ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Dom, 8 Lug 2018

La rinnovazione della prova dichiarativa in appello: le asimmetrie delle soglie probatorie pro reo

Modifica pagina

Ivano Ragnacci


Le Sezioni Unite affermano che nel caso di riforma in senso assolutorio di una condanna, il giudice di appello non ha l’obbligo di risentire i soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini della condanna.


Il tema oggetto del presente elaborato è se, nel caso diametralmente opposto a quello approfondito dalla Cassazione, ovvero, dell’appello proposto dall’imputato avverso la sentenza di condanna in primo grado il cui impianto motivazionale sia pressoché esclusivamente retto sulla prova dichiarativa di un unico testimone, che veste i medesimi panni di persona offesa e parte civile, possa ritenersi legittima una nuova escussione da parte dei Giudici del secondo grado, i quali scientemente e/o incidentalmente, tendano a colmare quelle lacune istruttorie emergenti dal processo di primo grado per raggiungere quel “al di là d’ogni ragionevole dubbio” evidentemente assente allo stato degli atti in appello.

Come noto, invero, con la recente Sentenza a Sezioni Unite Num. 14800 del 2018, depositata il 3 aprile 2018, Presidente Giovanni CANZIO, Relatore Gaetano DE AMICIS, è stato rigettato il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli, con cui veniva dedotto il vizio di erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., sul rilievo che una corretta valutazione dei dati indiziari avrebbe condotto ad una conferma della decisione di condanna avverso la pronuncia assolutoria resa senza procedere ad una nuova assunzione delle prove dichiarative raccolte nel primo giudizio.

Ora, preso atto che la Suprema Corte colle pronunce a SS.UU., n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267487e e SS.UU., n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269785, ha sostanzialmente ribadito il principio di diritto, già noto alla Corte di Strasburgo, secondo il quale non è possibile sovvertire l’esito del giudizio di primo grado in peius dietro impugnazione della Procura, senza prima procedere alla rinnovazione dibattimentale di quelle prove dichiarative che secondo diversa interpretazione dell’accusa sarebbero da porsi alla base di una sentenza di condanna, diametralmente opposta a quella resa dal Giudice del primo grado, con la Sentenza in narrativa la Cassazione si è occupata di affrontare la questione di diritto così dagli stessi di seguito testualmente descritta: “Se il giudice di appello, investito della impugnazione dell’imputato avverso la sentenza di condanna con cui si deduce la erronea valutazione della prova dichiarativa, possa pervenire alla riforma della decisione impugnata, nel senso della assoluzione, senza procedere alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini della condanna di primo grado”.

Tuttavia, come di seguito meglio si approfonditrà, ad avviso di chi scrive, i Giudici hanno perduto l'occasione di meglio precisare quanto, invero, implicitamente ed inequivocabilmente già è evidente, seppur non in forma di massima, ovverosia, di un divieto di conferma della sentenza di condanna del primo grado impugnata dal solo imputato, da parte dei giudici di secunde cure che procedano a rinnovare la prova dichiarativa, nella fattispecie persone offesa e parte civile, già ampiamente escussa in prima grado, che nell'ipotetico caso verrebbe chiamata solo per colmare le lacune del "non detto" o del " detto equivoco" o, addirittura, " del detto tutt'al contrario", ergo per superare la soglia del ragionevole dubbio, in essere al momento dell'esame cartolare degli atti.

In tal caso, la Corte d’Appello adita, si operando, tra l’altro, andrebbe a colmare eventuali vuoti nelle dichiarazioni rese dal testimone a distanza di molti più anni di quanti non fossero già passati al momento della escussione naturale nel primo grado di giudizio.

Ebbene, non sfuggirà a chi s’interessa del tema, meno paradossale di quanto gli operatori del diritto possano testimoniare nella prassi giudiziaria, che un primo ostacolo a tale modus operandi, a mite avviso di chi scrive, è il principio coniato nel noto brocardo latino del “in dubio pro reo”, per non dire dell’immediatezza dell’assunzione della fonte dichiarativa, non intesa come necessità d’escussione innanzi al giudice impegnato nella motivazione giurisdizionale, ma nel senso proprio e filologico del termine, quello della distanza temporale trascorsa dal fatto sul quale riferisce il testimone, che già ha reso la propria amplia dichiarazione.

