrambe una molteplicità di punti di vista e di chiavi di lettura. Non è possibile, infatti, individuare in modo univoco e definitivo ciò che è equo e giusto, così come non è affatto detto che la soluzione che ad alcuni appare conforme ai canoni dell’equità e della giustizia lo sia anche per altri.

Alla difficoltà evidenziata se ne aggiunge una ulteriore. Il ragionamento che si conduce quando si fa riferimento all’equità, infatti, comporta la necessità di confrontarsi con un ampio ventaglio di idee e profili religiosi, etici e morali. L’uomo, l’interprete, nel momento in cui compie la propria attività valutativa mediante il ricorso al concetto di equità, fa necessariamente riferimento alle proprie idee ed ai propri atteggiamenti interiori.

D’altronde, ogni attività avente carattere interpretativo e valutativo finisce per essere inevitabilmente influenzata dall’elemento soggettivo di chi la pone in essere. Il fenomeno viene qualificato dal filosofo tedesco Gadamer con l’espressione “precomprensione”[9]: si tratta di ciò che individua la personalità, l’atteggiamento ed il modo di essere proprio di colui che realizza l’attività interpretativa. Tutto ciò si pone, peraltro, alla base della diversità di scelte e di chiavi interpretative dissimili in relazione al medesimo precetto normativo.

3.1. L’impiego normativo del concetto di equità

Come anticipato in apertura, la lettura dell’indice analitico del codice civile consente di verificare come il legislatore abbia più volte richiamato il concetto di equità. È chiaro che non potranno essere, in questa sede, rievocate tutte le singole ipotesi richiamate dal testo codicistico: sarà posta l’attenzione su alcune soltanto di esse, così da poter comprendere l’indeterminatezza della clausola in oggetto e l’impiego che ne è fatto dal legislatore codicistico.

Così, l’art. 1374 c.c., in primo luogo, riconosce all’equità un ruolo nell’ambito della c.d. integrazione del contratto. Gli effetti del contratto non sono limitati soltanto ai contenuti espressamente pattuiti, poiché “il contratto obbliga le parti […] anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità”.

L’intesa negoziale raggiunta dalle parti costituisce solamente un primo tassello, fondamentale ma non sufficiente per comprendere gli effetti che derivano dal contratto. Vi è, infatti, la necessità di fare riferimento anche ad ulteriori e diverse fonti di integrazione: la legge, gli usi e, infine, l’equità.

Si legittima, così, l’impiego di criteri di orientamento e di disciplina, nella individuazione delle conseguenze scaturenti dalla conclusione di un contratto, che si basano sull’utilizzo del concetto di equità.

La regola contrattuale integrativa deve essere individuata in modo da consentire la realizzazione del risultato che, in concreto, appare equo e giusto. I criteri cui deve ispirarsi l’interprete nello svolgimento di tale attività non sono specificati, per cui non è chiaro se deve essere fatto riferimento ai valori sociali, morali o ai principi economici. Una cosa è, comunque, certa: deve prodursi un risultato equilibrato alla luce della concreta economia dell’affare[10].

Il rapporto contrattuale, pertanto, è disciplinato non solo da elementi oggettivi e predeterminabili, come la legge e gli usi, ma anche dall’equità, il cui contenuto concreto rimane oscuro.

Anche l’art. 1371 c.c., calato nell’ambito delle disposizioni relative all’interpretazione del contratto, richiama il concetto di equità. La norma indica, infatti, che il contratto deve essere inteso “nel senso meno gravoso per l’obbligato, se è a titolo gratuito, e nel senso che realizza l’equo contemperamento degli interessi delle parti se è a titolo oneroso”. Il problema è, icto oculi, capire quando si realizza effettivamente un “equo contemperamento” degli interessi in gioco. Anche qui, peraltro, il legislatore non fornisce, al riguardo, alcuna indicazione.

Allo stesso modo, l’art. 1384 c.c. fa riferimento alla possibilità per il giudice di provvedere ad un’equa diminuzione della penale, nel caso in cui la stessa risulti essere eccessiva[11]. Così, le parti sono libere di determinare il quantum della penale, che costituisce, ex art. 1382 c.c., la sanzione prevista dalle parti in caso di inadempimento[12], ma se la stessa risulti essere eccessiva, il giudice può intervenire riducendola ad equità.

