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Pubbl. Lun, 28 Mag 2018

La responsabilità per danno cagionato da animali

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Simona Rossi


La responsabilità per i danni cagionati da animali è prevista dall’art. 2052 c.c. rientra tra i casi di responsabilità oggettiva; suddetta responsabilità è pertanto esclusa solo qualora venga fornita prova del cd. caso fortuito: analizziamo la portata della norma ed i suoi principali profili applicativi.


Sommario: 1. Il concetto di custodia e di uso; 2. Responsabilità oggettiva e prova liberatoria; 3. Randagismo, animali selvatici e responsabilità della Pubblica Amministrazione; 4. Osservazioni.

1. Il concetto di custodia e di uso.

Il presupposto della norma in esame risiede nella volontà del legislatore di attribuire la responsabilità per i danni cagionati dagli animali in capo al loro “custode” (ossia al proprietario o, come si avrà modo di evidenziare, in capo a “chi se ne serve”, ricomprendendo così una casistica piuttosto ampia).

Il substratum di tale previsione normativa va indubbiamente ricercato nell’esigenza di tutelare i terzi prevedendo, per l’appunto, dei precisi criteri di imputazione e d’individuazione del soggetto legittimato passivamente, da ricercare nel concetto di “custodia”.

Stante tale impostazione, si palesa che il fondamento della responsabilità di cui si discute vada, invero, ricercato nell’omessa custodia: la violazione dell’obbligo di custodia, pertanto, fa sorgere in capo al proprietario l’obbligo di risarcimento del danno sofferto dal terzo.

La dottrina ha, però, osservato come il concetto di “custodia” della norma de quo non sia identico a quello previsto ad opera dell’art. 2051 c.c. piuttosto, si è osservato come in questo contesto l’obiettivo fosse di estendere la portata della norma al fine di non ancorarla unicamente al concetto di fuga ovvero di smarrimento.

Orbene, occorre però considerare che nella lettera della norma si fa riferimento a due concetti: “custodia” ed “uso”.

A tal proposito, il tradizionale orientamento dottrinale riteneva che andasse attribuita la responsabilità sulla base del potere di controllo sull’animale ovvero andasse considerato responsabile colui che, a qualsivoglia titolo, fosse custode dell’animale (stante siffatta impostazione, il responsabile del danno cagionato dall’animale non sarebbe il padrone bensì, ad es., il veterinario che lo ha in cura e, conseguentemente, in custodia).

A questa tesi, si contrappone però la teoria sul rapporto d’uso: una parte della dottrina è, infatti, orientata nel ritenere che la responsabilità non vada ricollegata direttamente al potere di custodia bensì all’uso dell’animale.

L’art. 2052 c.c. prevede, difatti, la responsabilità in capo al proprietario ovvero “a chi se ne serve per il tempo che lo ha in uso”: alla luce di tale tenore letterale, emerge un peculiare concetto di custodia che appare, quindi, disgiunto dal “potere d’uso”. Pertanto, la dottrina maggioritaria (alla luce non solo della lettera della norma ma anche dei mutamenti storici e dell’evoluzione della figura dell’animale che si ha nel contesto moderno) ha ritenuto che vada considerata la responsabilità in capo a colui che ha in “uso” l’animale (anche a titolo di mera cortesia col consenso del proprietario) ovvero chi ne trae utilità. Si può, dunque, osservare come in virtù di tali considerazioni, nell’ipotesi in cui si affidasse ad un terzo l’animale per ragioni di custodia e/o cura (si tenga sempre presente l’esempio del veterinario), non consegua uno slittamento della responsabilità in quanto tali ipotesi di affidamento non comporta il diritto d’uso (Cass. Civ., pronuncia n. 5526/1997).

Per l’attribuzione della legittimazione passiva bisogna, quindi, far riferimento a chi trae utilità dall’animale, potendo ben essere il proprietario ovvero chi lo detiene, pur dovendosi rammentare che la semplice custodia non comporta che tal soggetto risponda in luogo del proprietario (in tale ottica, risulta chiarificatrice la pronuncia n. 3558/1969 della S.C. in merito al caso di un pastore che governi gli animali in vece del proprietario).

Pertanto, in sintesi, la giurisprudenza ha evidenziato come la responsabilità non sia attribuibile sic et simpliciter al custode bensì al proprietario ovvero chi trae utilità dall’animale (si tenga presente che si tratta di responsabilità alternative e, pertanto, non cumulabili).