Si potrebbe, tuttavia, a quanto dedotto opporre, che un altro principio del giusto processo, quello della non dispersione della prova coniugato con la circostanza che qualsiasi elemento di prova deve ritenersi acquisibile nell’intero iter giurisdizionale, pertanto sin quando è in corso il processo e non vi sia passaggio in giudicato della sentenza, oltre il primo grado di giudizio, si pone in conflitto col primo criterio descritto. E però tale argomentazione, oltre a non convincere pienamente dal punto di vista nomofilattico infra approfondito ed a risultare recessivo rispetto ai principi poc’anzi accennati, non può reggere innanzi all’evidenza che se, quando ad essere rinnovata è la testimonianza della parte offesa costituita parte civile, la quale in primo grado è stata ampliamente escussa, come può essere indubitabilmente documentato dalle trascrizioni agli atti, secondo le regole di cui agli artt. 503 e ss. c.p.p., si violerebbe non solo l’art. 603 c.p.p. come recentemente modificato dal D.D. L. Orlando, che ha inserito con l’art. 58  dopo il comma 3 d il comma 3-bis[1]ma anche il più generale valore della certezza del diritto, che verrebbe in tal maniera  messa a repentaglio dall’agire eventualmente arbitrario dell’autorità giudiziaria senza alcun controllo e/o limitazione, in palmare violazione dei diritti fondamentali dell’equo processo, così come delineati non solo a livello Costituzione (artt. 25, 27, 111), ma anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (artt. 47 e 48) e dalla CEDU (art. 6), a garanzia dei diritti e delle facoltà della persona sottoposta ad un procedimento penale[2].

Del resto, è ragionando a contrario rispetto al principio di diritto, precedentemente reso dalle stesse Sezioni Unite ed oggi assorbito dalla sentenza in commento, secondo cui “l’art. 603, comma 3, cod. proc. pen. In applicazione dell’art. 6 CEDU deve essere interpretato nel senso che il giudice di appello per pronunciare sentenza di assoluzione in riforma della condanna del primo giudice deve previamente rinnovare la prova testimoniale della persona offesa, allorché, costituendo prova decisiva, intenda valutarne diversamente la attendibilità, a meno che tale prova risulti travisata per omissione, invenzione o falsificazione[3],che si comprende come, ove la Corte d’Appello intendesse confermare la sentenza di condanna di primo grado, non dovrebbe, rectius potrebbe, procedere alla riescussione della medesima fonte testimoniale, sia poiché non necessario, sia in quanto ed innanzitutto costituirebbe una gravissima violazione dei principi costituzionali che reggono l’intero assetto processuale penale di cui all’art. 111 della Costituzione, che regolamenta al comma primo la giurisdizione, la quale deve attuarsi con il giusto processo disciplinato dalla legge, che non potrà evidentemente ritenersi tale e pertanto equo laddove, dopo l’assunzione della prova dichiarativa resa, segnatamente, dalla asserita persona lesa già costituitasi parte civile, nel contraddittorio delle parti, nella sede naturale dell’escussione testimoniale, quella del dibattimento di primo grado, i Giudici di seconde cure, al fine di colmare le lacune motivazionali del primo giudice e dietro solo ed unico appello dell’imputato condannato, vadano a cercare nuove dichiarazioni dalla stessa persona offesa/parte civile a chiarimento di quelle già cristallizzate nel grado precedente, che sul tema non potrà che ritenersi anche definitivo, se non si voglia ritenere ammissibile nel nostro ordinamento una sorta di “revisione” in peius impropria se non inquisitoria del Giudice d’Appello delle medesima prova dichiarativa già assunta nella piena garanzia del contraddittorio tra le parti.

Pertanto, se la certezza del diritto è definizione da sempre connaturata di profili retorici e difficilmente classificabili, ci si conforti con la certezza del dubbio, segnatamente circa l’attendibilità/inattendibilità di un qualificato testimone/parte civile nel processo, già ampiamente esaminato, controesaminato e riesaminato nel corso del giudizio di primo grado, che non dovrà rectius potrà essere risentito in grado d’appello per consentire di confermare la sentenza di condanna di primo grado, in quanto, pare banale rammentarlo con diverse parole, ciò costituirebbe una inammissibile violazione di legge, processuale e costituzionale, nella misura in cui la Corte d’Appello investita volesse e tendesse ad ogni costo perseguire quell’al di la d’ogni dubbio ragionevole, tuttavia arbitrariamente volgendo alla sovversione d’una prova dichiarativa già cristallizzata.