Il concetto di equità viene impiegato non soltanto nell’ambito della disciplina dei contratti in generale, ma anche con riferimento ai singoli contratti tipici. Così, a titolo esemplificativo, l’equità emerge dalla lettura dell’art. 1733 c.c., in materia di contratto di commissione. La norma statuisce che, se la provvigione non è stabilità dalle parti, “si determina secondo gli usi del luogo in cui è compiuto l’affare”. Aggiunge, la disposizione, poi, che, in mancanza di usi, “provvede il giudice secondo equità”.

Anche nell’ambito degli articoli codicistici riferiti al contratto di commissione viene, dunque, richiamata la clausola dell’equità: ad essa è affidato il compito di completare la disciplina del rapporto.  

Le norme indicate rappresentano alcune soltanto delle ipotesi in cui si ha un riferimento al concetto di equità. Ciò consente di affermare che l’ordinamento giuridico ammette un criterio di valutazione in senso giuridico basato non soltanto sulla lettera della legge, ma anche sul riferimento ad un concetto astratto e difficilmente afferrabile: il canone dell’equità.

Il contenuto delle disposizioni indicate, tuttavia, non risolve il problema di fondo e non attribuisce all’equità un significato assoluto. Non è possibile elencare con certezza quali siano le caratteristiche proprie della valutazione in termini equitativi, poiché, ad oggi, non esiste una chiave unitaria di lettura.

3.2. I possibili utilizzi del concetto di equità

Il concetto di equità assume, a ben vedere, un significato ed una sfumatura differente a seconda del diverso utilizzo che ne viene fatto. In particolare, l’equità talvolta riveste il ruolo di vera e propria fonte del diritto e, talaltra, si presenta come un valido strumento per esprimere un giudizio.

Per quanto riguarda, anzitutto, il riconoscimento dell’equità come fonte del diritto, è opportuno fare riferimento all’art. 114 c.p.c., a tenore del quale “il giudice, sia in primo grado che in appello, decide il merito della causa secondo equità quando esso riguarda diritti disponibili delle parti e queste gliene fanno concorde richiesta”.

In questi casi, dunque, il giudice si trova a dover fare riferimento, per la risoluzione della controversia, non alle norme generali e astratte contenute nelle disposizioni di legge, ma a ciò che risulta dell’impiego del concetto di equità.

Nell’ambito dell’art. 114 c.p.c. viene impiegato il concetto di equità con un significato particolare: equità come fonte del diritto, da cui scaturiscono regole diverse da quelle previste dall’ordinamento civilistico.

L’equità, però, può talvolta rappresentare anche una valida tecnica per esprimere un giudizio valutativo. Si tratta delle ipotesi in cui la legge chiede che sia effettuata una valutazione, come ad esempio la quantificazione di una somma di denaro, sulla base del concetto di equità.

Ciò che accomuna le diverse fattispecie, tuttavia, è il fatto che, nella logica contrattuale, equo significa giusto ed eguale. Ogni volta in cui il legislatore utilizza la clausola in oggetto, dunque, si pone la necessità di addivenire ad una soluzione che deve essere equa ed equilibrata nei confronti di entrambe le parti del rapporto negoziale.

La soluzione equa non si impone, per definizione, in maniera univoca. Si avrà una risposta differenziata a seconda del soggetto che compie l’attività valutativa e che adotta la decisione del caso concreto. In sostanza, per utilizzare le parole di Gadamer, è la precomprensione che si pone all’origine della valutazione equitativa adottata dall’interprete e dal giudice.

In definitiva, l’equità integra e completa la disciplina contrattuale, ma non esiste una soluzione equa unitaria. Non è affetto detto, infatti, che la soluzione adottata da un soggetto sia quella che, in un caso analogo, sarebbe stata adottata da altri.

L’incognita derivante dal concetto di equità è accettata dal nostro ordinamento, consentendo una maggiore flessibilità e aderenza alla realtà delle norme giuridiche. La clausola generale è utile, in quest’ottica, per impedire il risultato ingiusto che, in alcuni casi, potrebbe derivare dall'applicazione rigorosa di una norma giuridica non elastica[13].

