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Pubbl. Sab, 25 Ago 2018

Privacy: lo stato di salute è divulgabile solo per interesse pubblico

Giorgio Avallone


La Cassazione con sentenza n. 16311 del 2018 si pronuncia nuovamente circa il rapporto tra il diritto di cronaca ed il diritto alla riservatezza, affermando che l’informazione e la diffusione di dati sensibili è consentita esclusivamente laddove svolgano una funzione di pubblico interesse.


Con la sentenza in commento, la III Sez. della Corte di Cassazione analizza nuovamente il rapporto tra il diritto alla riservatezza ed il diritto di cronaca. Sebbene tali situazioni giuridiche assumano entrambe rilevanza costituzionale, il loro rapporto è spesso confliggente, in quanto dediti alla tutela di interessi collidenti. Difatti il primo è volto ad impedire che situazioni attinenti alla propria sfera personale (o comunque ad essa collegate) non vengano divulgate e rimangano, pertanto, serbate nella propria sfera interiore, o comunque in una cerchia ristretta di soggetti; il secondo, invece, è volto a garantire la divulgazione di informazioni, in ossequio al principio di libertà di manifestazione del pensiero, al fine della composizione di una pubblica opinione avvertita e consapevole. 

Con la sentenza in commento, la III Sez. della Corte di Cassazione analizza nuovamente il rapporto tra il diritto alla riservatezza ed il diritto di cronaca. Sebbene tali situazioni giuridiche assumano entrambe rilevanza costituzionale, il loro rapporto è spesso confliggente, in quanto dediti alla tutela di interessi collidenti. Difatti il primo è volto ad impedire che situazioni attinenti alla propria sfera personale (o comunque ad essa collegate) non vengano divulgate e rimangano, pertanto, serbate nella propria sfera interiore, o comunque in una cerchia ristretta di soggetti; il secondo, invece, è volto a garantire la divulgazione di informazioni, in ossequio al principio di libertà di manifestazione del pensiero, al fine della composizione di una pubblica opinione avvertita e consapevole. 

Il diritto alla riservatezza rientra nel novero dei diritti della personalità, inteso quale bene giuridico immateriale ed inerente alla sfera giudica di un soggetto, tra cui rientrano in primis i diritti inviolabili dell’uomo. L’attenzione a tale genus di diritti è il frutto di una lunga evoluzione storica, il cui decalogo è fortemente contingentato dalle esperienze storiche e sociali in cui si fa riferimento. Difatti la dottrina prevalente tende a scindere almeno tre periodi per l’evoluzione storica degli stessi. 

Inizialmente vi è stato il riconoscimento dei cosiddetti diritti di prima generazione, che nel nostro ordinamento sono normativizzati nella legge LAC (Legge di Abolizione del contenzioso amministrativo, n. 2248/1865). Essi sono il frutto delle conquiste susseguitesi a partire dall’Illuminismo, concretizzatesi poi nelle esperienze della rivoluzione francese e con la promulgazione della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, assurgendo a baluardo di ogni ordinamento democratico moderno.

Difatti, essi sono addivenuti elementi fondamentali delle costituzioni, anche preunitarie. In particolare, il riconoscimento dei diritti civili e politici, avvenuti con la legge n. 2248/1865, ha consentito di elevare a situazioni giuridicamente rilevanti e meritevoli di tutela i rapporti esistenti tra i privati, nonché i rapporti inerenti la partecipazione politica dei cittadini (come, ad esempio, il diritto di voto) le quali trovano non solo piena ammissione, ma anche una tutela giurisdizionale effettiva innanzi all’Autorità giudiziaria. 

Nel secondo dopoguerra, i diversi ordinamenti nazionali prendendo coscienza delle aberranti menomazione perpetrate ai diritti della persona durante il periodo totalitario vissuto nelle esperienze europee, hanno proteso alla elaborazione di Carte fondamentali che garantissero un pieno riconoscimento dei diritti della persona considerati incoercibili, indegradabili e insopprimibili, se non in alcuni e determinati casi stabiliti dalla legge, la quale, tuttavia, non può mai comportare la privazione assoluta del bene, ma semmai una mera restrizione (come nel caso del diritto di libertà a seguito dell’inflizione della pena). 

