La trascrivibilità dei matrimoni omosessuali contratti all´estero
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Paolo Del Gaudio
Il concetto di matrimonio operante nel nostro ordinamento è cristallizzato nel significato che la Costituzione proponeva a metà degli anni ’40 del XX secolo, imperniato sul presupposto naturalistico della diversità di sesso dei nubendi. Alla luce del mutato contesto socio-giuridico è necessario tracciarne una linea evolutiva ammettendo la trascrivibilità dei matrimoni same-sex contratti all’estero?
Sommario: 1. Premessa; 2. Il problema della trascrizione; 3. La normativa italiana di diritto internazionale privato e il concetto di ordine pubblico internazionale; 4. Il matrimonio omosessuale negli ordinamenti europei e nella carta dei diritti fondamentali dell’unione europea; 5. L’evoluzione della giurisprudenza italiana e della corte europea dei diritti dell’uomo; 6. Conclusioni.
1. Premessa
Negli ultimi anni si registra un aumento esponenziale del numero di matrimoni celebrati all’estero. Demolite le rigide frontiere che un tempo frazionavano le legislazioni dei vari Paesi e inducevano a considerare terra madre di tutti i rapporti giuridici, specialmente quelli di carattere matrimoniale, il solo territorio nazionale, oggi, sempre più frequentemente si dà avvio alla procedura di riconoscimento di atti di matrimonio contratti in territorio straniero. Ipotesi non più isolate di cittadini italiani che, sebbene residenti stabilmente in Italia, si recano all’estero per contrarre matrimonio, incrementando in tal modo il fenomeno, sempre più usuale all'interno dell'Unione Europea, del c.d. forum shopping, giacché consente di eludere i vincoli e le limitazioni del proprio ordinamento di provenienza.
In particolare, capita con una certa frequenza che l'operatore del diritto si trovi ad essere chiamato a prestare la propria opera nei confronti di coppie dello stesso sesso, residenti in Italia, che reclamano a gran voce il riconoscimento istituzionale del vincolo di coniugio che li lega. Accade, infatti, che coppie omosessuali provenienti dall'estero e regolarmente sposate nel proprio Paese di origine decidano di portare la residenza in Italia, o anche che coppie formate da cittadini italiani, alle quali la nostra legislazione garantisce una forma di riconoscimento della loro unione solo sfumata[1], decidano di contrarre matrimonio in un Paese limitrofo, per poi far ritorno in territorio italico pretendendo il riconoscimento degli status validamente acquisiti in territorio straniero.
È acquisizione comune che il contesto giuridico nel quale viviamo sottende delle opzioni di fondo che orientano in un modo, piuttosto che in un altro, l’agire umano. Storicamente, all’interno del codice civile, entrato in vigore nel 1942, la realtà pre-giuridica della “famiglia” è stata concepita quale unione matrimoniale tra due soggetti di sesso diverso. Con il presente lavoro si intende dimostrare che il concetto di matrimonio, staticamente cristallizzato nella normativamente codicistica originaria, si presta ad essere espanso fino a ricomprendere il concetto di matrimonio tra persone dello stesso sesso, in una prospettiva dinamica, al passo con il mutato contesto socio-giuridico, laica ed europeistica. In accordo a questa innovativa prospettiva giuridica, non sembra negabile la trascrivibilità, nei registri dello Stato Civile italiano, dei matrimoni same-sex contratti all’estero.
La questione oggetto di studio non involge solo aspetti formalistici ma diritti e libertà, da sempre capisaldi della creazione di uno spazio giuridico comune. Ed in vero, non sembra negabile che il pieno riconoscimento della libertà di circolazione dei cittadini europei passi anche attraverso il riconoscimento degli status soggettivi acquisiti, dai medesimi, nello Stato di appartenenza. Al fine di tracciare i contorni di questa innovativa prospettiva giuridica, si rende necessario inquadrare l’istituto della trascrizione del matrimonio, così come inteso nel nostro ordinamento, e prendere in considerazione quanto la parabola giurisprudenziale, nazionale e sovranazionale, ha statuito in tema.
2. Il problema della trascrizione
Prima di eviscerare la problematica della conformità del matrimonio omosessuale all'ordine pubblico internazionale, da sempre considerato ultimo baluardo per un formale riconoscimento del matrimonio same-sex contratto all’estero, si rende opportuno soffermarsi sulla valenza attribuita dall'ordinamento alla trascrizione nei registri dello Stato Civile di un matrimonio contratto aldilà dei confini nazionali.
Al riguardo va premesso che, ai sensi dell'art. 16 del D.P.R. 396/2000 (Nuovo ordinamento dello stato civile), il matrimonio all'estero, quando gli sposi sono entrambi cittadini italiani o uno di essi è cittadino italiano e l'altro straniero, può essere celebrato dinanzi all'autorità diplomatica o consolare competente, oppure innanzi all'autorità locale secondo le leggi del luogo.
Merita di essere ricordato, inoltre, che sulla base dell’impostazione ministeriale accolta[2], il venir meno dell’obbligo della pubblicazione per i matrimoni celebrati all’estero tra cittadini italiani o tra un cittadino italiano e un cittadino straniero (art. 3 D.P.R. n. 396/2000), ha di conseguenza escluso la possibilità di una verifica preventiva della sussistenza dei requisiti di validità del matrimonio stesso[3]. Difatti, una volta che il matrimonio estero sia stato celebrato, viene in rilievo l'art.19 del D.P.R., il quale statuisce al primo comma che possono essere trascritti, nel Comune ove risiedono le parti interessate, “gli atti dello stato civile che li riguardano formati all’estero. Tali atti devono essere presentati unitamente alla traduzione in lingua italiana e alla legalizzazione, ove prescritta, a parte della competente autorità straniera”[4]. Tale adempimento, secondo l'opinione pacificamente accolta dalla giurisprudenza, non ha natura costitutiva del vincolo coniugale, ma semplicemente ricognitiva[5], differentemente da quanto avviene, ad esempio, per il matrimonio concordatario.
Dunque, la sua mancanza non avrebbe la forza di scalfire la validità e l’efficacia del matrimonio regolarmente celebrato all'estero[6]. In altri termini, l'ordinamento italiano accoglie o rigetta il vincolo coniugale contratto in un altro Paese a prescindere dalla sua trascrizione nel Comune di residenza, la quale costituisce un mero onere per le parti interessate, finalizzato a consentirne una più immediata conoscibilità. Ampiamente discussa, invece, è l'efficacia pubblicitaria di tale adempimento e, nello specifico, particolarmente nota è la decennale discussione circa l'opponibilità ai terzi dell'atto di matrimonio debitamente trascritto. Secondo l'impostazione amministrativa tradizionale[7] detto adempimento consentirebbe soltanto al cittadino straniero residente in Italia di poter ottenere il rilascio di una copia integrale dell'atto di matrimonio, senza doversi rivolgere al competente ufficio dello Stato estero, negando tuttavia alla trascrizione l'effetto di rendere il vincolo opponibile ai terzi.
Più di recente, la giurisprudenza civile, con alterne pronunce, ha criticato fortemente l'interpretazione ministeriale, ritenendo che il termine “trascrizione” debba essere utilizzato in senso tecnico, con conseguente attribuzione alla stessa della tipica funzione pubblicitaria. A dirimere la questione è intervenuto il Consiglio di Stato, in funzione consultiva[8], che ha avvalorato la funzione meramente riproduttiva della trascrizione, ma, al fine di semplificare gli adempimenti procedurali, ha ammesso l'obbligo per gli ufficiali di Stato Civile di dare corso alle richieste di annotazione sugli atti di matrimonio degli atti inerenti ai rapporti patrimoniali tra coniugi[9]. In ossequio al suddetto parere del Consiglio di Stato, il Ministero dell’Interno - Direzione Centrale per i Servizi Demografici Area III - Stato Civile - ha adottato la circolare del 3 agosto 2011 n. 0010307 con la quale ha riconosciuto l’annotazione delle convenzioni matrimoniali stipulate in Italia da cittadini stranieri a margine della trascrizione dell’atto di matrimonio formato all’estero, ferma restando la natura puramente ricognitiva della trascrizione predetta. La normativa in materia di Stato Civile, per di più, ammette la possibilità di rifiuto, da parte del pubblico ufficiale, della trascrizione, ipotesi sancita dall'art. 18 del D.P.R. 396/2000.
I certificati matrimoniali presentati dagli interessati, infatti, non possono essere trascritti laddove contrastino con l’ordine pubblico[10]. La norma citata ha costituito l'oggetto dell’annoso dibattito sulla trascrivibilità dei matrimoni omosessuali contratti all'estero, prassi adottata da numerosi sindaci italiani e avvalorata da taluna giurisprudenza di merito[11], ma contestata dal Ministro degli Interni Angelino Alfano, il quale ha diramato ai Prefetti una circolare nell'ottobre 2014, con la quale sono stati invitati i medesimi a “rivolgere ai Sindaci formale invito al ritiro di tali disposizioni ed alla cancellazione, ove effettuate, delle conseguenti trascrizioni, contestualmente avvertendo che, in caso di inerzia, si procederà al successivo annullamento d’ufficio degli atti illegittimamente adottati”.