4. Giurisprudenza in tema di equità

L’analisi sino ad ora condotta consente di evidenziare il fatto che le disposizioni codicistiche, nel richiamare il concetto di equità, attribuiscono un importante ruolo all’interprete e, segnatamente, al giudice. Spetterà all’autorità giudiziaria, infatti, dirimere la controversia concreta dando attuazione alle prescrizioni normative che legittimano il ricorso al canone dell’equità.

In questo contesto, è interessante analizzare alcune pronunce giurisprudenziali per verificare le modalità con cui viene applicata la clausola dell’equità.

4.1. La riduzione ad equità della clausola penale

La Corte di cassazione ha avuto, recentemente, l’occasione di pronunciarsi, con la sentenza n. 2491/2015[14], in tema di riduzione ad equità della clausola penale. Si tratta di una possibilità che, come abbiamo visto, è espressamente riconosciuta dall’art. 1384 c.c.: il giudice può, in estrema sintesi, ridurre ad equità una clausola penale sproporzionata.  

La vicenda ha ad oggetto un contratto di leasing, nel cui regolamento negoziale era introdotta una clausola penale che prevedeva che, in caso di inadempimento, l’utilizzatore avrebbe dovuto versare alla controparte una quantità di denaro data dalla somma dei canoni scaduti e di quelli ancora da scadere.

Interessante è la soluzione offerta in primo grado, che viene, peraltro, confermata anche dalla Corte di cassazione. Il tribunale, infatti, ha ritenuto di poter accertare il diritto del creditore di trattenere, a titolo di penale, soltanto i canoni già scaduti e riscossi. Il giudice ha provveduto, così, alla riduzione della penale considerata, nel caso di specie, eccessiva.

Dunque, per il giudice di primo grado la penale che, in caso di mancato adempimento, predetermina la somma di denaro dovuta sulla base dei canoni scaduti e da scadere risulta in contrasto con il concetto di equità. Ciò giustifica, pertanto, l’applicazione dell’art. 1384 c.c. e la conseguente riduzione della penale.

Nella sentenza in commento il giudice, chiamato ad interpretare il contenuto del contratto di leasing e ad esprimersi, in sostanza, sulla equità della clausola ivi contenuta, ha fatto sostanzialmente applicazione del metodo valutativo consistente nell’utilizzo di una categoria astratta e indeterminata quale, appunto, l’equità.

Attraverso il ricorso all’equità, in altre parole, il giudice ha valutato se la clausola penale, che le parti hanno di comune accordo inserito nell’ambito del contratto, fosse strutturata in modo tale da garantire il contemperamento degli interessi delle parti medesime. 

La valutazione in chiave equitativa della posizione di entrambe le parti suggerisce, secondo il giudice, che chi ha concesso un bene in leasing, mantenendone la proprietà e trattenendo, altresì, i canoni via via scaduti, non può conseguire un ulteriore vantaggio derivante dal cumulo dei canoni da scadere.

È da notare, tuttavia, che la soluzione equa adottata dal giudice nel caso di specie potrebbe non essere condivisa da un diverso soggetto. Un caso analogo, con applicazione della medesima norma, potrebbe portare ad una diversa soluzione, a causa della mutevolezza e soggettività insita nell’impiego del canone dell’equità.

Più di recente, la Corte di cassazione ha specificato quali sono i criteri di valutazione da seguire per giudicare il carattere eccessivo della penale[15]. Il giudice è chiamato a comparare il vantaggio che il contraente che ha adempiuto realizza effettivamente con il margine di guadagno che lo stesso mirava legittimamente a conseguire dalla regolare esecuzione del contratto[16].

4.2. La valutazione in via equitativa dell’indennità dell’agente

L’art. 1751 c.c., nell’ambito della disciplina codicistica del contratto di agenzia, si riferisce all’indennità dovuta all’agente in caso di cessazione del rapporto e introduce un’ipotesi di operatività della valutazione in chiave equitativa[17]. In particolare, la norma stabilisce che l’agente ha diritto a un’indennità che il giudice dovrà, all’evenienza, quantificare in via equitativa. Il legislatore indica anche dei criteri che dovranno guidare il giudice nell’impiego della clausola dell’equità, giacché richiede espressamente che sia tenuto conto degli incrementi economico-monetari che il lavoro dell’agente ha prodotto nel patrimonio del proponente.

