L´assegno di divorzio tra autoresponsabilità e solidarietà post-coniugale in attesa dell´intervento delle Sezioni Unite
Modifica paginaLa sentenza n. 11504 del 2017 della Cassazione meglio nota come ”sentenza Grilli” ha rivoluzionato la materia della determinazione dell´assegno divorzile. Gli interrogativi irrisolti e le possibili soluzioni, anche alla luce di quanto previsto negli altri ordinamenti europei, in attesa dell´imminente intervento delle Sezioni Unite.
Sommario: 1. Introduzione – 2. L’assegno di mantenimento nella separazione e l’assegno di divorzio nella crisi della famiglia: differenze e regole di accertamento – 3. Il nuovo orientamento giurisprudenziale sulla determinazione dell’assegno divorzile: gli interrogativi irrisolti a partire dalla “sentenza Grilli” – 4. Il contenuto della “sentenza Grilli” e le successive sentenze di merito: il caso Berlusconi – Lario – 5. La nozione di autosufficienza o indipendenza economica – 6. Assegno di divorzio e onere della prova dell’indipendenza economica del coniuge richiedente – 7. Il dictum della Suprema Corte e l’ordinanza del Tribunale di Firenze del 22 maggio 2013 n. – 8. La funzione dell’assegno divorzile: elementi comuni e profili differenziali rispetto all’assegno previsto dalla legge Cirinnà per gli ex uniti civilmente – 9. Per una giusta rilettura dell’art. 5 co 6 legge sul divorzio e della sentenza Grilli – 10. Per una giusta rilettura dell’art. 5 co 6 legge sul divorzio e della sentenza Grilli – 11. Il possibile intervento delle Sezioni Unite e gli scenari prefigurabili – 12. E negli altri ordinamenti europei? – 13. Possibili soluzioni de iure condendo? Il DDL Ferranti e il diritto vivente.
1. Introduzione
L’assegno divorzile è stato oggetto, da ormai un anno a questa parte, di una accesa querelle dottrinaria e giurisprudenziale, alla luce della sentenza “Grilli” dello scorso anno che, sia pure resa a sezioni semplici, ha rivoluzionato il quadro della materia, granitico fino a quel momento, intervenendo, in particolare, sulle modalità della sua determinazione e quantificazione.
In primis, però, occorre operare una distinzione tra assegno di divorzio e assegno di mantenimento nella separazione.
2. L’assegno di mantenimento nella separazione e l’assegno di divorzio nella crisi della famiglia: differenze e regole di accertamento
L’assegno di mantenimento nella separazione e l’assegno di divorzio sono istituti omogenei, destinati a fronteggiare, in progressione successiva, la crisi della famiglia[1]; entrambi trovano il loro presupposto nella insufficienza economica e nell’incapacità del coniuge richiedente di procurarsi i mezzi adeguati a proseguire la vita, ormai non più matrimoniale. Ciò nonostante, i due assegni hanno presupposti in parte differenti e, sia pur giustificati entrambi da un confronto rispetto al “tenore di vita” goduto in costanza di matrimonio, differiscono nelle concrete modalità di determinazione e quantificazione da parte del giudice.
In particolare, mentre l’assegno di mantenimento, previsto dall’art. 156 c.c., ha una funzione compensativa, dal momento che la separazione non elide, come il divorzio, ma semplicemente sospende alcuni diritti e doveri coniugali, trattandosi di una sorta di “pausa di riflessione” tra i coniugi, l’assegno divorzile, invece, per indirizzo costante fino a poco tempo fa, ha una dichiarata funzione prettamente e unicamente assistenziale.
3. Il nuovo orientamento giurisprudenziale sulla determinazione dell’assegno divorzile: gli interrogativi irrisolti a partire dalla “sentenza Grilli”
L’attenzione di questo contributo si concentrerà soprattutto sull’assegno divorzile, siccome quest’ultimo è stato oggetto di un recentissimo revirement giurisprudenziale, restando, per converso, consolidata finora la giurisprudenza formatasi in ordine all’assegno di mantenimento e ai suoi presupposti.
A partire da quattro storiche sentenze del 1990[2], la Corte di Cassazione aveva espresso un orientamento granitico sull’art. 5 co 6 l. 898/1970 (l. sul divorzio) che disciplina i presupposti in presenza dei quali l’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio è ammesso ad ottenerlo. In particolare, la norma parla di “inadeguatezza di mezzi del coniuge richiedente a conservare un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”.
Sulla base di tale presupposto, al tempo stesso, la giurisprudenza, sia di merito sia di legittimità, era univoca nel ritenere che la funzione dell’assegno divorzile fosse unicamente di tipo assistenziale, laddove la funzione dell’assegno di separazione è, invece, più compensativa e di riequilibrio. Non va dimenticato, infatti, che la separazione, quale sorta di “pausa di riflessione”, anticamera del divorzio, non eliminando, ma semplicemente sospendendo alcuni doveri coniugali (per es. quello di fedeltà e di coabitazione[3]), non preclude agli ex coniugi di ripensarci, di ritornare sui propri passi e, quindi, di ritornare assieme. Nessun assistenzialismo è, dunque, sotteso alla ratio del dovere di mantenimento nella separazione, risultando detto assegno, per converso, funzionale a consentire a quello dei due ex coniugi più debole economicamente e a cui non sia addebitabile la separazione di non fuoriuscire traumaticamente dalla famiglia anche dal punto di vista economico.
Il criterio del “tenore di vita” enucleato dalla giurisprudenza a partire dalla lettura dei presupposti di cui all’art. 5 co 6 l. sul divorzio era, tuttavia, solo tendenziale ed interpretato con elasticità, rilevando pienamente solo nella fase del quantum debeatur e coordinandosi con gli altri criteri, pure espressi dalla stessa norma, nella fase della sua concreta determinazione[4]. In particolare, la norma in commento consente al giudice di valorizzare il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla condizione familiare e alla formazione del patrimonio durante il matrimonio nonché la durata dell’unione coniugale e, in generale, le condizioni dei coniugi e le ragioni della decisione.
Il consolidato orientamento della Corte di Cassazione muoveva dunque da un raffronto tra il tenore di vita goduto tra i due coniugi durante il matrimonio e quello che l’ex coniuge richiedente l’assegno divorzile avrebbe potuto virtualmente aspettarsi qualora avesse proseguito la vita in comune con l’ex partner.
Il giudizio si articolava in due fasi, strutturandosi, così, alla stregua di un giudizio bifasico: nella prima fase il giudice era tenuto ad accertare l’astratta e virtuale spettanza dell’assegno divorzile (an debeatur); solo successivamente, nella concreta determinazione del quantum debeatur, avrebbe dovuto effettuare una valutazione in ordine all’inadeguatezza dei mezzi di sostentamento dell’ex coniuge richiedente, effettuando, così, un raffronto tra l’attuale condizione dello stesso e quella in cui versava al tempo del matrimonio, tenendo dunque conto del “tenore di vita goduto in costanza di matrimonio”. Le due fasi erano, perciò, assolutamente distinte e separate, ancorché, com’è intuibile, strettamente interdipendenti, nella certezza che il parametro del tenore di vita, centrale nella quantificazione dell’assegno nella seconda fase, dovesse essere bilanciato, in una valutazione ponderata e bilaterale, da effettuare caso per caso, con tutti gli altri criteri indicati dallo stesso art. 5 co 6 legge sul divorzio[5].
Tale granitico indirizzo non era stato messo in discussione neppure dalla Corte Costituzionale, chiamata nel 2015 ad interrogarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 5 co 6 legge sul divorzio[6].
In questo quadro, il 10 maggio dell’anno scorso è intervenuta la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione con la sentenza n. 11504, su cui già è stato scritto moltissimo, meglio nota come “sentenza Grilli”.
Presupposto di fondo da cui muove il ragionamento svolto dalla Suprema Corte è che il divorzio, a differenza della separazione, rappresenta una vera e propria cesura nella crisi della famiglia, nel senso che, a partire da quel momento, gli ex coniugi vanno considerati uti singuli; pertanto, continuare a determinare l’assegno divorzile alla stregua del “tenore di vita goduto in costanza di matrimonio” significa produrre una indebita ultrattività degli effetti del matrimonio che, tuttavia, è completamente e definitivamente venuto meno col passaggio in giudicato della sentenza di divorzio.
