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Pubbl. Gio, 8 Nov 2018
Sottoposto a PEER REVIEW

Resistenza a pubblico ufficiale: quale pena se l´aggressione è contro più soggetti?

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Irene Pellegrini


Commento alla sentenza n. 40981 del 22.02.2018 (depositata il 24.9.2018), della Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali.


Sommario: 1. La questione controversa; 2. Il caso; 3. Focus: il reato di resistenza a un pubblico ufficiale; 4. La decisione delle Sezioni Unite; 5. Bibliografia essenziale; 6. Riferimenti giurisprudenziali.

1. La questione controversa

Con la sentenza n. 40981 del 22 febbraio 2018, depositata il 24 settembre 2018 (Pres. Di Tomassi – est. De Crescienzo, imp. Apolloni), le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono pronunciate sulla seguente questione di diritto, ormai da tempo oggetto di antitetiche applicazioni da parte delle Sezioni semplici: in tema di resistenza a pubblico ufficiale (o incaricato di pubblico servizio) ex articolo 337 del Codice Penale, configura un unico reato, un concorso formale di reati o un reato continuato la condotta di chi, con una sola azione, usi violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio mentre essi si trovino a compiere un atto del loro ufficio o servizio?

2. Il caso

L’imputato R.A., tramite il suo difensore, proponeva ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Ancona, la quale, confermando la decisione del Tribunale di primo grado del 6.9.2010, lo aveva condannato alla pena di quattro mesi e venti giorni di reclusione per il reato di cui agli artt. 81, comma II, e 337 c.p., avendo egli rivolto minacce di morte e usato violenza contro due ufficiali di P.s intervenuti per impedirgli di aggredire un terzo soggetto.

Nello specifico, l’imputato si doleva della sentenza impugnata per due ordini di motivi.

Col primo, ne denunciava l’erronea applicazione della legge penale e il vizio di motivazione, giacché essa ricollegava a un’unica azione la sussistenza di una pluralità di fatti in continuazione fra loro, senza peraltro adeguatamente giustificare tale scelta; col secondo, lamentava che la predetta sentenza risultava carente laddove non motivava in maniera sufficiente il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, la cui concessione avrebbe alleggerito un carico sanzionatorio ritenuto eccessivo.

La Sesta Sezione penale, assegnataria del procedimento, rimetteva quest’ultimo al vaglio delle Sezioni Unite con ordinanza n. 57249/2017, ravvisando, con riferimento alla soluzione del primo motivo di ricorso, l’esistenza di un consapevole contrasto di giurisprudenza sull’applicabilità della disciplina prevista dall’art. 81, primo comma, c.p. nel caso in cui l’azione di resistenza sia stata contestualmente rivolta nei confronti di una pluralità di pubblici ufficiali impegnati nel compimento del medesimo atto di ufficio. Sul tema, il Collegio remittente rappresentava la sussistenza di due opposti orientamenti giurisprudenziali, i quali, con riferimento alla struttura della fattispecie e all’individuazione dell’oggetto del reato (inteso, questo, quale bene primario colpito dall’azione del reo), pervenivano a conclusioni antitetiche.

Secondo una prima tesi, fatta propria dalla sentenza impugnata, il reato di cui all’art. 337 c.p. si perfeziona con l’esercizio di violenza o minaccia  nei confronti di ogni singolo pubblico ufficiale che stia compiendo un atto del proprio ufficio, al fine di ostacolarne l’operato; quindi, a un unico atto contestualmente offensivo di una pluralità di pubblici ufficiali corrisponderebbero plurime violazioni della norma di cui all’art. 337 c.p., le quali dovrebbero essere sanzionate applicando la disciplina prevista dall’art. 81 c.p.

Tale orientamento si pone nell'alveo di una più risalente giurisprudenza[1], ed è stato recentemente riconfermato da Cass. pen., Sez. Sesta, sent. n. 35227/2017, Provenzano, secondo cui la resistenza o la minaccia adoperate nel medesimo contesto fattuale per opporsi a più pubblici ufficiali non configurano un unico reato di resistenza ai sensi dell'art. 337 c.p., ma un concorso formale omogeneo di reati e dunque tanti distinti reati quanti sono i pubblici ufficiali operanti, giacché la resistenza, pur ledendo unitariamente il pubblico interesse alla tutela del normale andamento della pubblica funzione, si risolve in distinte offese al libero espletamento dell'attività di ciascun pubblico ufficiale.