Sulla conseguente contrapposizione tra Sindaci e Prefetti è intervenuto il TAR Lazio, che con la sentenza 13505/2014 del 9 marzo 2015 ha negato ai Prefetti il potere di intervenire sulle trascrizioni nei registri dello Stato Civile dei matrimoni esteri, ritenendo che della questione debba inevitabilmente essere investita l'autorità giudiziaria ordinaria[12]. Per quanto concerne il problema della validità del matrimonio omosessuale contratto all'estero, invece, il TAR Lazio si è espresso nel senso di negare efficacia all'unione, sulla base del combinato disposto degli artt. 115 e 107 del codice civile[13].
Quanto sopra non deve, tuttavia, ingenerare confusione circa l'efficacia dell'adempimento, ed in vero, il rifiuto della trascrizione non potrebbe mai incidere sulla validità sostanziale del matrimonio contratto all'estero secondo la legge straniera, la cui efficacia e regolarità deve essere vagliata esclusivamente alla luce delle norme di diritto internazionale privato e dei principi generali dell'ordinamento.
Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione in tema di trascrivibilità in Italia di matrimonio celebrato all’estero, ciò che è preminente è la constatazione della validità del matrimonio da trascrivere in base al principio del “locus regit actum” dal momento che: “le norme di diritto internazionale privato... attribuiscono ai matrimoni celebrati all'estero tra cittadini italiani ovvero tra italiani e stranieri immediata validità e rilevanza nel nostro ordinamento, sempre che essi risultino celebrati secondo le forme previste dalla legge straniera e quindi spieghino effetti civili nell'ordinamento interno dello Stato straniero” (Cass. civ. n. 10351/1998). In aggiunta a questo primo requisito, secondo la giurisprudenza di merito, è parimenti necessaria la sussistenza dei requisiti per contrarre matrimonio ai sensi dell’art. 115 del codice civile.
Secondo la giurisprudenza di merito, inoltre, tra i requisiti previsti espressamente dal codice civile per celebrare matrimonio non vi è la differenza di sesso tra i nubendi. In passato l’assenza di un tale riferimento veniva intesa come un vuoto normativo dovuto alla “tradizionale” necessità della differenza di sesso tra i nubendi. In tal senso, si è espressa la Corte Costituzionale nella sentenza n. 138/2010, pur non escludendo la possibilità che legislativamente venga superato il tratto caratterizzante del matrimonio consistente nella differenza di sesso tra i nubendi, ricavabile dà un’interpretazione sistematica del codice civile. Secondo la Consulta, il requisito della differenza di sesso si desumerebbe dà un’interpretazione sistematica delle norme codicistiche in materia matrimoniale. Tale interpretazione della Consulta, peraltro espressa in una sentenza di rigetto e quindi vincolante soltanto nel giudizio a quo, va ora riconsiderata alla luce delle precisazioni contenute nella sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 4184/2012.
La nozione di matrimonio va riconsiderata tenendo in debito conto anche le indicazioni della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e della CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo. Pertanto, mentre in passato la differenza di sesso era considerata condizione necessaria per il cittadino italiano al fine di contrarre validamente matrimonio, oggi al contrario – pur nel silenzio del codice civile – la differenza di sesso è irrilevante per l’enucleazione di una nozione di matrimonio nel nostro Paese. Quindi, nella ipotesi di matrimonio tra due persone dello stesso sesso celebrato all’estero nei Paesi in cui è ammesso, l’atto matrimoniale è perfettamente valido tanto all’estero quanto in Italia, poiché la differenza di sesso non va più considerata una condizione necessaria per contrarre matrimonio ai sensi dell’art. 115 c.c. In definitiva, rispettate le forme del Paese di celebrazione e accertata la validità del matrimonio tra persone dello stesso sesso, occorre trascrivere tale matrimonio. A ciò si aggiunga che più volte la Cassazione ha dichiarato trascrivibili i matrimoni tra persone di sesso diverso celebrati all’estero anche quando potevano essere considerati nulli o annullabili o semplicemente inefficaci, poiché la trascrizione per giurisprudenza costante della Suprema Corte “non ha natura costitutiva, ma meramente certificativa e scopo di pubblicità di un atto già di per sé valido” dal momento che essa è “diretta unicamente a rendere pubblico che il cittadino ha contratto all'estero un matrimonio ritenuto valido dall'ordinamento locale”. Nonostante ciò, in base alla sentenza n. 4184/2012, per il matrimonio tra persone dello stesso sesso sembra doversi operare un’eccezione all’interpretazione corrente delle norme in materia di trascrizione: un matrimonio siffatto non sarebbe trascrivibile in quanto inidoneo radicalmente a produrre effetti nel nostro Paese. Vedremo come questa affermazione sia smentita dai fatti e dall’iscrizione del nostro ordinamento nel sistema del diritto europeo.
3. La normativa italiana di diritto internazionale privato e il concetto di ordine pubblico internazionale
Per poter valutare che effetti riconoscere ai matrimoni omosessuali contratti all'estero appare dirimente affrontare una breve disamina relativa alla normativa interna di collegamento tra diversi ordinamenti giuridici. Esaminando la materia del diritto internazionale privato, in relazione al tema che qui interessa, viene subito in rilievo l'art. 27 della Legge n. 218/1995, ai sensi del quale “la capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre matrimonio sono regolate dalla legge nazionale di ciascun nubendo al momento del matrimonio”. L'articolo successivo, invece, relativo alla forma, statuisce che “il matrimonio è valido, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione o dalla legge nazionale di almeno uno dei coniugi al momento della celebrazione o dalla legge dello Stato di comune residenza in tale momento”.
L'articolo 28 della legge n. 218/1995, pertanto, manifesta il principio del favor validitatis verso i rapporti di coniugio contratti all'estero, spingendosi fino a consentirne la celebrazione in conformità alla legge dello Stato di comune residenza dei nubendi al momento della celebrazione, criterio che costituisce un unicum nell'intero impianto della legge stessa. V’è di più, il matrimonio può essere celebrato all'estero anche in conformità alla lex loci celebrationis. Dalla lettura di queste due norme emerge come nessun problema di forma possa essere opposto alla celebrazione del matrimonio omosessuale da parte di cittadini italiani o stranieri avvenuto in uno Stato estero che riconosca e disciplini questo tipo di unioni, purché sia stato celebrato in conformità alla normativa vigente in quel Paese. La norma, infatti, pone tre criteri tra loro concorrenti per poter sancire la validità del matrimonio estero e, pertanto, è sufficiente che uno di essi sia soddisfatto, nel caso di specie è bastevole il requisito della validità nel luogo di celebrazione, per aversi un matrimonio valido quanto alla forma, ai sensi dell'ordinamento giuridico italiano.
Per quanto concerne la capacità matrimoniale, invece, occorre in proposito richiamare l'art. 115, comma 1, del codice civile[14], il quale prevede, con riguardo al matrimonio del cittadino all'estero, che questi sia comunque soggetto alle norme nazionali interne che disciplinano le condizioni necessarie per poter contrarre matrimonio, stabilite dagli artt. 84 e segg. cod. civ. Tali condizioni, in particolare, riguardano l'età (art. 84), la sanità mentale (art. 85), l'inesistenza di precedente vincolo matrimoniale (art. 86). Sono sanciti, inoltre, altri impedimenti dirimenti, quali l'inesistenza di determinati vincoli di parentela, affinità, adozione tra i nubendi (art. 87) o l'ipotesi del delitto (art. 88). L’assenza di uno dei requisiti suddetti o l'esistenza di uno degli impedimenti sopra citati, necessariamente, renderebbero invalido il matrimonio eventualmente contratto, con riferimento all'ordinamento giuridico italiano.
La legge italiana prevede altresì degli impedimenti al matrimonio (c.d. impedimenti impedienti) che non ingenerano l'invalidità dello stesso ma una sua semplice irregolarità, la cui unica conseguenza è l'applicazione di una sanzione pecuniaria nei confronti degli sposi, peraltro di importo minimo (artt. 134 e 140 cod. civ.). Tali impedimenti sono costituiti dal lutto vedovile (art. 89) e dall'omissione delle pubblicazioni nel caso di celebrazione in Italia. Per quanto concerne i rapporti personali tra coniugi, ai sensi dell'art. 29 della legge 218/95, questi sono regolati dalla legge nazionale comune ovvero, nel caso di coniugi aventi diverse cittadinanze o più cittadinanze comuni, sono disciplinati dalla legge dello Stato nel quale è prevalentemente localizzata la vita matrimoniale. I rapporti patrimoniali tra coniugi, all'opposto, ai sensi dell'art. 30 sono regolamentati dalla legge applicabile ai loro rapporti personali, salvo optio juris effettuata per iscritto a favore della legge dello Stato di cui almeno uno di essi è cittadino o nel quale almeno uno di essi risiede.