All'inverso di quanto, evidentemente, tornando alla Sentenza a SS.UU. in commento, s’impone, ma in ossequio ai medesimi principi sin qui accennati, nel caso s’intendesse riformare in peius la sentenza di assoluzione di primo grado impugnata dall’accusa pubblica, che nello specifico denunci una errata e/o diversa interpretazione delle dichiarazioni rese al testimone.

In tali evenienze, come meglio approfondito dagli Ermellini nella più autorevole composizione da ultimo sul punto “ … Presunzione di innocenza e ragionevole dubbio impongono soglie probatorie asimmetriche in relazione alla diversa tipologia dell’epilogo decisorio: la certezza della colpevolezza per la condanna, il dubbio processualmente plausibile per l’assoluzione …” pertanto  “ … movendo da tali postulati va inoltre sottolineato come, all’assenza di un obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa in caso di ribaltamento assolutorio, debba affiancarsi l’esigenza che il giudice d’appello strutturi la motivazione della decisione assolutoria in modo rigoroso, dando puntuale ragione delle difformi conclusioni assunte …”[4], senza, si ripete ancora, dovere (poter) rievocare un’assunzione probatoria già esaurita in caso di conferma in appello.

Del resto, altro argomento contro ogni eventuale confutazione di siffatta interpretazione, è che ove le Sezioni Unite avessero voluto legittimare un tale modus operandi, ovvero quello della riaudizione della prova dichiarativa ai fini della conferma della condanna, non avrebbero potuto non dirlo ed argomentarlo, poichè se la logica giuridica per un verso conduce ineluttabilmente alle considerazioni svolte in questo scritto e sintetizzate in conclusione, allo stesso modo non può certo ritenersi per l'ipotesi contraria, distonica rispetto all'intero ragionare degli Ermellini.

Ancora, poi, i Giudici di legittimità, chiarendo le ragioni che giustificano tale asimmetrica e diversificata attività giurisdizionale, puntualizzano impeccabilmente che “ … Il canone del ragionevole dubbio, infatti, per la sua immediata derivazione dal principio della presunzione di innocenza, esplica i suoi effetti conformativi non solo sull’applicazione delle regole di giudizio e sulle diverse basi argomentative della sentenza di appello che operi un’integrale riforma di quella di primo grado, ma anche, e più in generale, sui metodi di accertamento del fatto, imponendo protocolli logici del tutto diversi in tema di valutazione delle prove e delle contrapposte ipotesi ricostruttive in ordine alla fondatezza del tema d’accusa: la certezza della colpevolezza per la pronuncia di condanna, il dubbio originato dalla mera plausibilità processuale di una ricostruzione alternativa del fatto per l’assoluzione …” ribadendo, implicitamente, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno, che originali riassunzioni testimoniali per confermare una sentenza di condanna di primo grado, sarebbero inammissibili arbitrii, illegittime ed abnormi attività giurisdizionali poiché in palese contrasto e violativi dei canoni poc’anzi riportati, che porterebbero inesorabilmente ad un annullamento della sentenza si fatta per violazione di legge ex art. 603, comma 1 lett. b) c) ed e)[5] c.p.p., nonché 618 comma 1-bis a mente del quale «Se una sezione della corte ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza, la decisione del ricorso».

Nella massima espressione nomofilattica recentemente ravvivata dal legislatore colla norma da ultimo citata, la Corte, nella medesima sentenza, tiene a precisare di come il principio dell’immediatezza nell’assunzione della prova dichiarativa deve considerarsi recessivo rispetto a quello del principio di non colpevolezza ex art. 27 Cost. endiadi del ragionevole dubbio “ … operante solo pro reo e non per le altre parti del processo … ”.