Tale orientamento, ormai prevalente ed ampiamente considerato, non tiene però presente che non tutti gli animali possono essere oggetto di una utilizzazione economica (lampante è il caso degli animali domestici) ragion per cui non si può ritenere di dover ancorare il concetto d’uso all’utilità in termini economici (cd. uso redditizio).

2. Responsabilità oggettiva e prova liberatoria.

Premesso ciò, dal tenore della norma si comprende anche come questa responsabilità sia presunta (si connota pertanto come una vera e propria responsabilità di tipo oggettivo connessa al rischio rappresentato dall’avere e utilizzare un animale, superando la tesi tradizionale incentrata sul concetto di “colpa presunta”) e conseguentemente colui che ha l’uso dell’animale risponde sempre dei danni da questo cagionato quale conseguenza del rapporto con l’animale, a meno che non provi il caso fortuito.

Si deve, tuttavia, precisare il caso fortuito potrà consistere solo in elementi estranei all’animale (essendo irrilevante la natura mansueta ovvero feroce dello stesso): la S.C. ha, difatti, avuto modo di precisare come il caso fortuito debba consistere “in un evento imponderabile ed imprevedibile che si inserisce all’improvviso nell’azione di un soggetto” ragion per cui deve essere costituito “da un fattore esterno che può consistere anche nel atto del terzo o nella colpa del danneggiato ma che deve comunque presentare i caratteri dell’imprevedibilità, inevitabilità ed assoluta eccezionalità”.

La prova del caso fortuito, pertanto, che rappresenta l'unica prova liberatoria possibile per il proprietario, può esse costituita anche dalla condotta tenuta dal danneggiato stesso qualora la sua imprudenza sia stata di entità tale da rappresentare l’esclusiva causa del danno.

Si tenga conto che per “caso fortuito”, come chiarito dalla giurisprudenza, può ritenersi costituita anche dalla condotta colposa del danneggiato[1].

In ogni caso si osservi che, analogamente alle altre ipotesi di responsabilità oggettiva, la persona danneggiata è tenuta soltanto a provare il nesso tra l’evento lesivo e la causazione del danno, l’onere probatorio risulta, quindi, assai meno gravoso rispetto a quello posto in capo al convenuto: difatti, il convenuto/proprietario (o chi ha l’uso dell’animale!) è riconosciuto responsabile non sulla base di un proprio comportamento ma del rapporto con l’animale e, per questo, non è sufficiente dimostrare di aver posto in essere tutte le misure richieste dall’ordinaria diligenza ma sarà necessario provare, come si è avuto modo di illustrare, la sussistenza dell’eventuale caso fortuito[2].

Va inoltre precisato che la giurisprudenza ha ritenuto che “del danno cagionato da animale risponde ex art. 2052 cod. civ. il proprietario o chi ne ha l'uso, per responsabilità oggettiva e non per condotta colposa (anche solo omissiva), sulla base del mero rapporto intercorrente con l'animale nonché del nesso causale tra il comportamento di quest'ultimo e l'evento dannoso, che il caso fortuito, quale fattore esterno generatore del danno concretamente verificatosi, può interrompere, sicché, mentre grava sull'attore l'onere di provare l'esistenza del rapporto eziologico tra l'animale e l'evento lesivo, la prova del fortuito è a carico del convenuto” (così Cass. Civ. con la sentenza n. 17091 del 2014) evidenziando, ulteriormente, il carattere oggettivo della responsabilità in esame.

3. Randagismo, animali selvatici e responsabilità della Pubblica Amministrazione.

Se dopo l’esame della norma appare fuor di ogni dubbio che sia il padrone (o chi ne ha l’uso) ad essere considerato il responsabile per la condotta dell’animale, ne conseguirebbe che qualora si tratti di animali randagi ovvero selvatici vada ricondotta la responsabilità in capo alla P.A.

