Pubbl. Mar, 9 Ott 2018
Nullità della sentenza per omessa indicazione delle parti
Modifica paginaLa Corte di Cassazione (n. 22055 dell’11 settembre 2018) si è ritrovata, di recente, ad affrontare una tematica di natura squisitamente processuale, attinente alla nullità della sentenza nel caso di omessa o mancata indicazione, all’interno del corpus della stessa, di una delle parti regolarmente costituite.
La Corte di Cassazione si è ritrovata, di recente, ad affrontare una tematica di natura squisitamente processuale, attinente alla nullità della sentenza nel caso di omessa o mancata indicazione, all’interno del corpus della stessa, di una delle parti regolarmente costituite.
La questio iuris, portata in Corte di Cassazione, nasceva a seguito del fatto che la sentenza emessa nel precedente grado di giudizio aveva omesso di indicare il nome del soggetto appellante, il quale si era costituito, assieme al fratello, al fine di voler subentrare nella posizione processuale della madre, deceduta nel corso del giudizio d’appello. Nell’intero contesto della sentenza impugnata, in realtà, non veniva mai rilevata la costituzione in giudizio dei figli, unici eredi, della de cuius: in particolare, uno dei figli risultava già costituito nel giudizio, ma in proprio, ossia per altro titolo rispetto a quello della successione processuale; mentre il nome dell’altro figlio non compariva proprio all’interno della sentenza impugnata, risultando così quest’ultimo completamente estraneo all’intera vicenda processuale. L’omissione del nome era stata effettuata non solo nell’intestazione e nel dispositivo, ma anche nelle parti dedicate allo svolgimento del processo ed ai motivi della decisione: pertanto, ambo i ricorrenti, lamentando la violazione dell’art. 132 c.p.c.[1], in relazione all’articolo 360, comma 1, n. 3, 4, 5 c.p.c.[2], richiedendo così la nullità della sentenza d’appello per omessa indicazione di una delle parti del giudizio in cui è stata pronunciata.
Orbene, le considerazioni effettuate dall’Emerito Organo Giudicante, al fine di emettere la decisione, furono relative all’entità effettiva di tale “errore” all’interno della sentenza. Ovvero, risultava necessario comprendere se trattasi di mero errore materiale, e pertanto “scusabile”, per quanto di ragione, o trattasi di lacuna irreparabile, tale da giustificare la declaratoria di nullità della sentenza.
De facto, ed analizzando la fattispecie concreta, la Corte di Cassazione ha optato per l’accoglimento del ricorso, e dunque per la nullità della sentenza, essendo, a Suo giudizio, l’errore ivi presente di natura estremamente grave, e dunque capace di minare il contraddittorio instauratosi tra le parti in giudizio.
Infatti, è principio consolidato della Cassazione che “l’omessa o inesatta indicazione del nome di una delle parti nell’intestazione della sentenza è da considerarsi un mero errore materiale, e dunque emendabile con la procedura di cui agli art. 287 e 288 c.p.c., nel caso in cui dal contesto della sentenza risulti, con sufficiente chiarezza, l’esatta identità di tutte le parti in causa”. Mentre, a contrario, “è da considerarsi causa di nullità della sentenza solo qualora dalla sentenza stessa emerga una irregolarità nella costituzione del contraddittorio originario, ai sensi dell’art. 101 c.p.c., e quando sussiste una situazione di incertezza, non eliminabile a mezzo della lettura dell’intera sentenza, in ordine ai soggetti cui la decisione si riferisce”[3]. Si evince, da questi consolidati principi della Corte di Cassazione, l’assunto per cui l’omissione delle parti in causa, tale da giustificare la nullità della sentenza, deve essere talmente grave da inficiare, sic et simpliciter, il contraddittorio. Qualora dal testo della sentenza si dubiti che vi sia stata una lesione del contraddittorio all’interno del giudizio, è necessario dichiarare la nullità della sentenza, la quale non può di certo essere emessa inaudita altera parte.
Pertanto, secondo la Cassazione, “l’omessa indicazione nell’epigrafe della sentenza del nome di una delle parti rende nulla la sentenza quando né dallo svolgimento del processo, né dai motivi della decisione, sia dato desumere la sua effettiva partecipazione al giudizio, con conseguente incertezza assoluta nell’individuazione del soggetto nei cui confronti la sentenza è destinata a produrre i suoi effetti”[4]. La mancata conoscenza dell’instaurazione del contraddittorio, e dunque delle parti effettivamente costituite, determina un’incertezza anche a posteriori, ossia relativa agli effetti della pronuncia. Non si avrebbe modo, attraverso una pronuncia di tal natura, in effetti, di conoscere i destinatari di quella decisione, la quale dunque non avrebbe effettiva utilità, minando così anche il rispetto del canone dell’economia processuale.
