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Pubbl. Mar, 28 Ago 2018
Sottoposto a PEER REVIEW

Diritto penale e scienze psichiatriche: un dialogo in continua evoluzione

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Mauro Giuseppe Cilardi
AvvocatoUniversità degli Studi di Bari


La nuova legge di contrasto al gioco d´azzardo e la recente sentenza della Cassazione sulla rilevanza giuridica della ludopatia rappresentano l´occasione per approfondire il tema dei disturbi della personalità ed il ruolo assunto dalle scienze umane, in particolar modo psichiatriche, nel diritto penale.


Sommario: 1. Premessa: l'attualità dell'argomento; 2. L'imputabilità nella struttura del reato; 3. L'evoluzione del concetto di infermità, con riferimento alla ludopatia; 4. L'avanzamento delle scienze psichiatriche nello studio dei disturbi della personalità; 5. Osservazioni finali.

1. Premessa: l'attualità dell'argomento

La tematica della ludopatia è tornata mediaticamente alla ribalta in seguito all'adozione del decreto legge n. 87 del 12 luglio 2018, icasticamente denominato "Decreto dignità" dal Governo. Tale manovra è stata confermata in Parlamento e l'approvazione definitiva avvenuta in Senato il 7 agosto scorso ne ha sancito la conversione nella legge n. 96 del 2018 e la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica l'11 agosto, con entrata in vigore il giorno successivo.

L'importanza dello strumento normativo de quo risiede non soltanto nella statuizione di misure dirette a favorire la stabilizzazione dei contratti di lavoro e la crescita economica delle imprese, ma altresì nella predisposizione di norme orientate a scoraggiare la dipendenza comportamentale dal gioco d'azzardo. Su quest'ultimo punto, l'apparato legislativo si compendia: nel divieto di pubblicizzare in qualsiasi forma i giochi e le scommesse con vincite in denaro; nell'obbligo di presentare la tessera sanitaria per l'accesso ai macchinari ludici; nella predispozione di una banca dati ad opera del Ministero dell'Economia, d'intesa con il Dicastero della Salute, finalizzata a monitorare annualmente l'andamento della distribuzione del gioco sul territorio nazionale. In tal modo, considerata l'emergenza sociale, il legislatore ha preso atto della necessità di contrastare la ludopatia, classificata dalla scienza come disturbo patologico, sub specie di incapacità di resistere all'impulso di giocare d'azzardo o di scommettere.

Proprio per l'influenza esercitabile sulla psiche umana, tale dipendenza è idonea ad assumere rilievo altresì nel diritto penale, che fonda la risposta punitiva non solo sulla commissione del fatto di reato, ma anche sull'addebilità psicologica dell'azione criminosa al reo. Invero, la recente sentenza della Sesta Sezione della Cassazione n. 33463 del 18 luglio 2018 si inscrive nell'orientamento ormai maggioritario, in omaggio al quale la ludopatia è un disturbo della personalità che, comportando un indebolimento del dominio delle proprie azioni, può escludere o limitare l'imputabilità, purché il giudice ne accerti sia la gravità e l'intensità sia il nesso causale con l'illecito, secondo i dettami consolidati in giurisprudenza.

2. L'imputabilità nella struttura del reato

Prima di approfondire le implicazioni che il riconoscimento giudiziario della ludopatia comporta nella comminazione della pena, è opportuno evidenziare il ruolo assunto dall'imputabilità nella struttura del reato.

In particolare, in forza della lettura che il Giudice delle leggi attribuisce all'art. 27, comma 1 della Costituzione sin dalla nota sentenza n. 364 del 1988, l'espressa natura personale della responsabilità penale dev'essere intesa come riconducibilità psicologica del fatto criminoso al suo autore. Di conseguenza, il rimprovero penale non può basarsi unicamente sulla realizzazione dell'ipotesi delittuosa, ma è connotato da un'impronta marcatamente soggettivistica, nota come colpevolezza: per sanzionare penalmente un soggetto, cioè, è necessario accertare che egli sia colpevole del reato a lui ascritto, ovvero sussita un collegamento psichico tra lui e la condotta posta in essere.