La giurisprudenza ha, difatti, chiarito come “la responsabilità civile per i danni causati dai cani randagi spetta esclusivamente all'ente, o agli enti, cui è attribuito dalla legge (ed in particolare dalle singole leggi regionali attuative della legge quadro nazionale n. 281 del 1991) il dovere di prevenire il pericolo specifico per l'incolumità della popolazione, e cioè il compito della cattura e della custodia dei cani vaganti o randagi, mentre non può ritenersi sufficiente, a tal fine, l'attribuzione di generici compiti di prevenzione del randagismo, quale è il controllo delle nascite della popolazione canina e felina, avendo quest'ultimo ad oggetto il mero controllo "numerico" degli animali, a fini di igiene e profilassi, e, al più, una solo generica ed indiretta prevenzione dei vari inconvenienti legati al randagismo” (così la Cass. Civ. con l’ordinanza n. 12495 del 2017) ed analogamente si è ritenuto che “la responsabilità aquiliana per i danni provocati da animali selvatici alla circolazione dei veicoli deve essere imputata all'ente (sia esso Regione, Provincia, Ente Parco, Federazione o Associazione, ecc.) a cui siano stati concretamente affidati, nel singolo caso, i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata” (così la Cass. Civ. con la pronuncia n. 22886 del 2015).

A tal proposito, vale la pena segnalare la recente pronuncia del Giudice di Pace di Pinerolo con cui, in osservanza al tetragono orientamento creatosi, si è affermato che “i poteri di protezione e gestione della fauna selvatica attribuiti alle Province rendono le stesse responsabili dei danni cagionati dagli animali selvatici atteso che i poteri loro conferiti sono indirizzati anche alla sicurezza dei soggetti esposti ai danni derivanti dagli imprevedibili comportamenti della fauna selvatica” (così Gdp di Pinerolo, 25.01.2018).

Chiarito che la P.A. è ritenuta responsabile per i danni causati da animali randagi o selvatici (né risponde l’ente che concretamente ha i poteri di amministrazione sul territorio), ma a che titolo né risponde?

Nel caso di danni causati da animali randagi ovvero selvatici la P.A. risponde non in virtù della responsabilità delineata ex art. 2052 c.c. bensì ai sensi dell’art. 2043 c.c. e ciò in quanto la giurisprudenza ha chiarito che in tali casi, tenuto conto della natura degli animali, non può ritenersi sussistente un rapporto di proprietà o di uso da parte della P.A. (quel rapporto di proprietà od uso che è, invece, il presupposto per l’applicazione della responsabilità oggettiva di cui al 2052 c.c.)[3].

Da ciò ne derivano importanti conseguenze in termini processuali soprattutto per quanto concerne l’onere probatorio: se, infatti, nel caso di responsabilità ai sensi del 2052 c.c., trattandosi di responsabilità oggettiva, è necessario soltanto provare il rapporto di proprietà ovvero di uso con l’animale (essendo ininfluente la sussistenza di una condotta colposa sia commissiva che omissiva, si tratta difatti di una presunzione di responsabilità, nel caso di responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c., invece, occorre provare la responsabilità dell’ente ad es. provando che la cattura e la custodia dello specifico animale randagio/selvatico che ha provocato il danno era possibile e che la conseguente omissione sia imputabile all’ente in virtù di un comportamento colposo[4].

4. Osservazioni.

La norma di cui in esame riveste un ruolo importante all’interno del nostro ordinamento giuridico ma è evidente come la rilevanza di tale tipo di responsabilità risulti, nel nostro attuale contesto storico, ridimensionata: in epoca moderna, difatti, l’uso degli animali è cambiato. Si tratta, difatti, di un contesto storico in cui l’animale non è più visto come “strumento di lavoro” ma molto più spesso come “animale domestico”, pertanto l’applicazione reale di tale fattispecie risulta piuttosto limitata (tenuto anche conto che, come si è avuto modo di illustrare, per il caso di animali randagi e/o selvatici non si applica l’art. 2052 c.c. bensì l’art. 2043 c.c.).