Relativamente all’ordinamento italiano, l’avvento della Costituzione nel 1948, ed in particolare gli artt. 2 e 3 Cost. consentono di individuare i c.d. diritti inviolabili della persona in un novero sicuramente più ampio rispetto ai meri diritti civili e politici, attinenti alla sfera intrinseca della persona, la cui formula impiegata nell’articolo 2 Cost. (“La repubblica riconosce...”), condivide la configurazione della preesistenza di tali diritti e non invece una mera concessione da parte del legislatore.

Essi non vengono soltanto riconosciuti come “inviolabili”, ma vengono anche “garantiti” sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Dunque, in combinato disposto con l’art. 3 Cost., ove si stabilisce che “l’ordinamento deve rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona”, la norma costituzionale non solo riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, ma affida al legislatore un compito di realizzare tutte quelle attività prodromiche per garantirne la massima estrinsecazione e quindi di attuare tutte le politiche necessarie al loro pieno sviluppo. 

Sempre in attuazione dei principi costituzionali, negli anni seguenti la sua introduzione, accanto alle libertà individuali, iniziano ad affermarsi anche le cosiddette libertà collettive, la cui titolarità spetta al singolo in quanto inserito all’interno di un contesto di più soggetti, come il diritto all’esercizio della libertà di riunione e di associazione, nonché dei diritti sociali, come il diritto ad un ambiente salubre ovvero il diritto ad una retribuzione proporzionata al lavoro effettuato.

Ritornando alla tematica oggetto della pronuncia di legittimità, oggigiorno il diritto alla riservatezza è espressamente definito nella sua portata ai sensi dell’art. 8 della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo, il quale afferma che “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza”, contro ogni tipo di limitazione, salvo che non “sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società̀ democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”. 

In particolare, nell’accezione relativa alla protezione dei diritti e delle libertà altrui viene fatto rientrare proprio il diritto di cronaca, riconducibile, secondo l’orientamento costituzionale unanime, ai sensi dell’art 21 Cost., il quale riconosce la libertà di informazione e, in termini più generali, un interesse generale della collettività all’informazione (dunque, un diritto ad informare e ad essere informati). 

Tuttavia, l’ingerenza nel diritto alla riservatezza, seppur ammissibile, non deve considerarsi come assoluto; difatti come affermato anche dalla Corte Costituzionale in diverse pronunce, tra cui la n. 85/2013, laddove i diritti possono entrare in conflitto tra loro, occorre tener presente che “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione tra di loro, e non è possibile individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri”. Spetterà dunque al legislatore ordinario, ovvero ai giudici in sede di applicazione della legge, valutare quale sia il miglior contemperamento dei diversi interessi che vengono presi in considerazione dal caso di specie.

Proprio in termini di diritto di informazione, il cui principale antagonista è rappresentato proprio dal diritto alla riservatezza, la giurisprudenza ha da sempre individuato alcune condizioni essenziali affinché il diritto di cronaca risulti legittimo, le quali devono ricorrere in modo congiunto e non alternativo. 

Tali presupposti vengono richiamati anche nella sentenza in commento, la quale, in ossequio all’orientamento giurisprudenziale consolidato, annovera come criteri per la legittimità dell’esercizio del diritto di cronaca la necessità che abbia ad oggetto una verità oggettiva circa la notizia pubblicata, l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto nonché alla correttezza formale della esposizione

La verità della notizia, presuppone che il fatto narrato sia vero, o comunque verosimile, non potendo esservi un interesse della collettività alla conoscenza di notizie false. Solo tale correlazione tra il fatto e la notizia riportata non rende punibile la condotta ai sensi dell’art 51 c.p.: difatti l’esercizio del dovere di informazione esclude la punibilità, soltanto laddove essa sia legittima. Come anticipato, non basta che l’informazione riportata sia veritiera, ma è necessario che ricorrano anche i requisiti della pertinenza e della continenza.

Per quanto concerne il primo aspetto, l’esercizio del diritto di cronaca non risulta violato laddove la notizia abbia un interesse per l’opinione pubblica. La Cassazione chiarisce che il concetto di opinione pubblica non deve essere inteso in senso assoluto e quindi necessariamente congruente con la notorietà di determinate persone che nutrono in ambito nazionale, ma essa può essere limitata e quindi circoscritta anche in un ambito locale, ove la diffusione della notizia può determinare una immediata riferibilità ad un dato soggetto inserito in una data comunità.

