Pubbl. Dom, 19 Ago 2018
Tentativo e delitti di attentato alla prova del principio di offensività
Modifica paginaObiettivo del presente articolo è quello di porre a raffronto la fattispecie di cui all’art. 56 c.p. e i delitti di attentato, evidenziando le criticità che ambedue gli istituti presentano in virtù dell´implementazione nel moderno sistema penale del principio di offensività, il cui fondamento costituzionale è oggi unanimemente riconosciuto.
L’analisi dei nessi intercorrenti, da un punto di vista squisitamente giuridico, tra la fattispecie di cui all’art. 56 c.p. e i delitti di attentato costituisce argomento di estremo interesse nonché punto di abbrivio di importanti riflessioni per chiunque si accinga allo studio del diritto penale.
Invero i due istituti richiamati, quantunque indubbiamente diversi tra loro (come del resto si evince già dalla rispettiva collocazione all’interno della topografia codicistica), sono accomunati da una notevole anticipazione della soglia di punibilità, collocandosi la rilevanza della condotta tenuta dal soggetto agente in un momento antecedente l’esaurimento dell’iter criminis. In altre parole, l’attività del singolo è stigmatizzata dal legislatore, in quanto causa di un’aggressione meramente potenziale all’interesse protetto. Si pone pertanto in ambo le ipotesi l’esigenza di verificare se possa considerarsi vulnerato il principio di offensività, la cui centralità all’interno del sistema penale è stata negli ultimi decenni oggetto di unanime riconoscimento tanto in dottrina quanto in giurisprudenza.
Alla luce di quanto detto, è d’uopo pertanto soffermarsi brevemente sull’analisi del fondamento e della portata applicativa di tale assioma, onde poi porre in evidenza come esso si atteggi in relazione alle categorie richiamate
Il principio in parola, rinveniente il fondamento costituzionale negli artt. 25 e 27 della Carta fondamentale (e non anche, ad onta di quanto impropriamente sostenuto in dottrina, nell’art. 13), opera su un duplice livello, costituendo un vincolo cogente sia per il legislatore che per l’interprete. Esso, infatti, da un lato impone al primo di descrivere le fattispecie incriminatrici in termini tali da esprimerne in astratto il contenuto offensivo (sub specie di lesione o di messa in pericolo) rispetto ad un determinato bene giuridico, dall’altro demanda al secondo il compito di accertare se in concreto il contegno tenuto dal singolo possa recare nocumento all’interesse che si intende salvaguardare.
La centralità rivestita dal momento dell’offesa nella costruzione delle fattispecie criminose ben può evincersi dalla lettura delle disposizioni codicistiche di parte generale che delineano la struttura del reato e, segnatamente, degli artt. 40, 43 e 49 c.p. Le disposizioni richiamate, nel collocare tra gli elementi del fatto tipico l’evento (inteso quale accadimento fenomenico cagionato dalla condotta del singolo), lo qualificano expressis verbis come dannoso o pericoloso. In tal senso, può considerarsi sopita la tradizionale diatriba dottrinale tra i fautori delle concezioni naturalistica e giuridica dell’evento di reato.
Se è evidente che, in ossequio al principio fisico espresso dal brocardo natura non facit saltus, ogni azione umana, interagendo con i fattori naturali, dia luogo a un’alterazione della realtà esteriormente percepibile, è altrettanto indubbio che l’offesa concorra a descrivere l’accadimento empirico dal punto di vista dell’ordinamento giuridico, costituendone attributo.
La centralità dell’assioma in parola del resto è evidente ove si guardi alla correlazione con altri due fondamentali principi informatori del sistema penale (id est: determinatezza e personalità).,
Sotto il primo aspetto, va sottolineato che in tanto una condotta umana può essere descritta con sufficiente precisione e ancorata al reale in quanto si evidenzi l’impatto che essa ha sul piano naturalistico e giuridico.
Il principio di personalità postula, d’altro canto, la necessità che l’evento penalmente riprovato sia imputabile all’agente, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, in tutti i suoi aspetti, ivi compresa l’aggressione all’interesse protetto.
Ancora, a riprova del fondamento costituzionale dell’offensività, depongono le diverse funzioni assolte dalla sanzione penale.