Dalla lettura delle norme citate scaturisce come la legge n. 218/1995 introduca un sistema di riconoscimento “automatico” delle situazioni giuridiche createsi all'estero, fermo restando un duplice limite: il rispetto delle condizioni stabilite dell'art. 115 del codice civile, che richiama alcune norme di applicazione necessaria previste dall'ordinamento interno, e dell'art. 16 della legge 218/1995, ai sensi del quale “la legge straniera non è applicata se i suoi effetti sono contrari all'ordine pubblico”.
Tale clausola generale risponde alla finalità di preservare i valori complessivi del sistema giuridico interno dall’applicazione di norme straniere che genererebbero, nel caso concreto, dei risultati inconciliabili con le concezioni sociali e giuridiche dell'ordinamento italiano, circoscrivendo con ciò il funzionamento dei criteri di collegamento previsti in via generale dalle norme di diritto internazionale privato. Tale norma affonda le proprie radici nel previgente art. 31 delle Preleggi, ai sensi del quale “nonostante le disposizioni degli articoli precedenti, in nessun caso le leggi e gli atti di uno Stato estero, gli ordinamenti e gli atti di qualunque istituzione o ente, o le private disposizioni possono aver effetto nel territorio dello Stato, quando siano contrari all’ordine pubblico o al buon costume”. Di conseguenza, si evince come l'unico vero limite che potrebbe essere opposto al riconoscimento in Italia dei matrimoni omosessuali validamente celebrati all'estero potrebbe essere rappresentato dall'art. 16 L. 218/1995, laddove si ritenesse che la legge straniera produca in concreto effetti contrari all'ordine pubblico[15]. Come già accennato, l'ordine pubblico rappresenta il limite tradizionale all'applicazione della legge straniera, richiamata dalle nostre norme di diritto internazionale privato. Esso ha la funzione di scongiurare l'immissione nel nostro ordinamento di valori giuridici stranieri antitetici con quelli espressi dalle norme interne. Generalmente, la dottrina lo descrive come un limite “successivo” e “negativo”: si tratta di un limite “successivo” in quanto richiede che sia già stata individuata una legge straniera quale norma applicabile al caso concreto e “negativo”, poiché ha il compito di impedire l'applicazione di detta norma[16].
Leggendo il testo dell'art. 16 della Legge n. 218/95, si ritiene necessario precisare che il contrasto tra la legge straniera applicabile e i principi fondamentali dell'ordinamento non viene valutato in astratto, ma con specifico riferimento agli “effetti” che ne derivano. La compatibilità tra valori giuridici, pertanto, viene valutata in concreto, in relazione alle conseguenze dirette dell'applicazione della legge straniera. Affrontando il concetto di “ordine pubblico”, inoltre, appare opportuno premettere come tale nozione e soprattutto la sua applicazione concreta presenti dei caratteri di relatività nello spazio e nel tempo[17]. È pacifico, infatti, come per opera della giurisprudenza e dello stesso legislatore, il concetto di ordine pubblico si sia evoluto in relazione alle concezioni sociali dominanti[18].
La variabilità del suo contenuto, infatti, deriva dal fatto che esso sia il frutto della combinazione di fattori sociali e di specifiche condizioni storiche vigenti in un determinato sistema giuridico. A dimostrazione del carattere “elastico” del concetto in questione, si noti che la legge 218/1995 non presenta un elenco dei principi di ordine pubblico generalmente riconosciuti, trattandosi di una nozione a contenuto variabile. Il legislatore, quindi, ha rimesso all'opera degli interpreti, e in particolar modo alla giurisprudenza, il compito di individuare - tempo per tempo – un nucleo preciso di detti principi, prevedendo una clausola “aperta”[19]. In dottrina si è specificato, inoltre, come l'art. 16 della legge 218/1995 faccia riferimento al concetto di ordine pubblico “internazionale” e non di ordine pubblico “interno”[20], costituendo quest'ultimo un limite all'autonomia negoziale applicabile alle fattispecie meramente interne e quale richiamato, in particolare, dagli artt. 1343 e 1418 del codice civile. La differenziazione tradizionale tra ordine pubblico internazionale e ordine pubblico interno si fonda sul fatto che il primo costituisce un limite all'applicazione del diritto straniero, mentre il secondo costituisce un limite all'autonomia privata identificabile con le norme imperative di diritto interno. Ne consegue, pertanto, che il campo di azione dell'ordine pubblico internazionale è più ristretto di quello interno, assumendo il carattere di eccezionalità.
Quantunque tale distinzione concettuale appaia oggi sfumata rispetto al passato, in conseguenza dell'impatto giuridico dell'integrazione europea, può tuttavia rilevarsi come, nonostante l'art. 16 faccia riferimento all’ordine pubblico senza qualificarlo, sia la sua collocazione sistematica a rendere manifesto come la norma si riferisca alla nozione più ampia e comprensiva di “ordine pubblico internazionale”. In tal senso si è espressamente pronunciata anche la Corte di Cassazione, secondo la quale “il concetto di ordine pubblico (...) non si identifica con il c.d. ordine pubblico interno, e, cioè, con qualsiasi norma imperativa dell’ordinamento civile, bensì con quello di ordine pubblico internazionale, costituito dai soli principi fondamentali e caratterizzanti l’atteggiamento etico-giuridico dell’ordinamento in un determinato periodo storico” (Cass., 6.12.2002, n. 17349[21]).
La giurisprudenza della Suprema Corte, inoltre, ha introdotto - a partire dalla sentenza a Sezioni Unite dell'8 gennaio 1981, n. 189 - una distinzione tra ordine pubblico interno e internazionale parzialmente difforme da quella abitualmente adottata dalla dottrina tradizionale, definendo come ordine pubblico internazionale l'insieme dei “principi a carattere universale, comuni a molte nazioni di civiltà affine, intesi alla tutela di alcuni diritti fondamentali dell'uomo, spesso sanciti in dichiarazioni o convenzioni internazionali”. L'ordine pubblico internazionale, pertanto, dovrebbe essere inteso quale insieme di principi e valori comunemente affermati dalla comunità degli Stati, tali da consentire all'ordinamento interno di “chiudersi” all'applicazione di norme straniere contrastanti. Conseguentemente, si è instaurata in giurisprudenza la tendenza a sindacare la contrarietà all'ordine pubblico internazionale non solo tenendo in considerazione la normativa italiana, ma valutando altresì i principi e valori espressi dalla comunità internazionale. La dottrina, in merito, parla anche di ordine pubblico internazionale “in senso stretto”, volto a tutelare i principi comuni alle nazioni occidentali ed espressione dell'ordinamento interno alla comunità internazionale[22].
Ciò comporta che l’apertura a valori giuridici estranei all’ordinamento interno dovrebbe avvenire previa valutazione della loro conformità all’ordine pubblico, inteso quale insieme dei principi fondamentali fissati non solamente dalla Costituzione e dalle leggi statali, ma anche dal diritto internazionale, dalle Convenzioni ratificate dall'Italia e dal diritto dell'Unione Europea. Questa evoluzione concettuale ha portato ad un arricchimento dei contenuti dell'ordine pubblico, ai quali viene oggi riconosciuta una vocazione all'universalismo giuridico, ossia una tendenza a riferirsi ad una civiltà giuridica comune, più ampia di quella statale. Questa linea di pensiero nasce dalla convinzione per cui la comunità internazionale esprimerebbe dei principi universali, molti dei quali hanno trovato riconoscimento nelle convenzioni internazionali sulla tutela dei diritti fondamentali. Da una simile elaborazione ha preso spunto il filone giurisprudenziale e dottrinale che – per fronteggiare il difficile compito di rilevare quali siano in concreto i principi di ordine pubblico – ravvisa quale principale criterio-guida quello della tutela dei diritti fondamentali dell'uomo [23].
In quest'ambito, un ruolo di primaria importanza è assunto dalla partecipazione italiana alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), dal momento che la sua applicazione generalizzata agli Stati europei contribuisce a edificare una comune identità giuridica, volta alla tutela dei diritti fondamentali. La sua rilevanza, poi, è rafforzata dal fatto di sancire non solamente un elenco di principi e valori – aspetto che potrebbe rinvenirsi in numerose altre Carte internazionali – ma anche un sistema giurisdizionale di protezione dei diritti dell'uomo, attraverso il controllo giudiziario delle violazioni commesse dagli Stati aderenti, azionabili sia per accesso diretto del singolo individuo[24], che dagli Stati[25]. Il vaglio giurisprudenziale, inoltre, consente di rendere più incisiva la promozione dei diritti, attraverso l'opera interpretativa della Corte, chiamata a sindacare se nel caso concreto la legislazione dei Paesi firmatari vada a ledere alcuno dei valori fondamentali affermati dalla Convenzione, che diviene in tal modo un living instrument, in grado di evolversi in relazione al mutato contesto scio-giuridico europeo[26]. Così argomentando, si giungerebbe ad enucleare un insieme di principi e valori fondamentali, comuni a tutti gli Stati europei, ritenuti per loro importanza inderogabili.
