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Pubbl. Ven, 31 Ago 2018

La presenza di attivo non esclude il fallimento

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Federica Prato
Dottorando di ricercaUniversità degli Studi di Napoli Federico II


Con l´ordinanza 18770 del 2018 la Cassazione afferma che l’esistenza di un cospicuo patrimonio in capo all’imprenditore non è sufficiente ad escluderne lo stato di insolvenza qualora anche un solo debito risulta inadempiuto, facendo emergere l´incapacità dell´imprenditore di adempiere regolarmente e con mezzi ordinari alle proprie obbligazioni.


Il fallimento è un istituto del Diritto Commerciale tra i più utilizzati – e complessi – nell’ambito delle procedure concorsuali e risulta tuttora regolato dalla (ormai datata) Legge Fallimentare contenuta nel r.d. n. 267 del 16 marzo del 1942.

Frequenti, però, sono stati gli interventi legislativi in materia, tra i più recenti si ricorda il d.lgs. n. 5/2006[1] che ha riformato il Diritto Fallimentare e la legge n. 155 del 19 ottobre 2017, con la quale è stata sostituita l’espressione ‘fallimento’ con ‘procedura di liquidazione giudiziale dei beni’ ed è stata prevista la possibilità di giungere ad una soluzione concordata entro tre anni, con la quale si otterrebbe la completa liberazione dai debiti.

In merito agli aspetti tecnici, esistono due tipologie di requisiti per poter essere assoggettati alla procedura fallimentare: da un lato i requisiti soggettivi disciplinati dall’art. 1 del r.d. 267/1942[2] e dall’altro i requisiti oggettivi ex art. 5[3] dello stesso testo normativo.

Proprio sui requisiti oggettivi e quindi sul concetto di stato di insolvenza sono sorti i principali dubbi, risolti con alcune pronunce dai giudici della Cassazione.

In primis, la definizione fornita dalla S.C., con l’ordinanza 21012/2017, con la quale “il significato oggettivo dell'insolvenza (…) deriva da una valutazione circa le condizioni economiche necessarie (secondo un criterio di normalità) all'esercizio di attività economiche, e si identifica con uno stato di impotenza funzionale non transitoria a soddisfare le obbligazioni inerenti all'impresa”.

In secundis, l’ordinanza 18770/2018, ha chiarito un altro punto fondamentale[4]: per comprendere se una società potesse fallire anche quando l’attivo patrimoniale fosse superiore al passivo, la Cassazione ha affermato che l’esistenza di un cospicuo patrimonio azionario ed immobiliare in capo all’imprenditore non risulta sufficiente ad escludere lo stato di insolvenza, che consiste nell’impossibilità per il debitore di adempiere regolarmente – con mezzi normali –  le proprie obbligazioni. Il dissesto, quindi, secondo la Corte, può realizzarsi anche qualora ci sia un inadempimento di un solo debito.

La disponibilità di un ingente patrimonio secondo questa importante pronuncia è irrilevante se non consente l’adempimento delle obbligazioni alle scadenze pattuite e con mezzi normali di pagamento; inoltre, per accertare l’eventuale stato di insolvenza si effettua una valutazione generale del debitore e ciò che rileva è la capacità o meno dello stesso di estinguere tempestivamente i debiti, senza intaccare il regolare funzionamento dell’impresa.

Nel caso di specie la Corte d’Appello di Cagliari aveva revocato una sentenza dichiarativa di fallimento ritenendo che la società in questione da un lato, vantasse un attivo patrimoniale superiore all’esposizione debitoria (nello specifico non avesse debiti superiori a € 30 000,00 ovvero la somma richiesta dal art. 15 legge fallimentare[5] per poter procedere alla dichiarazione di fallimento) e dall’altro che non avesse mai subito protesti, azioni esecutive o segnalazioni per irregolarità nella contabilità, infatti precedentemente lo stesso giudice di legittimità aveva affermato che “ai fini del computo del limite minimo di fallibilità previsto dall'art. 15, comma 9, l.f., deve aversi riguardo non solo al credito vantato dalla parte istante per la dichiarazione di fallimento, ma anche ai debiti non pagati emersi nel corso dell'istruttoria prefallimentare, pur se risultanti dall'elenco degli assegni protestati, che documentano altrettanti debiti scaduti del cui pagamento spetta al debitore fornire la prova[6].

Contro questa decisione del giudice di secondo grado, la curatela propone ricorso in Cassazione perché dall’istruttoria prefallimentare risultava un passivo superiore al minimo ex art. 15 L.F. e riteneva irrilevante l’assenza di protesti e di segnalazioni alla centrale dei rischi interbancaria. 

Tale ricorso viene accolto con il conseguente cassazione con rinvio della sentenza d’Appello.

In conclusione, dunque, alla stregua dei rilievi sin qui esposti è possibile affermare che le condizioni per il fallimento possono manifestarsi anche in caso di mancato pagamento di un solo debito, purché questo evento sia indicativo della mancanza di liquidità del debitore.

Infatti possedere un ingente patrimonio, sebbene non liquido, è irrilevante se non consente di adempiere obbligazioni entro i termini pattuiti e con mezzi normali di pagamento. 

A tal riguardo, una consolidata Giurisprudenza[7] sostiene che nel quantificare l'esposizione debitoria dell’impresa, individuale o collettiva, risulta necessaria una valutazione cumulativa non solo dei debiti già sorti, ma anche di tutti gli altri, come quelli contestati.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Decreto Legislativo 9 gennaio 2006, n. 5; "Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80"; pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 12 del 16 gennaio 2006.
[2] “Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici.
Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti:
a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila;
b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila;
c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila.
I limiti di cui alle lettere a), b) e c) del secondo comma possono essere aggiornati ogni tre anni con decreto del Ministro della giustizia, sulla base della media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati intervenute nel periodo di riferimento.”
[3] “L'imprenditore che si trova in stato d'insolvenza è dichiarato fallito.
Lo stato d'insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”
[4] Cfr.: Cass. Civ., sez. VI, 16 settembre 2015, n. 18192 ; Cass. Civ., sez. I, 6 febbraio 2018, n. 2810; Cass. Civ., sez. VI , 7 dicembre 2017, n. 29520; Cass. Civ., sez. I, 24 maggio 2017, n. 12984.
[5] Come si legge nell’ultima parte dell’articolo citato “(…) Non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l'ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell'istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a euro trentamila. Tale importo è periodicamente aggiornato con le modalità di cui al terzo comma dell'articolo 1. ”
[6] Così: Cass. Civ., sez. VI, 18 marzo 2016, n. 5377.
[7] Vedi: Cass. Civ., sez. I, 12 gennaio 2017, n. 601.