In primis, va sottolineato come, a meno che non si voglia aderire a una concezione puramente etica della pena – il che peraltro sarebbe inaccettabile in uno Stato di diritto – quest’ultima debba intendersi non già quale castigo per un peccato, ma quale punizione per un fatto giuridicamente lesivo. Parimenti, l’esigenza di rieducazione postula che il reo si sia posto in contrasto con i valori della comunità e che, in altre parole, ne abbia offeso i beni giuridici. Da ultima, la finalità di prevenzione -generale o speciale – fa leva sull’efficacia deterrente che la sanzione esplicherebbe nei confronti tanto dello stesso reo quanto della generalità dei consociati. Orbene, affinché tale funzione possa essere assolta, è necessario che la pena sia percepita come un costo superiore rispetto ai benefici che deriverebbero dalla commissione del reato e una tale comparazione non può effettuarsi se non assumendo quale parametro la portata offensiva della condotta tenuta dall’agente.
Tanto chiarito sul piano generale, prima di addestrarsi nella soluzione della quaestio iuris inerente alla compatibilità delle categorie richiamate dalla presente traccia con il principio di offensività, va premesso come tentativo e delitti di attentato assolvano un medesimo obiettivo, rappresentato dall’esigenza di presidiare interessi di rilievo determinante ai fini della conservazione e del progresso della comunità, la cui meritevolezza di tutela è avvertita a tal punto da rendere necessitato l’arretramento della soglia di punibilità. Entrambi configurano pertanto fattispecie di pericolo, consistendo l’evento penalmente riprovato in una situazione prodromica rispetto alla lesione effettiva del bene giuridico.
Cionondimeno, diversa è la tecnica adoperata dal legislatore nelle due ipotesi.
Il tentativo è un modello di fatto che ha portata generale salvo poi specificarsi in relazione alle singole ipotesi di parte speciale. La categoria rinviene il proprio ancoraggio normativo nell’art 56 c.p., nella misura in cui espone a sanzione penale chiunque ponga in essere “atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto”.
Improprio è discorrersi a riguardo di forma di manifestazione del reato, intendendosi con ciò che il tentativo designi una particolare modalità in cui l’illecito penale si presenta nella realtà. L’art. 56 assume invero funzione estensiva della punibilità e, combinandosi con la norma incriminatrice, dà luogo a una fattispecie tipica nuova e diversa rispetto a quella del corrispondente delitto consumato, ancorché ad essa avvinta. Tale disposizione, all’interno dello schema inferenziale che presiede all’accertamento della responsabilità penale, si colloca nella premessa maggiore, concorrendo ad integrare la regola nella quale sussumere il caso concreto. Alla luce di ciò, è di palese evidenza come sia più corretto da un punto di vista tecnico definire il tentativo quale forma del reato nell’ordinamento giuridico, designando esso una realtà astratta, una previsione generalizzata suscettibile di operare per una pluralità indeterminata di illeciti.
Tanto chiarito, stante l’indiscutibile ampiezza della portata applicativa dell’istituto, tale da determinare una sostanziale duplicazione delle fattispecie incriminatrici di parte speciale punite a titolo di dolo nonché una significativa riduzione della libertà di agire dei cittadini, si avverte l’esigenza di individuarne il fondamento.
Al riguardo diverse diatribe sono sorte tanto in dottrina quanto in giurisprudenza.
Secondo una prima impostazione, ormai superata in quanto confliggente con i principi costituzionali che informano il moderno sistema penale, la fattispecie di cui all’art 56 c.p. avrebbe quale precipuo scopo quello di stigmatizzare l’atteggiamento di ribellione nei confronti del precetto normativo manifestato dal soggetto agente. In altre parole, ragione giustificatrice della punibilità del tentativo andrebbe ravvisata, talora, nella manifestazione di una volontà contraria ai valori della comunità, talaltra nella pericolosità del soggetto.