A sua volta, la colpevolezza si compone di tre requisiti indispensabili: l'elemento soggettivo in senso stretto, nella forma del dolo, della colpa o della preterinzione; la cd. suitas della condotta, cioè la coscienza e la volontà del comportamento penalmente rilevante; l'imputabilità. Quest'ultimo elemento è espressamente previsto e definito nell'art. 85 del codice penale, ai sensi del quale il reo può essere punito solo se era capace di intendere e di volere al momento del fatto. Quindi l'imputabilità equivale all'idoneità dell'agente sia a percepire correttamente la realtà esterna ed il significato del proprio comportamento e sia a determinare autonomamente le proprie azioni, facendosi padrone degli istinti e delle pulsioni.

È necessario precisare che, sebbene anche la suitas della condotta inerisca al segmento rappresentativo e al momento volitivo del fatto, tale attributo e l'imputabilità godono di una propria autonomia concettuale. Invero, l'art. 42, comma 1 del codice penale, che della suitas costituisce il referente normativo, collega la coscienza e la volontà all'azione o all'omissione compiuta dall'agente. Di conseguenza, l'elemento de quo costituisce un presupposto attuale e concreto che colora la condotta nel preciso istante in cui viene posta in essere. Al contrario, la capacità di intendere e di volere assurge a qualità personale o modo di essere dell'individuo, avente natura generale ed astratta, benché sia normativamente imprescindibile il suo accertamento in concreto nel tempo di commissione del reato.

Chiarita la natura dell'imputabilità, giova segnalare che in dottrina come in giurisprudenza non v'è uniformità di vedute rispetto alla sua collocazione all'interno della struttura del reato. In particolare, sono enucleabili due correnti di pensiero, una delle quali sembra aver maggiormente attecchito tra gli operatori del diritto a partire dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 9163 dell'8 marzo 2005, nota come sentenza "Raso". 

La prima tesi esclude che l'imputabilità rientri nel nucleo della colpevolezza; al contrario, essa va intesa come capacità di pena, in assenza della quale il reo non può essere sanzionato, nonostante abbia commesso un fatto di reato a lui psicologicamente ricollegabile. Tale orientamento trova linfa tanto dogmatica quanto letterale. Sul primo versante, la teoria in questione concepisce la colpevolezza nella sua dimensione strettamente psicologica, ossia come mera adesione morale del reo all'azione criminosa. Dal secondo punto di vista, vengono in rilievo gli artt. 86 e 648 c.p.: nel dettaglio, la prima norma prevede la pena a carico di chi determina in un soggetto lo stato di incapacità naturale al fine di fargli commettere un reato; la seconda statuisce la rilevanza penale della condotta di ricettazione, anche quando l'autore del delitto presupposto non è imputabile. Un'intepretazione strettamente tecnica dei due lemmi utilizzati ("reato" e "delitto") condurrebbe a concludere che imputabilità e colpevolezza siano due concetti distinti ed autonomi.

Tuttavia, la giurisprudenza largamente maggioritaria e la dottrina prevalente propendono per una lettura estensiva dei due termini evidenziati, promuovendo un'accezione normativa della colpevolezza, in forza della quale essa dev'essere concepita come divergenza tra l'azione o l'omissione concretamente commessa e la condotta prevista dalla legge: tale discordanza è alla base del giudizio di rimproverabilità, il quale costituisce l'essenza della colpevolezza. Di conseguenza, la capacità di intendere e di volere non può che costituire il presupposto fondamentale dell'elemento soggettivo del reato, in quanto se l'agente ha una percezione distorta della realtà circostante o non è in grado di autodeterminarsi liberamente, non può essergli rimproverata la realizzazione del fatto criminoso. Del resto, qualora venisse irrogata la pena, verrebbe altresì violato il principio del finalismo rieducativo della risposta punitiva ex art. 27, comma 3 Cost.: il soggetto, infatti, avvertirebbe la sanzione come ingiusta, poiché comminata per un fatto commesso in assenza di capacità di intendere e di volere e, dunque, l'opera di risocializzazione risulterebbe vana.

3. L'evoluzione del concetto di infermità, con riferimento alla ludopatia

Secondo la tesi tradizionale il diritto penale presume la capacità percettiva e volitiva del reo, a meno che in concreto non sussista una delle cause di esclusione dell'imputabilità tassativamente previste dal legislatore codicistico.