Questi valori costituirebbero il perno attorno al quale plasmare i confini dell'ordine pubblico internazionale[27]. In aggiunta, non deve essere dimenticato l'impatto dell'integrazione europea sul concetto di ordine pubblico, fenomeno che va acquisendo sempre maggiore considerazione in dottrina, fondato sull'individuazione di principi e valori comuni a tutti i Paesi dell'Unione. Ne discenderebbe, secondo gli autori che ammettono l'esistenza di un “ordine pubblico dell'Unione europea”, che ove l'ordine pubblico nazionale ne divergesse, dovrebbe necessariamente adeguarsi, per effetto del principio della supremazia del diritto europeo su quello nazionale[28].
Per quanto concerne l'approccio della giurisprudenza europea al riguardo, particolarmente significativa è la sentenza della Corte di Giustizia della Unione Europea resa sul caso Krombach[29], nella quale si è affermato che – sebbene gli Stati contraenti rimangano in linea di principio liberi di determinare conformemente alle loro concezioni nazionali le esigenze del loro ordine pubblico – la Corte stessa deve ritenersi competente a giudicare i limiti entro i quali è consentito agli Stati membri ricorrervi. Se ne deduce che, seppur ad oggi non possa dirsi pienamente riconosciuto un vero e proprio “ordine pubblico dell'Unione Europea”, ciò non toglie che allo stato attuale il diritto dell’Unione Europea disponga già di un proprio corpus praecepta, che gli Stati membri non possono derogare, in ragione del loro carattere fondamentale. Il suddetto corpo normativo può essere ricondotto al tradizionale concetto di acquis comunitario, inteso come l'insieme dei diritti, degli obblighi giuridici e degli obiettivi politici che accomunano e vincolano gli Stati membri dell'Unione e che devono essere accolti senza riserve dai Paesi che vogliano entrare a farne parte. Tra questi rientrano senz'altro i principi della libera concorrenza, della libertà di circolazione e di stabilimento[30].
4. Il matrimonio omosessuale negli ordinamenti europei e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
Per quanto concerne la problematica del riconoscimento del matrimonio omosessuale è necessario indagare quale sia l'atteggiamento dell'Unione Europea, e degli ordinamenti degli Stati membri, nei suoi confronti. Risulta imprescindibile, infatti, prendere atto degli effetti giuridici derivanti dalla partecipazione dell'Italia alla Unione Europea. In particolare, questo dato implica l’esigenza per l'interprete, nell'atto di individuare i principi fondamentali dell’ordinamento italiano, di tener conto anche delle regole e dei valori entrati a far parte del nostro sistema giuridico in virtù del suo conformarsi ai precetti europei. Tali principi, tra i quali emergono, in particolare, la parità di trattamento per i cittadini di tutti gli Stati membri e la libertà di circolazione e stabilimento, costituiscono la ragion d’essere dell’Unione medesima, nonché il primo valore fondante del concetto di “cittadinanza europea”. Bisogna constatare, al tal fine, come il diritto di famiglia, tradizionalmente rimesso alle legislazioni dei singoli Stati membri, sia oggi fortemente caratterizzato dal processo di “europeizzazione” del diritto, particolarmente nell’ambito dei diritti fondamentali[31].
Esaminando l'ultimo decennio, si è assistito a una graduale erosione dell'ambito di discrezionalità rimesso ai singoli Stati nella materia de quo, nonostante ancora oggi si possa constatare una certa reticenza alla piena armonizzazione del diritto di famiglia nell’Unione Europea, all'interno del quale convivono esperienze legislative estremamente eterogenee. Occorre evidenziare, in proposito, come oggigiorno l'istituto del matrimonio tra persone dello stesso sesso sia disciplinato in dieci Paesi dell'Unione Europea: Paesi Bassi, Belgio, Spagna, Svezia, Portogallo, Danimarca, Francia, Regno Unito e, a partire dal 2015, anche nel Lussemburgo e in Slovenia. Fuori dai confini dell'Unione Europea, inoltre, i matrimoni omosessuali sono disciplinati anche in Norvegia e Islanda[32].
Esiste, pertanto, una netta frattura tra gli Stati membri in materia, affievolita in parte dal fatto che quasi tutti i Paesi che non consentono il matrimonio riconoscono almeno le c.d. “unioni civili” tra le persone dello stesso sesso. È il caso, in particolare, dell’Austria, della Finlandia, dell’Estonia, della Germania, della Grecia, di Malta, della Repubblica Ceca, dell’Irlanda, dell’Ungheria e - dal giugno 2016 - dell’Italia. La tradizionale tendenza a conservare il diritto di famiglia nell’ambito della sovranità nazionale si è resa manifesta anche in occasione dell’approvazione del regolamento sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali (cd Roma II, n. 864/2007/CE) dell'11 luglio 2007, il quale estromette dal proprio campo di applicazione quelle derivanti dai rapporti di famiglia o da relazioni che abbiano effetti comparabili[33], comprese le obbligazioni alimentari e quelle derivanti dal regime patrimoniale dei coniugi. Nondimeno, i progressi normativi dimostrano la progressiva apertura degli ordinamenti all'armonizzazione della materia, grazie soprattutto alla possibilità prevista per gli Stati membri di utilizzare lo strumento della cooperazione rafforzata, ad oggi già adoperato per stabilire norme uniformi in tema di legge applicabile alle ipotesi di divorzio e separazione personale da parte di quindici Paesi dell'Unione[34]. Il Consiglio, infatti, prendendo atto dell'opposizione di alcuni Stati membri ad addivenire all'armonizzazione del proprio diritto di famiglia[35], ha aderito alla richiesta di cooperazione rafforzata, inizialmente presentata alla Commissione europea il 24 marzo 2010 da nove Stati (Austria, Bulgaria, Francia, Italia, Lussemburgo, Romania, Slovenia, Spagna e Ungheria)[36].
A livello di diritti fondamentali, inoltre, un'importanza decisiva è rivestita in materia dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea che, enunciando i valori e le libertà sulle quali si basa l'integrazione europea, introduce un elenco di diritti inalienabili che incidono profondamente anche sull'ambito familiare. Al riguardo, è opportuno ricordare che la Carta de Diritti Fondamentali (anche detta Carta di Nizza), contente i diritti fondamentali dell'Unione Europea, a seguito del Trattato di Lisbona, è dotata dello stesso valore giuridico dei Trattati[37]. Passandone in rassegna il contenuto, risulta lampante come l'art. 9, dedicato al diritto al matrimonio, non citi la differenza sessuale tra i nubendi come condicio sine qua non per contrarre il vincolo di coniugio, a differenza di tutte le precedenti Carte e Convenzioni internazionali adottate in materia di diritti fondamentali. Il predetto articolo prevede, infatti, che “il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio”.
Dalla lettura della norma emerge immediatamente una differenza sostanziale con l’omologo articolo 12 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ai sensi del quale “A partire dall’età minima per contrarre matrimonio, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto”. Quest’ultima Convenzione, firmata a Roma nel 1950, al pari della Dichiarazione Universale del 1948 e degli altri strumenti internazionali di tutela dei diritti, stabilisce che il diritto fondamentale al matrimonio venga garantito con riferimento all’uomo e alla donna. La Carta di Nizza, invece, proclamata esattamente cinquant’anni dopo, stravolge questa impostazione, eliminando il riferimento sessuale nel testo dell’articolo. Addirittura, si può osservare come l’art. 9, così facendo, abbia inteso assegnare la materia alle diverse legislazioni degli Stati membri, prendendo atto delle eterogenee posizioni vigenti al riguardo. Questo dato, per di più, se non può essere spinto fino alla conseguenza di imporre agli Stati membri di garantire la regolamentazione dell'unione omosessuale[38], indica comunque l'esistenza di un certo favor verso la tutela di tali matrimoni.
Difatti, l’articolo 9 deve essere letto congiuntamente con l’art. 21 della stessa Carta, che vieta ogni forma di discriminazione, comprese quelle fondate sulle tendenze sessuali[39], nonché con la risoluzione del Parlamento europeo sul rispetto dei diritti umani[40], adottata qualche mese prima della firma della Carta di Nizza. In quest’ultimo testo, al punto 56, in particolare, si “chiede agli Stati membri di garantire alle famiglie monoparentali, alle coppie non sposate e alle coppie dello stesso sesso parità di diritti rispetto alle coppie e alle famiglie tradizionali, in particolare in materia di legislazione fiscale, regime patrimoniale e diritti sociali”, mentre al punto 57 si “osserva con soddisfazione che in numerosissimi Stati membri vige un crescente riconoscimento giuridico della convivenza al di fuori del matrimonio indipendentemente dal sesso”. Conseguentemente, il Parlamento europeo “sollecita gli Stati membri che non vi abbiano già provveduto ad adeguare le proprie legislazioni per introdurre la convivenza registrata tra persone dello stesso sesso riconoscendo loro gli stessi diritti e doveri previsti dalla convivenza registrata tra uomini e donne” e “chiede agli Stati che non vi abbi ano ancora provveduto di modificare la propria legislazione al fine di riconoscere legalmente la convivenza al di fuori del matrimonio indipendentemente dal sesso”. Infine, si “rileva pertanto la necessità di compiere rapidi progressi nell'ambito del riconoscimento reciproco delle varie forme di convivenza legale a carattere non coniugale e dei matrimoni legali tra persone dello stesso sesso esistenti nell'UE”[41]. Al riguardo, occorre sottolineare che le Risoluzioni del Parlamento europeo, pur non avendo un valore vincolante, costituiscono una raccomandazione rivolta alla Commissione e al Consiglio e sono mosse dall’esigenza di orientare la produzione normativa al raggiungimento di valori condivisi in seno all’organo rappresentativo dell’Unione[42].