Si è, quindi, ritenuto ravvisabile il concorso formale omogeneo di reati se l'agente, con un'unica azione, ha deliberatamente commesso più violazioni della medesima disposizione di legge, nella consapevolezza di contrastare l'azione di ciascun pubblico ufficiale.

L’impostazione contraria[2] è invece incentrata sul fatto che il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice è il regolare svolgimento dell'attività della P.A., e non l'integrità fisica del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, sicché nella realizzazione dell’illecito – il cui oggetto è la resistenza alla formazione dell’atto - la violenza e la minaccia al pubblico ufficiale hanno carattere meramente strumentale: dunque, nel caso in cui l’atto amministrativo ostacolato sia unico, la condotta del reo rimarrebbe comunque una e una sola, anche in presenza di una molteplicità di pubblici ufficiali.

A sostegno di siffatta ricostruzione della fattispecie ex art. 337 c.p., la quale evidentemente si discosta da quella di precedente elaborazione, si osserva che essa trova ragione nella stessa formulazione letterale della disposizione, laddove focalizza quale obiettivo della condotta criminosa l'opposizione all'atto piuttosto che la violenza o minaccia nei confronti del singolo pubblico ufficiale, considerato in quanto persona fisica.

Alla luce di tali divergenze interpretative, la Sesta Sezione demandava perciò alle Sezioni Unite di decidere il ricorso, stabilendo «se, in tema di resistenza a un pubblico ufficiale, ex art. 337 cod. pen., la condotta di chi, con una sola azione, usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio, configuri un unico reato ovvero un concorso formale di reati o un reato continuato».

3. Focus: il reato di resistenza a un pubblico ufficiale

Il reato di resistenza a un pubblico ufficiale è previsto dall’articolo 337 c.p., ai sensi del quale: «Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.»

La norma in esame è collocata nel libro II, titolo II, capo II del codice penale, e rientra perciò fra i delitti dei privati contro la pubblica amministrazione.

Trattasi di reato comune, giacché soggetto attivo può essere chiunque; non così, invece, per quanto riguarda il soggetto passivo, che deve necessariamente rivestire la qualifica di pubblico ufficiale ai sensi dell’articolo 357 c.p., o di incaricato di pubblico servizio ex articolo 358 c.p.[3]

Diversamente da quanto disposto dall’art. 336 c.p., il quale punisce il reato di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale, il delitto di resistenza non ha lo scopo di tutelare la libera formazione della volontà dei pubblici poteri, bensì quello di garantire la corretta esplicazione di tale volontà, senza che la sua esecuzione tramite atti venga ostacolata da eventuali ingerenze violente o minacciose: in conformità a tale ratio, quindi, il reato di cui all’art. 337 c.p. è configurabile solo allorché si stia già svolgendo l’attività funzionale relativa all’atto cui in concreto il reo vuole opporsi.

A proposito del bene giuridico tutelato dalla norma in oggetto, come si è già avuto modo di anticipare nei paragrafi precedenti due sono le interpretazioni principali.

Secondo un primo orientamento[4], il reato in questione avrebbe natura plurioffensiva, in quanto lesivo non solo del buon andamento della P.A., bensì anche della libertà di autodeterminazione ed incolumità della persona fisica che si trovi a esercitare pubbliche funzioni; la tesi opposta[5] sostiene invece che la tutela dell’integrità fisica del pubblico ufficiale (o soggetto comunque esercente pubblica funzione) resterebbe assorbita dal più generale interesse al regolare andamento della P.A., sicché unico sarebbe il bene protetto dalla fattispecie.

Gli elementi qualificanti la condotta integrativa del delitto in esame sono la minaccia (intesa quale prospettazione di un male ingiusto, che appaia idonea a determinare una costrizione nell’agire del soggetto passivo), nonché la violenza propria (ossia, quella energia fisica che arrechi pregiudizio corporeo ai danni di colui contro cui è rivolta) o impropria[6]; la fattispecie non punisce dunque la resistenza meramente passiva, non potendosi essa farsi rientrare nei concetti di violenza o minaccia.

L’elemento soggettivo richiesto è il dolo specifico, che deve concretarsi nella coscienza e volontà di usare violenza o minaccia contro un pubblico ufficiale (o incaricato di pubblico servizio), al fine di opporsi a un atto del suo ufficio (o servizio).

Il momento consumativo del reato si realizza nel luogo e nel tempo in cui sono avvenute la violenza o la minaccia, indipendentemente dal loro esito; è perciò perfettamente configurabile l’ipotesi del tentativo.