L’indennità spetta all’agente, però, solo se ricorrono due condizioni: la prima è legata all’effettivo lavoro svolto dall’agente[18], mentre la seconda, da leggere in chiave equitativa, è volta a riparare il pregiudizio sofferto dall’agente a seguito della cessazione del rapporto di agenzia[19].

La lettera dell’art. 1751, comma 1, c.c. è stata oggetto, peraltro, di due susseguenti interventi normativi, volti, entrambi, a dare attuazione ad una direttiva comunitaria[20].  

La prima modifica è intervenuta nel lontano 1991[21] ed ha subordinato il pagamento della somma dovuta a titolo indennitario al verificarsi di almeno una delle condizioni suddette.

A differenza di quanto emergeva dal contenuto della direttiva comunitaria, dunque, non era necessario che ricorressero entrambe le condizioni indicate dalla legge, ma era sufficiente che se ne verificasse una soltanto.

L’antinomia tra diritto nazionale e direttiva comunitaria è stata risolta, nel 1999, con un successivo intervento normativo[22]: il legislatore ha chiarito, infatti, che, affinché l’agente maturasse il diritto all’indennità, era necessario che ricorressero entrambe le condizioni.

Ebbene, sul punto, è interessante analizzare una sentenza della Corte di cassazione di alcuni anni fa[23].

Il problema affrontato riguarda il rapporto tra la determinazione in via equitativa dell’indennità ex art. 1751, comma 1, c.c. ed il contenuto del contratto collettivo stipulato fra le associazioni sindacali degli agenti di commercio e quelle dei loro datori di lavoro.

Il contratto collettivo in questione prevedeva, in particolare, un metodo autonomo e difforme da quello indicato dalla norma codicistica per calcolare l’indennità spettante all’agente: il quantum dovuto non deve essere misurato sulla base dell’incremento del giro di affari del datore di lavoro, ma in maniera fissa e predeterminabile.

Si pone, come è chiaro, la necessità di stabilire quale dei due opposti metodi di liquidazione dell’indennità dovuta all’agente debba trovare applicazione. In sostanza, si tratta di verificare se la regola posta dal contratto collettivo è favorevole, o meno, per l’agente di commercio.

Sul punto la Corte di cassazione ritiene che, per verificare se la deroga che il contratto collettivo pone rispetto al codice civile sia migliorativa o peggiorativa per l’agente, sia necessario effettuare un controllo in concreto ed ex post, in base al risultato che si produce nei confronti del singolo agente.

Così, la determinazione in via automatica dell’indennità sarà considerata peggiorativa dove l’agente riesca a dimostrare che il suo operato aveva, effettivamente, incrementato il giro d’affari del proponente. Ed è proprio quest’ultima ipotesi che ricorre nel caso posto all’attenzione della Corte.

La Cassazione finisce così per affermare l’applicabilità, nel caso di specie, dell’art. 1751, comma 1, c.c.: spetta al giudice determinare, in via equitativa, l’indennità che spetta all’agente di commercio.

La pronuncia è importante perché viene attribuita prevalenza ad una regola di giudizio, quella contenuta all’art. 1751 c.c., che riconosce un ampio margine di manovra alla “discrezionalità” del giudice. Attraverso il richiamo al concetto di equità, infatti, si abbandona la possibilità di vincolare la quantificazione dell’indennità dovuta all’agente ad elementi fissi (come prevedeva, peraltro, il contratto collettivo) per abbracciare l’incognita rappresentata da ciò che è giusto e equo.

5. Considerazioni conclusive

È possibile affermare, a fronte dell’analisi condotta nei precedenti paragrafi, che l’equità rappresenta un importante strumento che il legislatore, talvolta, pone nelle mani dell’interprete e, segnatamente, del giudice.

La lettura delle disposizioni codicistiche che ammettono il ricorso al criterio dell’equità dimostra come esse siano accomunate da almeno due circostanze. L’equità, infatti, è comunque un’entità diversa ed ulteriore rispetto alla legalità: quando si effettuano valutazioni equitative si sfugge alla stretta legalità per rifugiarsi nel mondo della morale, delle idee religiose e del modo di essere di ognuno (ciò che è equo per me, può non esserlo per te). Inoltre, la possibilità di fare riferimento all’equità è ammessa soltanto se una norma di diritto positivo la prevede espressamente[24]. Si tratta di un aspetto importante e da non sottovalutare, perché, in assenza di una norma che richiami l’equità, gli operatori giuridici non possono che attenersi al rispetto del diritto positivo.