Più di recente, il Parlamento è tornato a pronunciarsi sulla questione, continuando a ribadire la necessità dell'armonizzazione della disciplina in materia di riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso. In particolare, sono stati approvati a larga maggioranza i rapporti stilati rispettivamente dalle eurdeputate In’t Veld[43] e Lunacek[44], volti a combattere l’omofobia e la discriminazione legata all’orientamento sessuale e all’identità di genere.
Con queste risoluzioni sono stati invitati gli Stati membri ad assicurare che “le coppie dello stesso sesso godano del medesimo rispetto, dignità e protezione riconosciuti al resto della società”. A questo riguardo, il Parlamento europeo ha sollecitato nuovamente la Commissione a lavorare per “il riconoscimento reciproco degli effetti di tutti gli atti di stato civile nell’Unione europea, compresi i matrimoni, le unioni registrate e il riconoscimento giuridico del genere, al fine di ridurre gli ostacoli discriminatori di natura giuridica e amministrativa per i cittadini e le relative famiglie che esercitano il proprio diritto di libera circolazione”. Nella identica direzione si è mossa anche la “Relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo nel 2013 e sulla politica dell'Unione europea in materia” (2014/2216(INI)), approvata dal Parlamento europeo il 12 marzo 2015 con la quale, preso atto “della legalizzazione del matrimonio e delle unioni civili tra persone dello stesso sesso in un numero crescente di Paesi nel mondo, attualmente diciassette, incoraggia le istituzioni e gli Stati membri dell’Ue a contribuire ulteriormente alla riflessione sul riconoscimento del matrimonio o delle unioni civili tra persone dello stesso sesso in quanto questione politica, sociale e di diritti umani e civili”.
A invocare una convergenza dei diritti nazionali in materia matrimoniale è intervenuta anche la Commissione, inizialmente con un Libro verde sul conflitto di leggi in materia di regime patrimoniale dei coniugi, nel quale venivano affrontati anche i problemi della competenza giurisdizionale e del riconoscimento reciproco[45], e successivamente con la Relazione 2010 sulla cittadinanza dell'Unione, volta a eliminare gli ostacoli all'esercizio dei diritti[46].
Nel succitato Libro verde la Commissione auspicava perfino la creazione di un “certificato di stato civile europeo”, da utilizzarsi in tutti gli Stati membri con la finalità di semplificare le procedure di riconoscimento degli status e garantire in tal modo le procedure di libera circolazione. Le considerazioni ivi espresse sono confluite nell'adozione, da parte della Commissione europea, di due proposte, entrambe adottate in data 16 marzo 2011, relative rispettivamente alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all'esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali tra coniugi[47] e alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all'esecuzione delle decisioni in materia di effetti patrimoniali delle unioni registrate[48].
Al medesimo obiettivo è finalizzato anche un altro progetto, quello della creazione di una Commissione permanente per il diritto di famiglia europeo[49], istituita il 1° settembre 2001 con il compito di studiare le possibilità per gli Stati membri di addivenire all'armonizzazione del diritto di famiglia, analizzando i possibili settori d'intervento ed effettuando un'analisi comparata dei diversi ordinamenti, al fine di elencarne i principi comuni. Ad oggi, comunque, a livello europeo rimane ancora irrisolto il problema del riconoscimento delle forme “non tradizionali” di famiglia contratte sulla base della legislazione vigente in un altro Stato dell'Unione. Nonostante alcuni Paesi abbiano espressamente disciplinato la fattispecie[50], il sistema UE nel suo complesso – benché conscio della necessità di provvedervi al più presto – ancora non offre alcuna armonizzazione sul punto. Attualmente, infatti, deve ritenersi che il diritto dell’Unione Europea riconosca agli Stati membri la libertà di prevedere - o non prevedere - all’interno del proprio ordinamento la regolamentazione del matrimonio e delle unioni tra persone dello stesso sesso, nonché l'accoglimento dei rapporti contratti in un diverso Stato membro, ancorché si siano registrate forti spinte in tal senso. Di fatti, sebbene gli Stati abbiano in astratto la possibilità di riconoscere o meno efficacia alle relazioni familiari contratte in un altro Paese dell’Unione Europea, in base alla sussistenza o meno di forme equivalenti nel proprio ordinamento, deve altresì rilevarsi come il Parlamento europeo abbia sancito, con un atto ufficiale sebbene non vincolante, l’esigenza di disciplinare il legame sussistente tra persone delle stesso sesso e di riconoscere reciprocamente i vincoli contratti all’interno dei confini dell'Unione. D'altronde, questa evoluzione appare ictu oculi un elemento essenziale del processo di integrazione europeo, al fine di garantire l'effettività del principio di libera circolazione e stabilimento delle persone[51].
5. L’evoluzione della giurisprudenza italiana e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
La problematica dell'efficacia da attribuirsi ai matrimoni omosessuali celebrati all'estero è stata fatta oggetto da alcuni anni dell'attenzione della giurisprudenza italiana. In particolare, le sollecitazioni dei soggetti residenti in Italia che chiedevano di vedere trascritto e riconosciuto il proprio matrimonio contratto all'estero sono gradualmente approdate nelle aule dei Tribunali, investendo gradualmente della questione tutte le magistrature. A causa dell'assenza di espressi riferimenti legislativi in materia, diversi giudici di merito hanno deciso di investire della questione la Corte Costituzionale, sollevando questione di legittimità in relazione all'impossibilità di celebrare un matrimonio tra persone dello stesso sesso. Il 3 aprile 2009 il Tribunale di Venezia ha pronunciato un'ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale con la quale si è chiesto alla Consulta di stabilire se l'interpretazione corrente e sistematica del codice civile, che esclude le coppie omosessuali dall'istituto del matrimonio, sia conforme a Costituzione. Nell'ordinanza è stata prospettata una presunta violazione degli articoli 2, 3, 29 e 117 Cost., in combinato disposto con la CEDU e la Carta di Nizza. Tale ordinanza ha poi aperto la strada ad analoghe questioni, sollevate dalla Corte d'Appello di Trento nell'agosto 2009, nonché dalla Corte d'Appello di Firenze e dal Tribunale Civile di Ferrara. Il 14 aprile, con la sentenza n. 138/2010, la Corte Costituzionale ha respinto i ricorsi riuniti del Tribunale di Venezia e della Corte d'appello di Trento qualificandoli inammissibili (con riferimento agli artt. 2 e 117 della Costituzione[52]) e infondati (con riferimento agli artt. 3 e 29 della Costituzione [53]).
In seguito, con l'ordinanza n. 276/2010 del 7 luglio 2010 e l'ordinanza n. 4/2011del 16 dicembre 2010, sono stati respinti con motivazioni analoghe anche i ricorsi della Corte d'Appello di Firenze e del Tribunale di Ferrara. Nonostante la declaratoria di inammissibilità, la Consulta ha rilevato che l’istituto del matrimonio, per come disciplinato nella Costituzione, nel codice civile e nella legislazione speciale, si riferisce soltanto all’unione stabile tra un uomo e una donna. Successivamente, però, ha aggiunto che l’art. 2 Cost., ai sensi del quale “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” deve essere letto in modo tale da tutelare “anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri”. Anche l’unione omosessuale, pertanto, deve farsi rientrare in quelle “formazioni sociali” tutelate dalla Costituzione come luogo di espressione della personalità e, come tali, riconosciute e protette dall'ordinamento. Conseguentemente la Consulta, sebbene abbia escluso la necessità di estendere alle unioni omosessuali la disciplina del matrimonio, ha rilevato come spetti al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare forme idonee di garanzia e di riconoscimento per le relazioni suddette, riconoscimento avvenuto solo recentemente con la c.d. legge Cirinnà, che ha istituito le unioni civili. Inoltre, la Corte medesima si è espressamente riservata la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni di diseguaglianza, com’è avvenuto per le convivenze more uxorio tra uomo e donna[54].