A partire da tali argomentazioni, allora, la Corte individua un nuovo parametro cui rapportare la nozione di inadeguatezza dell’ex coniuge richiedente l’assegno e lo enuncia nel “raggiungimento dell’indipendenza economica” da parte dello stesso, concludendo lapidariamente che, qualora sia accertato in giudizio che l’ex coniuge abbia raggiunto tale indipendenza economica, alcun tipo di assegno divorzile può essere disposto in suo favore. Pertanto, con la sentenza Grilli sembra che sia stato definitivamente archiviato, dopo più di un quarto di secolo, il criterio del tenore di vita nella concreta determinazione dell’entità dell’assegno di divorzio.
In disparte il fatto che tale nuovo orientamento è stato inaugurato da una sezione semplice che, come noto, non svolge una funzione nomofilattica, propria, invece, e unicamente delle Sezioni Unite – errore processuale, questo, immediatamente rilevato da qualsiasi commentatore della sentenza - va detto che su questo parametro dell’indipendenza economica è già stato scritto moltissimo e molti sono gli interrogativi rimasti ancora irrisolti: per esempio, a chi spetta la prova del raggiungimento di tale indipendenza economica: all’ex coniuge richiedente l’assegno o al coniuge obbligato? A partire da quale soglia può dirsi che l’ex coniuge richiedente abbia raggiunto l’indipendenza economica? Qual è la valenza dell’autosufficienza economica: obiettiva e astratta per tutti o relativa e caso per caso? Che ruolo ha, in definitiva, l’auto responsabilità degli ex coniugi nella crisi della famiglia? Esiste un diritto o comunque un interesse giuridicamente rilevante al “tenore di vita”? Qual è il ruolo e la funzione dell’assegno divorzile nell’attuale contesto ordinamentale, considerato che, come rilevato da molti, nemmeno tale assegno può tradursi in una impropria rendita di posizione, nel senso di essere riconosciuto, tout court, per il divario reddituale esistente tra gli ex coniugi? E, ancora, i criteri enunciati dalla sentenza Grilli alla stregua dei quali valutare se l’ex coniuge richiedente l’assegno abbia o meno raggiunto l’indipendenza economica vanno valutati dal giudice di merito congiuntamente, ai fini della determinazione del quantum debeatur, o sono tra loro criteri alternativi?
Dai nomi noti alle vite comuni, il cambio di rotta della sentenza Grilli ha scatenato la corsa alla revisione degli assegni di divorzio ex art. 9 legge sul divorzio, ma da avvocati e magistrati si solleva alto l’appello ad evitare di penalizzare l’ex coniuge, spesso la moglie, che, specie in passato, ha sacrificato la vita sull’altare della cura della famiglia, uscendo dal matrimonio con una situazione più debole, da un punto di vista economico, rispetto al marito[7].
In una parola, sembra che la questione centrale sottesa a tutte le altre risieda nella valenza da attribuire all’atto del matrimonio, alla stregua di atto ancora da ritenersi pubblicistico o, per converso, privatistico, come atto di libertà e auto responsabilità, dal momento che è dal matrimonio e dalla essenza che attualmente lo stesso ha nella coscienza sociale che muove il ragionamento svolto nella sentenza Grilli per approdare ad un nuovo indirizzo in materia di determinazione dell’assegno divorzile.
A questi e ad altri interrogativi hanno cercato di rispondere in quest’anno i giudici di merito, considerato che la sentenza Grilli, pur avendo operato una rivoluzione copernicana nella materia, non è, come detto, una sentenza resa a Sezioni Unite, quindi non vincola le pronunce degli altri giudici che, eventualmente, volessero da essa discostarsi, motivando adeguatamente sul punto. E in effetti, a partire dal maggio dell’anno scorso, moltissime sono le sentenze di merito e di legittimità che si sono poste in contrasto con quest’orientamento, attestandosi su di una posizione conservatrice dell’assetto del diritto vivente vigente anteriormente.
Data l’oscillazione giurisprudenziale, la questione è stata rimessa alle Sezioni Unite che si sono riservate all’udienza del 10 aprile e hanno sessanta giorni per pronunciarsi.
Siamo, dunque, in attesa della decisione della Suprema Corte, ma sin d’ora si cercherà di prefigurare quale potrebbe essere lo scenario possibile e le risposte che daranno le Sezioni Unite, tentando, altresì, di proporre, in una prospettiva de iure condendo, possibili soluzioni alternative in materia di determinazione dell’assegno di divorzio, considerato anche che giace in Parlamento un progetto di riforma del medesimo[8].
4. Il contenuto della “sentenza Grilli” e le successive sentenze di merito: il caso Berlusconi – Lario
Se questo era il panorama normativo e pretorio di riferimento consolidato, il 10 maggio 2017 la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11504/2017, meglio nota come “sentenza Grilli”, ha operato una “rivoluzione copernicana” nella materia della determinazione e quantificazione dell’assegno divorzile, così scatenando una giurisprudenza ondivaga sul punto.
Il presupposto da cui muove la sentenza, espressamente enunciato, è che il divorzio, a differenza della separazione, opera una netta cesura nella vita degli ormai ex coniugi e, fondandosi su una libera scelta, proprio come il matrimonio, da ritenersi ormai atto privatistico d’auto responsabilità, non può considerarsi come una occasione per una “sistemazione definitiva” e cioè per ottenere un assegno che, in quanto agganciato al criterio del “tenore di vita goduto in costanza di matrimonio”, si trasforma, in molti casi, nell’attribuzione all’ex coniuge più debole economicamente di una indebita rendita di posizione. E, del resto, al divorzio ormai si può accedere, in seguito alla degiurisdizionalizzazione operata dalla legge n. 162/2014, anche senza l’intervento del giudice, bensì semplicemente recandosi dinanzi all’ufficiale di Stato civile, dopo aver pagato un contributo di circa euro 16,00. Dunque, per effetto di tale intervento normativo, che ha peraltro anche esteso a questa materia il nuovo istituto della negoziazione assistita, i coniugi possono avvalersi della collaborazione del solo avvocato per presentarsi dinanzi all’ufficiale di stato civile, ponendo nel nulla il loro matrimonio con un contributo economico del tutto irrisorio e senza l’intervento né il controllo giurisdizionale. E, d’altro canto, numerosi e significativi sono gli indici che attestano il riconoscimento ormai anche normativo del già avvenuto mutamento sociale di pensiero in tema di matrimonio: basti pensare che, in seguito alla riforma operata con d.lgs. 154/2013, art. 39, la vecchia “potestà genitoriale” viene ormai detta “responsabilità genitoriale” (art. 316 c.c.), così a voler rimarcare il ruolo di ambo i coniugi e il loro impegno e responsabilità nella formazione ed educazione dei figli; e, ancora, basti riflettere sul fatto che, sempre per effetto della riforma operata con legge n. 55/2015 dell’art. 191 c.c., la comunione legale dei coniugi ormai si scioglie, per effetto della dichiarazione giudiziale, già alla prima udienza presidenziale volta al divorzio. Per di più, nemmeno può tralasciarsi che, ormai, non è più lecito parlare di famiglia, ma di “famiglie”, stante l’avvenuto riconoscimento normativo sia della convivenza, prima solo di fatto, sia delle unioni civili[9].
Pertanto, con il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, come ben messo in evidenza dalla Suprema Corte nella sentenza Grilli, il rapporto matrimoniale deve ritenersi ormai definitivamente estinto sia sul piano patrimoniale, sia sul piano personale e perciò ciascun ex coniuge va considerato come persona singola (uti singulus) e non più come parte di un rapporto ormai completamente estinto. Ne consegue agevolmente che continuare a tener fermo il riferimento al mantenimento del tenore di vita goduto in costanza di un rapporto ormai finito si risolve in una indebita ultrattività dello stesso[10].
Di conseguenza, non è configurabile un diritto o comunque interesse giuridicamente rilevante dell’ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale e, d’altro canto, se tale diritto non può ritenersi esistente neppure in costanza di matrimonio, quando ciascun coniuge sopporta l’alea per esempio del possibile fallimento del progetto lavorativo dell’altro, come potrebbe in astratto sussistere un interesse giuridicamente rilevante al mantenimento del tenore di vita quando la vita matrimoniale si è ormai sciolta?
In questa consapevolezza, Cass., 10 maggio n. 11504 si è fatta anche carico di individuare un nuovo parametro cui rapportare la nozione di adeguatezza o di inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge richiedente l’assegno e l’ha trovato nel raggiungimento dell’indipendenza economica dello stesso. Sulla base di ciò, qualora dall’istruttoria si accerti pienamente che l’ex coniuge richiedente sia perfettamente in grado di essere indipendente dal punto di vista economico, per esempio perché giovane e in possesso di un titolo di studio che gli consente di entrare e permanere stabilmente nel mondo del lavoro e in considerazione anche della durata (magari breve) del matrimonio, alcun tipo di assegno dovrà essergli riconosciuto dal giudice. La Corte si premura altresì di offrire alcuni indici – ritenuti non esclusivi – da cui desumere l’effettiva indipendenza economica del richiedente, ribadendo però che al riguardo non deve farsi alcun tipo di riferimento al preesistente rapporto matrimoniale – ormai definitivamente estinto, lo si ribadisce - , né alla pregressa comunanza di vita e di interessi.