Orbene, è evidente come siffatta ricostruzione collida con i principi di materialità e offensività, comportando un radicale e inaccettabile slittamento verso un modello soggettivo del reato. A ciò si aggiunga che essa non sarebbe in grado di spiegare l’inapplicabilità del tentativo ai delitti colposi - atteso che un individuo ben potrebbe risultare socialmente pericoloso pur a fronte di comportamenti imprudenti, imperiti o negligenti – né di giustificare la differenza esistente in punto di trattamento sanzionatorio tra tentativo e consumazione essendo la difformità della volontà del singolo rispetto al precetto sarebbe pressoché analoga.
Secondo una diversa impostazione, la ratio della punibilità della fattispecie in parola andrebbe invece individuata nell’antigiuridicità reale della condotta posta in essere. Gli atti di cui all’art. 56 sarebbero stigmatizzati in quanto forieri di turbamento nella comunità ovvero di allarme sociale. La ricostruzione in parola, tuttavia, lungi dallo spiegare il fondamento giuridico dell’istituto, richiama criteri estranei all’ordinamento, limitandosi ad evidenziare ragioni di opportunità politica.
Nettamente maggioritaria in dottrina, nonché più aderente al dettato normativo dell’art. 56 c.p., è la ricostruzione volta ad individuare il fondamento del tentativo nella messa in pericolo dell’interesse protetto dalla singola fattispecie incriminatrice.
Assunto di partenza tenuto presente dal legislatore è la considerazione secondo cui il soggetto che ponga un’attività strumentale alla produzione di accadimenti lesivi di beni giuridici ritenuti meritevoli di protezione sia, sol per questo, suscettibile di sanzione penale, sempre che la condotta tenuta si approssimi a tal punto alla realizzazione dell’evento consumato da creare una situazione offensiva, tale da esprimere una potenzialità di danno e, conseguentemente, giustificare un intervento repressivo.
Il pericolo assurge pertanto ad elemento di struttura oggettiva del delitto tentato, nonché predicato del giudizio di idoneità degli atti, la cui sussistenza va accertata, caso per caso, dal giudice.
Esso deve essere concreto, attuale e dotato di una specifica dimensione fisica, risolvendosi in una modificazione della realtà prodromica rispetto all’evento tipico.
Alla luce di quanto detto, si evince la piena compatibilità della fattispecie in parola con il principio di offensività, configurandosi la potenziale aggressione del bene giuridico quale elemento costitutivo della stessa, oggetto di specifico accertamento.
Individuato in tal modo il fondamento giuridico del tentativo, occorre esaminarne più approfonditamente la struttura oggettiva e soggettiva, onde poi procedere in un secondo momento al raffronto con i delitti di attentato.
Va immediatamente sottolineato, come a differenza del previgente codice Zanardelli che postulava quale elemento determinante ai fini della configurabilità del tentativo il “cominciamento dell’esecuzione” (ossia la realizzazione del primo segmento della condotta tipica), nulla dice l’art. 56 c.p. in merito allo stadio dell’iter criminis in cui deve collocarsi la soglia di rilevanza penale dell’attività umana.
Orbene è indubbio che, in ossequio ai principi di materialità (nell’accezione sinteticamente espressa dal brocardo cogitationis poenam nemo patitur) e personalità, non sia considerata punibile la mera deliberazione criminosa.
Coerentemente all’assioma della fisica moderna secondo cui natura non facit saltus, la volontà delittuosa rileva soltanto laddove si inserisca nel divenire causale, traducendosi in azione e determinando una modificazione della realtà empirica.
Tanto, del resto, appare comprovato dalla stessa funzione del diritto penale, che mira non già a correggere gli uomini e le loro inclinazioni, ma ad orientarne i comportamenti. Il tentativo non può dunque collocarsi nella fase dell’ideazione, quale momento, primo sul piano logico e cronologico, in cui il reato viene concepito e riceve l’impulso alla sua concreta realizzazione. In tale direzione, depone altresì il dettato normativo dell’art. 115 c.p., nella misura in cui esclude la punibilità dell’accordo volto a commettere un illecito, qualora l’attività programmata non riceva poi concreta attuazione. A tale conclusione non osta peraltro la presenza nel nostro ordinamento di fattispecie integranti delitti di opinione. Così, ad esempio, la condotta di cui all’art. 414 c.p., sulla scorta dell’interpretazione costituzionalmente orientata fornita dalla Corte Costituzionale, rileva esclusivamente laddove, per le sue modalità, si sostanzi in un contegno concretamente idoneo a provocare la commissione di reati, trascendendo la pura e semplice manifestazione del pensiero.