Contestualmente, la Suprema Corte di Cassazione – pur avendo escluso la possibilità per le coppie dello stesso sesso sposatesi all'estero di trascrivere e di vedere automaticamente riconosciuto il proprio matrimonio in Italia – con la sentenza del 15 marzo 2012[55] ha, tuttavia, ammesso una parziale apertura all'accoglimento delle unioni omosessuali nel nostro sistema di diritto. Più precisamente, la Corte di Cassazione ha dichiarato che nell'ordinamento giuridico italiano la diversità di sesso dei nubendi non deve ritenersi un presupposto indispensabile, naturalistico, del matrimonio[56].
Inoltre, la Corte ha affermato che l’intrascrivibilità nei registri dello Stato Civile italiani del matrimonio same-sex contratto all’estero non deriva dalla sua contrarietà all’ordine pubblico, bensì dalla non riconoscibilità dello stesso quale atto di matrimonio per l’ordinamento giuridico italiano[57]. A sostegno di tale conclusione, la Corte ha addotto un'importante sentenza della Corte europea dei Diritti dell'Uomo, pronunciata sul caso Schalk e Kopf c. Austria il 24 giugno 2010, nella quale si legge che “la Corte non ritiene più che il diritto al matrimonio di cui all’articolo 12[58] debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio tra persone di sesso opposto (…). Tuttavia, per come stanno le cose, si lascia decidere alla legislazione nazionale dello Stato contraente se permettere o meno il matrimonio omosessuale”. In tale vicenda, la Corte di Strasburgo - pur negando che, allo stato attuale delle cose, l'art. 12 della Convenzione possa essere interpretato in maniera tale da obbligare gli Stati membri a riconoscere e tutelare nei confronti delle coppie omosessuali il diritto fondamentale al matrimonio – ha riconosciuto come la diversità di sesso non possa considerarsi quale elemento essenziale delle unioni matrimoniali. Inoltre, ha stabilito la necessità di estendere a queste ultime l'applicabilità del “diritto alla vita familiare”, protetto dall'art. 8[59] della Convenzione stessa, ritenendolo pacificamente riferibile anche ad una coppia di persone dello stesso sesso[60].
Occorre rilevare, in proposito, come la Corte di Strasburgo non si sia spinta fino a raggiungere le medesime conclusioni espresse in relazione alla transessualità nella sentenza Christine Goodwin c. Regno Unito, nella quale si è scelto di fare diretta applicazione del diritto al matrimonio di cui all’art. 12 della Convenzione, ma abbia adottato una soluzione di compromesso, invocando il diritto alla vita familiare di cui all’art. 8[61]. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, poi, è tornata a pronunciarsi sul tema de quo il 14 dicembre 2017, nel caso Orlandi c. Italia, rilevando che: “a seguito della sentenza Oliari e altri, mediante la Legge n. 76/2016, il legislatore italiano ha introdotto in Italia le unioni civili. Successivi decreti hanno previsto che le persone che avevano contratto matrimonio, unione civile o altra corrispondente unione all'estero potessero far trascrivere la loro unione come unione civile ai sensi del diritto italiano”. Se ne deduce, pertanto, che - se gli Stati possono ritenersi liberi di regolamentare l’accesso al vincolo matrimoniale - altrettanto non possa dirsi per quello che riguarda il rispetto della vita personale e familiare. In altri termini, la Corte ha introdotto una rilevante distinzione tra il concetto di “matrimonio”, la cui disciplina è rimessa ai singoli Stati, e il concetto di “vita familiare”, che al contrario deve essere necessariamente garantita anche alle coppie omosessuali.
6. Conclusioni
Dall'analisi fin qui condotta, con riferimento soprattutto al progressivo processo di integrazione europea, emerge sempre più pressante l'esigenza di armonizzare il diritto di famiglia all'interno dell'Unione, al fine di garantire quella libera circolazione delle persone che ha costituito da sempre uno dei principali obiettivi del progetto europeo. Ciò non toglie, tuttavia, che si tratti di un tema particolarmente delicato, che oggi tende ancora a essere rimesso alla sovranità dei singoli Stati, in quanto caratterizzato – come afferma anche la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo – da essenziali componenti culturali e sociologiche.
La tradizionale tendenza alla “nazionalizzazione” del diritto di famiglia si scontra, però, con il dato di fatto di un netto trend europeo verso il riconoscimento e la tutela delle unioni omosessuali, il che - in combinato disposto con il processo di integrazione e con la tutela multilivello dei diritti fondamentali, che sempre più caratterizzano l’ordinamento giuridico del XXI secolo - rendono necessario un ripensamento della materia. Proprio distogliendo lo sguardo dalla produzione normativa nazionale e ampliando il raggio visuale alla realtà giuridica dei Paesi che ci circondano, appare infatti discutibile, oggigiorno, continuare ad assumere come intangibile la tradizionale convinzione secondo la quale la legge 218/1995 non consenta il riconoscimento nel mondo giuridico italiano dei matrimoni omosessuali validamente celebrati all'estero. Il fatto che diversi ordinamenti europei disciplinino espressamente il matrimonio same-sex e la graduale apertura effettuata dal legislatore italiano, dalla giurisprudenza interna e internazionale nei confronti della fattispecie in esame, fanno apparire oggi assai dubitabile l'assunto per cui gli effetti del matrimonio omosessuale debbano ritenersi contrastanti con l' “ordine pubblico internazionale”, censura ormai respinta anche dalla stessa Corte di Cassazione.
Conseguentemente, laddove il matrimonio sia stato celebrato all'estero in conformità alla normativa ivi vigente, dovrebbe ammettersi il riconoscimento della sua efficacia in Italia. Una volta negata la tesi secondo la quale detta unione contrasterebbe con l'ordine pubblico, infatti, non vi sono più solidi appigli legislativi per negare loro l'acquisizione di uno status validamente attribuito nel Paese di provenienza.
Note e riferimenti bibliografici
[1] L. 20 maggio 2016, n. 76 (c.d. Legge Cirinnà).
[2] La circolare n.5 del 22 maggio 2008 dispone che “in caso di matrimonio da celebrare all’estero da parte di un cittadino italiano innanzi alle autorità di tale paese deve ritenersi che non vi sia alcun obbligo di procedere alle pubblicazioni di matrimonio in Italia, a meno che la legge straniera non richieda anch’essa tali pubblicazioni”.
[3] L'unico caso in cui l'assenza di pubblicazioni rivesta un valore ostativo alla celebrazione del matrimonio è costituito dal caso in cui il Paese prescelto richieda preliminarmente un'attestazione della mancanza di impedimenti al matrimonio o richieda il rilascio del certificato di capacità matrimoniale di cui alla Convenzione di Monaco del 5 settembre 1980, documenti che possono essere rilasciati solo dopo che sia stato dato corso alle pubblicazioni e non ne siano conseguite opposizioni.
[4] La norma letteralmente fa riferimento al solo caso del matrimonio contratto all'estero da cittadini stranieri – ma nulla sembrerebbe impedirne un'applicazione analogica anche agli italiani sposati all'estero.
[5] La Corte di Cassazione, infatti, con sentenza del 2/03/1999, n. 1739, poi successivamente confermata con la sentenza 13/04/2001, n. 5537, ha avuto modo di affermare che le norme di diritto internazionale privato attribuiscono ai matrimoni celebrati all'estero tra cittadini italiani o tra italiani e stranieri immediata validità e rilevanza nel nostro ordinamento, sempre che essi risultino celebrati secondo le forme previste dalla legge straniera e sempre che sussistano i requisiti sostanziali relativi allo stato e alla capacità delle persone previsti dalla legge italiana. Tale principio, a detta della Suprema Corte, «non è condizionato dall'osservanza delle norme italiane relative alla trascrizione, atteso che questa non ha natura costitutiva, ma meramente certificativa, e scopo di pubblicità di un atto già di per sé valido sulla base del principio locus regit actum».
[6] Si pensi al caso di una coppia eterosessuale coniugata in Spagna e residente in Italia. Anche ove detta unione non fosse trascritta nei registri dello Stato Civile del Comune di residenza, nessuno dubiterebbe che tale matrimonio sia pienamente riconosciuto dall'ordinamento giuridico interno.
[7] Si veda, in proposito, la circolare ministeriale n. 2/ 2001 Miacel.
[8] Sez. I, decisione n.1732 del 12 luglio 2011.
[9] Al riguardo si veda, più diffusamente CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO, “Studio n. 577-2011/C. Gli atti dello stato civile formati all’estero riguardanti cittadini stranieri residenti in Italia” a firma di Giuseppe Trapani, approvato dalla Commissione Studi Civilistici del 1° dicembre 2011.
[10] «Art 18 (Casi di intrascrivibilità): 1. Gli atti formati all'estero non possono essere trascritti se sono contrari all'ordine pubblico».