Altro importante profilo visuale approfondito dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite, è quello Comunitario, da cui si evince e consolida la ratio dell’istituto della rinnovazione istruttoria in commento ex art. 603 c.p.p., come ci si augura aver sin qui chiarito, ovverosia “ … tale deciso richiamo al metodo dell’oralità non è mai stato in concreto riferito alla ipotesi della reformatio in melius, ma è stato sempre declinato nella diversa prospettiva del ribaltamento dell’esito assolutorio in condanna (Corte EDU, 24/11/1986, Unterpertinger c. Austria; 07/07/1989, Bricmont c. Belgio; 18/05/2004, Destrehem c. Francia; 21/09/2010, Marcos Barrios c. Spagna; 05/07/2011, Dan c. Moldavia; 05/03/2013, Manolachi c. Romania; 04/06/2013, Hanu c. Romania; 04/06/2013, Kostecki c. Polonia; 28/02/2017, Manoli c. Moldavia; 29/06/2017, Lorefice c. Italia) … “, proprio per ribadire come anche a livello sovranazionale non si riscontrino ipotesi di riassunzione probatoria per rendere più granitica la motivazione sulla prova del primo giudice di merito, piuttosto, peggio, che per introdurre nuovi elementi di prova a carico dell’imputato veicolati, tra l’altro, per bocca dello stesso testimone già escusso in dibattimento.

Passando oltre, il Supremo Consesso in funzione nomofilattica, occupandosi della vittima del reato e delle garanzie ad essa da riservare, chiarisce, conferma e non smentisce l’assunto chiave di questo elaborato, ricordando come “ … dal quadro di garanzie delineato dal legislatore europeo in favore della vittima non emergono, peraltro, disposizioni volte ad imporre agli Stati membri la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello nei casi in cui dalla rivalutazione dell’attendibilità delle sue dichiarazioni possa derivare una riforma in melius della sentenza.

L’art. 10 della citata direttiva, nel rinviare alle specifiche modalità di attuazione previste dalle normative interne (par. 2), stabilisce che gli Stati membri «garantiscono che la vittima possa essere sentita nel corso del procedimento penale e possa fornire elementi di prova» (par. 1) poiché, come sottolineato nel Considerando n. 34, «non si può ottenere realmente giustizia se le vittime non riescono a spiegare adeguatamente le circostanze del reato e a fornire prove in modo comprensibile alle autorità competenti» … “ tuttavia, ciò che più conta, per quanto qui interessa è che, prosegue nel ragionamento la Corte “… Il legislatore europeo non impone agli Stati membri un obbligo generico di escussione della vittima operante anche in difetto di una specifica istanza, ma introduce, piuttosto, l’obbligo di assicurare che la stessa sia ascoltata ove ne faccia richiesta, affidando alla discrezionalità delle autorità giudiziarie nazionali la valutazione circa la necessità di procedere ad una nuova audizione. Nel nostro ordinamento soccorre al riguardo la disposizione di cui all’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., che consente al giudice d’appello di attivare i poteri officiosi disponendo una nuova audizione, ove lo ritenga “assolutamente necessario” in relazione al caso concreto …”, assoluta necessità che mal si coniugherebbe con una riassunzione ai fini della conferma della condanna in primo grado.

Dall’analisi del quadro normativo sin qui analizzato, proseguono i giudici di legittimità, se ne deduce inequivocabilmente “…  alcuna indicazione circa l’imposizione di una pretesa simmetria di ruoli fra la vittima e l’imputato, ma, semmai, l’esigenza di affidare alla saggia ponderazione del giudice la decisione di rinnovarne, se del caso, la deposizione nelle ipotesi di c.d. reformatio in melius (valutando in tal senso, senza alcun automatismo probatorio, tutte le circostanze rilevanti nel caso concreto: dalla decisività della fonte di prova al tasso di vulnerabilità del soggetto debole, sino al contesto di riferimento ed alla vicinanza o meno della sua audizione rispetto al precedente apporto dichiarativo) … “ affermando ancora una volta, come se ne può dedurre ragionando a contrario, che non può trovare cittadinanza del nostro ordinamento giuridico e nell’assetto processuale penale nazionale nessuna involuzione giurisdizionale che si ponga servente rispetto a dei presunti valori a favore di una parte del processo, la parte civile, che per propria ontologica natura non può avvantaggiarsene, per ampi motivi sin qui descritti, facenti capo a principi di rango comunitario, sovranazionale e costituzionale.