La Suprema Corte riprende e radicalizza, inoltre, la tradizionale distinzione in cui si articola il giudizio sulla determinazione e quantificazione dell’assegno divorzile e afferma chiaramente che, in questa considerazione degli ex coniugi come persone singole, la prima fase, inerente l’accertamento della sussistenza dei presupposti per concedere l’assegno e dunque la astratta valutazione in merito alla presunta autosufficienza economica, è governata dal principio di auto responsabilità. In altri termini, così come già il matrimonio, anche il divorzio è un atto privato di libera scelta dei coniugi, tanto più che ormai, rispetto al 1970, il divorzio si è consolidato nella coscienza sociale e si è preso ormai atto che il matrimonio contiene in sé l’alea del divorzio. Inoltre, la Corte è altresì chiara nel ritenere che la prova dell’autosufficienza economica gravi sull’ex coniuge richiedente, costituendo fatto impeditivo ex art. 2697 c.c. all’attribuzione dell’assegno[11]. Secondo la Corte, del resto, il richiedente deve altresì dimostrare le iniziative prese attivandosi nel senso di raggiungere l’agognata indipendenza economica, fatto – come detto - impeditivo rispetto all’assegnazione dell’assegno divorzile, assecondando le proprie attitudini e capacità lavorative[12].
La seconda fase, quella della concreta quantificazione dell’assegno, è retta, invece, dal principio della solidarietà post-coniugale e solo in questa fase può venire in rilievo il criterio del tenore di vita fondato su un confronto tra l’attuale condizione del richiedente e quella durante il matrimonio.
In ogni caso, va evidenziato che nel lungo iter motivazionale svolto dalla Corte, l’obbligo di corrispondere l’assegno non è mai ancorato all’art. 29 Cost., unica norma in materia di matrimonio[13], bensì, e più genericamente, sugli artt. 2 e 23 Cost., quest’ultimo relativo al dovere di ciascuno di contribuzione nei confronti del fisco. In tal modo, però, il rapporto tra gli ex coniugi viene posto su un piano ben più deteriore, corrispondente, grosso modo, a quello tra due obbligati della collettività nei riguardi del fisco, per scopi d’utilità generale e, dunque, non in virtù di pregressi rapporti privatistici di carattere personale.
Sotto il profilo normativo, con una soluzione che pure non sarebbe scevra da critiche, la Corte richiama analogicamente l’art. 337 septies c.c., norma che si occupa di disciplinare, dopo l’abrogazione del vecchio art. 115 c.c., il mantenimento dei figli maggiorenni non economicamente autosufficienti.
5. La nozione di autosufficienza o indipendenza economica
Il dictum della Suprema Corte è stato chiarissimo nell’affermare che, qualora il richiedente versi in uno stato d’attuale o potenziale autosufficienza economica, alcun tipo di assegno divorzile potrà essergli riconosciuto.
Tuttavia, sebbene la Corte si sia sforzata di individuare degli indici da cui desumerla, la nozione di adeguatezza resta alquanto oscura e dai labili confini: in particolare, ci si chiede immediatamente a partire da quale soglia si deve considerare che l’ex coniuge richiedente non abbia sufficienti e adeguati mezzi per proseguire uti singulus la sua vita sotto il profilo economico-patrimoniale.
In particolare, non è affatto chiaro se questo parametro abbia una valenza oggettiva e astratta per tutti ovvero relativa, calibrata sul singolo caso concreto[14]. La sentenza, che pure si premura di offrire indici da cui valutare tale presunta autosufficienza, nemmeno chiarisce se tali criteri debbano ritenersi tra loro concorrenti – e quindi applicabili congiuntamente – ovvero, più realisticamente, alternativi.
E, d’altro canto, la nozione di autosufficienza economica cui la Corte lega il requisito, prescritto dall’art. 5 co 6 legge sul divorzio, della adeguatezza dei mezzi, a differenza del pregresso criterio del tenore di vita, fondato su un confronto tra realtà concrete, essendo altamente indeterminata, come detto, finisce per attribuire ad ogni giudice una eccessiva discrezionalità, così favorendo, in ultimo, pericolose discriminazioni anche fondate sulle diverse realtà territoriali e contrastanti soluzioni processuali, oltre che sostanziali.
Pertanto, la pronuncia esaminata, pur nell’apprezzabile intento di adeguare ormai la realtà normativa ai sopravvenuti mutamenti della coscienza sociale in materia di matrimonio e divorzio, resta in molti punti oscura e di difficile interpretazione, risultando spesso ermetica, specie in confronto alle quattro sentenze “gemelle” del 1990, per cui è quanto mai auspicabile un urgente intervento delle Sezioni Unite.
6. Assegno di divorzio e onere della prova dell’indipendenza economica del coniuge richiedente
Altro punctum dolens della sentenza Grilli risiede, come già accennato, nella individuazione del soggetto tenuto a dimostrare il raggiungimento dell’indipendenza economica quale fatto che impedisce il riconoscimento, da parte del giudice, dell’assegno di divorzio.
Nella sentenza si afferma chiaramente che l’onere probatorio spetta al coniuge richiedente: è questi, dunque, che deve dimostrare d’essersi attivato concretamente per cercare un lavoro confacente alle proprie aspettative, aspirazioni e al suo eventuale titolo di studio e di non averlo trovato, necessitando, così, di essere assistito dall’ex coniuge mediante la corresponsione di una somma di denaro a titolo di assegno divorzile.
E’ evidente come la bontà di un simile orientamento lasci più che perplessi, tanto più che va considerato un vero e proprio errore giuridico quello di addossare, dal punto di vista processuale, l’onus probandi sul soggetto che dovrebbe essere il creditore dell’assegno divorzile e non sul debitore. Su quest’ultimo, più correttamente e anche più agevolmente, dovrebbe gravare l’onere di dimostrare che l’ex partner sia in possesso di redditi adeguati o cespiti patrimoniali tali da consentirgli di vivere in modo autosufficiente.
E, invero, tale errore processuale non è sfuggito ai più attenti giudici di merito che si sono così orientati in senso opposto alla sentenza Grilli e cioè nella direzione di attribuire l’onere probatorio in capo all’ex coniuge debitore. L’accoglimento della soluzione alternativa porta, com’è evidente, alla frustrazione del diritto di difesa – sub species del principio di vicinanza della prova – tutelato dall’art. 24 Cost., considerato che viene addossato su una delle parti l’onere di dimostrare un fatto per di più di carattere negativo.
L’intervento delle Sezioni Unite è, dunque, fortemente auspicato proprio in ragione di questi errori, specie processuali, contenuti nella sentenza Grilli; e, invero, di poco successiva, una sentenza sempre del maggio del 2017 pure ha ritenuto di non dover rimettere la questione alle Sezioni Unite, ritenendola non necessaria. Tuttavia, nel nostro ordinamento, pur non esistendo, come in quelli di common law, il vincolo del precedente, quando una sezione semplice ritenga di dover discostarsi dai principi del diritto vivente, deve obbligatoriamente rimettere la questione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374 c.p.c., in quanto le stesse sono l’unico organo che, unitamente all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, svolge una funzione nomofilattica e cioè d’indirizzo e uniformità del contenuto delle sentenze dei giudici di merito e di legittimità, onde scongiurare il rischio di giudicati contrastanti sulla medesima questione che sempre pregiudicherebbe il diritto di difesa del cittadino tutelato dall’art. 24 Cost. e il principio del giusto processo codificato, ormai da qualche anno, nell’art. 111 Cost.
Dunque, la prima macroscopica violazione processuale osservata sin dai primi commentatori della sentenza Grilli è la palese e ingiustificata violazione dell’art 374 c.p.c.
L’altro appunto processuale che è stato fatto consiste anche in una sorta di violazione del principio del contraddittorio, in cui principalmente s’articola il diritto di difesa, visto che la sentenza Grilli rappresenta una sorta di “sentenza a sorpresa”, di quelle che in gergo processuale si definiscono come “sentenze di terza via”.
Da ultimo, sotto il profilo del diritto sostanziale, forse sarebbe stato opportuno che la Cassazione chiarisse meglio che l’orientamento espresso si riferisce solo all’assegno di divorzio e non anche all’assegno di mantenimento che ha presupposti e finalità in parte differenti; e, in effetti, se la Cassazione sul punto glissa, vi sono state, invece, numerose successive sentenze di merito che hanno ben evidenziato questo profilo differenziale.