Tuttavia, tale linea ermeneutica è destinata ad essere superata ed uno dei banchi di prova idonei a mitigarne la rigidità riguarda la condizione dell'infermità.

Invero, il codice penale valorizza tale stato psichico negli artt. 88 e 89, riguardanti rispettivamente il vizio di mente totale e parziale. In particolare, l'impianto normativo de quo, da una parte, stabilisce l'esclusione dell'imputabilità nel caso in cui il soggetto al momento del fatto versi in una condizione mentale tale da escludere l'attitudine ad intendere e volere e, dall'altra, prevede un'attenuazione della pena qualora la capacità di comprendere e di autodeterminarsi sia considerevolmente ridotta a causa dello stato di mente in cui si trovi il reo al momento del fatto.

Entrambe le disposizioni poggiano testualmente le proprie basi sullo stato di infermità, differenziandosi unicamente per l'entità delle conseguenze che questo fenomeno produce sulla psiche umana. Il generico riferimento a tale condizione ha dato la stura, tra gli studiosi e gli operatori del diritto, ad estendere l'ambito di rilevanza giuridica del fenomeno, inglobando anche situazioni non rientranti in patologie clinicamente individuabili. Nel dettaglio, fino agli anni '70, i tribunali richiedevano l'esistenza di una malattia mentale accertata secondo gli ordinari standard scientifici, ai fini dell'applicazione degli artt. 88 e 89 c.p.

Tuttavia, nel corso degli anni, la stessa evoluzione della scienza e il progressivo mutamento giurisprudenziale hanno condotto a tracciare una visione integrata di tutte le componenti che possono influire negativamente sulla mente dell'uomo, non soltanto biologiche, ma anche psicologiche, ambientali e sociali. Sicché si è gradualmente pervenuti ad una concezione normativa dell'infermità, che pone al centro non tanto l'origine della malattia, quanto gli effetti che essa produce nella sfera morale dell'individuo. Punto d'approdo del quadro ricostruito è rappresentato dalla sentenza "Raso" delle Sezioni Unite del 2005, rilevante in materia di imputabilità, sia per averne definito i contorni strutturali e sia per averne chiarito i presupposti di sussistenza. Pertanto, il deficit mentale e la conseguente inimputabilità o semi-imputabilità possono dipendere tanto da una malattia psichica, quanto da una patologia fisica o da nevrosi di qualsiasi genere, purché in concreto si verifichino due condizioni: è necessario che le psicopatie siano di entità e gravità tale da annullare o limitare grandemente la capacità di intendere e di volere del reo; dev'essere accertato il collegamento eziologico tra la psicopatia identificata e il reato posto in essere.

È in questo frangente che vengono in rilievo i disturbi della personalità e, tra questi, la ludopatia. Sul punto, bisogna precisare che i moderni manuali diagnostici, come il DSM (acronimo di "Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders"), classificano il disturbo ludopatico come vera e propria dipendenza comportamentale e il Ministero della Salute ricollega alla ludopatia la perdita della capacità di resistere all'impulso del gioco d'azzardo o della scommessa. In pratica, il soggetto che ne è affetto, pur consapevole delle conseguenze nefaste a cui può portare il proprio disturbo dal punto di vista tanto economico quanto umano e professionale, non è in grado di autodeterminarsi liberamente: tale patologia, quindi, lascia pressoché integra la capacità cognitiva, incidendo significativamente sul momento volitivo del processo mentale.

Appurata, dunque, la nozione allargata di infermità invalsa nelle aule di giustizia, si deduce chiaramente l'idoneità del disturbo ludopatico a sortire effetti sul regime di imputabilità del reo, purché il giudice ne ravvisi l'intensità, la gravità ed il nesso causale col crimine commesso.  

4. L'avanzamento delle scienze psichiatriche nello studio dei disturbi della personalità

Ai fini del riconoscimento giudiziario delle due succitate condizioni, le scienze mediche assolvono un'indispensabile funzione di supporto. Invero, laddove durante il processo sorga la necessità di compiere un'indagine sulla sfera psichica dell'imputato, il giudice è tenuto a considerare, nel complessivo impianto probatorio, i dati clinici forniti dall'opera professionale del perito.