Relativamente invece alla continenza, ovvero alla correttezza formale della esposizione dei fatti, è necessario che il diritto di cronaca venga esercitato con moderazione e con proporzionalità nelle modalità espressive, le quali non debbono comportare delle espressioni denigratorie o comunque che celino attacchi personali volti a colpire l’altrui dignità. La Cassazione con la sentenza in commento precisa che tale requisito deve avere in oggetto non solo il contenuto dell’articolo “ma l’intero contesto espressivo in cui l’articolo è inserito, compreso titoli, sottotitoli, presentazione grafica, ecc.” in modo tale da far si che anche il lettore disattento non venga fuorviato dalla notizia.

La Corte di legittimità, dopo aver pertanto esposto i diversi principi cardine esistenti in materia, si è espressa nel merito della questione ad essa sottoposta, riguardante la diffusione di una notizia relativa ad una malattia che aveva causato la morte di un ragazzo, aggiungendo che la medesima caratterizzava lo stato di salute anche dei fratelli maggiori.

La III Sezione, pertanto, condividendo la ricostruzione operata dal giudice di merito, ha affermato che la divulgazione dello stato di salute dei fratelli del defunto era del tutto “avulsa dal contenuto dell’articolo e dall’informazione che il giornalista doveva offrire”. Difatti pur non essendo contestata la veridicità della notizia, e che l’espressione verbale non era lesiva della reputazione e dell’onore dei soggetti interessati, era manchevole dell’interesse pubblico alla conoscenza della sussistenza della patologia dei prossimi congiunti, in quanto era necessario (e dunque sufficiente) che la notizia riportasse come “il decesso non sia avvenuto a causa di una malattia che potesse essere una forma virale tale da determinare pericolose forme di contagio per la salute collettiva”. 

Nel caso di specie, infatti, l’interesse pubblico era soddisfatto fornendo esclusivamente tale informazione, evitando l’eventuale sorgere di allarmismi. Mentre la diffusione della notizia relativo allo stato di salute dei prossimi congiunti, talaltro senza il loro consenso come richiesto dalla normativa relativa al trattamento e alla divulgazione dei dati sensibili, non aveva alcuna attinenza con la notizia principale, ma era stata resa al solo scopo “di catturare una maggiore attenzione del lettore”. Asserzione che trova conferma anche nella disciplina normativa del diritto di privacy che era applicabile al caso di specie, la quale consente la diffusione di dati inerenti alla salute soltanto laddove abbia un interesse pubblico. 

Un ultimo aspetto esaminato dalla Cassazione, attiene il risarcimento del danno da lesione del diritto alla riservatezza. In ossequio al principio consolidato, l’art. 2059 cc, laddove consente il risarcimento del danno nelle ipotesi previste dalla legge, non è relegato soltanto laddove consegua ad un fatto-reato, cosi come interpretato dalla giurisprudenza più remota, ma consente al danneggiato di essere ristorato anche del danno non patrimoniale, in quanto il legislatore, attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento (ex art 25 della l. 675/1996 in ragione della ratione temporis, essendo i fatti di cui in giudizio avvenuti nell’anno 2000), ed attenendo la qualificazione di danno non patrimoniale come categoria unitaria, le cui diverse definizioni di danno biologico, morale soggettivo o esistenziale rappresentano delle mere indicazioni, comporta che il concetto di legge richiamato non debba essere inteso soltanto in senso formale (e quindi relegata meramente all’art 185 c.p.) ma anche in senso sostanziale, potendo essere risarcito anche ulteriori diritti riconosciuti e garantiti dalla legge, in primis quella costituzionale. 

Nel caso di specie, il fatto illecito produttivo del danno si è verificato in un periodo della vita dei fratelli in cui, essendo in fieri la formazione della loro personalità, era molto importante la coltivazione di attività sociali comprensivamente intese. La notorietà della notizia del decesso del fratello e della divulgazione della patologia di cui soffrivano, ha ingenerato in loro un timore di non essere accettati e di essere considerati malati all’interno della comunità in cui vivevano, in quanto la diffusione della notizia era contenuta in un giornale locale, il cui bacino di lettori era sostanzialmente coincidente con la collettività in cui vivevano.