7. Il dictum della Suprema Corte e l’ordinanza del Tribunale di Firenze del 22 maggio 2013
L’innovativa lettura offerta dalla Suprema Corte, cui si sono subito allineati alcuni Tribunali di merito[15], muove da premesse d’ordine generale che, in larga parte, riecheggiano gli argomenti addotti, ormai quattro anni fa, dal Tribunale di Firenze a sostegno di una ordinanza di legittimità costituzionale dell’art. 5 legge sul divorzio, fondata sull’art. 3 Cost. e, tuttavia, rigettata dalla Corte, in quanto esitata nella riconosciuta legittimità costituzionale della medesima norma da parte della Corte Costituzionale[16].
Già il Tribunale di Firenze, insomma, aveva messo in dubbio l’assunto secondo cui le decisioni sulla spettanza ed entità dell’assegno divorzile debbano essere assunte in funzione dell’obiettivo di garantire al coniuge economicamente più debole la preesistenza del tenore di vita matrimoniale; una simile conclusione, secondo tale opinione, contrasterebbe con la funzione assistenziale dell’assegno divorzile, consistendo, anzi, in una sua indebita alterazione che travalica il dato normativo, oltre che la stessa intenzione del legislatore, esprimendo una lettura della solidarietà post-coniugale legata “ad un’altra epoca, ad un’altra gerarchia di valori non più adeguati alla contemporanea legalità costituzionale”[17].
L’approdo conseguito dalla successiva pronuncia della Corte Costituzionale, che, come detto, non ha rimesso in discussione la validità del diritto vivente formatosi in relazione all’art. 5 legge sul divorzio né il suo tenore normativo, sembra, per converso, superato da questa storica pronuncia della Corte di Cassazione che considera il parametro del tenore di vita non più idoneo a guidare il giudice nella decisione relativa alla spettanza dell’assegno divorzile, individuando, per converso, il criterio più adeguato nel raggiungimento dell’indipendenza economica del richiedente.
Del resto, come già messo in evidenza dal Tribunale di Firenze, e definitivamente asserito anche dalla Corte, il parametro del tenore di vita collide radicalmente con la struttura stessa dell’assegno di divorzio ed introduce una indebita ultrattività e dipendenza economica degli ex coniugi che sopravvive alla rottura dell’unione coniugale; per di più, il perdurante riferimento al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio introduce una illegittima commistione tra le due fasi, ben messe in evidenza dalla stessa Cassazione come radicalmente separate, sia pure, com’è intuibile, strettamente interdipendenti, in cui si articola il giudizio sulla spettanza e successiva quantificazione dell’assegno di divorzio.
In conclusione, la misura massima dell’assegno divorzile, anche alla luce degli indici enunciati dalla Corte da cui desumere il potenziale raggiungimento dell’indipendenza economica da parte dell’ex coniuge richiedente sufficiente ad escludere la concessione dell’assegno, dovrebbe essere contenuta in quella strettamente necessaria a garantire all’ex coniuge il raggiungimento di quella indipendenza.
8. La funzione dell’assegno divorzile: elementi comuni e profili differenziali rispetto all’assegno previsto dalla legge Cirinnà per gli ex uniti civilmente
Si potrebbe, allora, sostenere che, alla luce delle considerazioni sin qui svolte muovendo dall’analisi della sentenza Grilli e della successiva giurisprudenza di merito che ad essa si è conformata, sia, in parte, mutata la funzione dell’assegno di divorzio, prima pacificamente riconosciuta come meramente assistenziale. E, invero, se viene concesso unicamente al coniuge che non sia in grado di condurre una vita autosufficiente dal punto di vista economico –patrimoniale, l’assegno divorzile perde, tuttavia, quella dichiarata funzione, assumendone, per converso, una nuova, di carattere marcatamente compensativa e/o perequativa.
Sotto questo profilo, va certamente evidenziato il pregevole tentativo di una certa giurisprudenza di merito[18] di riconoscere all’assegno divorzile una tale funzione perequativa- compensativa che tenga conto anche e soprattutto del contributo concreto dato dall’ex coniuge, generalmente la moglie, alla formazione del patrimonio economico della famiglia. In altri termini, nemmeno può trascurarsi che, specie al Sud Italia e soprattutto in passato, erano le mogli a sacrificare anche il titolo di studio, semmai tanto faticosamente preso, sull’altare del focolare famigliare, nella volontà di accudire i figli e il marito, seguendoli passo passo nella loro realizzazione prima personale e poi professionale. In una parola, non possono misconoscersi realtà caratterizzate da una certa “divisione asimmetrica del lavoro nelle famiglie” e da una particolare ripartizione del lavoro tra i coniugi che vede la moglie, quale coniuge economicamente più debole, sacrificare le proprie aspirazioni per la famiglia[19]. In tal senso, non potrà non riconoscersi, da parte del giudice, il sacrificio fatto da uno dei coniugi, funzionale all’accrescimento del patrimonio familiare, in costanza di matrimonio; di conseguenza, a detto coniuge, in quanto economicamente più debole, nel corso della crisi del matrimonio, non potrà non assegnarsi l’assegno divorzile, con funzione, dunque, compensativa e perequativa di tale sforzo fatto durante la vita matrimoniale.
Questa nuova funzione dell’assegno di divorzio troverebbe, peraltro, secondo quest’opinione, un espresso addentellato costituzionale negli artt. 2, 3 e 29 Cost. – quest’ultimo, lo si ricordi, unica norma che fa esplicitamente riferimento al matrimonio - e comporterebbe quantomeno una riduzione del frequente divario economico tra gli ex coniugi, ai fini di un tendenziale riequilibrio delle loro posizioni economiche, conseguenza di quella “divisione asimmetrica” del lavoro nella famiglia.
Per svolgere tale funzione e conseguire un tale ambizioso risultato, l’assegno di divorzio dovrebbe comunque essere determinato tendendo conto di tutti gli apporti economici e non solo dispiegati dai due coniugi in costanza di matrimonio; di qui la perdurante rilevanza del criterio del tenore di vita matrimoniale che, pur se non espressamente citato nell’art. 5 co 6 l. sul divorzio, vi è immanente secondo tale opinione, e, d’altronde, è espressamente richiamato – non lo si dimentichi – dall’art. 9, 5 co l. sul divorzio con riferimento alle indagini di polizia tributaria che il giudice può disporre. Sarebbe, dunque, un assurdo formalismo affermare che tale ultima norma sia solo funzionale all’accertamento dell’effettiva consistenza reddituale e patrimoniale dei coniugi, essendo logicamente, prima ancora che giuridicamente, volta, invece, proprio alla determinazione dell’assegno. Di conseguenza “a ben guardare, la conservazione del tenore di vita matrimoniale colora e dà contenuto alla nozione “contenitore” di “mezzi adeguati” e anzi- volendo ancora fare riferimento al nuovo orientamento – equivale alla nozione (come detto variabile e relativa) di autosufficienza”[20].
9. Per una giusta rilettura dell’art. 5 co 6 legge sul divorzio e della sentenza Grilli
Pur con tutti gli errori processuali già evidenziati, la sentenza Grilli ha il pregio di registrare l’avvenuto mutamento di pensiero, dapprima nella coscienza sociale, e ormai anche nella legislazione, in relazione al contenuto e alla valenza dell’atto di matrimonio e, di conseguenza, all’obbligo di contribuzione alla vita dell’ex coniuge prima in costanza di separazione e poi nel corso del divorzio.
Punto nodale da cui muove il ragionamento svolto dalla Suprema Corte risiede proprio nella circostanza di considerare gli ex coniugi come persone singole e non più come parte di un rapporto, quale quello matrimoniale, ormai definitivamente estinto col passaggio in giudicato della sentenza di divorzio e che, altrimenti, vivrebbe ultrattivamente del tutto indebitamente. E’ netta, dunque, la cesura tra separazione e divorzio e la Cassazione si sofferma proprio sul venir meno di tutta una serie di obblighi, patrimoniali e personali, in conseguenza del divorzio che, invece, in parte sopravvivono nel corso della separazione. Gli unici obblighi che, infatti, continuano a permanere, pur col passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, sono quelli che discendono dall’esercizio della responsabilità genitoriale, qualora dal matrimonio siano nati dei figli e che trovano altri addentellati normativi, oltre che nell’art. 30 Cost., negli artt. 316 e 336 ss. c.c.