Possono invece integrare tentativo atti meramente preparatori, ossia propedeutici sul piano materiale alla realizzazione del crimine, ove risultino in concreto univoci e idonei alla produzione dell’evento. Si pensi, a titolo esemplificativo, all’appostamento nei pressi di una banca di rapinatori armati.
Ne segue come la distinzione tra preparazione ed esecuzione non possa considerarsi, né in positivo né in negativo, determinante ai fini della verifica circa la sussumibilità del contegno tenuto dall’agente sotto la previsione di cui all’art. 56 c.p.
Compete, pertanto, ai requisiti dell’idoneità e dell’univocità la delimitazione delle condotte suscettibili di integrare tentativo penalmente rilevante.
Invero è proprio la concreta verifica in ordine alla compatibilità dello schema astratto in parola con le singole fattispecie incriminatrici di parte speciale ad assicurare il rispetto del principio di frammentarietà.
La tipicità è invece salvaguardata dal meccanismo di integrazione dell’art. 56 con le disposizioni che prevedono i vari delitti dolosi. Esso, operando nel senso sopra descritto, dà luogo ad un fatto tipico nuovo, dotato di una propria autonoma struttura.
Circa il contenuto del requisito dell’idoneità, si sono succedute in dottrina e in giurisprudenza diverse ricostruzioni. Ci si è chiesti in particolare, se esso postuli la mera possibilità di verificazione dell’evento tipico ovvero la probabilità, quale rilevante attitudine al conseguimento del risultato avuto di mira.
Preferibile, in quanto più aderente alla ratio del tentativo, appare tale seconda ipotesi ermeneutica.
Invero configurare l’idoneità in termini di mera possibilità dell’evento tipico equivarrebbe a privare il giudizio in ordine alla sussistenza dello stessa di ogni valenza selettiva, ampliando eccessivamente il novero delle condotte punibili e, per altro verso, stante la vaghezza del termine, postulando l’attribuzione all’interprete di un troppo ampio margine di discrezionalità.
In ossequio al principio di personalità, sancito dall’art. 27 primo comma della Carta fondamentale, l’accertamento in ordine all’idoneità (intesa quale probabilità di verificazione dell’evento lesivo) postula l’espletamento di un giudizio causale, volto a valutare se la condotta dell’agente possa considerarsi astrattamente efficiente dal punto di vista eziologico rispetto alla realizzazione dell’accadimento proprio del delitto consumato.
Essa consta di due momenti distinti, ancorché complementari sul piano logico e cronologico.
In primis, occorre accertare che il contegno tenuto dal soggetto sia qualificabile come antecedente necessario, ancorchè non sufficiente, (id est: condicio sine qua) dell’evento di pericolo che connota la struttura oggettiva del tentativo. Bisogna, in altre parole, verificare se esso abbia causato la verificazione di una situazione preliminare e strumentale rispetto alla lesione del bene giuridico protetto dalla disposizione incriminatrice di parte speciale.
In un secondo momento, occorre poi stabilire se, eliminati mentalmente i fattori devianti in concreto l’azione criminosa, l’accadimento tipico proprio della fattispecie consumata si sarebbe verificato. Interrogativo cui l’interprete è chiamato a fornire risposta è “cosa sarebbe successo se non”.
Alla luce di quanto sopra, ben si evince come, mentre la prima delle due fasi descritte integri un giudizio certo, la seconda abbia natura marcatamente probabilistica ponendo in relazione un accadimento reale ed uno potenziale.
Cionondimeno, si ritiene che anch’essa debba svolgersi secondo lo statuto proprio della causalità scientifica di cui agli artt. 40 e 41 c.p. mercé l’impiego del modello della sussunzione sotto leggi scientifiche di copertura.
L’accertamento del requisito dell’idoneità avviene pertanto attraverso una prognosi postuma. Il giudice, pur assolvendo al proprio compito in un tempo posteriore alla commissione del delitto tentato, deve porsi idealmente al momento dell’azione.