Tuttavia, la Corte di Cassazione ha, in tal caso, inquadrato la nullità della sentenza impugnata all’interno dell’articolo 156 c.p.c.[5], e non all’interno dell’art. 132 co. 2 c.p.c.. La ratio di tale scelta stava nel fatto che quest’ultimo articolo non ricomprende, tra i motivi di nullità della sentenza, il requisito dell’indicazione delle parti, in quanto naturalmente l’omissione del nomen di queste viene semplicemente corretto, senza necessità di pervenire al meccanismo dell’impugnazione.
La regola prevede, infatti, che la mera omissione delle parti all’interno della pronuncia non è vizio da considerarsi patologicamente tanto grave da ingenerarne la nullità. Pertanto, sono eccezionali i casi in cui si opta per la declaratoria di nullità della sentenza, e tra questi vi rientra senza dubbio la situazione in cui l’omissione delle parti in giudizio è riconducibile ad un vizio del contraddittorio.
Pertanto, al fine di pervenire ad una pronuncia di nullità del testo impugnato, la Corte ha necessariamente dovuto sussumere la fattispecie concreta nell’art. 156 c.p.c. co.2, prevedendo così “che la mancanza dell’indicazione espressa di una delle parti o di tutte nella sentenza può determinare la nullità solo se l’atto sentenza sia inidoneo al raggiungimento dello scopo”[6]. In tal caso, non essendo presente, in via patologica, l’indicazione delle parti, a seguito di deficit insito nella regolarità del contraddittorio, non poteva tale pronuncia essere sanata per la “teoria del raggiungimento dello scopo”, poiché la sentenza può valere nei confronti di un soggetto non indicato come parte processuale, in quanto non è assolutamente idonea a produrre effetto nei suoi confronti. Inoltre, la Corte sottolineò anche come “non si riscontrava la possibilità di individuare per relationem la parte non indicata nella sentenza stessa che dunque, pur carente di un requisito formale, sia comunque idonea ad assicurare il soddisfacimento dello scopo a cui è preposta l’indicazione delle parti”[7].
Con detta pronuncia, dunque, la Cassazione ha riconfermato, quale lectio magistralis, la differenza sussistente tra mero errore di fatto e materiale, assolutamente idoneo alla correzione dinanzi alla stessa Autorità Giudicante che lo ha effettuato, e l’errore di diritto, relativo, invece, alla mancata osservanza di norme giuridiche, in questo caso di natura processuale, idoneo ad inficiare la sentenza, e pertanto direttamente impugnabile dinanzi gli organi superiori.
Note e riferimenti bibliografici
[1] L’art. 132 c.p.c. così recita: “La sentenza reca l’intestazione “Repubblica italiana”, ed è pronunciata “in nome del popolo Italiano”. Essa deve contenere: 1) l’indicazione del Giudice che l’ha pronunciata; 2) l’indicazione delle parti e dei loro difensori; 3) le conclusioni del PM e quelle delle parti; 4) la coincisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione; 5) il dispositivo, la data della deliberazione e la sottoscrizione del Giudice. La sentenza emessa dal Giudice collegiale è sottoscritta soltanto dal presidente e dal Giudice estensore. Se il presidente non può sottoscrivere per morte o per altro impedimento, la sentenza viene sottoscritta dal componente più anziano del collegio, purché prima della sottoscrizione sia menzionato l’impedimento; se l’estensore non può sottoscrivere la sentenza per morte o per altro impedimento, è sufficiente la sottoscrizione del solo presidente, purché prima della sottoscrizione sia menzionato l’impedimento”.
[2] L’art. 360 c.p.c. comma 1 così recita: “le sentenze pronunciate in grado di appello o in un unico grado possono essere impugnate con ricorso per Cassazione: 1)per motivi attinenti alla giurisdizione; 2) per violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza; 3) per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro; 4) per nullità della sentenza o del procedimento; 5) per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.
[3] Cass. n. 22275/2017; Cass. n. 7343/2010; Cass. n. 15786/2004, ex multis.
[4] Cass. 16535/2012.
[5] L’art. 156 c.p.c. così recita: “Non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo se la nullità non è comminata dalla legge. Può, tuttavia, essere pronunciata quando l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo. La nullità non può essere pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”.
[6] Cass. n. 17957/2007.
[7] Cass. n. 23670/2011.