Pertanto, per stabilire la spettanza dell’assegno divorzile, secondo la Corte di Cassazione, trattandosi di un diritto cd. condizionato, occorre effettuare un giudizio bifasico: solo accertato che l’ex coniuge ha diritto in astratto all’assegno, si potrà quantificare lo stesso. La Corte, allora, nel sottolineare la bifasicità di questo giudizio, in qualche modo stigmatizza quello che era stato l’atteggiamento precedente dei giudici di merito che, a suo dire, in questi anni hanno, in un certo senso, confuso e contaminato le due fasi che, invece, devono rimanere rigidamente distinte e separate, visto che rispondono a criteri diversi e precisamente, mentre la fase dell’an debeatur risponde all’innovativo principio di auto responsabilità, la fase del quantum è invece governata dal principio della solidarietà post-coniugale, diretto precipitato logico del principio generale di solidarietà sociale che si ricava dagli artt. 2 e 23 Cost.
Sotto tale profilo, in effetti, la sentenza della Cassazione è stata fortemente criticata, in quanto non richiama affatto l’unica norma dettata dalla Carta Costituzionale in favore della famiglia fondata sul matrimonio e cioè l’art. 29 Cost., il che significa quasi una sorta di riconosciuto indebolimento del vincolo che scaturisce dall’atto di matrimonio.
Ulteriore questione che la Cassazione lascia aperta e che, dunque, ha destato forte perplessità concerne la valenza degli indici dalla stessa dettati per stabilire, nella fase dell’an, se l’ex coniuge possa dirsi potenzialmente autosufficiente dal punto di vista economico; più precisamente, tali criteri son alternativi tra loro o vanno applicati dal giudice di merito congiuntamente?
Tra questi criteri enunciati dalla Cassazione, poi, quello forse più interessante, perché si scontra con possibili contrasti tra Tribunali di merito anche appartenenti allo stesso circondario[21], riguarda la capacità e le possibilità effettive di lavoro personale in relazione all’età, alla salute e al sesso e quindi anche al mercato del lavoro.
Dunque, pur nell’apprezzabile tentativo di offrire sicuri indici cui ancorare il giudizio sulla spettanza dell’assegno divorzile, la Cassazione ha creato grande scompiglio tra i giudici di merito, chiamati innanzitutto a stabilire se i criteri dalla stessa enunciati per desumere la nozione di autosufficienza siano da applicare congiuntamente o alternativamente e poi posti nella condizione di addivenire concretamente ad orientamenti sensibilmente divergenti, anche in relazione alle diverse realtà territoriali, e quindi economico- lavorative, di riferimento.
In ogni caso, secondo la Corte, a ragionar diversamente e cioè se invece riconoscessimo un assegno di divorzio ad un coniuge in grado di provvedere autonomamente a se stesso, si produrrebbe una ingiustizia sociale quale quella di riconoscergli implicitamente una sorta di rendita vitalizia, con indebita locupletazione da parte dell’ex coniuge, vietata nel nostro ordinamento persino in materia di fatto illecito il quale, come è noto, non può costituire per il danneggiato occasione di ingiustificato e indebito arricchimento. E, allora, se nemmeno da un fatto illecito può scaturire occasione di ricchezza, come ciò potrebbe avvenire da un fatto lecito, quale l’atto di matrimonio, che, tuttavia, si è sciolto completamente in virtù di una libera scelta degli ex coniugi e cioè per effetto del divorzio?
Nemmeno si può condividere l’orientamento della Suprema Corte nella parte in cui sembra determinare una sorta di appiattimento dell’assegno divorzile sugli alimenti che, invece, già dal legislatore, per natura e funzioni, sono espressamente riconosciuti come strutturalmente diversi sia dal mantenimento sia dall’assegno di divorzio.
Da molti criticato è anche il richiamo alla nozione d’autosufficienza economica, necessaria e sufficiente ad escludere già l’an dell’assegno, prevista dall’art. 337 septies c.c. in relazione al mantenimento dei figli maggiorenni non economicamente autosufficienti, appunto. Secondo la Cassazione, se addirittura il figlio maggiorenne ha diritto ad un assegno di mantenimento dei genitori solo finché non raggiunge la piena autosufficienza economica mediante la stabile entrata nel mondo del lavoro, a contrario, perché dovremmo riconoscere un assegno all’ex coniuge indipendente economicamente, se lo stesso è – come s’intuisce tra le righe del ragionamento della Suprema Corte - quasi un minus rispetto al figlio, essendosi ormai sciolto il rapporto matrimoniale?
E, allora, se è apprezzabile questo sforzo ermeneutico nella misura in cui è volto a cercare argomenti a sostegno della esclusione dell’assegno divorzile ad un soggetto che sia in astratto potenzialmente in grado di lavorare, è anche vero che questo parallelismo col mantenimento dei figli maggiorenni economicamente non autosufficienti non convince, trattandosi di due situazioni completamente diverse e dato che questo mantenimento discende da quel coacervo di doveri diretto precipitato logico, come detto, dall’esercizio della responsabilità genitoriale, unica che sopravvive anche alla morte del matrimonio.
In definitiva, in attesa dell’auspicato intervento delle Sezioni Unite, stante le possibili distorsioni e i possibili orientamenti divergenti scaturenti dalla sentenza Grilli, i Tribunali di merito, che pure non sono soggetti alla rigorosa applicazione di questa sentenza[22], ma non possono, al contempo, non tenerne conto, si sono, perlopiù, orientati, in relazione alla nozione di autosufficienza economica, nel senso di ritenere la suddetta nozione non come oggettiva e astratta per tutti gli ex coniugi, ma relativa e da calibrare caso per caso.
Da ultimo, poi, pure ci si chiede se il nuovo orientamento espresso dalla sentenza Grilli costituisce una sopravvenienza tale da giustificare, ex art. 9 legge sul divorzio, la revisione dell’assegno divorzile.
Nel mezzo di tutti questi interrogativi, non si può che auspicare che i Tribunali di merito, lungi dal prendere una netta posizione in favore dell’uno o dell’altro orientamento, onde scongiurare profonde diseguaglianze sociali e territoriali, assumano come stella polare potremmo dire, il criterio metagiuridico della prudenza e della ragionevolezza, anche in considerazione dell’ipertrofia del legislatore e della sua crescente scarsa specializzazione e tecnicismo. Se anche il giudice della nomofilachia allarga i margini di fluidità delle leggi, già spesso scritte male, è evidente che il giudice di merito si senta sempre più solo di fronte all’equivoco dato normativo e disorientato. Allora, specie in una materia così delicata come il diritto di famiglia, ove ogni caso è un caso particolare che merita di essere preso singolarmente e autonomamente preso in considerazione, l’atteggiamento del giudice, lungi dall’astenersi dal decidere, come pure potrebbe fare in attesa dell’intervento delle Sezioni Unite, trattandosi proprio di questioni urgenti che incidono concretamente sulla vita delle persone, deve essere orientato a buon senso e ragionevolezza. Nell’applicazione di questo criterio, il giudice di merito, più che revocare completamente, potrebbe semmai ridurre l’assegno di divorzio, se accerta l’inerzia nella ricerca di un lavoro e quindi l’astratta capacità e possibilità lavorativa del richiedente, in attesa, eventualmente, che, affermatosi l’indirizzo che esprimeranno le Sezioni Unite, in un successivo grado di giudizio, si possa semmai modificare l’orientamento espresso sulla riduzione dell’assegno in primo grado.
In conclusione, è da favorire prudenza e giustizia in relazione ai singoli casi concreti, considerato che il diritto di famiglia, forse delle varie branche in cui s’articola il diritto civile, è quello che, più di ogni altro, permette al giudice di incidere concretamente sulla vita delle persone.
10. Il possibile intervento delle Sezioni Unite e gli scenari prefigurabili
E, del resto, appare evidente che, anche nella prospettiva di quello che potrebbe essere il futuro orientamento delle Sezioni Unite, offrire un criterio ermeneutico troppo elastico vuol dire concretamente favorire la discrezionalità, se non proprio l’arbitrio, giudiziario e quindi possibili interpretazioni contrastanti e concrete diseguaglianze da Tribunale a Tribunale[23].
E’ probabile, del resto, che, anche in considerazione dell’atteggiamento delle Sezioni Unite più recente che, sempre meno, tendono a prendere una netta posizione in favore dei vari indirizzi possibili, il giudice di merito sarà comunque lasciato solo di fronte al dato normativo e al diritto vivente, stavolta, per di più, con il crisma e l’autorevolezza di una pronuncia nomofilattica, per cui, in ossequio ad un atteggiamento d’obbedienza formale, sarà ancora più difficile scardinare la pronuncia che renderanno le Sezioni Unite e, semmai, discostarsi dalla stessa.