Al delitto di resistenza a un pubblico ufficiale si applica la speciale causa di non punibilità prevista dall’art. 393 bis allorquando «il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto […], eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni».

Riguardo, poi, al rapporto con altri reati, come sopra accennato il criterio distintivo tra il delitto in oggetto e quello di cui all’art. 336 c.p. è ravvisabile nel momento in cui si esplica la condotta incriminata: se la violenza o la minaccia precedono il compimento dell’atto da parte del pubblico ufficiale, si versa nell’ipotesi di violenza o minaccia a p.u., mentre, se le stesse vengono poste in essere durante lo svolgimento dell’atto d’ufficio e allo scopo di impedirlo, l’agente risponderà del reato di cui all’art. 337 c.p..

È infine opportuno ricordare che la violenza rimane assorbita nel reato in esame fino alle percosse (art. 581, comma 2, c.p.): oltre tale livello, si avrà concorso fra il suddetto delitto e quello di lesione personale (art. 582 c.p.), eventualmente aggravata ex art. 61, n. 2, c.p..

4. La decisione delle Sezioni Unite

Con la sentenza n. 40981, pronunciata il 22 febbraio 2018 e depositata il 24 settembre 2018, le Sezioni Unite hanno definitivamente chiarito la questione controversa, stabilendo che: «In tema di resistenza a un pubblico ufficiale, ex art. 337 cod. pen., integra il concorso formale di reati, a norma dell’art. 81, primo comma, cod. pen., la condotta di chi usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio mentre compiono un atto del loro ufficio. (grassetto di chi scrive)»

Il Supremo consesso è giunto a questa conclusione partendo dalla puntuale analisi dei due distinti temi di indagine oggetto di ricorso, ossia l’individuazione dell’ambito del concorso formale omogeneo di reati ex art. 81, primo comma, c.p. e l’analisi del profilo strutturale del reato previsto dall’art. 337 c.p., così come risultante dalla norma incriminatrice.

Con riguardo al primo profilo, la Corte osserva che il primo comma del summenzionato articolo 81 individua la fattispecie del “concorso formale di reati”, la quale si concretizza sia nel caso in cui con una sola azione siano violate diverse disposizioni di legge, sia quando, a mezzo di un solo atto, venga infranta più volte la medesima prescrizione; nella seconda ipotesi - che è quella che qui interessa - si parlerà dunque di “concorso formale omogeneo di reati”.

Quest’ultimo, quindi, si realizza qualora il bene protetto dalla norma sia leso più volte dalla stessa azione, la cui plurioffensività andrà valutata solo ed esclusivamente sulla base del fatto storico e non – come vorrebbe altro orientamento[7] - sulla scorta dell’interesse sotteso alla disposizione violata: ai fini della verifica della concreta ricorrenza di un’ipotesi di concorso formale omogeneo di reati, si dovrà perciò suddividere la complessiva vicenda fattuale in tante parti quanti sono gli eventi giuridici, appurando se ognuno degli autonomi frammenti di essa integri la fattispecie tipica in entrambe le sue componenti, sia oggettiva che soggettiva; in riferimento a quest’ultima, il supremo Collegio specifica che, non potendosi sussumere l’esistenza del dolo richiesto dal numero di soggetti passivi coinvolti, sarà necessario «un quid pluris consistente nella riconoscibile esistenza di uno specifico atteggiamento psicologico diretto a realizzare l’evento tipico previsto dalla norma incriminatrice nei confronti di ciascuna, distintamente, delle suddette persone, elemento quest’ultimo rinvenibile solo, come detto, attraverso la analisi concreta del fatto[8]».

Nel caso di verifica positiva di tale circostanza, si potrà quindi ritenere ricorrente la fattispecie del concorso formale omogeneo di reati.

Passando poi ad analizzare il profilo inerente al reato di resistenza a un pubblico ufficiale, le Sezioni Unite, a seguito di una breve sintesi dei due orientamenti giurisprudenziali messi in luce dalla sentenza impugnata, incentrano la disamina della fattispecie prevista dall’art. 337 c.p. sulla struttura obiettiva del delitto in oggetto e, in base ad essa, sull’interesse protetto dalla norma incriminatrice; dopo aver constatato che la condotta tipica ivi delineata si concreta nell’uso di violenza o minaccia da parte di taluno che si opponga a un pubblico ufficiale (o a più pubblici ufficiali, nonché a soggetti equiparati) mentre questi stia svolgendo un atto del proprio ufficio, e che, quindi, la medesima condotta risulta integrata ogniqualvolta venga posto in essere un atteggiamento – anche implicito, purché percepibile – idoneo a comprimere la regolarità del compimento dell’atto di ufficio, il Supremo consesso individua il bene giuridico tutelato dalla norma ex art. 337 c.p. nel regolare funzionamento della pubblica amministrazione, escludendo così l’eventuale compresenza di plurimi interessi di pari rango nell’ambito della suddetta fattispecie.