[11] Si veda, in particolare, la recente decisione del Tribunale di Grosseto assunta con decreto 26 febbraio 2015 (Est. Multari), che è tornata a ribadire la trascrivibilità del matrimonio omosessuale celebrato all’estero, dopo aver già espresso la medesima posizione nel decreto 9 aprile 2014 (in Dir. civ. cont. 10 luglio 2014, con nota di Benedetti A.M. “Giurisprudenza creativa o illusoria? Prima riflessione su Tribunale di Grosseto: a proposito di matrimonio omosessuale celebrato all’estero”), in seguito annullato dalla Corte di appello di Firenze. Nei citati provvedimenti il Tribunale, dopo aver ripercorso le elaborazioni della Consulta e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (più oltre citate al Par. 7) esclude nettamente che il matrimonio omosessuale possa considerarsi contrario all’ordine pubblico.
[12] In particolare, il TAR, accogliendo il ricorso avverso l’annullamento disposto dal Prefetto di Roma in base alla “circolare Alfano”, ha affermato che «l’annullamento di trascrizioni di matrimoni di questo genere celebrati all’estero, può essere disposto solo dall’Autorità giudiziaria ordinaria».
[13] L'art. 115 c.c. stabilisce, infatti, che «Il cittadino è soggetto alle disposizioni contenute nella sezione I di questo capo, anche quando contrae matrimonio in paese straniero secondo le forme ivi stabilite», mentre l'art. 107 fa espresso riferimento a “marito” e “moglie”. In altri termini, l'art. 107 dimostrerebbe che, per il Codice civile, la diversità di sesso è un presupposto indispensabile per il matrimonio e, pertanto, questo elemento dovrebbe ritenersi implicitamente richiamato dall'art. 115 c.c.. L'argomentazione, in realtà, appare un po' lacunosa, non essendo sostenuta da alcun dato letterale. In particolare, il menzionato art. 107 c.c. non può ritenersi espressamente richiamato dall'art. 115, essendo collocato della sezione IV (“Della celebrazione del matrimonio”) e non nella sezione I (“Delle condizioni necessarie per contrarre matrimonio”).
[14] Articolo 115 Codice civile: “Il cittadino è soggetto alle disposizioni contenute nella sezione prima di questo capo, anche quando contrae matrimonio in paese straniero secondo le forme ivi stabilite".
[15] Le conseguenze di tale mancato riconoscimento sono disciplinate dal secondo comma della medesima disposizione, che prevede l'applicazione della legge richiamata mediante altri criteri di collegamento eventualmente previsti per la medesima ipotesi normativa o, in mancanza, della legge italiana, che non attribuisce alcun effetto al matrimonio omosessuale.
[16] Sul punto si vedano, ex multis, Barel B. - Armellini S. "Diritto internazionale privato, (Manuale breve)", Giuffrè, 2008; Bariatti (a cura di) “Commentario - Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato (L. 31 maggio 1995, n. 218)”, in Le nuove leggi civili commentate, (1996, n. 5-6); Mosconi F. “Diritto internazionale privato e processuale. Parte generale e contratti”, UTET, 2007 pagg. 245-246 e Ballarino T. “Manuale breve di diritto internazionale privato”, CEDAM, 2002, pag. 78. Quest'ultimo Autore, in particolare, utilizza tale classificazione del concetto di ordine pubblico per distinguerlo dalle c.d. “norme di applicazione necessaria”, che al contrario costituiscono un limite preventivo e positivo all'ingresso di norme straniere nell'ordinamento e che prescindono dagli effetti che sortirebbe l'applicazione della legge richiamata.
[17] Si veda, in proposito, ex multis Focarelli C. “Lezioni di diritto internazionale privato”, Morlacchi, 2005, pag. 70. In giurisprudenza si veda Cass., 28.12.2006, n. 27592, la quale afferma che l’ordine pubblico è «formato da quell’insieme di principi, desumibili dalla Carta costituzionale o, comunque, pur non trovando in essa collocazione, fondanti l’intero assetto ordinamentale ..., tali da caratterizzare l’atteggiamento dell’ordinamento stesso in un determinato momento storico e da formare il cardine della struttura etica, sociale ed economica della comunità nazionale conferendole una ben individuata ed inconfondibile fisionomia».
[18] Si pensi, al riguardo, all'introduzione della legge sul divorzio del 1970, che ha reso necessario per il giudice italiano il riconoscimento delle leggi straniere divorziste, dapprima talvolta precluso appunto dal limite dell’ordine pubblico, con la conseguenza inversa di porre in capo al giudice italiano l’obbligo di disapplicare le leggi di quegli Stati rimasti fedeli al principio di indissolubilità del matrimonio.
[19] Sul carattere di “indeterminatezza” dell'ordine pubblico si veda Feraci O. “L'ordine pubblico nel diritto dell'Unione europea”, Giuffrè, 2012, pag. 10.
[20] Ballarino T. “Manuale breve”, cit., pag. 79. Per un approfondimento si vedano Barile G. “Principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e principi di ordine pubblico internazionale”, in Riv. Dir. Int. Priv. e Proc., 1986 nonché, del medesimo Autore, “I principi fondamentali della comunità statale ed il coordinamento fra sistemi: l'ordine pubblico internazionale, Cedam, 1969; Calò E. “Le successioni nel diritto internazionale privato”, IPSOA, 2007, pagg. 71 e segg.
[21] La citata sentenza è stata richiamata, più di recente, da Cassazione, Sezioni unite civili, sentenza 18 luglio 2008, n. 19809. In detta pronuncia è stata anche fornita un'ulteriore definizione di ordine pubblico interno, affermando la Corte che «esso non è un insieme di valori generici e indistinti, identificando "il sistema interno" che, per ciascun istituto, fa emergere gli elementi essenziali e irrinunciabili della sua regolamentazione in Italia il cui superamento è vietato, perché lesivo dei caratteri qualificanti e della stessa identità giuridica di ogni fattispecie».
[22] In tal senso Feraci O. “L'ordine pubblico”, cit, pag 22; Barile G. “I principi fondamentali della comunità statale ed il coordinamento fra sistemi: l'ordine pubblico internazionale”, Cedam, 1969 pagg. 69 e ss.; Benvenuti P. “Comunità statale, comunità internazionale e ordine pubblico internazionale”, Giuffrè, 1977, pag. 102.
[23] Particolarmente eloquente al riguardo è Cass. Civ. 26 novembre 2004 n. 22332, ove si afferma che i principi di ordine pubblico devono «ravvisarsi nei principi fondamentali della nostra Costituzione, o in quelle altre regole che, pur non trovando in essa collocazione, rispondono all'esigenza di carattere universale di tutelare i diritti fondamentali dell'uomo».
[24] Articolo 34 CEDU.
[25] Articolo 33 CEDU.
[26] Sull'interpretazione evolutiva della CEDU si veda Conti R. “La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e dei giudici di merito”, intervento svolto all’incontro di studi su “Vecchie e nuove ‘famiglie’ nel dialogo tra Corti europee e giudici nazionali”, Catania 29 maggio 2014, destinato alla pubblicazione a cura del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Catania.
[27] In tal senso di vedano Angelini F. “Ordine pubblico e integrazione costituzionale europea. I principi fondamentali nelle relazioni interordinamentali”, Cedam, 2007, pag. 135 e Feraci O. “L'ordine pubblico”, cit. pag. 330.
[28] Il maggiore sostenitore della teoria menzionata è Schmit P. “La communautarisation de l'orde public en droit international privé”, in Annales du droit luxemburgeois, 2005, pagg. 335 ss.
[29] Sentenza 28 marzo 2000, procedimento C-7/98.
[30] Si veda al riguardo la sentenza Eco Swiss, 1 giugno 1999, procedimento C-126/97, resa in via pregiudiziale in relazione all'impugnazione di una sentenza arbitrale, nella quale si è affermato che il giudice nazionale deve accogliere un'impugnazione per nullità di un lodo arbitrale fondata sulla violazione dell'art. 85 del Trattato CE (divenuto art. 81 del Trattato istitutivo della Comunità Europea e attualmente trasfuso nell'art. 101 TFUE), relativo alla libera concorrenza, al pari di come si pronuncerebbe qualora rilevasse un contrasto con le norme nazionali di ordine pubblico. Infatti, il citato articolo del Trattato costituisce una «disposizione fondamentale indispensabile per l'adempimento dei compiti affidati alla Comunità (oggi Unione europea) e, in particolare, per il funzionamento del mercato interno». Conseguentemente, la Corte ha affermato l'esigenza di dare comunque applicazione a norme comunitarie espressive di valori e obiettivi essenziali dell'Unione e ha riconosciuto, sebbene implicitamente, l'esistenza di un “ordine pubblico comunitario”.
[31] Per un più ampio approfondimento, si veda Ninatti S. – Violini L., “Nel labirinto del principio di non discriminazione: adozione, fecondazione eterologa e coppia omosessuale davanti alla Corte di Strasburgo”, in Forum dei Quaderni Costituzionali.