Lo scopo perseguito mediante l’utilizzo del concetto di equità è di garantire una maggior aderenza del diritto positivo alla complessa e mutevole realtà.

D’altro canto, il rischio è una eccessiva apertura alla discrezionalità ed alla soggettività di colui che pone in essere l’attività interpretativa o valutativa, che rischia, eventualmente, di scadere in mero arbitrio. Si tratta di un pericolo, comunque, accettato dal legislatore, che apre al possibile utilizzo dell’equità, come appena sottolineato, soltanto in ipotesi tipiche e tassative.

In definitiva, l’equità consente di correggere la singola norma giuridica garantendo, quando possibile, la possibilità di ancorare la soluzione o la valutazione del caso concreto a canoni di giustizia e di assicurare (l’equo) contemperamento degli interessi delle parti.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Appartiene senz’altro a questa categoria il concetto di buona fede, così come quello di abuso del diritto.
[2] Sulla rilevanza delle clausole generali, vedi: L. Nivarra, Clausole generali e principi generali del diritto nel pensiero di Luigi Mengoni, in “Europa e dir. priv.”, n. 2 (2007), pp. 411-446; S. Rodotà, Il tempo delle clausole generali, in “Rivista critica del diritto privato”, 1987, pp. 709 e ss.
[3] Sul punto, vedi: F. Gazzoni, Equità e autonomia privata, Giuffrè, Milano, 1970, pp. 172 e ss.; L. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, in “Rivista critica del diritto privato”, 1986, p. 19.
[4] F. Forcellini, A. Iuliani, Le clausole generali tra struttura e funzione, in “Europa e dir. priv.”, n. 2 (2013), p. 395.
[5] D. Antelmi, Vaghezza, definizioni e ideologia nel linguaggio giuridico, in G. Garzone, F. Santulli (a cura di), Il linguaggio giuridico. Prospettive interdisciplinari, Giuffrè, Milano, 2008, pp. 89-103.
[6] M. Barcellona, Clausole generali e giustizia contrattuale. Equità e buona fede tra Codice civile e diritto europeo, Giappichelli Editore, Torino, 2006, pp. 14 e ss.
[7] H.V. Foerster, Sistemi che osservano, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1987, pp. 51 e ss.
[8] F. Forcellini, A. Iuliani, Le clausole generali tra struttura e funzione, op.cit., pp. 398-401.
[9] H.G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano, 2000.
[10] D. Russo, Giustizia contrattuale e poteri del giudice, in “Diritto&Diritti”, 2003, url.
[11] La norma prevede che “la penale può essere diminuita equamente dal giudice, se l'obbligazione principale è stata eseguita in parte ovvero se l'ammontare della penale è manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all'interesse che il creditore aveva all'adempimento”.
[12] A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Giuffrè, Milano, 2013, pp. 584-585.
[13] S. Patti, Clausole generali e discrezionalità del giudice, in “Rivista del notariato”, n. 2 (2010), p. 304.
[14] Cass., 10/2/2015, n. 2491.
[15] Cass., 12/7/2018, n. 18326.
[16] C. Sartoris, Inadempimento del leasing traslativo e clausola penale, in “Persona e Mercato”, 2018, url.
[17] Sul tema dell’indennità dell’agente vedi, ex multis: F. Robazza, Le indennità di fine rapporto nel contratto di agenzia, in “Altalex.it”, 2010, url.
[18] La norma ricollega l’indennità al fatto che “l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti”.
[19] La disposizione aggiunge che il pagamento dell’indennità deve essere equo, “tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti”.
[20] Direttiva CEE n. 653/1986.
[21] Art. 4, d.lgs. 303/1991.
[22] Art. 5, d.lgs. 65/1999.
[23] Cass., 1/4/2014, n. 7567.
[24] A. Concas, Il principio giuridico dell’equità, in “Diritto.it”, 2014, url.