Tuttavia, se la fase di accertamento e di classificazione del tipo di patologia non presenta criticità alla luce del modello nosografico tassativo a cui universalmente aderisce il mondo accademico, l'utilizzo del paradigma descrittivo si rivela sterile per l'analisi dell'influenza del disturbo della personalità sulla capacità di intendere e di volere. Sul punto, negli ultimi anni, sono oggetto di una costante evoluzione le scienze umane, in particolar modo psichiatriche.

Invero, le neuroscienze rappresentano l'insieme degli studi condotti sul sistema nervoso centrale e periferico attraverso una pluralità di metodologie, tra le quali, per l'argomento di cui trattasi, acquistano spessore le tecniche di neuroimaging. Con tale inglesismo si fa riferimento all'impiego di ricercati strumenti di visualizzazione cerebrale, come la TAC (Tomografia Assiale Computerizzata) o la Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI), per mezzo dei quali è possibile studiare le connessioni neuronali e la struttura del cervello, in modo da avere una percezione diretta dell'attività cerebrale durante l'esposizione a specifiche stimolazioni di carattere emotivo e cognitivo. È di tutta evidenza, allora, l'importanza che un'analisi di tal fatta può rivestire ai fini della valutazione dell'incidenza, da parte della psicopatia diagnosticata, sull'imputabilità dal punto di vista sia quantitativo, in termini di intensità, sia qualitativo, sul versante del nesso causale con il reato.

Giova evidenziare che il dialogo tra il diritto penale e le neuroscienze può, in linea astratta, assumere tinte forti o una dimensione più temperata. Nel dettaglio, secondo una prospettiva rigida, il comportamento criminale sarebbe dettato esclusivamente dal fattore biologico e, dunque, dalla conformazione del cervello. Si tratta, tuttavia, di una tesi ripudiata negli ambienti accademici e giudiziari, in quanto capace di scardinare le fondamenta teoriche su cui poggia l'intero sistema penalistico. Ricollegare, infatti, la condotta di ciascuno alla sola causa medico-scientifica significa negare l'operatività del libero arbitrio e della capacità di autodeterminazione del singolo, vanificando l'essenza stessa del concetto di colpevolezza, legata indissolubilmente al giudizio di rimproverabilità.

Al contrario, è prevalsa una lettura di sintesi del rapporto tra i due microcosmi scientifici, basata su una concezione servente delle scienze psichiatriche rispetto al diritto penale. Nel dettaglio, i fautori di tale orientamento ritengono che la sfera cerebrale debba essere considerata come un organo sociale e che, quindi, tutte le condotte umane non abbiano soltanto una matrice biologica, ma risentano di una molteplicità di fattori eziologici, come ad esempio il contesto ambientale in cui il soggetto si trova ad agire o il tipo di educazione ricevuta. Tale linea di pensiero, quindi, parte dal presupposto che l'uomo è un essere complesso, che non può essere ridotto ad una mera dimensione meccanicistica od organica; al contrario, nello sviluppo della propria personalità, egli viene influenzato da una serie di circostanze contingenti, in forza delle quali egli sceglie di agire in un determinato modo piuttosto che in un altro. Inoltre non dev'essere sottaciuto che le scienze, sia naturali ma soprattutto umane, rappresentano una materia in incessante sviluppo ed i traguardi attualmente raggiunti sono suscettibili di essere smentiti da ricerche imperniate su basi scientifiche più solide.

Naturale corollario dell'impostazione metodologica descritta è il rapporto di collaborazione tra neuroscienze e diritto penale. In particolare, a fondamento della valutazione di non imputabilità o di semi-imputabilità il giudice non può porre unicamente i dati offerti dagli strumenti di brain imaging con riferimento ad eventuali disfunzioni cerebrali. Gli elementi raccolti in sede di indagine neuroscientifica, invece, possono costituire un valido sostegno per avvalorare l'accertamento sulla capacità di intendere e di volere del reo, il quale dev'essere condotto sulla scorta di una valutazione complessiva delle risultanze peritali, sub specie di diagnosi nosografica, e processuali.