Subito prima di giungere alle considerazioni finali, pragmaticamente val la pena porsi un quesito: come dovrebbero decidere quei giudici di appello i quali procedendo alla rinnovazione istruttoria della prova dichiarativa, poiché ritenuto necessario, in un caso in cui intendano capovolgere il giudizio di condanna di primo grado con un proscioglimento pieno dell’imputato, con l’ulteriore fine di rendere più granitica la motivazione, ove le nuove dichiarazioni rese dal teste/parte offesa/parte civile già escusso in primo grado, chiariscano dubbi o introducano nuovi elementi di prova a carico dell’imputato non riferiti tempestivamente in primo grado, ma astrattamente idonei, entro il limite della falsa testimonianza, a fondare un’ipotesi di certezza al di là d’ogni ragionevole dubbio in grado d’appello?

Ebbene, in tale ipotesi, meno improbabile di quanto prima facie potrebbe apparire, in ossequio ai principi di diritto sin qui commentati e nel paragrafo seguente riassunti, non potrebbero che assolvere l’imputato, il quale, non ci stanchiamo di rammentarlo, non può essere costretto in balia di una parte processuale in spregio delle maggiori garanzie costituzionali poste alle fondamenta di un moderno stato di diritto a trazione garantista.

Conclusivamente, la Corte si pronuncia sul quesito nell’incipit premesso affinando il seguente principio di diritto: «“Nell’ipotesi di riforma in senso assolutorio di una sentenza di condanna, il giudice di appello non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini della condanna di primo grado. Tuttavia, il giudice di appello (previa, ove occorra, rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva ai sensi dell’art. 603 cod. proc. pen.) è tenuto ad offrire una motivazione puntuale e adeguata della sentenza assolutoria, dando una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata rispetto a quella del giudice di primo grado », rendendone, tuttavia, come sin qui, si ritiene, argomentato, anche un altro che potrebbe essere così massimato : «nelle ipotesi di conferma di una sentenza di condanna, dietro impugnazione del solo imputato, il giudice di appello non può rinnovare l’istruzione dibattimentale tramite la riassunzione dell’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive ed a maggior ragione quando uno o taluno di tali soggetti rivestano anche i panni di parte civile, poiché ciò sarebbe in espresso contrasto con i principi cardine del giusto processo ex art. 111 Cost., del principio di non colpevolezza di cui all’art. 27 Cost., del ragionevole dubbio oltre al quale dimostrare la colpevolezza dell’accusato, letto anche ex art. 6 C.E.D.U.».

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Comma 3 bis, art. 603 c.p.p. «Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale».

[2] Sempre dalla Sent a SS. UU. In commento: Analoga impostazione è stata accolta nella direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016, il cui termine di recepimento negli Stati membri è fissato alla data del 10 aprile 2018, poiché le fondamentali disposizioni di garanzia contenute negli artt. 2 e 3 ne riferiscono l’ambito di applicazione alle sole «persone fisiche che sono indagate o imputate in un procedimento penale», non alle altre parti del processo. Gli Stati membri sono chiamati ad assicurare (art. 6, par. 2) che ogni dubbio in merito alla colpevolezza sia valutato in favore dell’indagato o dell’imputato, «anche quando il giudice valuta se la persona in questione debba essere assolta».

[3] Cassazione Penale, Sezione II, 12 settembre 2017 (ud. 20 giugno 2017), n. 41571, Presidente Relatore Fianda, in Foro It.

[4] In tal senso, cfr. anche: Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679; Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, Musumeci, Rv. 191229; Sezioni Unite Dasgupta (n. 27620/16).

[5] In tal senso si veda Cass. pen., sez. un., 28-04-2016, n. 27620, nella parte massimata in cui stabilisce che “È affetta da vizio di motivazione ex art. 606, 1º comma, lett. e), c.p.p., per mancato rispetto del canone di giudizio «al di là di ogni ragionevole dubbio», di cui all’art. 533, 1º comma, c.p.p., la sentenza di appello che, su impugnazione del p.m., affermi la responsabilità dell’imputato, in riforma di una sentenza assolutoria, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, delle quali non sia stata disposta la rinnovazione a norma dell’art. 603, 3º comma, c.p.p.” ne deriva che, al di fuori dei casi di inammissibilità del ricorso, qualora il ricorrente abbia impugnato la sentenza di appello censurando la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, pur senza fare specifico riferimento al principio contenuto nell’art. 6, par. 3, lett. d), Cedu, la corte di cassazione deve annullare con rinvio la sentenza impugnata.