Discussa è altresì la struttura del giudizio in parola, non essendo chiaro se esso debba espletarsi su base parziale (ossia considerando esclusivamente le circostanze conosciute o conoscibili dall’agente) ovvero totale (tenendo cioè conto di tutti gli elementi fattuali esistenti all’epoca della condotta). Invero la prima ricostruzione ermeneutica non può essere accolta, in quanto postulerebbe l’introduzione in una valutazione di tipo oggettivo di un dato soggettivo, inerente alla prevedibilità di determinate condizioni di fatto. Si finirebbe, in buona sostanza, per trasformare l’accertamento casuale in un giudizio di colpa.
Pressoché pacifico è che la verifica in ordine alla probabilità di verificazione dell’evento lesivo debba espletarsi alla stregua delle leggi di copertura vigenti all’epoca del giudizio, ancorché scoperte successivamente alla verificazione della condotta. L’esistenza di un dato è infatti, per le scienze naturali, qualcosa di diverso rispetto alla sua conoscenza.
Quanto al secondo requisito di struttura del delitto tentato, costituito dall’univocità degli atti, due sono le ricostruzioni riscontrate in dottrina e in giurisprudenza.
Secondo una prima concezione, di stampo marcatamente soggettivistico (emersa anche nei lavori preparatori al codice penale), esso consisterebbe nella intenzionalità criminale ovvero nella direzionalità degli atti ad uno scopo delittuoso.
L’accertamento in ordine alla sussistenza del requisito in parola postulerebbe pertanto la necessità che sia raggiunta la prova circa la volontà di commettere un illecito penale, prova che peraltro può essere desunta anche da elementi esterni alla condotta.
Così intesa, tuttavia, la necessaria univocità degli atti costituirebbe mera indicazione tautologica, discendo l’obbligatorietà di provare la sussistenza dell’intenzione criminale dalle disposizioni generali in tema di elemento soggettivo del reato.
Preferibile deve pertanto ritenersi una ricostruzione oggettiva del requisito in esame.
Orbene, secondo i fautori dell’impostazione in parola, esso esprimerebbe un carattere di essenza della condotta. Bisogna, pertanto, verificare se, alla luce del contesto concreto in cui sono inseriti, gli atti posti in essere dal soggetto siano tali da denotare, secondo l’id quod plerumque accidit, l’intenzione di commettere un delitto.
Ai fini di una maggiore completezza espositiva, giova specificare come la struttura soggettiva del delitto tentato si connoti per la necessaria presenza del dolo.
Invero, il requisito dell’univocità degli atti postula la più piena adesione psichica del soggetto agente all’evento antigiuridico, tant’è che, secondo l’orientamento prevalente, la fattispecie di cui all’art. 56 c.p. sarebbe incompatibile altresì con il dolo eventuale, caratterizzato dalla mera accettazione del rischio dell’accadimento lesivo.
Così ricostruiti la nozione, il fondamento e la struttura del tentativo occorre procedere alla disamina dei delitti di attentato, onde poi, in punto di conclusioni porre a confronto le due figure. Va immediatamente avvertito, come emergerà nitidamente nel prosieguo, che la riforma operata dalla legge n. 85/2006, modificando le più significative fattispecie incriminatrici appartenenti alla categoria in parola, ha finito per determinare un significativo avvicinamento delle stesse alla struttura oggettiva del tentativo. Finalità perseguita deve ritenersi, senza dubbio, quella di consentire l’implementazione in subiecta materia dei principi di offensività, materialità e determinatezza in senso empirico nonché, più in generale, delle garanzie proprie del modello oggettivo di reato.
I delitti di attentato costituiscono una categoria di parte speciale, originata in via induttiva dal raggruppamento di diverse figure tipiche, tutte accomunate da una significativa anticipazione della soglia di punibilità nonché, quanto meno nella formulazione linguistica antecedente la succitata riforma, dall’impiego della locuzione “fatti diretti a”. Essi sono disciplinati dal libro secondo del codice penale. Ipotesi emblematiche sono rappresentate: nell’ambito dei delitti contro la personalità dello Stato dagli artt. 276, 280, 283, 289, 294 e 295 c.p., nel titolo relativo ai delitti contro l’incolumità pubblica dagli artt. 420, 432 e 433 c.p., nonché dall’art. 565 c.p. in tema di attentati alla morale familiare.