11. Gender justice e assegno divorzile in una prospettiva comparatistica: in particolare, i Big Cases Money degli ordinamenti di common law
L’esigenza di un ripensamento delle regole in materia di determinazione dell’assegno divorzile deve essere riguardata nell’ambito di un più ampio contesto di profondi mutamenti impressi da alcune delle più significative riforme intervenute nell’ultimo decennio in materia di famiglia nonché alla luce delle soluzioni accolte in altri ordinamenti, in una prospettiva, dunque, comparativistica, specie per quanto concerne quelle degli ordinamenti di common law.
In tal senso, a partire dal riconoscimento di una condizione unica del figlio, con l’abbandono, dunque, della distinzione tra figli legittimi e naturali e figli nati fuori del matrimonio, attuata con le riforme della l. 10 dicembre 2012, n. 219 e poi del d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, fino agli ultimi interventi di riforma che hanno reso possibile conseguire separazione e divorzio a prescindere da un intervento giudiziale[24], e alla introduzione delle unioni civili e al riconoscimento della convivenza come modello di regolazione dei rapporti tra i partners, si può dire che il principio dell’auto responsabilità abbia, via via, assunto una crescente rilevanza, cui ha fatto da contraltare la necessità di limitare i preesistenti rapporti di dipendenza economica tra gli ex coniugi.
Non si può fare a meno di evidenziare che il disegno del legislatore quale emerge dalle riforme degli ultimi anni sembra andare proprio verso un graduale abbandono del riconoscimento dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale che, sempre con più
facilità può essere posto nel nulla, cui sembra corrispondere, allora, la tendenza a svilire anche il dovere di contribuzione tra gli ex coniugi.
In questo quadro, del resto, significativo appare che, quando ha introdotto una forma di contribuzione in favore dell’ex unito civilmente, il legislatore abbia mutuato l’istituto degli alimenti[25] che, come noto, ha presupposti e finalità molto diversi dal mantenimento, distinguendosi, in particolare, perché ad esso è sotteso un bisogno discendente dall’impossibilità di procurarsi anche i più elementari mezzi di sussistenza. Pertanto, se all’ex unito civilmente viene riconosciuta una forma di contribuzione quale quella alimentare che trova la sua ratio in un estremo bisogno, quasi, dunque, come extrema ratio, quale spazio può residuare per la contribuzione dell’ex coniuge al mantenimento in vita di una famiglia ormai definitivamente dissolta dal passaggio in giudicato della sentenza di divorzio?
D’altra parte, anche in un’ottica di diritto comparato, specialmente riferita agli ordinamenti di common law, emerge la promozione del principio di auto responsabilità e la previsione di forme di chiusura definitiva dei rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi che però convivono con una politica equilibrata in materia di risorse della famiglia e che è incentrata soprattutto sulla previsione di meccanismi di riequilibrio della posizione degli stessi al termine del matrimonio, così da presidiare il valore del lavoro domestico e il principio della parità di genere (gender justice)[26]. In altre parole, da un confronto con altri ordinamenti in cui è più risalente e sviluppata la presenza delle donne nel mondo del lavoro, il tema della gender justice ha cominciato a porsi con specifico riguardo alla necessità di allocare precisamente i costi legati alla cura della famiglia, sicché assumono particolare importanza, in questa prospettiva, quegli strumenti di riequilibrio delle posizioni economiche dei coniugi al momento della rottura del matrimonio.
Appare, pertanto, secondo questa opinione, strettamente necessario assicurare una adeguata divisione delle risorse economico-patrimoniali della famiglia proprio al momento della rottura del matrimonio, così da evitare che, in una fase della vita indubbiamente caratterizzata da una accentuata dispersione delle risorse umane e patrimoniali, le conseguenze negative derivanti dall’assunzione della decisione adottata ricadano proprio sul coniuge più debole il quale si è prevalentemente dedicato alla famiglia[27].
E, d’altra parte, se si vuole valorizzare l’intenzione del legislatore, specie quella che si evince dalle riforme più recenti, nemmeno si può trascurare che la legge Cirinnà, all’art. 1 co 11, richiama espressamente il “lavoro professionale e casalingo”, così implicitamente riconoscendo e confermando che, nell’ambito della famiglia, anche di quella degli uniti civilmente, una delle due parti si dedica al lavoro professionale esterno, l’altra a quello casalingo interno e di tipo domestico, il quale ultimo, dunque, ha la stessa rilevanza del primo in relazione alla formazione e all’accrescimento nel tempo del complessivo patrimonio famigliare.
12. E negli altri ordinamenti europei?
In una prospettiva di diritto comparato, interessante potrebbe essere notare come si articola in altri ordinamenti, specie quelli europei, per tradizione e principi a noi più vicini rispetto ai contigui ordinamenti di common law, il giudizio sulla determinazione dell’assegno divorzile e se si fa riferimento al criterio del tenore di vita per la sua quantificazione[28].
In materia di separazione e divorzio esiste una grande diversità fra le legislazioni dei singoli Paesi europei.
In Finlandia e Svezia l’istituto giuridico della separazione non è neppure contemplato. In Francia, Germania e Spagna esso non costituisce condizione essenziale per chiedere il divorzio, per cui è sufficiente la separazione di fatto per un certo periodo di tempo.
In Francia, in particolare, l’art. 270 del codice civile prevede che il giudice possa decidere una misura di compensazione forfettaria, tenendo conto della disparità che lo scioglimento del matrimonio produce. Se poi l’ex coniuge versa in uno stato di bisogno, anche per motivi di salute, il giudice può fissare una sorta di vitalizio per far fronte alle sue necessità.
La modifica introdotta in Germania sin dal 2008 segue questa strada, anzi più nettamente: da un sistema basato appunto sul tenore di vita in costanza di matrimonio si è passati a valutare, in sede divorzile, un eventuale stato di bisogno, unico che può fondare l’accoglimento della richiesta dell’assegno da parte dell’ex coniuge e l’assegno, peraltro, è solo temporaneo.
La domanda o la sentenza di separazione giudiziale o consensuale abbreviano tuttavia il termine per ottenere il divorzio (da 3 anni ad 1 anno in Germania e da 5 a 2 anni in Spagna). Quasi tutti i Paesi europei conoscono il divorzio per mutuo consenso (da noi è stato introdotto solo nel 1987).
In Francia esiste anche il divorzio per colpa ed è su tale elemento che viene determinata la misura dell’assegno di mantenimento. Inoltre se il coniuge nei cui confronti è stata proposta la domanda riesce a dimostrare che il divorzio, per ragioni di età dei figli o di durata del matrimonio, avrebbe per lui o per i minori conseguenze di eccezionale gravità, il giudice può respingere la domanda.
La legge più completa e dettagliata è quella della Germania, entrata in vigore nel 1986. Le disposizioni relative alle clausole economiche lasciano un ristrettissimo ambito di discrezionalità ai giudici, dettando precisi criteri ai quali questi debbono attenersi. Il diritto a ricevere gli alimenti sussiste solo se il coniuge divorziato a causa della sua età, di una malattia, dell’assistenza o educazione dei figli, o di altro grave motivo non può esercitare un’attività professionale, e fino a quando non avrà trovato un lavoro adeguato. È comunque fatto obbligo al coniuge richiedente il mantenimento di sottoporsi a istruzione, formazione o riqualificazione professionale qualora ci si possa attendere risultati positivi.
Già dal 1977 esiste poi una "clausola di durezza" che prevede l’esclusione, riduzione o limitazione nel tempo del diritto al mantenimento quando il matrimonio è stato di breve durata (meno di due-tre anni) oppure se il coniuge beneficiario ha commesso gravi reati o si è procurato intenzionalmente lo stato di bisogno o ha trascurato i suoi doveri di cura degli interessi familiari o sussistono motivi altrettanto gravi da far apparire il sacrificio dell’obbligato palesemente ingiusto.
Interessante è evidenziare che, per tornare alla Francia, per esempio, che è previsto un assegno divorzile a termine, come quello che vorrebbe introdurre anche nel nostro ordinamento il ddl Ferranti che giace in Parlamento in attesa di approvazione.
In altri Paesi contano anche altri fattori come la durata del matrimonio e la presenza dei figli (Paesi Bassi), l’astratta capacità e attitudine di entrambi a far fronte alla propria sussistenza lavorando (Spagna).
In Svezia, per esempio, e in generale nei Paesi Scandinavi non è proprio previsto l’assegno e ognuno provvede al suo mantenimento, salva la possibilità per il giudice di disporre, in caso di bisogno, un contributo forfettario; in Ungheria, in caso di divorzio, l’ex coniuge può chiedere gli alimenti se, senza colpa, si trovi in uno stato di bisogno, a meno che alcuni comportamenti tenuti nel corso del matrimonio non l’abbiano reso indegno. Anche in Portogallo ciascun coniuge deve provvedere in piena autonomia alle proprie necessità e solo in casi eccezionali e in presenza di uno stato di bisogno possono essere riconosciuti gli alimenti.