Si può, quindi, facilmente comprendere come una norma di questo tipo, che ha rivestito un’indubbia importanza in una realtà economica di tipo agricolo, risulti “residuale” nell’attuale realtà economica in cui muoviamo; conseguentemente la sua applicazione si riduce ai casi di animali domestici e incidenti verificatosi nel corso dell’esercizio dell’attività di maneggio.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Il Tribunale di Ascoli Piceno nel caso di un danno provocato dal morso di un cane ha dichiarato che il sinistro fosse dovuto esclusivamente alla responsabilità del danneggiato in quanto questo aveva tenuto un comportamento imprudente (aveva accarezzato un cane legato ed innervosito): “La ferita alla mano si spiega, invece, con l'avvicinamento della vittima all'animale, che era al di là del recinto in ferro, come affermato dal teste S., allo scopo di accarezzarlo e "calmarlo". Ritiene allora, il Giudicante, che tale condotta della vittima costituisca caso fortuito idoneo ad escludere la responsabilità ex art.2052 c.c., perché comunque caratterizzata da imprudenza del D.C. nell'avvicinarsi, senza alcuna reale necessità, ad un animale a lui sconosciuto che stava oltre tutto manifestando, abbaiando, segni di nervosismo aggressivo contro il visitatore. L'animale e la vittima, in sostanza, sono venuti in contatto per volontà di quest'ultima e non per l'aggressione improvvisa del cane.” (così il Tribunale di Ascoli Piceno, sent. 26.10.2016).
[2]La responsabilità del proprietario, o di chi si serve di un animale, di cui all'art. 2052 c.c., si fonda non su un comportamento o un'attività - commissiva od omissiva - ma su una relazione intercorrente tra i predetti e l'animale, il cui limite risiede nel caso fortuito, la prova del quale - a carico del convenuto - può anche avere ad oggetto il comportamento del danneggiato, purché avente carattere di imprevedibilità, inevitabilità e assoluta eccezionalità.” Così la S.C. Sez. III, 20/05/2016, n. 10402.
[3]Occorre preliminarmente chiarire che la responsabilità per i danni causati dagli animali randagi deve ritenersi disciplinata dalle regole generali di cui all'art. 2043 c.c., e non dalle regole di cui all'art. 2052 c.c., che non sono applicabili - così come pacificamente si ritiene per l'analoga fattispecie dei danni causati dagli animali selvatici (ex plurimis: Cass. 25 novembre 2005 n. 24895; 24 aprile 2014 n. 9276; 10 novembre 2015 n. 22886) - in considerazione della natura stessa di detti animali e dell'impossibilità di ritenere sussistente un rapporto di proprietà o di uso in relazione ad essi, da parte degli enti pubblici preposti alla gestione del fenomeno del randagismo” Così Cass. Civ. con ordinanza n. 18954 del 2017.
[4]Ai fini dell'affermazione della responsabilità di tali enti occorre di conseguenza la precisa individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile agli stessi. Ciò implica che non è possibile riconoscere una siffatta responsabilità semplicemente sulla base della individuazione dell'ente cui la normativa nazionale e regionale affida in generale il compito di controllo e gestione del fenomeno del randagismo e neanche quello più specifico di provvedere alla cattura ed alla custodia degli animali randagi, in mancanza della puntuale allegazione e della prova, il cui onere certamente spetta all'attore danneggiato in base alle regole generali, della condotta obbligatoria esigibile dall'ente e nella specie omessa, e della riconducibilità dell'evento dannoso, in base ai principi sulla causalità omissiva, al mancato adempimento di tale condotta obbligatoria. Ciò equivale a dire che, applicandosi i principi generali in tema di responsabilità per colpa di cui all'art. 2043 c.c., non è sufficiente - per affermarne la responsabilità in caso di danni provocati da un animale randagio - individuare semplicemente l'ente preposto alla cattura dei randagi ed alla custodia degli stessi, non essendo materialmente esigibile anche in considerazione della possibilità di spostamento di tali animali - un controllo del territorio così penetrante e diffuso, ed uno svolgimento dell'attività di cattura così puntuale e tempestiva da impedire del tutto che possano comunque trovarsi sul territorio in un determinato momento degli animali randagi. Occorre dunque che sia specificamente allegato e provato dall'attore che, nel caso di specie, la cattura e la custodia dello specifico animale randagio che ha provocato il danno era nella specie possibile ed esigibile, e che l'omissione di esse sia derivata da un comportamento colposo dell'ente preposto (ad esempio perché vi erano state specifiche segnalazioni della presenza abituale dell'animale in un determinato luogo, rientrante nel territorio di competenza dell'ente preposto, e ciò nonostante quest'ultimo non si era adeguatamente attivato per la sua cattura). Diversamente, si finirebbe per applicare ad una fattispecie certamente regolata dalla fattispecie generale della responsabilità ordinaria per colpa di cui all'art. 2043 c.c., principi analoghi o addirittura più rigorosi di quelli previsti per le ipotesi di responsabilità oggettiva da custodia di cui agli artt. 2051, 2052 e 2053 c.c..” così Cass. Civ. con ordinanza n. 18954 del 2017.