Ora, secondo univoche dottrina e giurisprudenza di diritto amministrativo, il concetto di “regolare andamento della P.A.” afferisce tanto ai beni materiali quanto alle persone fisiche, le quali, mediante l’istaurazione del cosiddetto “rapporto organico[9]”, si ritrovano a identificarsi nella stessa pubblica amministrazione nel cui nome esse agiscono, costituendone il principale strumento di estrinsecazione sui piani sia volitivo, sia esecutivo; tale rapporto, nel campo del diritto penale, viene in rilievo ai sensi dell’art. 357 c.p., che ricollega la figura del pubblico ufficiale al concreto esercizio della pubblica funzione.

In base a siffatto ragionamento, la salvaguardia del buon funzionamento della P.A. implica non solo impedire il danneggiamento o la distruzione di beni pubblici, ma anche garantire da interferenze il corretto esplicarsi del procedimento volitivo o esecutivo di colui che, incardinato nella medesima P.A., la personifica: da ciò – ed è questo il carattere peculiare della sentenza in commento – deriva che il “regolare svolgimento della P.A.” deve necessariamente essere inteso in senso ampio, di modo da farvi ricomprendere, altresì, anche «la sicurezza e la libertà di determinazione e di azione degli organi pubblici, mediante la protezione delle persone fisiche che singolarmente o in collegio ne esercitano le funzioni o ne adempiono i servizi, così come previsto dagli artt. 336, 337 e 338 cod. pen.[10]».

A parere della Corte, infatti, le argomentazioni spese a supporto della tesi che vede l’opposizione incentrata sull’atto e non sul pubblico ufficiale non possono ritenersi convincenti, giacché troppo si discostano dal puro senso letterale dell’art. 337 c.p.

Alla luce di tutto quanto osservato, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione rispondono al quesito a esse posto dalla Sesta Sezione nel senso di ritenere sussistente il concorso formale omogeneo di reati previsto dall’art. 81, comma 1, c.p. ogniqualvolta taluno usi violenza o minaccia contro più pubblici ufficiali (o incaricati di pubblico servizio), mentre questi adempiono a un atto del loro ufficio (o servizio), al fine di ostacolarne il compimento; ritenendo quindi corretta l’impostazione della sentenza impugnata, le stesse rigettano il ricorso presentato dall’imputato, condannandolo altresì al pagamento delle spese processuali.

 

5. Bibliografia essenziale

- Antolisei F., Manuale di diritto penale. Parte speciale – II, Giuffrè, 1986;

- Clarich M., Manuale di diritto amministrativo, Il Mulino, 2013;

- Mantovani F., Diritto penale. Parte generale, CEDAM, 2013;

- Scoca F.G., Diritto amministrativo, Giappichelli, 2017.

6. Riferimenti giurisprudenziali

- Cassazione penale, Sezione Sesta, sent. n.7061/1996, Solfrizzi;

- Cassazione penale, Sezione Sesta, sent. n. 3546/1988, Grazioso;

- Cassazione penale, Sezione Sesta, sent. n. 11417/2003, Sannia;

- Cassazione penale, Sezione Sesta, sent. n. 35376/2006, Mastroiacovo;

- Cassazione penale, Sezione Seconda, sent. n. 17109/2011, Venturi;

- Cassazione penale, Sezione Sesta, sent. n. 4123/2016, Mozzi;

- Cassazione penale, Sezione Seconda, sent. n. 28389/2017, De Muzio e altri;

- Cassazione penale, Sezione Sesta, sent. n. 35227/2017, Provenzano;

- Cassazione penale, Sezione Sesta, sent. n. 39341/2017, Damiani;

- Cassazione penale, Sezione Sesta, sent. n. 52725/2017, Diop;