Il panorama europeo è, dunque, estremamente variegato, ma si può notare una tendenza a svilire l’assegno di divorzio e a riconoscere un contributo all’ex coniuge, sottoforma di alimenti, solo in presenza di un accertato stato di bisogno.
In Europa mancano sistemi certi e univoci per determinare l’assegno divorzile, anche perché molto diffusi sono gli accordi prematrimoniali che, invece, sono ancora vietati nel nostro ordinamento che, dunque, anche sotto tale profilo si distingue rispetto agli altri.
13. Possibili soluzioni de iure condendo? Il DDL Ferranti e il diritto vivente
In una prospettiva de iure condendo e volendo tirare le fila dell’analisi di queste sentenze dei giudici di merito che, in seguito alla sentenza Grilli, si sono trovati a dover decidere sulla spettanza dell’assegno divorzile, si può umilmente affermare che il riconoscimento indiscriminato, sempre e comunque, dell’assegno di divorzio alla luce del criterio del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, com’era per il passato, conduce al concreto riconoscimento di una rendita vitalizia in favore di uno dei due coniugi, anche in considerazione del fatto che la separazione, come il divorzio, obiettivamente impoverisce la famiglia, però, allo stesso tempo, non riconoscere mai o quasi mai l’assegno, trascurando i sacrifici fatti da uno dei due coniugi, significa non tener conto del concreto ed effettivo apporto dato dagli stessi alla famiglia e quindi della realtà concreta delle famiglie, come detto, specie in passato, caratterizzate da una divisione asimmetrica del lavoro esterno ed interno alla famiglia.
Dunque, il pedissequo accoglimento sia del pregresso sia del nuovo possibile orientamento può creare, in entrambi i casi, pericolosissimi effetti distorsivi.
In attesa delle Sezioni Unite, allora, non si può non tener conto di quella che è ormai la mutata coscienza sociale in relazione alla famiglia, anzi alle cosiddette “famiglie” e quindi, in ossequio ai criteri metagiuridici di equilibrio e prudenza che sempre devono orientare il giudice, bisogna cercare di adottare soluzioni giuste che non penalizzino né quel coniuge (spesso la moglie) che abbia sacrificato la propria vita alla cura della famiglia né quello (spesso il marito) che, di frequente con un reddito modesto, deve provvedere alla cura e al mantenimento dei propri figli e, al tempo stesso, ha diritto di farsi anche una nuova famiglia, diritto tutelato dall’art. 12 della CEDU e dall’art. 9 della Carta di Nizza.
Sotto questo profilo interessante potrebbe, infine, risultare l’analisi del ddl Ferranti (proposta di legge n. 4605), il quale intende modificare l’art.5 co 6 della legge sul divorzio, dando sostanza a quanto espresso dalla sentenza della Cassazione "Grilli" e, allo stesso tempo, proponendosi evitare il sorgere di applicazioni troppo stringenti della disciplina sia in un senso che nell’altro. Tale disegno di legge vuole, dunque, rispondere, da un lato, ad un'esigenza di certezza, dall'altro, ad un bisogno di equità. Per far questo è ovviamente necessario che vengano stabiliti nuovi parametri chiari, tenendo conto di quella che è stata l'evoluzione culturale, economica e sociale nella materia del matrimonio di questi anni.
Eliminato il criterio del tenore di vita in costanza di matrimonio, conformemente a quanto stabilito dalla Cassazione, il disegno di legge introduce nuovi parametri e, in particolare, quello delle condizioni economiche in cui i due coniugi vengono a trovarsi in seguito al divorzio, quello del contributo personale dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio nonché altri basati sul reddito e sulla formazione professionale. Con il disegno di legge in commento s'intende, inoltre, introdurre un'altra importante novità e cioè quella dell'assegno, per così dire, a tempo, ispirato ai modelli di alcuni Paesi europei. Ciò comporterebbe l'introduzione di un assegno di divorzio con durata predeterminata e a scadenza, nel caso in cui il coniuge richiedente si trovi in una situazione di reddito ridotto per ragioni contingenti o superabili.
La novella legislativa, incardinata in commissione giustizia, non è stata, tuttavia, approvata, sicché, in conclusione, bisognerà attendere l’imminente intervento delle Sezioni Unite per fare, si spera, finalmente luce sulla determinazione dell’assegno di divorzio[29].
Note e riferimenti bibliografici
[1] Corte d’Appello di Napoli n. 911/2018, Rel. G. Casaburi. Così anche G. CASABURI, Gli effetti economici della crisi coniugale, Questioni di diritto civile all’esame delle Sezioni Unite, Relazione tenuta presso la Corte Suprema di Cassazione, 28 febbraio 2018.
Va detto preliminarmente che mantenimento e assegno di divorzio riguardano solamente i coniugi della famiglia cosiddetta “naturale” e non anche quelli della famiglia di fatto (ormai non più tale, in seguito ad espresso riconoscimento legislativo della convivenza more uxorio), ossia i conviventi, cui è destinato, in caso di scioglimento della convivenza, unicamente un assegno alimentare (art.??? legge n. 76/2016 cd. Cirinnà), mentre, più precisamente, l’assegno di divorzio è esteso anche agli ex uniti civilmente, in quanto espressamente richiamato dall’art. 1 co 24 della medesima legge Cirinnà.
[2] Sentenze “gemelle” delle Sezioni Unite: Cass. 29 novembre 1990 n. 11489, 11490, 11491, 11492.
[3] Tali doveri sono prescritti dall’art. 143 c.c.
[4] Art. 5 co 6 legge sul divorzio: “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare o alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.
[5] Corte d’Appello di Napoli n. 911/2018, Rel. G. Casaburi. Così, anche G. CASABURI, Gli effetti economici della crisi coniugale, cit. I criteri per il riconoscimento dell’assegno divorzile e per la sua quantificazione, fissati dall’art. 5 co 6 legge sul divorzio, sono applicabili anche in caso di scioglimento dell’unione civile, ai sensi dell’art. 1, co 25 l. 76/2016.
[6] Corte Cost., 26 marzo 2015, n. 49: “Tanto premesso, può allora procedersi ad una esegesi dell’art. 5, 6 comma cit., tenendo conto, opportunamente, anche del nuovo indirizzo, degli orientamenti espressi dalla giurisprudenza di merito, nonché dell’elaborazione dottrinale che ne è seguita. I parametri così individuati devono poi essere elastici, in modo da adattarsi ai vari modelli di vita matrimoniale che si configurano nella realtà italiana (e non solo a quelli altamente elitari, concernenti coppie ad alto o altissimo reddito)”.
[7] Tra i nomi noti, la Corte d’Appello di Milano, con la sentenza 4793/2017, ha poi cancellato l’assegno di 1,4 milioni di euro al mese che l’ex Presidente del Consiglio era stato condannato a pagare all’ex moglie, dal momento che la Lario è stata ritenuta non solo autosufficiente, ma anche in stato di benessere economico, conducendo, anzi, un tenore di vita elevatissimo, proprio grazie al patrimonio che, durante le nozze, ha costruito Silvio Berlusconi.
[8] Si tratta del ddl Ferranti che si analizzerà nel paragrafo 13 del presente contributo.
[9] Il riferimento è alla legge n. 76/2016 cd. Cirinnà.
[10] Definita come “sostanzialmente criptoindissolubilista” da Corte d’Appello di Napoli n. 911/2018, Rel. G. Casaburi.
[11] Sin d’ora non si nasconderanno le perplessità della scrivente in ordine ad una simile scelta processuale, in quanto la prova relativa all’autosufficienza economica, siccome funzionale all’attribuzione del credito all’assegno divorzile, è un fatto estintivo dell’obbligo che grava sul debitore (ex coniuge economicamente più forte). Pertanto, a giudizio di chi scrive, costituisce un macroscopico errore processuale attribuire al richiedente l’assegno l’onere di dimostrare il fatto, per di più negativo, di non avere mezzi economici adeguati e sufficienti; una simile scelta contrasta, come è evidente, col principio di vicinanza della prova e, in generale, con il diritto di difesa presidiato dall’art. 24 Cost. Dunque, la prova dell’autosufficienza economica del richiedente dovrebbe, più correttamente, essere posta a carico dell’ex coniuge obbligato. E, invero, nonostante questa conclusione sia stata affermata lapidariamente dalla Corte nella sentenza Grilli, non pochi tribunali di merito si sono orientati in senso opposto.