Orbene, da una prima lettura delle disposizioni richiamate emerge icto oculi la diversità delle fattispecie rispetto alla previsione di cui all’art. 56.
Invero, il tentativo è destinato a trovare applicazione nell’ipotesi in cui la lesione del bene giuridico presidiato dalle fattispecie incriminatrici di parte speciale non si verifichi a causa dell’intervento di fattori distorsivi dell’iter criminis, estranei ed indipendenti rispetto alla condotta del soggetto agente. I delitti di attentato costituiscono invece reati in sé perfetti, frutto di una precisa scelta discrezionale del legislatore, consistente nell’ampliamento dell’area di rilevanza penale della condotta umana a fronte dell’esigenza di salvaguardia di interessi di particolare rilievo.
Ne segue che, nella maggior parte dei casi, la realizzazione del danno integri una circostanza o un’autonoma fattispecie, suscettibile di assorbire l’illecito di pericolo.
Quanto alla configurazione strutturale delle fattispecie in parola, occorre rilevare come in materia si siano succedute negli anni diverse interpretazioni, tutte riconducibili in buona sostanza a due contrapposte opzioni ermeneutiche.
Secondo un primo filone, di matrice soggettivistica, la previsione dei delitti di attentato rispecchierebbe esigenze del tutto peculiari rispetto a quello sottese alla disciplina del tentativo. Tali fattispecie sarebbero, infatti, volte a colpire direttamente talune condotte criminose indipendentemente dai riflessi concreti che possano derivarne. Ne segue che la locuzione “fatti diretti a” andrebbe interpretata quale comprensiva esclusivamente del requisito dell’univocità, ben potendo le ipotesi in parola attrarre, entro il proprio perimetro applicativo, contegni privi di efficacia eziologica rispetto alla lesione effettiva dell’interesse protetto, purché tali da denotare un’intenzionalità criminosa.
L’accoglimento di siffatta impostazione ermeneutica finirebbe per trasformare i delitti di attentato in illeciti di mera disobbedienza, ponendosi in aperto e insanabile dissidio con i principi di rango costituzionale che informano il sistema penale.
Pare preferibile pertanto aderire alle concezioni di stampo oggettivistico, volte a ricomprendere tra gli elementi costitutivi delle fattispecie de quibus anche l’idoneità, nel senso sopra ricostruito con riguardo alla previsione di cui all’art. 56.
I delitti in parola, come il tentativo, farebbero leva, ai fini della determinazione delle condotte punibili, sull’avanzamento della linea di sviluppo casuale.
Ne segue che oggetto di riprovazione penale non possa ritenersi ogni contegno sorretto da una specifica volontà criminosa, occorrendo un quid pluris consistente in una valutazione prognostica in merito ai possibili sviluppi dell’attività concretamente posta in essere.
Tale impostazione, sebbene più aderente al dettato costituzionale, risultava, quanto meno in epoca antecedente la riforma del 2006, priva di ogni ancoraggio normativo.
Invero, a livello semantico costituirebbe una pregnante forzatura affermare che la locuzione “fatti diretti a” inglobi in sé il requisito dell’idoneità.
Si è pertanto fatta strada una recente corrente dottrinale volta ad evidenziare come l’estensione ai delitti di attentato dell’elemento in parola possa trovare fondamento positivo nell’art 49 c.p. Tale norma, configurante fattispecie autonoma rispetto a quella di cui all’art. 56 e applicabile a tutti i delitti consumati, postulerebbe, in aggiunta al giudizio astratto volto a verificare la sussumibilità del fatto storico nella disposizione incriminatrice, un secondo accertamento posto a stabilire che non siano riscontrabili in concreto circostanze tali da escludere, nel caso specifico, l’efficacia della condotta posta in essere.
Tanto chiarito sul piano generale, occorre fare applicazione alle figure tipiche richiamate alla traccia prospettata delle coordinate teoriche sinora tracciate.