- Cassazione, Sezioni Unite, sent. n. 40981/2018, Apolloni

[1] Si veda, ex multis, Cass. pen., Sez. Sesta, sent. n. 3546/1988, Grazioso.
[2] Di cui è più recente espressione la sent. n. 52725/2017, Diop., Sez. Sesta, Cass. pen.
[3] In seguito alla novella apportata dalle leggi n. 86/90 e n. 181/92 agli artt. 357 e 358 c.p., le qualifiche di P.U. e I.P.S. ciò che rileva al fine di ricondurre un determinato soggetto a tale categoria, piuttosto, è ora la sola natura pubblicistica dell'attività svolta in concreto dallo stesso.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti «al fine di individuare se l'attività svolta da un soggetto possa essere qualificata come pubblica, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 357 e 358 c.p., ha rilievo esclusivo la natura delle funzioni esercitate, che devono essere inquadrabili tra quelle della P.A. Non rilevano, invece, la forma giuridica dell'ente e la sua costituzione secondo le norme di diritto pubblico, né lo svolgimento della sua attività in regime di monopolio, né tanto meno il rapporto di lavoro subordinato con l'organismo datore di lavoro» (vedasi Cass, pen., sent. n. 11417/2003 e n. 17109/2011).
[4] Recentemente ribadito da Sez. Sesta, sent. n. 35376 del 22/06/2006, Mastroiacovo e da Sez. Sesta, sent. n. 35227 del 25/05/2017, Provenzano.
[5] Sostenuta, da ultimo, da Sez. Sesta, sent. n. 4123/2016, Mozzi; Sez. Sesta, sent. n. 39341/2017, Damiani; Sez. Sesta sent. n. 52725/2017, Diop.
[6] La cosiddetta “violenza impropria” è stata definita dalla giurisprudenza come «qualsiasi atto o fatto posto in essere dall'agente che si risolva comunque in una coartazione della libertà fisica o psichica del medesimo, conseguentemente indotto, contro la sua volontà, a fare, tollerare od omettere qualche cosa» (vedasi, ex multis, Cass. pen. Sez. Seconda, sent. n. 28389/2017, De Muzio e altri).
Letta in questi termini, la violenza impropria è stata considerata configurabile anche qualora sia commesso il delitto di resistenza a un pubblico ufficiale; difatti, una volta constatato che per la sussistenza della fattispecie prevista dall’art. 337 C.P. è sufficiente che la violenza sia usata per opporsi a un pubblico ufficiale (o ad un incaricato di un pubblico servizio) nel compimento di un atto o di un’attività d’ufficio, la Suprema Corte è giunta alla conclusione secondo la quale la condotta tipica del delitto in discorso può restare integrata anche «[…] dalla violenza cosiddetta impropria, da quella violenza cioè che, pur non aggredendo direttamente il pubblico ufficiale, si riverbera negativamente sull’esplicazione della relativa funzione pubblica, impedendola o semplicemente ostacolandola» (vedasi Cass. pen., Sez. Sesta, sent. n. 7061/1996).
[7] La cui tesi viene riassunta in sentenza dalle stesse Sezioni Unite, le quali scrivono: «Non sembra avere sicuro fondamento, invece, l’opinione con la quale, distinguendo tra norme incriminatrici che tutelano beni altamente personali (vita, integrità fisica, libertà personale, onore) e norme che proteggono beni di natura diversa, si afferma che nel primo caso sarebbe sempre configurabile una pluralità di reati in ragione della rilevanza dei plurimi interessi lesi, mentre nel secondo ciò non sarebbe sempre possibile. La tesi pone infatti un alone di incertezza nel giudizio di concretizzazione della fattispecie tipica, mentre sul piano normativo non paiono rinvenirsi argomenti per una distinzione di tale fatta, né criteri discretivi oggettivi che consentano di distinguere con sufficiente precisione tra i beni altamente personali e quelli che tali non sarebbero» (si veda Cass. S.U., sent. n. 40981/2018, Apolloni, pg. 4).
[8] Ibidem, pagina 5.
[9] Secondo la dottrina più moderna, il rapporto organico – o “rapporto di immedesimazione organica” – è un rapporto non giuridico che esprime la relazione interna tra organo (o ufficio) e soggetto a esso preposto, in virtù della quale il primo diviene tutt’uno col secondo; tale tipo di rapporto rileva ai fini della diretta imputazione dell’attività svolta dal titolare dell’organo all’ente di cui questo costituisce elemento strutturale (si veda Diritto amministrativo, a cura di F.G. Scoca, Giappichelli, 2017).
[10] Ibidem, pagina 9.