La giurisprudenza di merito ha, per la prima volta, mostrato di aderire alla descritta posizione ermeneutica con le sentenze della Corte d'Assise d'Appello di Trieste n. 5 dell'1 ottobre 2009 e del G.I.P. di Como n. 536 del 20 agosto 2011. Entrambe le pronunce si caratterizzano per la presa di posizione circa il ruolo delle neuroscienze nella verifica dell'imputabilità. In particolare gli organi giudicanti in questione hanno riconosciuto in capo al reo la sussistenza del vizio parziale di mente, con conseguente attenuazione della sanzione ex art. 89 c.p. Tale conclusione è stata raggiunta mediante una valutazione integrata del materiale probatorio emerso: in particolare, sul versante scientifico, l'analisi clinica e patologica ha trovato successivamente conferma nell'esito degli studi di neuroimaging, in virtù dei quali è stata riscontrata la presenza di alterazioni cerebrali, implicanti un considerevole aumento del rischio di degenerazione della condotta in episodi criminosi.

5. Osservazioni finali

Alla luce del quadro tracciato, è evidente che anche nel rapporto tra scienze umane e diritto penale trova spazio l'orientamento seguito dall'unanime giurisprudenza nell'accertamento del nesso di causalità materiale. Sul punto, a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite "Franzese" n. 30328 dell'11 settembre 2002, ai fini dell'accertamento del collegamento eziologico tra la condotta criminosa e l'evento lesivo, i giudici promuovono la necessità che la probabilità statistica di realizzazione dell'evento sia corroborata dalla probabilità logica o razionale, in omaggio ad una concezione che vede il diritto e la scienza porsi su due piani comunicanti e, tuttavia, autonomi. È indispensabile, cioè, che l'autorità giusdicente rapporti le risultanze delle leggi scientifiche o statistiche agli elementi emersi in sede processuale, di modo che pervenga alla conferma dell'ipotesi accusatoria soltanto dopo aver escluso l'incidenza di eventuali fattori alternativi nella causazione dell'evento dannoso.

In linea generale, può comunque dirsi che, nell'applicazione della scienza psichiatrica all'interno del processo penale, i giudici prediligono un approccio cauto e particolarmente scrupoloso, in quanto gli studi neuroscientifici e gli strumenti su cui poggiano si attestano ad un livello ancora sperimentale e godono tuttora di un consenso limitato da parte della comunità scientifica. È questa la linea di pensiero seguita dalla Corte di Cassazione, che sottolinea l'orientamento espresso dalla Corte Suprema statunitense nella sentenza "Daubert" del 1993, in virtù del quale una teoria scientifica può essere considerata valida, solo se sussistono determinati presupposti, tra i quali: la possibilità di verificare e falsificare il principio scientifico enunciato; l'approvazione da parte della comunità scientifica in forza di una revisione paritaria ad opera dei suoi membri; la pubblicazione nelle riviste scientifiche dei risultati ottenuti.

La mancanza dei requisiti enunciati è idonea ad inficiare l'affidabilità del sapere neuroscientifico. Tuttavia, negare ogni prospettiva di utilizzo del medesimo in ambito processuale significherebbe precludere l'apporto di metodologie inedite, pur connotate, allo stato attuale, da un discreto margine di attendibilità. La stessa scienza, naturale e umana, è fonte di verità valida nel momento in cui viene formulata e suscettibile di essere superata in un tempo futuro. È importante, allora, che i progressi raggiunti con le tecniche di brain imaging non si disperdano, ma siano impiegati nella verifica dello stato mentale del colpevole al momento del fatto di reato, senza pretesa di esaustività e in un'ottica collaborativa e di supporto al diritto penale e al modello nosografico.

Del resto, come insegna il pensiero filosofico sin dall'antica Grecia, l'essere umano è formato da corpo e mente, soma e nous, due entità che si integrano e si compenetrano continuamente. E solo una valutazione globale della storia clinica, delle emergenze processuali e dello studio dell'area cerebrale è idonea a rendere completo il quadro probatorio, di modo che il giudice possa addivenire ad una decisione equilibrata e capace di ridurre ragionevolmente l'inevitabile scarto tra la verità sostanziale e la verità processuale.

 

Riferimenti bibliografici

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