[32]Tali unioni sono regolarmente disciplinate anche in Canada e in alcuni Stati Americani. Attualmente negli USA le coppie dello stesso sesso possono contrarre matrimonio nella capitale Washington e in 32 Stati della federazione. Inoltre, la tematica è attualmente oggetto del vaglio della Corte Suprema, investita del compito di decidere se tutti gli Stati della federazione debbano necessariamente prevedere il matrimonio omosessuale. La medesima Corte si è già pronunciata sulla questione della legittimità costituzionale dei matrimoni fra persone dello stesso sesso nel 2013 quando, nel giudizio United States v. Windsor, ha dichiarato incostituzionale il DOMA (Defense of Marriage Act) nella parte in cui esso obbliga il governo federale a considerare matrimoni solo le unioni fra persone di sesso diverso.
[33] Rileva al riguardo evidenziare come il Regolamento europeo, menzionando espressamente rapporti dotati di “effetti comparabili” a quelli del vincolo di coniugio, dimostri di prendere atto della sussistenza di situazioni normative differenziate nei diversi Stati membri.
[34] Regolamento n. 1259/2010/UE relativo all'attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale. Detta normativa appare particolarmente rilevante, in quanto per la prima volta si introducono norme di diritto internazionale privato nel settore del diritto di famiglia.
[35] Un’eco di questa convinzione si ritrova nel dibattito interno tedesco sorto in occasione della sentenza LissabonUrteil del 30 giugno 2009, in cui il giudice costituzionale tedesco afferma che il diritto di famiglia rientra in una delle cinque aree fondamentali del diritto che devono rimanere strettamente legate alla nazione e che modella direttamente la forma di uno Stato costituzionale: in altri termini, secondo la corte di Karlsruhe, il diritto di famiglia rappresenta una delle competenze inalienabili del livello di governo nazionale”.
[36] Decisione del Consiglio in data 12 luglio 2010. per un più ampio approfondimento sul tema si veda Bergamini E. “La famiglia nel diritto dell’Unione Europea”, Giuffrè, 2012, pagg. 224 e ss. Al riguardo, l’Autrice sottolinea come gli effetti che ne derivano manifestano una certa irragionevolezza dell'intero sistema, giacché un provvedimento di divorzio potrebbe essere riconosciuto automaticamente da Paesi nei quali non verrebbe garantita efficacia al relativo matrimonio.
[37] La Carta di Nizza, infatti, pur essendo stata proclamata e sottoscritta nel 2000, è entrata in vigore con efficacia giuridica vincolate solamente il 1 dicembre 2009, in virtù del richiamo attuato dal Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, che le ha assegnato il medesimo valore giuridico dei trattati.
[38] Questa interpretazione emerge chiaramente dalla Nota del Presidium, ossia il Testo delle spiegazioni relative al testo completo della Carta di Nizza, quale figura nel doc. CHARTE 4487/00 CONVENT 50, ove si legge che l’art. 9 «non vieta, né impone la concessione dello status matrimoniale a unioni fra persone dello stesso sesso».
[39] Articolo 21 (Non discriminazione): 1. È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale.
2. Nell'ambito d'applicazione dei trattati e fatte salve disposizioni specifiche in essi contenute, è vietata qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità.
[40] Risoluzione del Parlamento europeo sul rispetto dei diritti umani nell'Unione europea, 16 marzo 2000, doc. A5 - 0050/2000.
[41] Al riguardo, deve precisarsi che la Risoluzione è un atto del Parlamento europeo, che si pronuncia all’unanimità sul rapporto presentatogli da una delle sue Commissioni, ed è indirizzata al Consiglio dell’Unione europea o alla Commissione. Il valore giuridico è quello di una raccomandazione e, pertanto, non vincolante.
[42] Sul valore giuridico delle Risoluzioni si veda Di Pasquale C. - Mezzetti L. – Ruggeri A. “Lineamenti di Diritto costituzionale dell'Unione Europea”, Quarta ed., Giappichelli, 2014, pag. 189.
[43] Risoluzione del Parlamento europeo del 13 marzo 2012 sulla parità tra donne e uomini nell'Unione europea (2011/2244(INI)).
[44] Risoluzione del Parlamento europeo del 4 febbraio 2014 sulla tabella di marcia dell'UE contro l'omofobia e la discriminazione legata all'orientamento sessuale e all'identità di genere (2013/2183(INI)).
[45] COM (2006) 400 def. Del 17 luglio 2006.
[46] COM (2010) 603 del 27 ottobre 2010.
[47] COM (2011) 126 DEF. 2011/0059.
[48] COM (2011) 127 DEF. 2011/0060.
[49] Commission on Europea family Law (CEFL).
[50] Si veda, al riguardo, il Civil Partnership Act 2004, in vigore nel Regno Unito dal 5 dicembre 2005, che prevede il riconoscimento delle unioni civili contratte all’estero, equiparandole a quelle nazionali, compresi i matrimoni tra persone dello stesso sesso.
[51] In dottrina non manca chi ritiene che, già al momento attuale, debba pervenirsi all’affermazione per la quale i principi di libera circolazione delle persone e di leale cooperazione comportino per gli stati membri un obbligo di riconoscimento dello status personale e familiare dell’individuo. In questo senso si vedano Baratta R., “Il regolamento comunitario sul diritto internazionale privato della famiglia”, in Diritto internazionale privato e diritto comunitario (Picone Ed.), 2004 e Mosconi F. “Le nuove tipologie di convivenza nel diritto europeo e comunitario”, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale n. 2/2005.
[52] La questione sollevata dalle due ordinanze di rimessione, in riferimento all’art. 2 Cost., è stata dichiarata inammissibile, perché diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente. Analogamente, la questione sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alle specifiche norme “interposte” di cui agli artt. 12 della CEDU e 9 della Carta di Nizza è stata dichiarata inammissibile, perché tali norme interposte, «con il rinvio alle leggi nazionali, [...] conferma[no] che la materia è affidata alla discrezionalità del Parlamento».
[53] In particolare, la questione sollevata in riferimento agli artt. 3 e 29 Cost. è stata dichiarata non fondata in quanto l’art. 29 si riferirebbe alla nozione di matrimonio definita dal codice civile come unione tra persone di sesso diverso, poiché «I costituenti, elaborando l’art. 29 Cost., discussero di un istituto che aveva già una precisa conformazione ed un’articolata disciplina nell’ordinamento civile» e, ai fini dell’applicabilità del principio di uguaglianza formale ex art. 3 Cost., si è affermato che le unioni omosessuali non possano essere ritenute omogenee rispetto al matrimonio, trattandosi di situazioni sostanzialmente non equiparabili.
[54] Sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988.
[55] Corte di Cassazione, Sezione I civile - Sentenza 15 marzo 2012 n. 4184.
[56] «La risposta negativa, già data, si fonda però su ragioni diverse da quella, finora ripetutamente affermata, della "inesistenza" di un matrimonio siffatto per l'ordinamento italiano. Infatti, se nel nostro ordinamento è compresa una norma - l'art. 12 della CEDU appunto, come interpretato dalla Corte europea -, che ha privato di rilevanza giuridica la diversità di sesso dei nubendi nel senso dianzi specificato, ne segue che la giurisprudenza di questa Corte - secondo la quale la diversità di sesso dei nubendi è, unitamente alla manifestazione di volontà matrimoniale dagli stessi espressa in presenza dell'ufficiale dello stato civile celebrante, requisito minimo indispensabile per la stessa "esistenza" del matrimonio civile, come atto giuridicamente rilevante - non si dimostra più adeguata alla attuale realtà giuridica, essendo stata radicalmente superata la concezione secondo cui la diversità di sesso dei nubendi è presupposto indispensabile, per così dire "naturalistico", della stessa "esistenza" del matrimonio».
[57] Nello stesso senso è la dottrina, in maggioranza orientata a ritenere che l’identità di sesso sia causa d’inesistenza del matrimonio, anche se una parte parla di invalidità. La rara giurisprudenza di legittimità, che (peraltro, come obiter dicta) si è occupata della questione, ha considerato la diversità di sesso dei coniugi tra i requisiti minimi indispensabili per ravvisare l’esistenza del matrimonio (Corte di cassazione, sentenze n. 7877 del 2000, n. 1304 del 1990 e n. 1808 del 1976).
[58] ARTICOLO 12 (Diritto al matrimonio): «A partire dall’età minima per contrarre matrimonio, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto».
[59] ARTICOLO 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare): «Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui».
[60] «La Corte considera artificioso mantenere l’opinione secondo cui, a differenza della coppia eterosessuale, una coppia di partner dello stesso sesso non potrebbe godere di un diritto alla ‘vita familiare’ ai sensi dell’art. 8. Di conseguenza, il rapporto tra i ricorrenti, due conviventi omosessuali, uniti stabilmente alla stregua di una coppia di fatto, rientra nella nozione di ‘vita familiare’, così come sarebbe se si trattasse di una coppia di persone di sesso opposto che si trovassero nella stessa situazione».
[61] Per un approfondimento, si veda Repetto G. “Il matrimonio omosessuale al vaglio della Corte di Strasburgo, ovvero: la negazione “virtuosa” di un diritto”, in Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, 2010.