[12] Sul punto, tuttavia, si legga anche Cass. 11538/2017, di poco successiva, secondo cui il richiedente non è però onerato della prova, quasi diabolica, “dell’impossibilità assoluta di ogni possibilità di lavoro”.
[13] Questa soluzione viene ampiamente criticata da Corte d’Appello di Napoli n. 911/2018, Rel. G. Casaburi che ritiene che l’art. 29 Cost. “irradia i suoi effetti anche dopo il divorzio”, anche se questa soluzione pure appare discutibile, considerato che non può negarsi che, col passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, il rapporto matrimoniale può dirsi ormai definitivamente e integralmente estinto.
[14] Così Corte d’Appello di Napoli n. 911/2018, Rel. G. Casaburi.
[15] Trib. Milano, 22 maggio 2017; Trib. Mantova, 16 maggio 2017; Trib. Venezia, 24 maggio 2017, Trib. Bologna, 12 giugno 2017.
[16] Corte Cost. 9 febbraio 2015, n. 11.
[17] Tribunale di Firenze, ordinanza 22 maggio 2013.
[18] E il riferimento è, ancora una volta, specialmente a Corte d’Appello di Napoli n. 911/2018, Rel. G. Casaburi.
[19] In quest’ordine d’idee si legga, in particolare, Corte d’Appello di Napoli n. 911/2018, Rel. G. Casaburi, cit.: “Lo si ribadisce: uno dei coniugi, nella normalità dei casi la moglie, ha qui rinunciato per molti anni alle proprie aspirazioni lavorative e a ogni potenzialità di affermazione professionale, o le ha notevolmente compromesse (svolgendo un lavoro part time, o più modesto di quello cui poteva aspirare); ciò in quanto si è dedicato alla conduzione della vita familiare e alla cura dei figli, contribuendo – pur con apporti “asimmetrici, quindi anche con il lavoro domestico, alla formazione del patrimonio comune. In tal modo, oltretutto, tale coniuge ha consentito all’altro (sgravato delle incombenze domestiche) di realizzare le proprie aspirazioni professionali. (…) Da qui, le aspettative e affidamenti legittimi, in caso di crisi del matrimonio, almeno allorché quel coniuge, come accennato, per ragioni di età o di salute, o per altre cause ancora, non può ormai più inserirsi, o inserirsi più congruamente, nel mondo del lavoro. (…). Il parametro dell’autosufficienza economica, comunque lo si voglia intendere, sarebbe riduttivo e in contrasto con le esigenze di eguaglianza e di solidarietà familiare, che invece non possono che prevalere. Di contro, vi è qui una palese esigenza compensativa/perequativa, dovendosi valorizzare pienamente – ex artt. 2, 3 e 29 Cost. – il contributo, un vero e proprio “investimento”, dato dal coniuge economicamente debole alla vita della famiglia”. Nello stesso ordine d’idee anche G. CASABURI, Gli effetti economici della crisi coniugale, Questioni di diritto civile all’esame delle Sezioni Unite, cit.
[20] Tali conclusioni sono, ancora una volta, contenute nella pregevole sentenza della Corte d’Appello di Napoli n. 911/2018, Rel. G. Casaburi, cit.
[21] Sotto questo profilo si può, per esempio, evidenziare le differenze che sussistono tra due Tribunali, quale Napoli e Napoli Nord, pur appartenenti allo stesso circondario e, addirittura, alla medesima Corte d’appello di Napoli: in particolare, i coniugi che si domandano di divorziare al Tribunale di Napoli Nord, a differenza di quelli di Napoli, sono, perlopiù, giovanissimi, hanno astratte possibilità e capacità di lavoro e, tuttavia, spessissimo sono disoccupati oppure lavorano a nero, non essendo spesso in possesso di un titolo di studio.
Del resto, queste realtà possono differire anche significativamente rispetto a quelle presenti al Nord Italia, ove, magari, sono presenti maggiori misure assistenziali.
[22] Il giudice, infatti, è soggetto solo alla legge ai sensi dell’art. 102 Cost. e, come detto, non esiste nel nostro ordinamento il vincolo del precedente giudiziario.
[23] Su tutti emblematico è il Tribunale di Roma che, in seguito alla sentenza Grilli, in alcuni casi, ha riconosciuto assegni divorzili anche corposi agli ex coniugi (perlopiù, ex mogli), ma in altri lo ha addirittura negato, avendo accertato con l’istruttoria che gli stessi potessero accedere al mondo del lavoro. Sempre il Tribunale di Roma, all’opposto, valorizzando la funzione assistenziale dell’assegno di divorzio, ha concesso ad un ex moglie un assegno divorzile anche piuttosto corposo (circa euro 2000,00), riconoscendo sacrifici fatti dalla stessa per la cura della famiglia.
Nello stesso ordine d’idee anche la Corte d’appello di Salerno n. 29/2017 che ha chiarito che lo status di disoccupazione non vale ad escludere l’astratta possibilità per l’ex coniuge richiedente l’assegno di entrare nel mondo del lavoro, e quindi allo stesso non va riconosciuto l’assegno divorzile.
[24] D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modifiche dalla l. 10 novembre 2014, n. 162 che hanno attuato, per l’appunto, una degiurisdizionalizzazione degli istituti previsti dalla legge come atti a fronteggiare la crisi della famiglia.
[25] L’art. 1 co 11 legge 20 maggio 2016 n. 76 (cd. Legge Cirinnà o legge sulle unioni civili) ha previsto, specularmente rispetto a quanto stabilito dall’art 143 c.c. per i coniugi, che: “Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo a contribuire ai bisogni comuni”. Nella stessa direzione, in caso di rottura dell’unione civile, l’art. 1 co 25 richiama gli artt. 4, 5 co 1 e dal 5 all’11 co, 8, 9, 9 bis, 12 bis, 12 ter, 12 quater, 12 quinquies e 12 sexies della legge n. 898/1970 sul divorzio.
[26] In tema si legga, in particolare, E. AL MUREDEN, L’assegno di divorzio tra auto responsabilità e solidarietà post coniugale, in Famiglia e diritto n. 7/2017, pp. 646 ss. Nel citato contributo si evidenzia che negli ordinamenti di common law si assiste ad una abdicazione, da parte dello Stato, del ruolo di gatekeeper of access to divorce in favore dell’assunzione di quello di guardian of the economic interest of divorcing spose and their children. Non a caso negli USA e in Inghilterra sono stati introdotti sistemi di equitable distribution system, ossia volti a salvaguardare la regola della divisione tendenzialmente paritaria delle risorse familiari al momento della rottura del matrimonio, regola che è, peraltro, coincisa col passaggio da un divorzio basato sulla colpa al cosiddetto no fault divorce.
[27] Così E. AL MUREDEN, L’assegno di divorzio tra auto responsabilità e solidarietà post coniugale, cit., p. 648.
[28] Il 28 maggio 1998 è stata firmata a Bruxelles la Convenzione fra gli Stati europei concernente la competenza, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni nelle cause matrimoniali. Essa prevede che le sentenze di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio, rese in uno dei quindici Stati membri, sono riconosciute negli altri Stati senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento, purché non siano manifestamente contrarie all’ordine pubblico dello Stato richiesto. La Convenzione dev’essere ratificata dai vari Stati: in Italia è stata approvata dalla Camera dei Deputati il 4 marzo 1999 (attualmente è all’esame del Senato).
Peraltro in Italia, sin dal 1997, le sentenze straniere (anche di Paesi extracomunitari) sono riconosciute automaticamente se nel procedimento svoltosi all’estero sono state rispettate alcune regole di garanzia delle parti e la pronuncia non è contrastante con altra sentenza italiana o con l’ordine pubblico.
Visto il notevole aumento di matrimoni fra persone di diversa cittadinanza, si pone il problema di quale legge debba regolare i loro rapporti.
In Italia è prevista l’applicazione della legge dello Stato in cui la vita matrimoniale è prevalentemente localizzata. I coniugi possono tuttavia scegliere, mediante convenzione scritta, che i loro rapporti patrimoniali siano regolati dalla legge nazionale di uno di loro o da quella dello Stato in cui almeno uno di loro risiede. Se uno dei coniugi è cittadino italiano oppure il matrimonio è stato celebrato in Italia o il convenuto ha in Italia il domicilio, la residenza o un rappresentante autorizzato a stare in giudizio, la competenza a decidere le cause matrimoniali spetta al giudice italiano il quale dovrà applicare, se del caso, la legge straniera.
[29] Il termine per la riserva della Corte scade, infatti, il 10 giugno, per cui la pubblicazione della sentenza è davvero imminente.