L’art 241 c.p., rubricato “Attentati contro l’integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato”, nella formulazione previgente, assoggettava a sanzione penale chiunque commettesse “un fatto diretto a sottoporre il territorio dello Stato o parte di esso alla sovranità di uno Stato, ovvero a menomare l’indipendenza dello Stato”.
Orbene, dall’analisi di tale previsione emerge icto oculi come l’interesse presidiato dalla fattispecie incriminatrice abbia natura meramente ideale e sia privo di immediato referente nella realtà fenomenica.
Cionondimeno, le teorie soggettivistiche, facendo leva sulla primaria rilevanza del bene giuridico protetto (da individuarsi nella stessa conservazione del consorzio civico), costruivano la fattispecie in esame quale illecito di mera disobbedienza, volto a stigmatizzare qualsiasi condotta preordinata alle finalità indicate dall’art. 241, ancorché concretamente priva di risvolti pratici.
La legge n. 85 del 2006 ha, tuttavia, definitivamente messo al bando tale approccio esegetico, sostituendo la locuzione “fatto diretto a” con la formula “atti violenti diretti e idonei a”.
Orbene, è evidente che la menzione dell’idoneità quale elemento costitutivo della fattispecie in parola abbia avuto l’effetto di collocare l’ipotesi delittuosa in parola tra i reati di pericolo concreto, avvicinandola dal punto di vista strutturale al tentativo.
Il riferimento alla violenza è valso, invece, a connotare le condotte passibili di incriminazione di maggiore materialità, espungendo dal perimetro applicativo della norma richiamata atti privi di ogni impatto fenomenico e sostanziatisi in mere manifestazioni di pensiero.
Considerazioni pressoché analoghe a quella sinora svolte possono ritenersi valevoli per la fattispecie di cui all’art. 283 c.p.
La disposizione, in parola, nella vigente formulazione, assoggetta a pena “chiunque, con atti violenti, commetta un fatto diretto a mutare la Costituzione dello Stato o la forma di Governo”.
Orbene, è evidente come, similmente a quanto riscontrato per l’art. 241 c.p., l’interesse protetto da tale norma abbia, ancora una volta, natura prettamente ideale. Le finalità ispiratrici e gli effetti della riforma sono, quindi, analoghi a quelli in precedenza descritti (id est: implementazione delle garanzie proprie del modello oggettivo del reato, mercé da un lato l’introduzione tra gli elementi costitutivi del reato de quo dell’idoneità, dall’altro la circoscrizione del perimetro applicativo della norma alle sole condotte violente).
Discorso in parte diverso deve farsi per la fattispecie delittuosa di cui all’art 289 c.p.
La norma richiamata, nell’attuale formulazione dispone quanto segue:
“È punito con la reclusione da uno a cinque anni, qualora non si tratti di un più grave delitto, chiunque commette atti violenti diretti ad impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente:
1) al Presidente della Repubblica o al Governo l'esercizio delle attribuzioni o prerogative conferite dalla legge;
2) alle assemblee legislative o ad una di queste, o alla Corte costituzionale o alle assemblee regionali l'esercizio delle loro funzioni”.
Ponendo tale disposizione a raffronto con il testo anteriore alla modifica del 2006, si evince come il legislatore, pur avendo scelto di dotare le condotte penalmente rilevanti del requisito della violenza, diversamente dagli altri due reati analizzati, abbia scelto di non introdurre l’idoneità tra gli elementi costitutivi della fattispecie astratta.
Tale decisione si giustifica, a ben vedere, in funzione della diversa natura del bene giuridico che si intende salvaguardare – id est: le cariche di Governo e, conseguentemente, le persone fisiche che le ricoprono -, di per sé dimostrativa di un più alto grado di materialità della figura criminosa in esame.
Ciò posto, in punto di conclusioni, va rilevato come i delitti di attentato, pur resi per effetto della legge n. 85/2006 più aderenti al modello oggettivo del reato, non possono considerarsi passibili di integrazione con la norma di parte generale di cui all’art 56. Invero, ammettere la configurabilità di un “tentativo di attentato” comporterebbe un eccessivo e inaccettabile arretramento della soglia di punibilità, determinando un grave vulnus al principio di offensività e compromettendo altresì la materialità e la determinatezza del fatto di reato.